La morte gloriosa di Bernadette

Posté par atempodiblog le 16 avril 2014

“Devo morire a me stessa, sopportare in pace il dolore. Che io lavori, soffra e ami senza altri testimoni che il Suo adorabile Cuore. Io non vivrò un istante che non lo passi amando. Chi ama fa tutto senza pena”.

Santa Bernadette Soubirous

La morte gloriosa di Bernadette dans Fede, morale e teologia 34i1m4y

Noi abbiamo orrore della sofferenza, sia della nostra che di quella dei nostri cari. La nostra preoccupazione è che si muoia senza soffrire. Non ci turba se una persona muore come gli animali che non comprendono, senza consapevolezza, senza luce e senza speranza.  Noi siamo solo preoccupati che non soffra. Stoltezza degli uomini, che non comprendono la lezione della Croce di Cristo! La Madonna ha voluto richiamarci, attraverso la morte atroce di Bernadette, all’inestimabile valore spirituale che hanno davanti a Dio l’agonia e la morte di una persona crocifissa.

[…] La morte, come la vita, è governata da Dio. Anche intorno al letto di Bernadette si sono alternati i medici e le infermiere, per dare quel sollievo che la medicina può e deve dare. Non dimentichiamo però che Dio conosce il peso che ogni anima può portare e quanto ad ognuna di loro può chiedere. Lasciamo che la sua misericordia macini i chicchi di grano della nostra vita, per trasformarli in farina immacolata. Non neghiamo all’amore esigente di Dio neppure una goccia del nostro dolore, del quale egli ha bisogno per lavare i peccati del mondo.

In quegli istanti il nemico è sempre presente. […] Non possiamo lasciare gli agonizzanti soli, nel supremo combattimento con lo spirito del male. Dobbiamo difenderli con la nostra fede, con la nostra preghiera e con la nostra speranza. Il maligno insinua a Bernadette di non aver corrisposto abbastanza alle grazie straordinarie che ha ricevuto. Attraverso lo scoraggiamento, vuole trascinarla nei gorghi soffocanti del dubbio, dell’angoscia e  della disperazione. Chi potrà mai misurare la crudele astuzia del maledetto e la sua sottigliezza nell’ingannare le anime?

Come contrastarlo? Come respingerlo e ritrovare l’occhio limpido che contempla gli orizzonti infiniti della divina misericordia? “Santa Maria, Madre di Dio, pregate per me, povera peccatrice”. Questa invocazione intensa, ripetuta più volte pochi istanti prima di morire, costituisce uno dei momenti più alti del cammino spirituale di Bernadette. Lei, uno dei tesori di grazia più preziosi della Chiesa, sa e professa di essere solo una povera peccatrice, che non può confidar nei suoi meriti, ma solo nella bontà infinita di Dio. Così sarà anche per ognuno di noi. Nel momento della morte non potremo presentare carte di credito, ma piuttosto dovremo alzare bandiera bianca e invocare aiuto. L’ha fatto colei che ha visto l’Immacolata, non lo faremo noi? E’ quest’atto di estrema fiducia che permetterà alla santa Vergine di portarci con sé in cielo.

Tratto da: Sui passi di Bernadette — Padre Livio Fanzaga

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Il Mistero della Croce

Posté par atempodiblog le 16 avril 2014

Il Mistero della Croce
di Padre Livio Fanzaga – La nuova Bussola Quotidiana

Il Mistero della Croce dans Fede, morale e teologia TRJA2820

All’inizio  della Settimana Santa ciò che si presenta davanti a noi in un’ottica cristiana è il mistero della Pasqua, che è il mistero della nostra redenzione e della nostra salvezza. Questo è l’annuncio fondamentale del cristianesimo: siamo stati salvati. Salvati dalla condizione esistenziale di persone che nascono nel peccato, sotto l’impero delle tenebre e quindi nascono lontani da Dio e con la condanna a morte. Perché non c’è dubbio che  se la morte da un certo punto di vista è un fatto naturale, dal punto di vista teologico, dal punto di vista della fede è lo stipendio del peccato, come dice san Paolo. Per invidia del diavolo è entrata la morte nel mondo, dice il libro della Sapienza.

