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E’ l’ora di divenire fieri

Posté par atempodiblog le 25 juillet 2014

E' l’ora di divenire fieri dans Citazioni, frasi e pensieri 2duh5hd

“Per uno strano inganno, abbiamo molta superbia per le nostre persone, ma poca fierezza per la nostra fede.

È l’ora di divenire umili perché è l’ora di divenire fieri”.

Ernest Hello

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Contrizione, spezzamento del cuore

Posté par atempodiblog le 22 juillet 2014

Contrizione, spezzamento del cuore dans Citazioni, frasi e pensieri o92rg5

Il Cristianesimo ha restituito le lacrime e il san­gue al Creatore dei cieli e delle acque. Le ha poste presso le sorgenti della vita. Gesù Cristo piange pres­so la tomba di Lazzaro. Le lacrime di Maddalena so­no diventate uno dei grandi ricordi dell’umanità. I pit­tori farebbero bene a non trattarle alla leggera e a non confonderle con le lacrime contrarie, per non com­mettere un delitto.

Le lacrime sono salite cosi in alto che il loro posto è il tribunale della penitenza, quando accanto ad esse il sangue di Gesù Cristo cade sulla testa del peccatore insieme all’assoluzione. Dio fa quel che vuole delle cose che tocca. Talvolta ne fa un uso meraviglioso. Se tocca le lacrime, le muta in forza per i deboli e in terrore per i forti.

Il linguaggio cristiano con una energica parola designa il dolore del peccato. Questa parola è contrizione, che significa spezzamento del cuore. Se l’abitudine non gettasse su tutte le cose il grigio velo dell’indifferenza, gli uomini sarebbero particolarmentc colpiti da que­sta magnifica parola. Ed ecco quel che volevo dire: la contrizione è piena di gioia. La contrizione è più de­liziosa di qualsiasi cosa più desiderata. Non parlo del­le delizie vaghe di certi sentimenti che somigliano ai sogni, delizie infeconde e snervanti. Le delizie di cui parlo sono realtà fortificanti, attive, feconde. Sono gioie che fanno agire. Per valutare un atto compiuto nella verità è bene guardare lo stesso atto compiuto nell’errore.

A fianco del pentimento, che è un nome meno bello di contrizione, ci sono i rimorsi. Il pentimento è buono, il rimor­so è cattivo. E così il pentimento dona la gioia, men­tre il rimorso dona la tristezza; perché Dio è nel pen­timento ma non già nel rimorso. Il pentimento calma il colpevole; il rimorso l’esaspera. Il pentimento lo apre alla speranza, il rimorso lo chiude. Il pentimento è pieno di lacrime, il rimorso pieno di terrori. Il rimorso fa vedere i fantasmi, il pen­timento fa vedere delle verità. Però preferisco il nome contrizione a quello di pentimento. Trovo nella contrizione assai più gioia e luce.

A questo proposito voglio richiamare la vostra attenzione sul linguaggio del Cristianesimo, linguaggio così meravigliosamente profondo che aprirebbe vie in­finite alla nostra intelligenza e alla nostra anima se l’abitudine non s’intromettesse a farci misconoscere i doni di Dio, a farci passare sotto le stelle e le paro­le del cielo, senza alzare la testa. Orbene, il Cristia­riesimo nel suo linguaggio ci dice: — Fate un atto di contrizione. Un atto di contrizione! Che cosa meravigliosa, se non fossimo vittime dell’abitudine. Agli occhi di chi ignora la sua anima, la contrizio­ne appare forse qualcosa di puramente passivo, come la tristezza umana; una minorazione, una dispersione di forze; e invece, è vero il contrario. Essa è, oh mera­viglia, un atto. Una certa saggezza scadente potrebbe dire al col­pevole: — Non v’abbandonate al dolore; siate uomo; mostrate un coraggio virile. Il Cristianesimo invece gli dice: — Fate un atto di contrizione!

Ernest Hello

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Una caratteristica del pseudo-cristianesimo

Posté par atempodiblog le 22 juillet 2014

Una caratteristica del pseudo-cristianesimo dans Anticristo xcoizn

È caratteristica del pseudo-cristianesimo che, mentre pre­tende di essere giustificato da Dio, dalla fede, o dalle opere di fede e di carità, fa semplicemente funzionare una macchina per scusare il peccato invece di confessarlo e perdo­narlo, una macchina per produrre la sensazione di essere nel giusto e che tutti gli altri sono peccatori. Se diventa un espediente per commettere un assassinio, sia mediante lin­ciaggio sia mediante una tirannia inquisitoria, ecco che l’assassinio diventa un atto di santa giustizia. Opprimere e perseguitare gli altri diventa un’affermazione della propria libertà religiosa e del proprio coraggio dinanzi a Dio, un segno di forza cristiana.

E come viene rafforzata questa fe­de? Come vengono confermati i fratelli nella loro testimo­nianza? Con la ripetizione di questi atti eccitanti, violenti e drammatici che gli “estranei” denunciano come delitti e atti colpevoli. Il modo per dimostrare a se stesso di essere virtuoso e non criminale consiste nel rinnovare l’atto, ri­peterlo in continuazione e, se necessario, farsi processare e assolvere da un giuri di pari della stessa congrega e così provare che l’atto non era criminale ma giusto e santo.

In tal modo la decisione di pervertire la coscienza cristiana diventa a poco a poco una funzione della “chiesa”, forse anche la sua prima funzione. E questa diventa, inevitabilmente, il segno del giudizio di Dio su quella “chiesa”. La spaventosa innocenza di questi “giusti” sta scritta sulla loro fronte come il marchio di Caino, il marchio di uno che nessuno puo toccare, perché è messo da parte per l’inferno.

Thomas Merton

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ARTE/ Per conoscere bastano gli occhi? Ecco come andar per musei in vacanza

Posté par atempodiblog le 22 juillet 2014

ARTE/ Per conoscere bastano gli occhi? Ecco come andar per musei in vacanza
Grazia Massone – Il Sussidiario

ARTE/ Per conoscere bastano gli occhi? Ecco come andar per musei in vacanza dans Stile di vita wbvztl
Filippo Lippi, Adorazione del Bambino (particolare) esposto agli Uffizi di Firenze (Immagine d’archivio)

Non so voi, ma io per tutto l’anno accumulo una quantità indefinita di attività da svolgere “quando sarò in vacanza”: libri da leggere (innanzitutto), persone da incontrare, improbabili lavori di bricolage e – soprattutto – mostre da vedere e luoghi e monumenti da visitare. Poi le vacanze arrivano e mi trovo sempre impreparata a scegliere da dove cominciare. Se avete dei figli in età scolare, poi, vi capiterà che tra i loro compiti estivi ci sia anche la visita a una mostra o a un museo o a un luogo monumentale significativo.

Se vi ritrovate in questa descrizione, i suggerimenti di questo articolo vi potranno essere utili. Cosa vedere? Come? Quanto?

Cominciamo a considerare cosa non vedere: non sentitevi obbligati a visitare tutti i musei che si trovano nel raggio di 50 chilometri dalla località in cui siete in vacanza. Meglio vedere poche cose, gustandovele e scegliendo qualche opera da aggiungere alla vostra lista dei preferiti. Il tour de force dell’arte non porta a grandi risultati, se non una certa confusione nei ricordi, una volta che si è tornati a casa.

E poi evitate di portare i bambini nei luoghi dell’arte solo quando piove, perché non si introduca nelle loro menti l’idea che il tempo dell’arte è quello in cui non si può fare nessuna delle attività divertenti come giocare, andare al mare o fare una passeggiata in montagna. Siccome quando piove ci si annoia, dove andare se non al museo, visto come un vero luna park della noia?

Un’indicazione fondamentale che vale per tutti: prima di cominciare una visita a un museo, a una mostra o a un monumento prendetevi un po’ di tempo per un caffè, uno spuntino, una merenda, andate in bagno e liberatevi da borse e giacche; in modo da essere bendisposti ad ogni nuovo stimolo ed esperienza che certamente non mancheranno.

I musei. Grandi, piccoli, di arte antica, moderna, contemporanea, frutto di collezioni private o raccolte organizzate nel tempo grazie a donazioni e acquisizioni. Dall’indagine Istat del 2013 risulta che in Italia siano 4.588, tra istituzioni pubbliche e private.

È difficile smontare il pregiudizio sul museo visto come un grande frigorifero destinato a conservare opere che sono molto importanti e che probabilmente noi non potremo mai comprendere fino in fondo. Va detto che i musei non aiutano molto a dissuadere da questo pregiudizio, ma sono sempre di più gli spazi e i sussidi che permettono ad ogni tipo di pubblico di iniziare un percorso di avvicinamento al patrimonio storico-artistico, fino a che possa avvenire una relazione personale con le opere.

Se vi chiedete per quale motivo frequentare i musei, vi consiglio di leggere un piccolo libro di Alan Bennett, Una visita guidata (Milano, Adelphi, 2008). Lo scrittore, drammaturgo e attore britannico descrive con ironia e intelligenza pregi e difetti di un museo monumento di se stesso come la National Gallery di Londra.

Io condivido pienamente il suo pensiero, quando afferma che sarebbe auspicabile veder campeggiare all’ingresso del museo la scritta: “Non deve per forza piacerti tutto”.  Che significa che hai diritto – o dovere − di scegliere qualcosa che ti corrisponda, che faccia risuonare qualche corda inattesa. Insomma, hai il diritto di vivere un’esperienza del museo. Perché come ha scritto Tolstoj nel suo libro Che cos’è l’arte?, del 1897, “l’arte buona è sempre comprensibile a tutti”.

