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Il Papa telefona a sacerdote iracheno: sempre vicino a cristiani perseguitati

Posté par atempodiblog le 30 août 2014

Il Papa telefona a sacerdote iracheno: sempre vicino a cristiani perseguitati
Il Papa continua a seguire da vicino la drammatica situazione dei cristiani in Iraq. Nei giorni scorsi, ha telefonato a un sacerdote iracheno don Behnam Benoka, che lavora in un campo profughi ad Ankawa, nel nord del Paese.

di Sergio Centofanti – Radio Vaticana

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Don Behnam aveva fatto pervenire al Papa una lettera raccontando la situazione tragica in cui vivono centinaia di migliaia di cristiani: “Santità – scrive il sacerdote, come riportato dall’Agenzia Zenit – la situazione delle tue pecorelle è miserabile, muoiono e hanno fame, i tuoi piccoli hanno paura e non ce la fanno più. Noi, sacerdoti, religiosi e religiose, siamo pochi e temiamo di non poter rispondere alle esigenze fisiche e psichiche dei tuoi e nostri figli”.

Il sacerdote esprime la sua riconoscenza per i continui appelli del Papa per mettere fine alla sofferenza dei fratelli perseguitati in Iraq: “Vorrei ringraziarti tanto, anzi, tantissimo – afferma – perché ci porti sempre nel tuo cuore, mettici lì, sull’altare, dove celebri la Messa affinché Dio cancelli i nostri peccati e abbia misericordia di noi e magari tolga da noi questo calice”.

Papa Francesco, profondamente commosso per la lettera, ha telefonato al sacerdote appena rientrato dal viaggio in Corea, ribadendo il suo pieno sostegno e la sua vicinanza ai cristiani perseguitati. Ricordiamo che il cardinale Fernando Filoni, suo inviato in Iraq, ha portato nei giorni scorsi un milione di dollari da parte del Pontefice ai rifugiati iracheni. Papa Francesco ha quindi promesso che continuerà a fare il suo meglio per dare sollievo alla loro sofferenza. Infine, ha impartito la sua benedizione apostolica chiedendo al Signore per loro il dono della perseveranza nella fede.

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Ho sognato che avevo una grande famiglia a Mosul. Un incubo naturalmente. E però quanto vero

Posté par atempodiblog le 30 août 2014

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Nel sogno avevo una grande famiglia, genitori anziani, fratelli e sorelle, e una nidiata di bambini. Era mattina, e l’ordine era di partire entro la notte. Recuperavamo un vecchio camion scalcinato. Ma non ci saremmo stati insieme, tutti quanti, a bordo. Qualcuno avremmo dovuto lasciarlo lì. Il vecchio padre del sogno era immobile in un letto: lui stesso ci chiedeva di lasciarlo morire in casa sua. Poi c’era un fratello in carrozzella, e la carrozzella proprio sul camion non ci stava. Anche lui, sarebbe rimasto.

Il cielo sopra di noi si faceva sempre più basso e più livido. All’ora della partenza uno dei bambini piccoli non si trovava: sparito – era forse andato a cercare il suo gatto? – e l’ora dell’ultimatum stava per scattare.

Infine eravamo sul camion, che ansimando si metteva in moto. Ma io avevo il cuore tagliato a metà, per quelli che avremmo dovuto lasciare. Degli uomini armati, minacciosi, gridando ci facevano fretta. Partivamo. Il camion sulle buche della strada sobbalzava, e a un urto più forte mi sono svegliata.

Un incubo, naturalmente. E però quanto vero. Come se avessi visto con i miei occhi un giorno di questi, in una casa cristiana, a Mosul.

di Marina Corradi – Tempi

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«Busso, perché quello lassù mi apra». L’ultimo istante di umiltà di un orgoglioso non credente

Posté par atempodiblog le 30 août 2014

Forse tutta una vita, gli studi, le passioni, gli affetti, servono a un uomo perché nella sua ultima ora ceda, e come un mendicante domandi?
di
Marina Corradi

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Il malato era alle ultime ore. E sapeva ormai, ormai nonostante le pietose bugie aveva capito. Il petto ischeletrito gli sussultava penosamente a ogni respiro. Assistendo, muta, a questa sua battaglia mi accorgevo di quanto mi era infinitamente caro. L’orgoglioso non credente, il materialista convinto. Avevo pregato per lui, impotente però di fronte al muro della sua libertà. «Ma tu non sei capace di farlo, per lui, un miracolo?», avevo chiesto polemicamente a un santo che mi è caro. Come, però, non credendoci davvero.

Finché in quella lunga notte di veglia, nel denso silenzio che precede il nuovo giorno, accanto al letto la moglie mi ha raccontato del giorno prima. Nel dormiveglia il malato faceva con una mano il gesto di chi bussa a una porta. La moglie: «Ma cosa fai?». Lui, indicando il cielo: «Busso, perché quello lassù mi apra».

Forse tutta una vita, gli studi, le passioni, gli affetti, servono a un uomo perché nella sua ultima ora ceda a un istante di umiltà, e come un mendicante domandi? Aveva capito tutto, in pochi giorni, quell’uomo apparentemente per la vita intera in altre cose affaccendato. «Busso, perché quello lassù mi apra». Knocking on heaven’s door, come diceva quella canzone che ascoltava nella sua stanza, a diciott’anni.

Fonte: Tempi
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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