Questa condizione esistenziale nella quale tutti gli uomini nascono, è anche la condizione dalla quale nascono tutte le religioni, perché – come diceva René Girard – tutte le religioni sono nate per dare una risposta al problema della morte, del male e della morte. Per male si intende il male morale, il peccato, la cattiveria e tutto ciò che da esso deriva, a livello personale e sociale. Le religioni sono il tentativo dell’uomo di salvarsi da questa situazione. Ma tutti i tentativi umani, che si esprimono nelle varie religioni, nelle varie filosofie, perfino in varie ideologie, non approdano a nulla. Questo è il punto di partenza su cui possiamo convergere tutti: l’uomo nasce non solo malato, ma condannato: da solo non riesce a salvarsi né dal peccato né dalla morte, né dalla disperazione né dall’angoscia.

Il cristianesimo si distingue da tutte le altre religioni perché l’iniziativa di salvare l’uomo viene da Dio, viene dall’alto. Come dice Benedetto XVI nel suo libro “Gesù di Nazaret” Dio si è assunto la natura umana ma eccetto il peccato. Assunta nella sua totalità, nel corpo e nell’anima, Gesù è vero corpo e vera anima, però senza il peccato.

Lui è quell’agnello immacolato che ha assunto su di sé tutti i peccati del mondo e li ha espiati: così è venuta la nostra salvezza. Cioè noi siamo stati liberati dal peccato, dalla morte, dalla lontananza da Dio, abbiamo riacquistato la divina amicizia e la vita eterna, prima che nel dono dell’immortalità nella pienezza della gioia. Abbiamo ottenuto questo come dono che Dio ci ha dato in quanto Gesù Cristo ha espiato il peccato che è la causa di tutti i mali, compresa la morte fisica. Anche gli apostoli ebbero grande difficoltà a capire perché Gesù aveva dovuto patire. Quando Gesù parlava della sua Passione, della sua morte, sullo sfondo della sua resurrezione, gli apostoli inorridivano, non volevano capire la necessità della sofferenza e della morte in Croce per la redenzione, tanto è vero che quando Gesù venne poi effettivamente catturato, fu veramente in mano ai pagani, vacillarono nella fede. E sotto la Croce non c’erano. C’erano Maria e san Giovanni, gli altri erano pecore sbandate, come se avessero perso il loro pastore, perché non avevano capito il significato della Croce.

Poi Gesù Cristo stesso, il Risorto, e poi il dono dello Spirito santo gli hanno fatto capire: San Pietro nella sua predicazione nel primo giorno di Pentecoste disse parlando di Gesù Cristo morto in croce:  “Patì per i nostri peccati”. Cioè la Croce è il momento scelto per distruggere i peccati.
Come è avvenuta questa distruzione dei peccati? Perché proprio in croce Cristo ha distrutto i peccati di tutto il mondo, di tutti i tempi? Per cui spirando al termine della sua passione, dice “Tutto è compiuto” e invoca il perdono del padre, dicendo “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno. Perché questo perdono che Gesù ci ha ottenuto? Coma ha fatto a ottenerlo? Lo ha ottenuto perché Gesù ha espiato i peccati del mondo nel suo cuore.

Pensiamo a cos’è il peccato: è orgoglio, disobbedienza, superbia, disamore, opposizione a Dio, odio per Dio e per il prossimo, c’è tutta la gamma delle passioni e del male, del peccato. Gesù Cristo nella sua Passione, nel suo cuore ha espresso una tale obbedienza, una tale sottomissione al padre, un tale amore, una tale generosità, una tale pazienza, un tale coraggio, una tale dedizione, una tale pietà, una tale compassione, una tale misericordia, che questo amore che ardeva nel suo cuore ha bruciato tutto il disamore e disobbedienza che c’è in tutti i peccati di tutti gli uomini. Questo cuore di Cristo crocefisso è la fonte di grazia da cui nasce il perdono, da cui nasce la remissione dei peccati, che poi si concretizza per quanto riguarda noi cristiani nei sacramenti del battesimo e della penitenza dove i peccati vengono rimessi perché un altro al nostro posto per nostro amore ha espiato.