Se vi trovate in Italia avete solo l’imbarazzo della scelta. Ma qualunque sia la vostra meta cercate innanzitutto di scoprire il genius loci, il legame di quel luogo con la storia, il paesaggio, il carattere della gente, il cibo… Conoscere e assaggiare i salumi toscani può essere un’esperienza fondamentale per comprendere più a fondo l’arte. Un esempio? Sullo sfondo dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti che rappresenta Gli effetti del buon governo, nel Palazzo Pubblico di Siena, appare un maiale scuro con una larga fascia bianca: si tratta della cinta senese, antica razza suina che ancor oggi è utilizzata a Siena per la produzione di ottimi salumi. Quando poi uscirete dalla città antica, scendendo verso la valle, avrete ancora negli occhi la rigogliosa campagna ritratta nel dipinto e vi accorgerete di quanto sia fedele al paesaggio reale che si dispiega davanti ai vostri occhi. Perché per conoscere non bastano gli occhi. Bisogna attivare tutti i sensi per offrire alla mente il maggior numero possibile di elementi affinché possa ritrovare le relazioni che la realtà presenta. Suggerisco a tal proposito la lettura del bel libro di Tiziano Scarpa, Venezia è un pesce (Milano, Feltrinelli, 2000), in cui l’autore ci accompagna a scoprire Venezia con tutti i sensi, per farci accorgere che lo stereotipo turistico che noi abbiamo di una delle città più famose a mondo corrisponde ben poco alla sua vera natura.

Si può approfittare delle vacanze anche per scoprire l’arte più vicina a noi. Provare per un giorno a fare i turisti nella città dove abitiamo o dove andiamo a lavorare è un’esperienza da provare. Se Innocenzo Smith, l’“uomo vivo” descritto da Chesterton, faceva il giro del mondo per ritrovare il gusto e la bellezza di casa propria, perché non fare un giro in città alla scoperta delle sue bellezze artistiche più o meno nascoste? Vi assicuro interessanti e inaspettate emozioni. Anche in questo caso ho un suggerimento letterario, il libro di Aldo Nove, Milano non è Milano (Bari, Laterza, 2006). Anche per chi non è milanese la lettura può offrire spunti per un’osservazione non turistica, per arrivare a scoprire che il genius loci non è un fatto del passato, che anche oggi le nostre città esprimono nella forma lo spirito di chi vive e costruisce ogni giorno spazi di vita.

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Un silenzio che adora

Posté par atempodiblog le 20 juillet 2014

Un silenzio che adora dans Citazioni, frasi e pensieri wsnkz

Dobbiamo confessare che abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata:

la teologia, per poter valorizzare in pieno la propria anima sapienziale e spirituale;

la preghiera, perché non dimentichi mai che vedere Dio significa scendere dal monte con un volto così raggiante da essere costretti a coprirlo con un velo (cfr. Es 34, 33) e perché le nostre assemblee sappiano fare spazio alla presenza di Dio, evitando di celebrare se stesse;

la predicazione, perché non si illuda che sia sufficiente moltiplicare parole per attirare all’esperienza di Dio;

l’impegno, per rinunciare a chiudersi in una lotta senza amore e perdono.

Ne ha bisogno l’uomo di oggi che spesso non sa tacere per paura di incontrare se stesso, di svelarsi, di sentire il vuoto che si fa domanda di significato; l’uomo che si stordisce nel rumore. Tutti, credenti e non credenti, hanno bisogno di imparare un silenzio che permetta all’Altro di parlare, quando e come vorrà, e a noi di comprendere quella parola.

Papa Giovanni Paolo II - Orientale Lumen

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Papa: sono con i cristiani perseguitati di Mosul e del Medio Oriente

Posté par atempodiblog le 20 juillet 2014

Papa: sono con i cristiani perseguitati di Mosul e del Medio Oriente
“Il Dio della pace susciti in tutti un autentico desiderio di dialogo e di riconciliazione. La violenza non si vince con la violenza. La violenza si vince con la pace!”. All’Angelus Francesco ha commentato la parabola del buon grano e della zizzania. Dio è “paziente”, sa che “la stessa zizzania, alla fine, può diventare buon grano”. Ma “al tempo della mietitura, cioè del giudizio, i mietitori eseguiranno l’ordine del padrone separando la zizzania per bruciarla”.
di AsiaNews

Papa: sono con i cristiani perseguitati di Mosul e del Medio Oriente dans Commenti al Vangelo 2v3j6zt

Invito alla preghiera di papa Francesco che all’Angelus ha ricordato le situazioni di tensione e di conflitto che persistono in diverse zone del mondo, specialmente in Medio Oriente e in Ucraina”. Il Papa ha detto di aver appreso con preoccupazione le notizie che giungono dalle Comunità cristiane a Mossul (Iraq) e in altre parti del Medio Oriente, dove esse, sin dall’inizio del cristianesimo, hanno vissuto con i loro concittadini offrendo un significativo contributo al bene della società ». « Oggi – ha detto ancora – sono perseguitati i nostri fratelli e sorelle. Sono cacciati via devono lasciare le loro case senza avere la possibilità di portare niente. Assicuro a queste famiglie e a queste persone la mia vicinanza. Sono con voi perseguitati, so quanto soffrite so che siete spogliati di tutto, sono con voi nella fede in Colui che ha vinto il male. A voi qui in piazza e a coloro che ci seguono vi invito a proseguire nella preghiera. Il Dio della pace susciti in tutti un autentico desiderio di dialogo e di riconciliazione. La violenza non si vince con la violenza. La violenza si vince con la pace!”.

Il riferimento è alla situazione di persecuzone che il patriarca della Chiesa cattolica sira, Ignace Joseph III Younan ha descritto raccontando che l’arcivescovado a Mosul è stato bruciato totalmente: manoscritti, biblioteca”, mentre ai pochi cristiani rimasti è stato imposto di convertirsi all’islam, pagare la jizya, la pesante tassa che grava sugli infedeli, o essere uccisi.

Prima della recita della preghiera mariana, il Papa, ha commentato la parabola del buon grano e della zizzania termine che in ebraico deriva dalla stessa radice del nome Satana e richiama il concetto di divisione. Noi sappiamo che il demonio è uno ‘zizzanatore’ e vuole dividere le persone, i popoli. I servitori vorrebbero subito strappare l’erba cattiva, ma il padrone lo impedisce con questa motivazione: «Perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano» (Mt 13, 29)”.

La scena – ha proseguito il Papa – si svolge in un campo dove il padrone semina il grano; ma una notte arriva il nemico e semina la zizzania, nel buio. L’insegnamento della parabola è duplice. Anzitutto dice che il male che c’è nel mondo non proviene da Dio, ma dal suo nemico, il Maligno. Questo nemico è astuto: ha seminato il male in mezzo al bene, così che è impossibile a noi uomini separarli nettamente; ma Dio, alla fine, potrà farlo”.

E qui veniamo al secondo tema: la contrapposizione tra l’impazienza dei servi e la paziente attesa del proprietario del campo, che rappresenta Dio. Noi a volte abbiamo una gran fretta di giudicare, classificare, mettere di qua i buoni, di là i cattivi… Ma ricordatevi la preghiera di quell’uomo superbo, ti ringrazio Dio perché sono buono… Dio invece sa aspettare.

Egli guarda nel ‘campo’ della vita di ogni persona con pazienza e misericordia: vede molto meglio di noi la sporcizia e il male, ma vede anche i germi del bene e attende con fiducia che maturino. Dio è paziente, sa aspettare. Il nostro Dio è un padre paziente che ci aspetta per perdonarci. Sempre ci perdona se andiamo da Lui…

L’atteggiamento del padrone è quello della speranza fondata sulla certezza che il male non ha né la prima né l’ultima parola. Ed è grazie a questa paziente speranza di Dio che la stessa zizzania, alla fine, può diventare buon grano. Ma attenzione: la pazienza evangelica non è indifferenza al male; non si può fare confusione tra bene e male! Difronte alla zizzania presente nel mondo il discepolo del Signore è chiamato a imitare la pazienza di Dio, alimentare la speranza con il sostegno di una incrollabile fiducia nella vittoria finale del bene, cioè di Dio. Alla fine, infatti, il male sarà tolto ed eliminato: al tempo della mietitura, cioè del giudizio, i mietitori eseguiranno l’ordine del padrone separando la zizzania per bruciarla (cfr Mt 13,30)”.

In quel giorno della mietitura finale il giudice sarà Gesù, Colui che ha seminato il buon grano nel mondo e che è diventato Lui stesso ‘chicco di grano’, è morto ed è risorto. Alla fine saremo tutti giudicati con lo stesso metro con cui abbiamo giudicato: la misericordia che avremo usato verso gli altri sarà usata anche con noi.

Chiediamo alla Madonna, nostra Madre, di aiutarci a crescere nella pazienza, nella speranza e nella misericordia”.

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Noi sacerdoti, celibi come Cristo

Posté par atempodiblog le 18 juillet 2014

Noi sacerdoti, celibi come Cristo
Ripetizioni di storia ecclesiastica al “bergogliano” Scalfari da parte di un gran cardinale tedesco

di Walter Brandmüller – Il Foglio

Noi sacerdoti, celibi come Cristo dans Articoli di Giornali e News zurpqs
“Si tira in ballo S. Paolo per provare che il celibato è recente. Basterebbe conoscere un po’ di greco per capire che non è così”. Nella foto, “San Paolo scrive le epistole” (V. de Boulogne, 1620)

Ill.mo dott. Scalfari,

anche se non godo del privilegio di conoscerla di persona, vorrei tornare alle Sue affermazioni riguardo il celibato contenute nel resoconto del Suo colloquio con Papa Francesco, pubblicate il 13 luglio 2014 e immediatamente smentite nella loro autenticità da parte del direttore della sala stampa vaticana. In quanto “vecchio professore” che per trent’anni ha insegnato Storia della chiesa all’università, desidero portare a Sua conoscenza lo stato attuale della ricerca in questo campo.

