Natale: il mistero della tenerezza di Dio
di don Luigi Giussani
Fonte: Tracce.it
[...] il Natale è il mistero della tenerezza, della tenerezza di Dio a me. Tenerezza che non è compiacimento nel sentimento che proviamo di Dio o di Cristo, perché il compiacimento nel sentimento che provo è ancora quello che ho detto in principio, vale a dire il compiacimento di quello che facciamo noi. Tenerezza non è compiacimento nel sentimento che proviamo, ma l’abbandonarsi, il sentirsi presi dall’amore che ci ha presi, da Colui che ci ha presi, il sentirsi presi da questa Presenza, il sentirsi presi da ciò che ci è accaduto, la presenza di ciò che è accaduto.
È come quando il bambino sgrana gli occhi ed è tutto pieno di ciò che vede e non ha spazio da dare al sentimento che prova, o alla coscienza di un sentimento che prova; di fronte a ciò che vede, è tutto pieno di ciò che vede. «Se diligit homo tantum propter Deum»11, l’uomo ama se stesso solo per questo che ha davanti, in Cristo, in questo che ha davanti, in questo avvenimento.
Ma ciò su cui voglio che fermiate l’attenzione è proprio la parola “tenerezza”, perché questa immedesimazione, questo immedesimarsi di Dio, del Verbo, del Mistero con la nostra carne, questo immedesimarsi di questo Verbo incarnato, di questa carne divina, di questo Uomo con noi, con me, è tenerezza un milione di volte più grande, più acuta, più penetrante dell’abbraccio di un uomo alla sua donna, di un fratello al fratello.
Queste cose non si comprendono ragionando, ma guardando le parole che indicano sinteticamente l’esperienza cui si vuole accennare; ed è necessario, allora, dire più di una parola. Bisogna guardare questa parola – tenerezza – all’interno della coscienza di questa identità tra me e Te, di Te con me, meglio, all’interno della coscienza di questo avvenimento che si è insediato in me, di questo «Tu che sei me».
Anche qui, l’istinto religioso, aizzato dai termini cristiani in cui era nato, fa sentire a Dostoevskij molte cose giuste. Ne I fratelli Karamazov fa parlare così il giovane monaco: «Nella sua ardente preghiera Alësa non chiedeva a Dio di chiarirgli il suo turbamento [perché era in un momento di tentazione], ma bramava unicamente la gioiosa tenerezza, la tenerezza di sempre che non mancava di visitargli l’anima dopo la lode e l’esaltazione di Dio, nelle quali consisteva di solito tutta la sua preghiera alla vigilia di dormire. Questa gioia, che soleva così visitarlo, si conduceva dietro perfino un sonno lieve e tranquillo».
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Ci sono due corollari di questa conseguenza della certezza che è la tenerezza. “Tenerezza”: l’essere voluto, l’essere stato guardato e scelto, il sentirsi dire come Zaccheo: «Vengo a casa tua»,14 il sentirsi dire come il buon ladrone: «Sarai sempre con me»15, «e poi te ha guardato…».
Il primo corollario è l’inclusività di questa tenerezza. Questa tenerezza, cioè, ha il suo vertice, il suo ideale di purità, non nell’escludere persone e cose, ma nell’includere persone e cose. Nel suo La teologia mistica di San Bernardo, commentata da Hayen, Gilson sintetizza così il pensiero di san Bernardo a questo proposito: «Non la aridità [cioè il tagliar via] e il languore purifica l’amore, ma l’ardore» e Hayen commenta: «… ma questa purezza è essenzialmente inclusiva (…); l’amore di Dio non è perfetto se non includendo tutto ciò che lo stesso amore creatore del Padre onnipotente include»16. Quello che purifica la tenerezza, quello che purifica l’amore a Cristo non è l’aridità o il languore, ma è l’ardore che include, che tende ad includere tutto ciò che il Padre ha creato e secondo come il Padre l’ha creato.
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Il secondo corollario della tenerezza è che il peccato, il nostro peccato non diventa più determinante, non ci tiene più schiavi.