Chi andasse in un tribunale e confessare un delitto: sarebbe condannato anche fino a trent’anni di reclusione per aver commesso il delitto e deve espiare quella pena. Se uno va in un confessionale, confessa un delitto, si pente sinceramente e di tutto cuore chiede perdono a Dio, gli viene data l’assoluzione; sì, farà una penitenza ma avrà l’assoluzione. Perché l’assoluzione? Perché Gesù Cristo ha espiato per te, al tuo posto, per tuo amore. Quindi dobbiamo sempre guardare la Croce con questo sguardo di fede, e cioè come l’agnello che si è addossato tutti i peccati del mondo con la sua mitezza, umiltà, obbedienza: li ha distrutti, bruciati. Per cui la Croce è la fonte inesauribile di ogni grazia innanzitutto per il perdono dei peccati, la grazia per la vita eterna, la grazia della figliolanza, quella grazia che poi si effonde in tutti i sacramenti. E questo è l’aspetto teologico della Croce che ovviamente va vista sempre alla luce della Resurrezione, perché il mistero pasquale è il passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla grazia, quindi la croce va sempre vista nella gloria della Resurrezione, che è anche la nostra meta finale.

Questo è lo sguardo di fede per quanto riguarda il nostro modo di guardare la Croce, per cui dobbiamo chiedere al Signore anche la grazia dello Spirito Santo per avere questo sguardo di fede e accostarci anche al sacramento della confessione pasquale e della comunione vivendo in noi il mistero pasquale, il mistero di morte e di vita che ha vissuto Gesù Cristo.

C’è anche uno sguardo umano, molto denso di significato per quanto riguarda il Crocefisso, uno sguardo non dico laico ma di umana compassione: lo sguardo della ragione, del cuore anche se non illuminati dalla fede. Per cui possiamo dire che la croce è un grandissimo simbolo di civiltà, anzi è un simbolo di civiltà senza il quale l’uomo non avrebbe futuro.

Per quale motivo? Perché sulla Croce c’è l’uomo innocente, sofferente, quindi che sperimenta la condizione umana di sofferenza. L’uomo nasce crocifisso, vive crocifisso e muore. E questo uomo sofferente che soffre perché colpito dalla cattiveria, dalla malvagità dei suoi simili ma che tuttavia invece di opporre al male il male, alla violenza la violenza, invece dell’occhio per occhio dente per dente, ha spezzato la spirale della violenza, ha spezzato la logica della violenza che non solo distrugge le vite personali, i rapporti familiari, i rapporti sociali, ma che rischiano di portare il mondo alla distruzione. E invece di vendicarsi perdona.

Questo del perdono è storicamente il cuore del cristianesimo. Noi credenti lo vediamo come il perdono di Dio per i peccati degli uomini a cui vengono rimessi, per amore misericordioso; ma anche l’occhio non illuminato dalla fede vede il grandissimo valore personale e sociale e anche storico, di un passaggio fondamentale della storia: non si risponde al male con il male, non si risponde alla spada con la spada, bisogna saper perdonare i nemici. Non è solo un dettato di fede, un comandamento di fede, è un imperativo morale senza il quale il mondo non avrebbe più futuro. Perché oggi o è così – si risponde al male con il bene -,  o si risponde con l’amore oppure il mondo rischia l’autodistruzione. Vorrei sottolineare questo aspetto dell’altissimo valore che la Croce ha  sotto il profilo della storia della civiltà, come sottolinea Renè Girard: sotto un profilo puramente laico la Croce ha un valore altissimo perché Gesù Cristo è divenuto quel capro espiatorio di cui tutti gli uomini hanno bisogno nella loro vita, la storia umana ha sempre capri espiatori da distruggere. Cristo è capro espiatorio che ha preso il posto di tutti i capri espiatori. per cui gli uomini d’ora in poi dovranno imparare a perdonarsi.

La croce quindi come svolta della civiltà umana per ottenere una civiltà pacifica, fraterna, e sotto un altro ruolo la Croce come riconciliazione degli uomini con Dio, il riscatto della vita umana sottoposta al male e alla morte, la prospettiva della vita eterna e della resurrezione.

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L’umiltà: la radice della discrezione e della dolcezza

Posté par atempodiblog le 16 avril 2014

L’umiltà: la radice della discrezione e della dolcezza dans Citazioni, frasi e pensieri Beato-Giustino-Maria-della-Santissima-Trinit-Russolillo-Pianura

“Concedimi, o Signore mio Gesù Cristo, tutto quello che a te è più gradito e che più ti ha glorificato di corrispondenza al tuo amore, in quello che ha praticato e insegnato il tuo gran servo Francesco di Sales e tutta la sua scuola: la perfezione cristiana nella carità di Dio sino alla divina unione, nella carità del prossimo sino all’immolazione, resa accessibile e attraente per tutti, in ogni stato e condizione, con la discrezione e la dolcezza, attingendo dal tuo Vangelo, dal tuo Cuore, dal tuo spirito questa sapienza, senza alterazioni e senza esagerazioni, con perfezione della fede, della fiducia, della fedeltà al tuo amore”.