In particolare, deve essere sottolineato innanzitutto che il celibato non risale per niente a una legge inventata novecento anni dopo la morte di Cristo. Sono piuttosto i Vangeli secondo Matteo, Marco e Luca che riportano le parole di Gesù al riguardo. Matteo scrive (19,29): “… Chiunque abbia lasciato in mio nome case o fratelli, sorelle, padre, madre, figli o campi, otterrà cento volte di più e la vita eterna”.

Molto simile è anche quanto scrive Marco (10,29): “In verità, vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia che non riceva cento volte tanto…”.

Ancora più preciso è Luca (18, 29 ss): “In verità, io vi dico: chiunque abbia abbandonato per il Regno di Dio casa o moglie, fratelli, genitori o figli, riceverà già ora, in cambio molto di più, e nel mondo futuro la vita eterna”.

Gesù non rivolge queste parole alle grandi masse, bensì a coloro che manda in giro, affinché diffondano il suo Vangelo e annuncino l’avvento del Regno di Dio.

Per adempiere a questa missione è necessario liberarsi da qualsiasi legame terreno e umano. E visto che questa separazione significa la perdita di ciò che è scontato, Gesù promette una “ricompensa” più che appropriata.

A questo punto viene spesso rilevato che il “lasciare tutto” si riferiva solo alla durata del viaggio di annuncio del suo Vangelo, e che una volta terminato il compito, i discepoli sarebbero tornati alle loro famiglie. Ma di questo non c’è traccia. Il testo dei Vangeli, accennando alla vita eterna, parla peraltro di qualcosa di definitivo.

Ora, visto che i Vangeli sono stati scritti tra il 40 e il 70 d. C., i suoi redattori si sarebbero messi in cattiva luce se avessero attribuito a Gesù parole alle quali poi non corrispondeva la loro condotta di vita. Gesù, infatti, pretende che quanti sono resi partecipi della sua missione adottino anche il suo stile di vita.

Ma cosa vuol dire allora Paolo, quando nella prima Lettera ai Corinzi (9,5) scrive: “Non sono libero? Non sono un apostolo? … Non abbiamo il diritto di mangiare e bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, esattamente come gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? Dovremmo essere solo io e Barnaba a dover rinunciare al diritto di non lavorare?”. Queste domande e affermazioni non danno per scontato che gli apostoli fossero accompagnati dalle rispettive mogli?

Qui bisogna procedere con cautela. Le domande retoriche dell’apostolo si riferiscono al diritto che ha colui che annuncia il Vangelo di vivere a spese della comunità, e questo vale anche per chi lo accompagna. E qui si pone ovviamente la domanda su chi sia questo accompagnatore. L’espressione greca “adelphén gynaìka” necessita di una spiegazione. “Adelphe” significa sorella. E qui per sorella nella fede si intende una cristiana, mentre “Gyne” indica – più genericamente – una donna, vergine, moglie o sposa che sia. Insomma un essere femminile. Ciò rende però impossibile dimostrare che gli apostoli fossero accompagnati dalle mogli. Perché, se invece così fosse, non si capirebbe perché si parli distintamente di una adelphe come sorella, dunque cristiana. Per quel che riguarda la moglie, bisogna sapere che l’apostolo l’ha lasciata nel momento in cui è entrato a far parte della cerchia dei discepoli.

Il capitolo 8 del Vangelo di Luca aiuta a fare più chiarezza.

Lì si legge: “(Gesù) venne accompagnato dai dodici e da alcune donne che aveva guarito da spiriti maligni e malattie: Maria Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, la moglie di Cuza, un funzionario di Erode, Susanna, e molte altre. Tutte loro servivano Gesù e i discepoli con quel che possedevano”. Da questa descrizione pare logico dedurre che gli apostoli avrebbero seguito l’esempio di Gesù. Inoltre va richiamata l’attenzione sull’appello empatico al celibato o all’astinenza coniugale fatto dall’apostolo Paolo (1. Cor. 7, 29 ss) “Perché io vi dico, fratelli: il tempo è breve. Per questo, chi ha una moglie deve in futuro comportarsi come se non ne avesse una…”. E ancora: “Il celibe si preoccupa delle questioni del Signore; vuole piacere al Signore. L’ammogliato si preoccupa delle cose del mondo; vuole piacere a sua moglie. Così finisce per essere diviso in due”. E’ chiaro che Paolo con queste parole si rivolge in primo luogo a vescovi e sacerdoti. E lui stesso si sarebbe attenuto a tale ideale.

Per provare che Paolo o lo chiesa dei tempi apostolici non avessero conosciuto il celibato vengono tirate in ballo, a volte, le lettere a Timoteo e Tito, le cosiddette lettere pastorali. E in effetti, nella prima lettera di Timoteo (3,2) si parla di un vescovo sposato. E ripetutamente si traduce il testo originale greco nel seguente modo: “Il vescovo sia il marito di una femmina”, il che viene inteso come precetto. E sì, basterebbe una conoscenze rudimentale del greco, per tradurre correttamente: “Per questo il vescovo sia irreprensibile, sia sposato una volta sola (e deve essere marito di una femmina!!), essere sobrio e assennato…”. E anche nel libro a Tito si legge: “Un anziano (cioè un sacerdote, vescovo) deve essere integerrimo e sposato una volta sola…”. Sono indicazioni che tendono a escludere la possibilità che venga ordinato sacerdote-vescovo chi, dopo la morte della moglie, si è risposato (bigamia successiva). Perché, a parte il fatto che a quei tempi non si vedeva di buon occhio un vedovo che si risposava, per la chiesa si aggiungeva poi la considerazione che un uomo così non poteva dare alcuna garanzia di rispettare l’astinenza, alla quale un vescovo o sacerdote doveva votarsi.

La pratica della chiesa post apostolica

La forma originaria del celibato prevedeva dunque che il sacerdote o il vescovo continuassero la vita familiare, ma non quella coniugale. Anche per questo si preferiva ordinare uomini in età più avanzata.

Il fatto che tutto ciò sia riconducibile ad antiche e consacrate tradizioni apostoliche, lo testimoniano le opere di scrittori ecclesiastici come Clemente di Alessandria e il nordafricano Tertulliano, vissuti nel Duecento dopo Cristo. Inoltre, sono testimoni dell’alta considerazione di cui godeva l’astinenza tra i cristiani una serie di edificanti romanzi sugli apostoli: si tratta dei cosiddetti atti degli apostoli apocrifi, composti ancora nel II secolo e molto diffusi.

Nel successivo III secolo si moltiplicano e diventano sempre più espliciti – soprattutto in oriente – i documenti letterari sull’astinenza dei chierici. Ecco per esempio un passaggio tratto dalla cosiddetta didascalia siriaca: “Il vescovo, prima di essere ordinato, deve essere messo alla prova, per stabilire se è casto e se ha educato i suoi figli nel timore di Dio”. Anche il grande teologo Origene di Alessandria (†253/’54) conosce un celibato di astinenza vincolante; un celibato che spiega e approfondisce teologicamente in diverse opere. E ci sarebbero ovviamente altri documenti da portare a sostegno, cosa che ovviamente qui non è possibile.

La prima legge sul celibato

Fu il Concilio di Elvira del 305/’06 a dare a questa pratica di origine apostolica una forma di legge. Con il Canone 33, il Concilio vieta ai vescovi, sacerdoti, diaconi e a tutti gli altri chierici rapporti coniugali con la moglie e vieta loro altresì di avere figli. Ai tempi si pensava dunque che astinenza coniugale e vita familiare fossero conciliabili. Così, anche il Santo Padre Leone I, detto Leone Magno, attorno al 450 scriveva che i consacrati non dovevano ripudiare le loro mogli. Dovevano restare insieme alle stesse, ma come se “non le avessero” scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (7,29). Con il passar del tempo, si tenderà vieppiù ad accordare i sacramenti solo a uomini celibi. La codificazione arriverà nel medioevo, epoca in cui si dava per scontato che il sacerdote e il vescovo fossero celibi. Altra cosa è il fatto che la disciplina canonica non venisse sempre vissuta alla lettera, ma questo non deve stupire. E, com’è nella natura delle cose, anche l’osservanza del celibato ha conosciuto nel corso dei secoli alti e bassi.

Famosa è per esempio la disputa molto accesa che si ebbe nell’XI secolo, ai tempi della cosiddetta riforma gregoriana. In quel frangente si assistette a una spaccatura così netta – soprattutto nella chiesa tedesca e francese – da portare i prelati tedeschi contrari al celibato a cacciare con la forza dalla sua diocesi il vescovo Altmann di Passau. In Francia, gli emissari del Papa incaricati di insistere sulla disciplina del celibato venivano minacciati di morte, e il santo abate Walter di Pontoise venne picchiato, durante un sinodo tenutosi a Parigi, dai vescovi contrari al celibato e sbattuto in prigione. Ciò nonostante, la riforma riuscì a imporsi, e si assistette a una rinnovata primavera religiosa.

E’ interessante notare che la contestazione del precetto del celibato si è sempre avuta in concomitanza con segnali di decadenza nella chiesa, mentre in tempi di rinnovata fede e di fioritura culturale si notava una rafforzata osservanza del celibato.

E non è certo difficile trarre da queste osservazioni storiche paralleli con l’attuale crisi.