Vi voglio leggere altri due brani di Dostoevskij. Tenete presente l’osservazione circa il debordamento, come il latte che bolle e che va fuori. Sono brani preziosissimi, se sono letti dentro l’occhio netto e chiaro e sicuro dell’esperienza cristiana, dell’esperienza cattolica, della nostra esperienza. Però, come è grande Iddio che ci fa capire noi stessi proprio dalla scoperta degli altri! «Amatevi gli uni gli altri [è il discorso che sta facendo ai monaci lo starets Zosima], padri, amate le creature di Dio. Noi non siamo più santi dei secolari per il fatto di essere venuti qui a rinchiuderci tra queste mura, ma, anzi, ognuno che è venuto qui, per il fatto stesso che ci è venuto, ha riconosciuto di essere peggiore di tutti i secolari e di chicchessia sulla terra, e quanto più a lungo poi vivrà il religioso fra le sue mura, tanto più caldamente dovrà riconoscere questo, giacché, in caso contrario, non ci sarebbe neppure ragione che egli fosse venuto qui. Quando invece riconoscerà non solo di essere peggiore di tutti i secolari, ma di essere di fronte a tutti gli uomini colpevole per tutti e per ciascuno di tutti i peccati umani collettivi e individuali, allora soltanto lo scopo di questa nostra vita sarà raggiunto [Cristo in croce: “Egli che non aveva commesso peccato, il Padre lo ha fatto peccato”18, dice san Paolo]. Sappiate infatti, o diletti, che ogni cenobita come noi risponde senza meno delle colpe di tutti e di ciascuno sulla terra, non solo della generica colpa del secolo, ma ognuno personalmente per tutti gli uomini e per ciascun uomo vivente sulla terra. Questa consapevolezza è la corona della vita religiosa, come del resto di qualunque uomo sulla terra perché i religiosi non sono già uomini diversi dagli altri, ma tali semplicemente quali tutti gli uomini della terra dovrebbero essere. Soltanto allora il nostro cuore saprà dilatarsi di un amore infinito, universale e insaziabile. Allora ciascuno di noi avrà la forza di conquistare il mondo intero con l’amore e mediante le proprie lagrime lavare i peccati del mondo»19. Questo è perfetto da qualunque punto di vista (ricordate Emmanuel Mounier che parla di sua figlia ammalata). E non è finzione quando dice che «siamo venuti qui perché ci siamo riconosciuti i peggiori tra gli uomini»!
Secondo brano. «Perché si dovrebbe aver pietà di me? dici tu. Perché? È vero, non ce n’è motivo di avere pietà di me, bisogna crocifiggermi, non già compiangermi. Ebbene, mettimi in croce, giudicami, ma nel mettermi in croce abbi pietà di me. E allora io andrò incontro al mio supplizio volontieri, perché io non ho sete di gioia, ma di dolore e di pianto… Ma colui che ebbe pietà di me, ma colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che comprese tutto avrà certamente pietà di noi. È l’unico giudice che esista. Egli verrà nell’ultimo giorno e domanderà: “Dov’è la figliola che si è sacrificata per una matrigna astiosa e tisica e per dei bambini che non sono i suoi fratelli? Dov’è la figliola che ebbe pietà del suo padre terrestre e non respinse con orrore quell’ignobile beone?”. Ed Egli dirà: “Vieni, ti ho già perdonato una volta, e ancora ti perdono tutti i tuoi peccati, perché hai molto amato”. Così Egli perdonerà alla sua Sonia, le perdonerà, io lo so, poc’anzi l’ho sentito qui nel cuore, mentre ero da lei. Tutti saranno giudicati da Lui ed Egli perdonerà a tutti, ai buoni e ai malvagi, ai savi e ai miti. E quando avrà finito di perdonare agli altri perdonerà anche a noi. “Avvicinatevi voi pure”, ci dirà, “Venite, ubriaconi; venite, viziosi; venite, lussuriosi” e noi ci avvicineremo a Lui, tutti, senza timore, e ci dirà ancora: “Siete porci; siete uguali alle bestie, ma venite lo stesso”. E i saggi, gli intelligenti, diranno: “Signore, perché accogli costoro?”. Ed Egli risponderà: “Li accolgo, o savi, io li accolgo, o intelligenti, perché nessuno di loro si credette degno di questo favore”, e ci tenderà le braccia e noi ci precipiteremo sul suo seno e piangeremo dirottamente e capiremo tutto. Allora tutto sarà compreso da tutti e anche Katerina Ivanovna comprenderà, anche lei. O Signore, venga il tuo regno”». [...]
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