Beato Giustino Maria Russolillo – Devozionale

Divisore dans San Francesco di Sales

“L’umiltà ci fa crescere in perfezione davanti a Dio e la dolcezza davanti al prossimo”.

Tratto da: Filotea di San Francesco di Sales

Divisore dans San Francesco di Sales

“La discrezione è una virtù senza la quale, stando a quanto diceva Sant’Antonio, nessuna virtù è virtù, neppure la devozione, supposto che vi possa essere una vera devozione senza una vera discrezione”.

“La dolcezza e l’umiltà sono le basi della santità”.

“Vivete in spirito di dolcezza e di umiltà davanti a Dio e in mezzo al prossimo”.

“Vi raccomando in modo speciale lo spirito di dolcezza che è quello che rapisce i cuori e attira le anime”.

Dalle lettere di amicizia spirituale di San Francesco di Sales

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Il Papa: il seminario non è un rifugio, guai ai pastori che pascolano se stessi e non il gregge

Posté par atempodiblog le 14 avril 2014

Il Papa: il seminario non è un rifugio, guai ai pastori che pascolano se stessi e non il gregge
Non state diventando “funzionari di un’azienda”, ma “pastori ad immagine di Gesù”. E’ l’esortazione che Papa Francesco ha rivolto ai seminaristi del Pontificio Collegio Leoniano di Anagni, fondato nel 1897 da Leone XIII e che forma i futuri sacerdoti della regione Lazio. Dal Papa, in un intervento più volte a braccio, anche un severo richiamo a quei pastori che “pascolano se stessi e non il gregge”. I seminaristi hanno partecipato all’udienza dopo un pellegrinaggio a piedi, definito dal Papa un “simbolo molto bello del cammino” da percorrere nell’amore di Cristo.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Il Papa: il seminario non è un rifugio, guai ai pastori che pascolano se stessi e non il gregge dans Discernimento vocazionale 111jkp1

Trasformare i “progetti vocazionali in feconda realtà apostolica”. Papa Francesco ha sintetizzato così il compito del Leoniano, come di tutti i seminari ed ha messo l’accento sull’“atmosfera evangelica”, che “consente a quanti vi si immergono di assimilare giorno per giorno i sentimenti di Gesù Cristo, il suo amore per il Padre e per la Chiesa, la sua dedizione senza riserve al Popolo di Dio”. Ed ha indicato nella “preghiera, studio, fraternità e vita apostolica” i “quattro pilastri della formazione”:

“Voi, cari seminaristi, non vi state preparando a fare un mestiere, a diventare funzionari di un’azienda o di un organismo burocratico. Abbiamo tanti, tanti preti a metà cammino … Un dolore, che non sono riusciti ad arrivare al cammino completo; hanno qualcosa dei funzionari, qualche dimensione burocratica e questo non fa bene alla Chiesa. Mi raccomando, state attenti a non cadere in questo! Voi state diventando pastori ad immagine di Gesù Buon Pastore, per essere come Lui e in persona di Lui in mezzo al suo gregge, per pascere le sue pecore”.

“Di fronte a questa vocazione – ha detto – noi possiamo rispondere come la Vergine Maria all’angelo: ‘Come è possibile questo?’”. Diventare “buoni pastori” ad immagine di Gesù, ha osservato Francesco, “è una cosa troppo grande, e noi siamo tanto piccoli”, ma in realtà “non è opera nostra”, “è opera dello Spirito Santo, con la nostra collaborazione”:

“Si tratta di offrire umilmente sé stessi, come creta da plasmare, perché il vasaio, che è Dio, la lavori con l’acqua e il fuoco, con la Parola e lo Spirito. Si tratta di entrare in quello che dice san Paolo: ‘Non vivo più io, ma Cristo vive in me’ (Gal 2,20). Solo così si può essere diaconi e presbiteri nella Chiesa, solo così si può pascere il popolo di Dio e guidarlo non sulle nostre vie, ma sulla via di Gesù, anzi, sulla Via che è Gesù”.