I problemi della chiesa d’oriente Restano aperte ancora due domande che vengono poste frequentemente. C’è quella che riguarda la pratica del celibato da parte della chiesa cattolica del regno bizantino e del rito orientale: questa che non ammette il matrimonio per vescovi e monaci, ma lo accorda ai sacerdoti, a patto che si siano sposati prima di prendere i sacramenti. E prendendo proprio ad esempio questa pratica, c’è chi si chiede se non potrebbe essere adottata anche dall’occidente latino. A questo proposito va innanzitutto sottolineato che proprio a oriente la pratica del celibato astinente è stata ritenuta vincolante. Ed è solo durante il Concilio del 691, il cosiddetto Quinisextum o Trullanum, quando risultava evidente la decadenza religiosa e culturale del regno bizantino, che si giunge alla rottura con l’eredità apostolica. Questo Concilio, influenzato in massima parte dall’imperatore, che con una nuova legislazione voleva rimettere ordine nelle relazioni, non fu però mai riconosciuto dai papi. E’ proprio ad allora che risale la pratica adottata dalla chiesa d’oriente. Quando poi, a partire dal XVI e XVII secolo, e successivamente, diverse chiese ortodosse tornarono alla chiesa d’occidente, a Roma si pose il problema su come comportarsi con il clero sposato di quelle chiese. I vari papi che si susseguirono decisero, per il bene e l’unità della chiesa, di non pretendere dai sacerdoti tornati alla chiesa madre alcuna modifica del loro modo di vivere.

L’eccezione nel nostro tempo

Su una simile motivazione si fonda anche la dispensa papale dal celibato concessa – a partire da Pio XII – ai pastori protestanti che si convertono alla chiesa cattolica e che desiderano essere ordinati sacerdoti. Questa regola è stata recentemente applicata anche da Benedetto XVI ai numerosi prelati anglicani che desideravano unirsi, in conformità alla constitutio apostolica Anglicanorum coetibus, alla chiesa madre cattolica. Con questa straordinaria concessione, la chiesa riconosce a questi uomini di fede il loro lungo e a volte doloroso cammino religioso, giunto con la conversione alla meta. Una meta che in nome della verità porta i diretti interessati a rinunciare anche al sostentamento economico fino a quel momento percepito. E’ l’unità della chiesa, bene di immenso valore, che giustifica queste eccezioni.

Eredità vincolante?

Ma a parte queste eccezioni, si pone l’altra domanda fondamentale, e cioè: la chiesa può essere autorizzata a rinunciare a una evidente eredità apostolica?

E’ un’opzione che viene continuamente presa in considerazione. Alcuni pensano che questa decisione non possa essere presa solo da una parte della chiesa, ma da un Concilio generale. In questo modo, si pensa che pur non coinvolgendo tutti gli ambiti ecclesiastici, almeno per alcuni si potrebbe allentare l’obbligo del celibato, se non addirittura abolirlo. E ciò che oggi appare ancora inopportuno, potrebbe essere realtà domani. Ma se così si volesse fare, si dovrebbe riproporre in primo piano l’elemento vincolante delle tradizioni apostoliche. E ancora ci si potrebbe chiedere se, con una decisione presa in sede di Concilio, sarebbe possibile abolire la festa della domenica che, a voler essere pignoli, ha meno fondamenti biblici del celibato. Infine, per concludere, mi si permetta di avanzare un considerazione proiettata nel futuro: se continua a essere valida la constatazione che ogni riforma ecclesiastica che merita questa definizione scaturisce da una profonda conoscenza della fede ecclesiastica, allora anche l’attuale disputa sul celibato verrà superata da una approfondita conoscenza di ciò che significa essere sacerdote. E se si comprenderà e insegnerà che il sacerdozio non è una funzione di servizio, esercitata in nome della comunità, ma che il sacerdote – in forza dei sacramenti ricevuti – insegna, guida e santifica in persona Christi, tanto più si comprenderà che proprio per questo egli assume anche la forma di vita di Cristo. E un sacerdozio così compreso e vissuto tornerà di nuovo a esercitare una forza di attrazione sull’élite dei giovani.

Per il resto, bisogna prendere atto che il celibato, così come la verginità in nome del Regno dei Cieli, resteranno, per chi ha una concezione secolarizzata della vita, sempre qualcosa di irritante. Ma già Gesù a tal proposito diceva: “Chi può capire, capisca”.

(L’autore è cardinale e presidente emerito del Pontificio comitato di Scienze storiche) – traduzione di Andrea Affaticati

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Il Diavolo Berlicche

Posté par atempodiblog le 17 juillet 2014

Il Diavolo Berlicche
Questo racconto è tratto dal libro ‘Le lettere di Berlicche’ (Racconto II) di C.S. Lewis; è una lettera che Berlicche, il capo dei diavoli, scrive a suo nipote Malacoda offrendogli preziosi consigli su come tentare il suo ‘paziente’, un giovane uomo che cercava di vivere bene.
Tratto da: Don Bosco Land

Il Diavolo Berlicche dans Anticristo 10ooa5l

Mio caro Malacoda,

ho notato con profondo dispiacere che il tuo paziente si è fatto cristiano. Non nutrire speranza alcuna di sfuggire alle punizioni che si solgono infliggere in questi casi. Sono certo del resto che, nei tuoi momenti migliori, neppure tu lo desidereresti. Centinaia di codesti convertiti adulti sono stati recuperati nel campo del Nemico ed ora sono con noi. Tutte le abitudini del paziente, tanto le mentali quanto le spirituali, ci sono ancora favorevoli.

Uno dei nostri grandi alleati, al presente, è la stessa chiesa. Cerca di non fraintendermi. Non intendo alludere alla chiesa come la si vede espandersi attraverso il tempo e lo spazio, e gettare le radici nell’eternità, terribile come un esercito a bandiere spiegate. Confesso che questo è uno spettacolo che rende nervosi i nostri più ardimentosi tentatori. Ma fortunatamente essa è del tutto invisibile a codesti esseri umani. Tutto ciò che il tuo paziente vede è quel palazzo, finito solo a metà, di stile gotico spurio, che si erge su quel nuovo terreno. Quando entra vi trova il droghiere locale, con un’espressione untuosa sul volto, che si dà da fare per offrirgli un librino lustro lustro che contiene una liturgia che nessuno di loro due capisce, e un altro libricino frusto, che contiene corrotti di un certo numero di liriche religiose, la maggior parte orrende, e stampate a caratteri fittissimi. Entra nel banco, e, guardandosi intorno, s’incontra proprio con quella cernita di quei suoi vicini che finora aveva cercato di evitare. Devi far leva più che puoi su quei vicini. Fa’ in modo che la sua mente svolazzi qua e là fra un espressione quale «il corpo di Cristo» e le facce che gli si presentano nel banco accanto.Importa pochissimo, naturalmente, la razza di gente che in realtà s’è messa nel banco vicino. Tu puoi sapere magari che uno di loro è un grande combattente dalla parte del Nemico. Non importa. Il tuo paziente, grazie al Nostro Padre Laggiù, è uno sciocco. Se uno qualsiasi di questi vicini canta con voce stonata, se ha le scarpe che gli scricchiolano, o la pappagorgia, o se porta vestiti strani, il paziente crederà con la massima facilità che perciò la loro religione deve essere qualcosa di ridicolo. Vedi, nella fase in cui si trova al presente, egli ha in mente una certa idea dei ‘cristiani’, che crede sia spirituale, ma che, di fatto, è per molta parte pittoresca. Ha la mente piena di toghe, di sandali, di corazze e di gambe nude, il solo fatto che l’altra gente in chiesa porta vestiti moderni è per lui una seria difficoltà, quantunque, naturalmente, inconscia. Non permettere mai che venga alla superficie; non permettere che si domandi a che cosa s’aspettava che fossero uguali. Fa’ in modo che ogni cosa rimanga ora nebulosa nella sua mente, e avrai a disposizione tutta l’eternità per divertirti a produrre in lui quella speciale chiarezza che l’Inferno offre.

Lavora indefessamente, dunque, sulla disillusione e il disappunto che sorprenderà senza dubbio il tuo paziente nelle primissime settimane che si recherà in chiesa. Il nemico permette che un disappunto di tal genere si presenti sulla soglia di ogni sforzo umano. Esso sorge quando un ragazzo, che da fanciullo s’era acceso d’entusiasmo per i racconti dell’Odissea, si mette seriamente a studiare il greco. Sorge quando i fidanzati sono sposati e cominciano il compito serio di imparare a vivere insieme. In ogni settore della vita esso segna il passaggio dalla sognante aspirazione alla fatica del fare. Il Nemico si prende questo rischio perché nutre il curioso ghiribizzo di fare di tutti codesti disgustosi vermiciattoli umani, altrettanti, come dice Lui, suoi ‘liberi’ amanti e servitori, e ‘figli’ è la parola che adopera, secondo l’inveterato gusto che ha di degradare tutto il mondo spirituale per mezzo di legami innaturali con gli animali di due gambe. Volendo la loro libertà, Egli si rifiuta di portarli di peso, facendo soltanto delle loro affezioni e delle loro abitudini, al raggiungimento di quegli scopi che pone loro innanzi, ma lascia che ‘li raggiungano essi stessi’. Ed è in questo che ci si offre un vantaggio. Ma anche, ricordalo, un pericolo se per caso riescono a superare con successo quest’aridità iniziale, la loro dipendenza dall’emozione diventa molto minore, ed è perciò più difficile tentarli.

Quando sono venuto esponendo finora vale la pena nella ipotesi che la gente del banco vicino non offra alcun motivo ragionevolmente di disillusione. E’ chiaro che se invece lo offrono- se il paziente sa che quella donna con quel cappellino assurdo è una fanatica giocatrice di bridge, che qual signore con le scarpe scricchiolanti è un avaro e uno strozzino- allora il compito ti sarà molto più facile. Si ridurrà a tenergli lontano dalla mente questa domanda: «se io, essendo ciò che sono, posso in qualche senso ritenermi cristiano, per quale motivo i vizi diversi di quella gente che sta lì in quel banco dovrebbero essere una prova che la loro religione non è che ipocrisia e convenzione?». Forse mi chiederai se è possibile tener lontano perfino dalla mente umana un pensiero così evidente. Si, Malacoda, si, è possibile! Trattalo come deve essere trattato, e vedrai che non gli passerà neppure per l’anticamera del cervello. Non è ancora stato a sufficienza con il Nemico per possedere già una vera umiltà. Le parole che ripete, anche in ginocchio, sui suoi numerosi peccati, le ripete pappagallescamente. In fondo crede ancora che lasciandosi convertire, ha fatto salire di molto un saldo attivo in suo favore nel libro maestro del Nemico, e crede di dimostrare grande umiltà e degnazione solo andando in chiesa con codesti ‘compiaciuti’ vicini, gente comune. Mantienigli la mente in questo stato il più a lungo possibile.

Tuo affezionatissimo zio.

Berlicche

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Il maggior interesse della grande stampa per la Chiesa…

Posté par atempodiblog le 17 juillet 2014

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Ciò non deve tuttavia trarre in inganno: il maggior interesse della grande stampa per la Chiesa, e per gli avvenimenti del mondo ecclesiastico ed ecclesiale, rientra perlopiù in un progetto di  strumentalizzazione attraverso un’interpretazione di tali fatti in termini compiacenti rispetto alla cultura dominante.

La Chiesa, ed ogni sua espressione sia diretta che indiretta, sono dunque oggetto di manipolazione, di «rilettura» secondo criteri estranei.

Un esempio: è una tesi cara a molti settori del mondo «laico» quella secondo cui l’esperienza religiosa procede, si dimostra vitale ed utile per la società, nella misura in cui sorgono delle eresie rispetto alla fede affermata e proposta dalle Chiese in genere, e da quella cattolica in particolare: le eresie, infatti, sarebbero il versante vitale e «progressivo» dell’esperienza cristiana.

Ebbene, questo tipo di interpretazione sta alla base di buona parte della cosiddetta informazione religiosa della grande stampa.

Non c’è infatti conflitto fra qualche gruppo di base o parroco o singolo sacerdote e qualsiasi autorità ecclesiastica che non venga descritto a priori con toni favorevoli ai primi e contrari alla seconda. Chiunque abbia dei contrasti con l’episcopato o con la Santa Sede diviene automaticamente un eroe.

Qualsiasi presa di posizione stravagante di singoli cristiani o di gruppi anche minuscoli (purché «puzzi di eresia», anche magari senza essere sostanzialmente eterodossa) viene ripresa e diffusa con ampiezza, mentre le pastorali dei vescovi — tanto per fare un esempio — sono ignorate o commentate con poche righe, quando non finiscono per essere oggetto di deformazione e di attacchi tanto duri quanto preconcetti.

Rilevare tutto ciò — sia chiaro — non è vittimismo ma piuttosto realismo, a conferma del fatto che i cattolici non possono delegare ad altri un compito che è loro: quello di esprimere se stessi, di sostenere i propri giudizi e difendere e realizzare i propri progetti.

Da Luigi Giussani Luigi, Robi Ronza, Il Movimento di Comunione e Liberazione: Conversazioni con Robi Ronza, Jaca Book, 1987 p.106-107
Tratto da:
Antonio Socci Facebook

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Giudizi temerari

Posté par atempodiblog le 13 juillet 2014

Giudizi temerari dans Citazioni, frasi e pensieri 2dkbel5

Con insopportabile vanità si era creduta capace di penetrare i sentimenti nascosti di tutti; con imperdonabile arroganza aveva preteso di decidere il destino di tutti. Le era stato dimostrato di essersi sbagliata in tutto, e non certo perché si era limitata a non fare nulla, visti i guai che aveva provocato.

Jane Austen – Emma

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Il Papa della porta accanto

Posté par atempodiblog le 13 juillet 2014

Il Papa della porta accanto
Non solo le grandi riforme. Anche uno stile di vita che sta cambiando le secolari abitudini vaticane. All’insegna della sobrietà. Dai tagli sulle spese per gli abiti al ridimensionamento della corte, fino al caffè alla macchinetta e ai pranzi in mensa
di Filippo Di Giacomo – Il Venerdì di Repubblica

Il Papa della porta accanto dans Fede, morale e teologia 25k35gm

Da arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio amava deinirsi «un tipo casalingo». E proprio come tutti i casalinghi, non brilla di entusiasmo all’idea di dover lasciare casa. Lo scorso anno infatti è rimasto per l’intero periodo estivo in Vaticano e quest’anno pare intenzionato a replicare la permanenza nel «recinto di San Pietro», così come l’ha denominato il Papa Emerito, altro affezionato alla ben ritmata vita sacerdotale, fatta di impegni e di spazi per la preghiera ed il silenzio.

Francesco è un Papa abitudinario e, come già annunciato dalla sala stampa vaticana, quest’anno le eccezioni ai consueti ritmi di lavoro saranno solo due: a luglio verranno sospese le udienze del mercoledì e non sarà possibile l’ingresso dei gruppi di fedeli alle messe quotidiane nella cappella di Santa Marta. Ma quali sono le abitudini bergogliane introdotte, senza mezzi termini, nel pietrificato e ritualizzato mondo vaticano? Per i sessanta ospiti della «casa sacerdotale» più famosa del mondo cattolico l’arrivo di Papa Francesco è coinciso con una sorta di regressione allo stato seminaristico.

Il rispetto dell’orario, per i cosiddetti atti comuni (messa, meditazione, condivisione dei pasti e dei tempi di ricreazione) è infatti tipico delle case di formazione da cui i preti diocesani provengono e da cui sempre volentieri escono per poter vivere autonomamente nella propria parrocchia. Papa
Francesco li ha invece riportati a quel modello di «casa sacerdotale» che anche Benedetto XVI aveva stabilito di realizzare con l’attuale Vicario di Roma cardinale Agostino Vallini, pensando fosse la giusta soluzione affinché i circa due mila sacerdoti impegnati, a vari livelli, nelle strutture centrali della Chiesa, potessero vivere senza moleste distrazioni.

E in questa proposta di un comune stile di vita, si spiega anche l’abitudine di Papa Francesco di non indossare alcuna di quelle vanità clericali così care agli abitanti dei sacri palazzi. La sua tonaca è di fresco lana e la sua fascia è di semplice tela. Papa Francesco si veste con settecento euro: 650 per la
tonaca, 50 per la fascia, non usa più il costoso tessuto di mohair misto seta con cui si confezionano i cosiddetti «abiti corali» dei prelati di Curia. Per i cardinali e per i vescovi la mise, che tanto piace ai cultori della tradizione, ha infatti un prezzo elevato: per la talare 2 mila euro, per la fascia almeno
2-400 euro e per la cotta altri 7- 800.

I luoghi dove inciampano i vanitosi con la tonaca sono proprio la cotta e la fascia. Non a caso, al momento della sua consacrazione a vescovo, gli amici di un prelato si vantavano di avergli regalato una cotta ornata da un pizzo di Cantù, fatto a mano in un laboratorio di suore, costato quasi 9 mila euro. Per la fascia poi, gli elegantoni amano usare un tessuto impreziosito da onde di seta la cui confezione raggiunge spesso i mille euro.
Quella del Papa, ossia la fascia che Papa Francesco rifiuta di indossare, è ricamata a mano e vi è riprodotto il suo stemma, particolare che fa elevare il prezzo ben al di sopra dei mille euro.

Chi è avvezzo alle cose latino-americane non fatica a notare che i pantaloni neri che il Papa indossa sotto la tonaca sono simili ad una nota qualità di abiti «da lavoro» facilmente acquistabile in Argentina e in altri Paesi dell’area: sono, per così dire, pantaloni da operaio. Come le scarpe nere, sempre le stesse, che calza ormai da quasi un anno e mezzo. Con lui è terminata anche la leziosa abitudine clericale di portare le calze secondo il colore della propria dignità: bianco per il Papa, porpora per i cardinali, paonazzo per i vescovi, violaceo per i prelati.

E sulla Spianata del Tempio a Gerusalemme, durante la recente visita nella Città Santa, prima di entrare nella moschea della Roccia, dopo aver rifiutato con un secco «faccio da solo» l’aiuto di chi voleva slacciargli e sfilargli le scarpe, Papa Francesco ha mostrato impavido un normalissimo calzino nero (le immagini televisive lasciano sospettare che fosse blu) imbiancato da una generosa dose di borotalco. Dopo 15 mesi dalla sua elezione anche per gli abitanti di Santa Marta scarpe calze e pantaloni del Papa non rappresentano più un problema.

Eppure solo nell’estate del 2013, vederlo girare in maniche di camicia per i corridoi, magari per andare a prendere il caffè ad una delle macchinette automatiche attive nella hall, fermandosi a scambiare quattro chiacchiere con le addette alla reception, aveva gettato nel panico buona parte dei
suoi coinquilini. «Bisogna essere normali» aveva spiegato Francesco ai giornalisti sul volo che lo portava a Rio de Janeiro, quando lo avevano visto salire a bordo con una borsa nera dove aveva riposto rasoio, breviario e un libro da leggere.

E la normalità di Papa Bergoglio è entrata in Vaticano sin dalla sera della sua elezione quando, dopo aver rifiutato di indossare la cotta, la mozzetta bordata d’ermellino e la «stola della testimonianza» (prezioso paramento con le immagini dei Santi Pietro e Paolo ricamate in oro) al cerimoniere che insisteva ha risposto: «Carnevale è finito Monsignore. Se vuole, queste cose le metta lei». Ma forse più che di carnevale si dovrebbe parlare di fiera delle vanità. Perché, se le mitre usate dal Papa sono facilmente reperibili nei negozi di articoli ecclesiastici ad un prezzo che non supera i 200 euro, e la sua croce e il suo anello insieme non superano i 300, quelle ancora esibite da porporati residenti in Vaticano, proprio durante le cerimonie in San Pietro, valgono facilmente dai 5 ai 15 mila euro.