E’ vero, ha detto il Papa, “che all’inizio, non sempre c’è una totale rettitudine di intenzioni”, aggiungendo che “è difficile che ci sia”:

“Tutti noi sempre abbiamo avuto queste piccole cose che non erano di rettitudine di intenzione, ma questo col tempo si risolve con la conversione di ogni giorno. Ma pensiamo agli apostoli! Pensate a Giacomo e Giovanni, che uno voleva diventare il primo ministro e l’altro il ministro dell’economia, perché era più importante. Gli apostoli… pensavano un’altra cosa e il Signore con tanta pazienza… ha fatto la correzione dell’intenzione e alla fine era tanta la loro rettitudine dell’intenzione che hanno dato la vita nella predicazione e nel martirio”.

Il Papa ha sottolineato così l’importanza di “meditare ogni giorno il Vangelo, per trasmetterlo con la vita e la predicazione E ancora, “sperimentare la misericordia di Dio nel sacramento della Riconciliazione, e questo non lasciarlo mai”. “Confessarsi sempre!”, ha esortato, e “così diventerete ministri generosi e misericordiosi perché sentirete la misericordia di Dio su di voi per diventare ministri generosi e misericordiosi”. Essere buoni pastori, ha detto, “significa cibarsi con fede e con amore dell’Eucaristia, per nutrire di essa il popolo cristiano”, “significa essere uomini di preghiera, per diventare voce di Cristo che loda il Padre e intercede continuamente per i fratelli”. Se voi “non siete disposti a seguire questa strada, con questi atteggiamenti e queste esperienze – ha ammonito il Papa – è meglio che abbiate il coraggio di cercare un’altra strada”:

“Ci sono molti modi, nella Chiesa, di dare testimonianza cristiana e tante strade che portano alla santità anche. Nella sequela ministeriale di Gesù non c’è posto per la mediocrità, quella mediocrità che conduce sempre ad usare il santo popolo di Dio a proprio vantaggio. Guai ai cattivi Pastori che pascolano se stessi e non il gregge! – esclamavano i Profeti (cfr Ez 34,1-6), con quanta forza”.

Agostino, ha detto il Papa, prende questa frase profetica nel suo De Pastoribus. “Guai ai cattivi pastori – ha ammonito il Papa – perché il seminario, diciamo la verità, non è un rifugio per tante limitazioni che possiamo avere, un rifugio di mancanze psicologiche o un rifugio perché non ho il coraggio di andare avanti nella vita e cerco lì un posto che mi difenda”:

“No, non è quello. Se il vostro seminario fosse quello, diventerebbe un’ipoteca per la Chiesa! No, il seminario è proprio per andare avanti, avanti in questa strada e quando sentiamo i profeti dire ‘guai!’ che questo ‘guai!’ vi faccia riflettere seriamente sul vostro futuro. Pio XI una volta aveva detto che era meglio perdere una vocazione che rischiare con un candidato non sicuro. Era alpinista, conosceva queste cose”.

Il Papa ha concluso il suo discorso affidando i seminaristi alla Vergine Maria. “I mistici russi – ha osservato – dicevano che nel momento delle turbolenze spirituali bisogna rifugiarsi sotto il manto della Santa Madre di Dio”. Uscire dunque, ma “coperti con il manto” di Maria.

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Il teologo non vede e non tocca: Drewermann e la storicità della risurrezione (1992)

Posté par atempodiblog le 14 avril 2014

Il teologo non vede e non tocca
Drewermann e la storicità della risurrezione
Il caso Drewermann è solo la punta dell’iceberg. Così libri e giornali stanno andando all’attacco delle prove storiche della resurrezione.
di Antonio Socci - Il Sabato, 16.5.1992, n. 20, p. 50-53.
Fonte: Storia Libera

Il teologo non vede e non tocca: Drewermann e la storicità della risurrezione (1992) dans Antonio Socci 2qtfj1y