La mitra copia della celebre Guglielmina di Leone XIII, un paramento donato a Papa Pecci dall’allora imperatore di Germania, è acquistabile in un noto negozio di Roma, vicino al Pantheon, a 8 mila euro e non sono rari i porporati che, nelle celebrazioni da loro presiedute, indossano mitre fabbricate in una abbazia toscana, quella di Rossano, ricamate a mano con fili d’oro in vendita a circa 20 mila euro l’una. I giornalisti che si occupano di informazione vaticana frequentano molto la sala stampa e poco la basilica vaticana, altrimenti comprenderebbero facilmente verso chi sono dirette le bordate di Papa Francesco.

Bordate entrate nel lessico quotidiano entro le mura leonine, e che riportano il concetto di normalità in un campo che, tra plurale maiestatico e formule auliche, sembrava circondarsi di nebbia ad ogni apparire di Papa.

Francesco è normale anche nel parlare, come quando, dopo la Pasqua del 2013, ricevendo un gruppo di pellegrini di Brescia nell’Aula Paolo VI, vide all’ingresso un cardinale e alcuni prelati che lo aspettavano e con un sorriso li avvertì: «Non avete niente di meglio da fare che perdere tempo con me? Non preoccupatevi, faccio da solo».

In realtà non è così: Papa Francesco ama essere aiutato. La sua segreteria conta cinque collaboratori e anche la sua casa civile, il covo di corvi che ha profanato il Ministero di Benedetto XVI, gode della silenziosa operosità di quattro addetti. Ufficialmente il segretario particolare del Papa è monsignor Fabian Pedacchio, un argentino che continua il suo lavoro nella congregazione dei vescovi, ufficio per il quale fu inviato dal su arcivescovo di allora, il cardinale Jorge Mario Bergoglio, anche per comprendere perché la Diocesi di Buenos Aires e la conferenza episcopale argentina non avessero voce in capitolo ogni qualvolta si trattava di scegliere un vescovo per una loro diocesi.

Il ruolo di secondo è stato attribuito all’egiziano Yoannis Lazhi Gaid, monsignore noto per un carattere arcigno e scarsa disposizione diplomatica, nonostante abbia alle spalle anni di servizio nelle rappresentanze della Santa Sede. Monsignor Battista Ricca, il più anziano del gruppo, mantiene i rapporti tra il Papa e lo Ior, istituzione nella quale lavora come prelato, mentre monsignor Tino Scotti, archivista della Segreteria di Stato, è il responsabile delle messe Papali di Santa Marta. Un altro sacerdote di Buenos Aires, monsignor Guillermo Javier Karcher, continua il suo lavoro nell’ufficio cerimoniale della Segreteria di Stato e, come cerimoniere pontificio, appare sempre molto vicino a Papa Bergoglio.

In realtà, nessuno dei componenti della segreteria svolge questo incarico a tempo pieno: aiutano il Pontefice fuori dai loro orari di lavoro, a titolo gratuito. Un’altra caratteristica della novità bergogliana: ognuno fa quello che deve fare, e quando può cerca di dare una mano dove c’è bisogno. Subito dopo la sua elezione, in una conversazione telefonica con un suo ex alunno e ora giornalista Jorge Milla, Papa Francesco confessò la sua preoccupazione per il fatto che «in Vaticano, il Papa ha molti padroni». Un pericolo questo che il vescovo di Roma, venuto quasi dalla fine del mondo, sembra non voler mai correre. D’altronde nelle sue apparizioni pubbliche, nonostante la presenza di ben cinque addetti, preferisce farsi accompagnare dal solo autista, scelto a caso tra uno dei quattro a lui assegnati.

Lo ha fatto persino per la prima visita uiciale al Quirinale. Un modo pratico per applicare l’antico assioma romano divide et impera. Principio che il Papa applica anche nel modo di parlare con chi abita fuori dal Vaticano. Le sue interviste ai diversi organi di stampa sembrano improntate ad un metodo Bergoglio che accetta la spontaneità, ma non l’improvvisazione. Se ai quotidiani nazionali ha affidato la sua proposta di tregua sui temi sensibili e sulle intromissioni nel campo della politica, ad un quotidiano catalano ha consegnato la sua opinione sulle spinte separatiste che avvelenano diverse regioni d’Europa.

Non è un caso se ad un giornale del Nord Italia, che aveva spalleggiato i teocon americani che lo vedevano comunista, ha spiegato la sua personale visione dell’economia e delle cose sociali o se ha utilizzato un quotidiano romano per trasmettere agli interessati le sue considerazioni su Roma: una
città decadente e male amministrata.

D’altronde, la sua ormai nota intervista a La Civiltà Cattolica, rilanciata da altre «pensanti» rivista della Compagnia di Gesù, è subito apparsa come una risposta ai suoi più tenaci oppositori nella Chiesa argentina: i confratelli gesuiti. Nemmeno a livello di comunicazione Papa Francesco accetta di pagare pegno ad un costruttore d’immagine, ad un opinion maker, benché i candidati (e le candidate) per questo ruolo a Roma sembrino crescere come funghi.

L’ultima settimana di giugno un cugino e omonimo di Papa Bergoglio, un Jorge Bergoglio anche lui, è venuto a trovarlo insieme ai suoi due figli. Come riferisce la stampa argentina hanno pranzato insieme a Santa Marta, e lo hanno trovato in splendida forma. Il giorno dopo però il Papa ha disdetto la visita al Gemelli e la Sala Stampa Vaticana, anche se inizialmente aveva annunciato solo un lieve ritardo, ha giustificato l’assenza per un’improvvisa indisposizione. In quello stesso pomeriggio il Papa aveva ricevuto la delegazione del Patriarcato di Costantinopoli, venuta a Roma per la festa dei Santi Pietro e Paolo.

L’improvvisa indisposizione non sarà dipesa dal fatto che, invece dei venti minuti previsti, l’incontro si è protratto molto più a lungo? Una decina di giorni prima aveva disdetto una serie di udienze a causa di una «improvvisa stanchezza». Anche quella mattina, ricevendo una sessantina di seminaristi e novizi dei frati francescani dell’Immacolata, istituto attualmente sotto tutela della Santa Sede, aveva iniziato un fitto dialogo di domande-risposte protrattosi per quasi due ore.

Normale è l’aggettivo che Papa Francesco attribuisce anche alla sua salute, ritenuta da molti misteriosa e periclitante. Dei suoi problemi polmonari ha spiegato più volte che da giovane aveva avuto delle cisti a un polmone ed è stato salvato da una suora che, intuendo la gravità del problema, lo aveva curato con una dose di antibiotico doppia rispetto a quella prescritta dal medico; ha confessato anche che il cambio di clima gli ha provocato una lombo-sciatalgia persistente e, come appare a occhio nudo, da quando è Papa ha preso molto peso: tra i 10 e i 14 chili. Non per nulla, un proverbio sudamericano dice: Los problemas, engordan, i problemi ingrassano. Che un Papa affronti molti problemi, anche questo è del tutto normale.

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Vacanze sotto il manto della Madonna

Posté par atempodiblog le 12 juillet 2014

Vacanze sotto il manto della Madonna dans Fede, morale e teologia Madonna

Eccovi qualche suggerimento perché il periodo di riposo delle vacanze produca dei frutti buoni.

Prima di tutto metti le tue vacanze sotto il manto della Madonna, perché ti protegga da tutti i pericoli dell’anima e del corpo.

Il riposo della mente è il presupposto per il riposo del corpo. La mente si riposa sperimentando Dio nella preghiera, lasciandosi inondare dalla sua luce, dal suo amore e dalla sua pace.

Avendone la possibilità, la S. Messa quotidiana è un aiuto straordinario col quale nutrirti della Parola di Dio e dell’Eucarestia.  Dedica  un po’ di tempo al giorno alla lettura di un libro di spiritualità.

Vai nella natura e ammira l’opera di Dio nei monti, nel mare, nel cielo e persino in un minuscolo fiore. Nella natura brilla la potenza, la bellezza, l’ordine e l’amore di Dio.

Visita qualche santuario, specialmente dove è apparsa la Madonna. Ti renderai conto di come la nostra cara Madre celeste ci segue e veglia su di noi.

Il tempo delle vacanze deve servire a farti ritrovare Dio e te stesso, in modo tale da riprendere la vita quotidiana con entusiasmo e con gioia.

Dio vi benedica e la Madonna vi accompagni in questo tempo di grazia.

di Padre Livio Fanzaga – Radio Maria

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Il riposo estivo è il tempo di un particolare incontro con il Signore

Posté par atempodiblog le 12 juillet 2014

Viaggiando lungo gli itinerari delle vacanze aprite i vostri occhi alla bellezza del mondo circostante e del prossimo. Ricchi di queste esperienze seguite con perseveranza Cristo, difendendo sempre i valori che danno senso alla vita umana”.

Benedetto XVI

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Il riposo significa lasciare le occupazioni quotidiane, staccarsi dalle normali fatiche del giorno. della settimana e dell’anno. Lasciare e staccarsi da tutto ciò che si potrebbe esprimere con il simbolo Marta”. È importante che il riposo non sia un andare nel vuoto, che esso non sia soltanto un vuoto (in tale caso non sarebbe un vero riposo). È importante che il riposo sia riempito con l’incontro. Penso – sì, certamente – all’incontro con la natura, con le montagne, con il mare e con le foreste. L’uomo, a contatto sapiente con la natura, ricupera la quiete e si calma interiormente. Ma ciò non è ancora tutto quanto si possa dire del riposo. Bisogna che esso sia riempito con un contenuto nuovo, con quel contenuto che si esprime nel simbolo Maria”.
Maria” significa l’incontro con Cristo, l’incontro con Dio. Significa aprire la vista interiore dell’anima alla sua presenza nel mondo, aprire l’udito interiore alla parola della sua verità. Auguro a tutti un simile riposo.

In modo particolare. auguro tale riposo ai giovani: ai ragazzi e alle ragazze, che, liberi dagli obblighi scolastici o universitari, in questo tempo viaggiano, conoscono il mondo e gli uomini, partecipano alle colonie o ai campeggi estivi. Vivono in modo particolarmente intenso la bellezza del mondo e la loro propria giovinezza. So che tra loro non mancano di quelli per i quali il tempo del riposo estivo è, contemporaneamente, il tempo di un particolare incontro con il Signore, nella comunità fraterna dei coetanei. Preziose, quanto preziose sono proprio tali vacanze! Le conosco dalla mia personale esperienza, perché nella mia vita ho trascorso, come pastore, molte vacanze con i giovani. A tutti i giovani auguro quindi, con tutto il cuore, che questo tempo di riposo diventi per loro il tempo dell’incontro, di un incontro, nel quale si trovi la parte migliore”, la parte di cui ormai nessuno può privarci.

Giovanni Paolo II

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Vacanze

Posté par atempodiblog le 12 juillet 2014

Vacanze
di San Josemaría Escrivá de Balaguer
Tratto da: josemariaescriva.info

Vacanze dans Fede, morale e teologia 2psnk28

Mi sembra, per questo, opportuno ricordare la convenienza del riposo. Se arrivasse la malattia la riceveremmo con gioia, come venuta dalla mano di Dio; ma non possiamo provocarla con la nostra imprudenza: siamo esseri umani, e abbiamo bisogno di recuperare le forze del nostro corpo.
Lettera, 15 – X – 1948, n. 14

Riposate, figli, nella filiazione divina. Dio è un Padre pieno di tenerezza, di infinito amore. Chiamatelo Padre molte volte e ditegli – a tu per tu – che lo amate, che lo amate moltissimo; che sentite l’orgoglio e la forza di essere suoi figli.
A tu per tu con Dio, n. 221

Nell’Opera tutto è mezzo di santità. Il lavoro e il riposo; la vita di pietà e i rapporti affettuosi con tutti; la gioia e il dolore. In una parola, c’è una possibilità di santificazione in ogni minuto della nostra vita: dobbiamo amare e compiere la volontà di Dio in tutto.
A tu per tu con Dio, n. 29

Urge ricristianizzare le feste e i costumi popolari. —Urge evitare che gli spettacoli pubblici si trovino in questa alternativa: o insulsi o pagani. Chiedi al Signore che vi sia chi s’impegni in questo lavoro urgente che possiamo chiamare “apostolato del divertimento”.
Cammino, 975
309106t dans San Josemaria Escriva' de Balaguer
Un “Amico” che non annoia
Quell’amico ci confidava sinceramente di non essersi mai annoiato, perché non si era mai trovato solo, senza il nostro Amico. — Cadeva la sera, in un fitto silenzio… Notasti molto viva la presenza di Dio… E, con questa realtà, che pace!

Solco, 857

E Gesù (…) ci viene incontro e ci dice: Chi ha sete, venga a me e beva. Ci offre il suo Cuore, perché sia il nostro riposo e la nostra fortezza. Quando ci decideremo ad accettare la sua chiamata, sperimenteremo che le sue parole sono vere: la nostra fame e la nostra sete aumenteranno fino a desiderare che Dio stabilisca nel nostro cuore il luogo del suo riposo, e che non allontani mai più da noi il suo calore e la sua luce.
E’ Gesù che passa, 170

Cristo, nostra pace, è anche Via. Se vogliamo la pace, dobbiamo seguire i suoi passi. La pace è la conseguenza della guerra, della lotta. Lotta ascetica, intima, che ogni cristiano è tenuto a sostenere contro tutto ciò che nella sua vita non viene da Dio: la superbia, la sensualità, l’egoismo, la superficialità, la meschinità del cuore. È inutile reclamare la serenità esteriore quando manca la tranquillità nella coscienza, nell’intimo dell’anima, perché dal cuore provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie.
E’ Gesù che passa, 73

Il Signore, dopo aver inviato i suoi discepoli a predicare, quando tornano li riunisce e li invita ad andare con Lui in un luogo solitario per riposare… Che cosa avrà loro domandato e raccontato Gesù! Ebbene… il Vangelo continua a essere attuale.
Solco, 470
10eesr4 dans Viaggi & Vacanze
In viaggio…
Mi hai scritto: si è unito al nostro gruppo un ragazzo, che andava al nord. Era minatore. Cantava molto bene, e si unì al nostro coro. Pregai per lui finché scese alla sua stazione. Nel congedarsi, commentò: «Quanto mi piacerebbe prolungare il viaggio con voi!». — Mi sono subito ricordato del «mane nobiscum!» — resta con noi, Signore!, e Gli chiesi di nuovo, con fede, che gli altri «lo vedano» in ciascuno di noi, compagni del «loro cammino».

Solco, 227

Il saluto vibrante di un fratello ti ha ricordato, in quell’andirivieni di partenze, che i cammini onesti del mondo sono aperti per Cristo: manca soltanto che ci lanciamo a percorrerli, con spirito di conquista. Sì, Dio ha creato il mondo per i suoi figli, perché lo abitino e lo santifichino: che cosa aspetti?
Solco, 858

La grazia del Signore non può mancare: Dio sarà sempre accanto a noi e manderà i suoi angeli perché siano i nostri compagni di viaggio, i nostri prudenti consiglieri lungo la via, i collaboratori in tutte le nostre imprese. In manibus suis portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum; gli angeli ti terranno per mano, affinché il tuo piede non inciampi nei sassi.
E’ Gesù che passa, 63
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Senza pause
La santità, l’autentico desiderio di raggiungerla, non si concede soste né vacanze.

Solco, 129

Sembra che tutti i peccati della tua vita si siano alzati in piedi. —Non perderti d’animo. —Al contrario, invoca tua Madre Santa Maria, con fede e abbandono di bimbo. Ella porterà la serenità alla tua anima.
Cammino, 498

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Superbia e umiltà

Posté par atempodiblog le 11 juillet 2014

IL GRANDE PECCATO

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Verrò adesso a quella parte della morale cristiana dove essa differisce più nettamente da tutte le altre. C’è un vizio dal quale nessuno al mondo è esente; un vizio che ognuno aborrisce quando lo vede in altri, e di cui ben pochi, tranne i cristiani, immaginano di essere a propria volta colpevoli. Ho sentito gente ammettere di avere un cattivo carattere, o di non sapersi contenere riguardo alle donne o al bere, e perfino di essere vile. Ma non ho mai sentito nessuno, che non fosse un cristiano, accusarsi di questo vizio. Al tempo stesso, mi è capitato molto raramente di conoscere qualcuno, non cristiano, che riscontrandolo in altri lo considerasse con clemenza. Non c’è difetto che renda un uomo più malvisto, e nessuno di cui siamo meno consapevoli in noi stessi. E più ne siamo intrisi, più lo detestiamo nel prossimo.

Il vizio di cui parlo è la superbia, l’orgoglio presuntuoso; e la virtù opposta, nella morale cristiana, si chiama umiltà. Forse ricorderete che parlando della morale sessuale vi ho avvertito che il punto centrale della morale cristiana non era quello. Ebbene, ora siamo arrivati al punto centrale. Secondo l’insegnamento cristiano, il vizio essenziale, il male supremo, è la superbia. Lussuria, ira, avarizia, ubriachezza, ecc., sono inezie, in confronto: fu per superbia che il diavolo diventò il diavolo; la superbia è la fonte di tutti gli altri vizi, è la condizione di spirito assolutamente contraria a Dio.

Vi sembra un’esagerazione? Pensateci bene. Ho osservato, un momento fa, che più si è superbi, più si prova avversione per la superbia altrui. Se volete misurare la vostra superbia, il modo più facile è domandare a voi stessi: “Mi dispiace, e quanto, che gli altri mi snobbino, non mi prestino attenzione, mi diano sulla voce, mi trattino con degnazione, si mettano in mostra?”.

Il punto è che la superbia di ciascuno è in competizione con quella di tutti. Se mi secca tanto che l’anima della festa sia un altro, è perché volevo esserlo io. Due galli in un pollaio non vanno d’accordo. Ciò che occorre avere ben chiaro è appunto che la superbia è essenzialmente  competitiva – è competitiva per sua natura – mentre gli altri vizi lo sono, per così dire, solo accidentalmente. La superbia non trae soddisfazione dall’avere qualcosa, ma solo dall’averne più del prossimo. Si dice che uno si insuperbisce di essere ricco, intelligente o di bell’aspetto, ma non è così. Si insuperbisce di essere più ricco, più intelligente o più bello degli altri. Se tutti diventassero egualmente ricchi, belli e intelligenti, non ci sarebbe niente di cui insuperbirsi. E’ il confronto che rende superbi: il piacere di essere superiori agli altri. Se svanisce l’elemento competizione, svanisce anche la superbia. Ecco perché dico che la superbia, a differenza degli altri vizi, è essenzialmente competitiva. L’impulso sessuale può spingere alla competizione due uomini che desiderano la stessa donna; ma è un caso, i due potevano benissimo desiderare donne diverse. Il superbo, invece, prende la tua ragazza non perché la desidera, ma solo per provare a se stesso che vale più di te. L’avidità può creare competizione se un dato bene non è sufficiente per tutti; ma il superbo, anche se ha più quanto possa mai occorrergli, cerca di avere ancora di più solo per affermare il suo potere.
Quasi tutti i mali del mondo che vengono imputati all’avidità o all’egoismo derivano in realtà in misura molto maggiore dalla superbia.

Prendiamo il denaro. L’avidità induce certamente un uomo a desiderare di possederne, per avere una casa più bella, vacanze più piacevoli, cose migliori da mangiare e da bere. Ma solo fino a un certo punto. Che cosa spinge un individuo che ha diecimila sterline all’anno a volerne ventimila?
Non la brama di un piacere maggiore: diecimila sterline bastano per tutti i lussi di cui si può effettivamente godere. A spingerlo è la superbia – il desiderio di essere più ricco di qualche altro ricco, e (ancor più) il desiderio di potere. Perché ciò di cui soprattutto gode la superbia è il potere: niente fa sentire tanto superiori agli altri quanto la possibilità di manovrarli come soldatini di latta. Che cosa spinge una ragazza graziosa a seminare dovunque infelicità collezionando ammiratori? Certo non il suo istinto sessuale: ragazze simili sono molto spesso sessualmente frigide. E’ la superbia. Che cosa spinge un leader politico o tutta una nazione a pretendere sempre di più? Ancora la superbia. La superbia è competitiva per sua natura: per questo non si placa mai. Se sono superbo, finché al mondo ci sarà un uomo più potente, più ricco o più intelligente di me, vedrò in lui un rivale e un nemico.

I cristiani hanno ragione: la superbia è stata la causa principale dell’infelicità delle nazioni e delle famiglie da che mondo è mondo. Altri vizi possono a volte avvicinare le persone: tra gente ubriaca o dissoluta ci può essere cameratismo, giovialità, cordialità amichevole. Ma la superbia significa sempre inimicizia – è inimicizia. E non solo inimicizia tra uomo e uomo, ma inimicizia con Dio.
Di fronte a Dio, siamo di fronte a qualcosa che è, sotto ogni riguardo, incommensurabilmente superiore a noi. Chi non riconosce Dio come tale – e quindi non riconosce se stesso come un niente al Suo confronto -  non conosce affatto Dio. Finché sei superbo non puoi conoscere Dio. Un uomo superbo guarda tutto e tutti dall’alto in basso, e se guardi in basso non puoi vedere qualcosa che sta sopra di te.

Sorge qui un grave quesito. Come mai persone palesemente divorate dalla superbia e dall’orgoglio possono dire di credere in Dio e considerarsi religiosissime? Il fatto è, temo, che costoro adorano un Dio immaginario. Ammettono teoricamente di essere niente al cospetto di questo Dio fantomatico, ma in realtà sono convinte che Egli le approvi e le ritenga molto migliori della gente comune: pagano a Dio, cioè, un soldo di umiltà immaginaria, e ne ricavano mille di superbia verso i loro simili. A questa gente pensava Cristo, suppongo, annunciando che alcuni avrebbero predicato e scacciato i demoni in Suo nome, ma alla fine del mondo si sarebbero sentiti dire che Egli non li aveva mai conosciuti. E ognuno di noi può cadere in ogni momento in questa trappola mortale. Fortunatamente c’è una cosa che può metterci sull’avviso. Quando ci accorgiamo che la nostra vita religiosa ci dà la sensazione di essere buoni – di essere, soprattutto, migliori di qualcun altro – possiamo essere sicuri, penso, che in noi agisce non Dio, ma il diavolo. La vera prova che si è in presenza di Dio è dimenticarsi completamente di se stessi, o vedere se stessi come un oggetto piccolo e vile.
Meglio è dimenticarsi completamente di sé.

E’ triste che il peggiore dei vizi riesca a insinuarsi di frodo nel centro stesso della nostra vita religiosa. Ma possiamo capire perché. Gli altri vizi, meno maligni, provengono dall’azione del diavolo in noi tramite la nostra natura animale. Questo vizio, invece, non ha per tramite la nostra natura animale. Viene direttamente dall’Inferno. E’ puramente spirituale, e quindi molto più subdolo e mortifero. Per la stessa ragione, spesso si fa ricorso alla superbia per sconfiggere gli altri vizi. Gli insegnanti, per esempio, fanno spesso appello alla superbia, all’orgoglio, o, come dicono, all’amor proprio di un allievo per indurlo a comportarsi bene; e non di rado accade di vincere la propria pusillanimità, lussuria o iracondia dicendo a se stessi che queste sono cose indegne di noi – ossia, per superbia. Il diavolo se la ride. E’ contentissimo che tu diventi casto, coraggioso e capace di dominarti, purché egli possa istituire dentro di te la dittatura della superbia; così come sarebbe felicissimo che tu guarissi dai geloni, se in cambio gli fosse consentito di farti venire il cancro. La superbia, infatti, è un cancro spirituale: divora ogni possibilità di amore, di contentezza, di semplice buonsenso.

Prima di lasciare questo argomento devo mettere in guardia da alcuni possibili malintesi:

1.     Compiacersi delle lodi non è superbia. Il bambino premiato con una carezza perché ha fatto bene i compiti, la donna di cui l’innamorato loda la bellezza, l’anima salvata a cui Cristo dice “ben fatto”, se ne rallegrano, ed è giusto. Perché qui non c’è compiacimento di ciò che si è, ma del fatto di essere piaciuti a qualcuno a cui si voleva (e giustamente) piacere. I guai cominciano quando si passa dal pensare: “che bello, gli sono piaciuto” al dire a se stessi: “Che persona straordinaria devo essere, per aver fatto questo”. Più ti rallegri di te stesso e meno della lode, peggiore diventi. Quando ti rallegri soltanto di te stesso e non ti curi affatto delle lodi, hai toccato il fondo. Per questo la vanità, sebbene sia la forma di superbia che più si manifesta alla superficie, è in realtà la forma meno cattiva e più perdonabile. Il vanitoso desidera esageratamente la lode, l’applauso, l’ammirazione, e ne va sempre in cerca. E’ un difetto, ma un difetto puerile e perfino (in certo modo) un segno di umiltà. Dimostra che l’ammirazione che hai per te stesso non basta a soddisfarti pienamente. Apprezzi abbastanza gli altri per desiderare che ti considerino; sei ancora umano.

La vera e nera superbia diabolica compare quando disprezzi talmente gli altri da non curarti di cosa pensino di te. Va benissimo, naturalmente, e spesso è nostro dovere, non curarci di quel che la gente pensa di noi, se lo facciamo per la ragione giusta, ossia perché ci importa infinitamente di più quello che pensa Dio. Ma la noncuranza del superbo ha un’altra ragione. “Perché dovrei dare importanza al plauso della marmaglia”, egli dice “come se le sue opinioni avessero qualche valore? E anche se l’avessero, sono io tipo da arrossire di piacere per un complimento, come una ragazzetta al primo ballo? No, io sono una personalità ben formata e adulta. Tutto ciò che ho fatto l’ho fatto per soddisfare i miei ideali – o la mia coscienza artistica – o le tradizioni della mia famiglia – o perché, insomma, io sono chi sono. Se alla gente piace, buon per loro. A me di loro non importa nulla”. In questo modo la vera e assoluta superbia può essere un freno alla vanità; infatti, come ho detto un momento fa, al diavolo piace “guarire” una magagna piccola infliggendocene una grossa. Cerchiamo di non essere vanitosi: ma non ricorriamo mai alla superbia per guarire dalla vanità.

2.     Il tale, si suole dire, è orgoglioso di suo figlio, o di suo padre, della sua scuola, del suo reggimento, ne “va superbo”; e ci si può chiedere se in tal senso l’orgoglio sia un peccato. Penso dipenda da che cosa si intende esattamente con quell’espressione. Molto spesso, in frasi simili, essa significa “nutrire una fervida ammirazione” per qualcosa o qualcuno; e questa ammirazione, naturalmente, è ben lontana dall’essere un peccato. Ma si potrebbe intendere che la persona in questione si dà delle arie a motivo del padre illustre, o perché appartiene a un reggimento famoso. Questo sarebbe chiaramente un difetto; ma sempre preferibile all’andar superbi semplicemente di sé. Amare e ammirare qualcosa al di fuori di noi vuol dire allontanarsi di un passo dall’estrema rovina spirituale – anche se saremo sempre in difetto finché ameremo e ammireremo qualcosa più di quanto amiamo e ammiriamo Dio.

3.     Non dobbiamo pensare che Dio condanni la superbia perché se ne sente offeso, o che Egli esiga l’umiltà come tributo alla Sua dignità: quasi che Dio stesso fosse superbo. Della propria dignità Dio non si preoccupa affatto. Il punto è che Egli vuole che tu Lo conosca: vuole darti se stesso. E tu e Lui siete due cose di natura tale, che se tu entri comunque in contatto con Lui sarai, di fatto, umile: felicemente umile, con un senso di infinito sollievo per esserti alfine sbarazzato delle assurde sciocchezze sulla tua dignità che per tutta la vita ti hanno reso inquieto e infelice. Dio vuole renderci umili per rendere possibile questo momento: per farci spogliare delle stupide e brutte mascherature di cui ci siamo avvolti e in cui ci pavoneggiamo da quei piccoli idioti che siamo. Per parte mia, vorrei essere andato un poco più avanti sulla via dell’umiltà: allora, probabilmente potrei dirvi meglio quanto sollievo, quanta consolazione dia togliersi la maschera, liberarsi del proprio falso io, con tutti i suoi “Guardatemi!” e “Come sono bravo!” e tutte le sue pose e atteggiamenti. Avvicinarsi a questa liberazione, anche per un momento, è come bere un bicchiere d’acqua fresca nel deserto.

4.     Non immaginatevi che un uomo davvero umile, se vi capiterà di incontrarlo, corrisponda a ciò che oggi si suole designare con quell’aggettivo: una persona untuosa e viscida, che dichiara a ogni piè sospinto di non essere nessuno. Probabilmente vi troverete di fronte un uomo vivace e intelligente, che si interessa davvero a ciò che voi gli dite. Se vi riesce antipatico, sarà perché vi sentite un po’ invidiosi di uno che sembra godersi così facilmente la vita. Costui non pensa all’umiltà: non pensa affatto a se stesso. A chi desidera raggiungere l’umiltà, credo di poter dire qual è il primo passo. Il primo passo è rendersi conto della propria superbia e presunzione. E non è un passo da poco; almeno, prima di farlo non si approda a nulla. Se pensi di non essere presuntuoso, vuol dire che lo sei moltissimo.

di Clive Staples Lewis – Mere Christianity
Tratto da: Don Bosco Land

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