E’ il 1970. Paolo VI, dopo la grande testimonianza data alla Chiesa e al mondo con il ‘Credo del popolo di Dio’ del 30 giugno ’68, in parecchi drammatici discorsi parla dell’«ora inquieta della Chiesa», vede su di essa «nuvole, tempesta, buio», denuncia la penetrazione dentro le sue volte del «fumo di Satana». Proprio in questi mesi Paolo VI riesce a realizzare un suo grande desiderio per confermare il fondamento della fede: «Et resurrexit tertia die», un grande simposio internazionale sulla resurrezione di Gesù. Il titolo fu proprio «Resurrexit». Alla fine gli studiosi furono ricevuti dal Papa. «Ricordo che Paolo VI parlava in francese» dice il padre Ignace de la Potterie «e sottolineò i due capisaldi storici della testimonianza degli apostoli: la tomba vuota e le apparizioni di Gesù risorto. Il come e il quando della resurrezione è un mistero, ma resta il ‘fatto’ e qui Paolo VI scandì bene queste parole: “Il fatto empirico e sensibile delle apparizioni pasquali”. Ed aggiunse un monito che colpì molti di noi: “.
Era anche un grido di allarme… Poi accadde un piccolo incidente. Racconta padre De La Potterie: «Quando, nel 1974, uscirono gli Atti del simposio con l’allocuzione pontificia, pubblicati dalla Libreria editrice vaticana, quella frase -essendo stata pronunciata a braccio non c’era». Una metafora di ciò che doveva avvenire nella Chiesa. Nelle scorse settimane alcuni giornali hanno avanzato delle conclusioni: nella Chiesa si è tacitamente smesso di credere al fatto storico della resurrezione e alla prova costituita dalle apparizioni «empiriche e sensibili» di Gesù.

Nuovi Lutero?
A Pasqua il settimanale francese L’Express dedica la copertina a Eugen Drewermann. Il teologo tedesco, autore di veri best seller, che vuol trasformare Gesù Cristo in una favola/terapia psicanalitica, è al centro di un grande battage giornalistico in tutta Europa. All’Express rivela che i Vangeli non vanno presi alla lettera, il loro carattere infatti è «simbolico». La resurrezione di Gesù? «E’ la sua persona che è resuscitata, non il suo corpo». Infatti «la sua resurrezione ha avuto luogo nel corso della sua vita». In che consiste questa strana resurrezione? «Egli si è liberato da un “io” che trae i suoi strumenti dal dominio, dal potere, dal denaro, dalla pretesa di possedere la verità». Così, ridotto a simbolo, l’avvenimento di Gesù Cristo non ha più niente di «unico»: «Anche altre religioni, per esempio l’antica religione egiziana, conoscono l’idea della divinità che, in forma umana, muore e risorge». Ad un’agenzia cattolica (la vecchia Informations catholiques) dice: «Bisogna innanzitutto comprendere che la resurrezione non si applica in particolare alla persona di Cristo. Gesù stesso è cresciuto in questa credenza che ha almeno duemila anni più del cristianesimo».
Grazie alle edizioni du Cerf, dei padri domenicani, che hanno invitato il teologo tedesco a Parigi alla veglia di Pasqua, adesso i francesi potranno trovare in libreria tre delle maggiori opere di Drewermann.
Ma c’è di più. L’Express pubblica anche un sondaggio sulla fede dei cattolici francesi. Ne viene fuori che il 25% dei praticanti non crede alla resurrezione di Gesù ed il 48% non crede alla resurrezione dei morti che professa nel Credo. Per i teologi le cose vanno anche peggio. Drewermann in una precedente intervista a Der Spiegel aveva dichiarato: «Quello che dico, lo dice la maggior parte dei teologi che trattano la medesima questione. Solo che non lo fanno se non servendosi di proposizioni subordinate limitative che dovrebbero garantire da una eventuale persecuzione dall’alto».
Un’accusa sconcertante? E’ vero che gran parte dei teologi contemporanei -come Drewermann- non credono che i resoconti evangelici sulla resurrezione vadano presi alla lettera? E’ vero che non credono alla presenza «empirica e sensibile» di Gesù quando tornò fra i suoi dopo la resurrezione? Ed è vero che nei loro libri dicono con complicate perifrasi ciò che Drewermann scrive apertamente?
«Purtroppo penso di sì» risponde amaramente padre De la Potterie, «e mi sembra che la tendenza a negare la storicità dei Vangeli sia oggi molto diffusa». Sul fronte opposto sentiamo Rosino Gibellini, che ha appena pubblicato il volume La teologia del XX secolo (Queriniana): «Drewermann vuole sottolineare soprattutto il valore simbolico della resurrezione. E’ la sua idea. Ma è vero che la maggior parte dei teologi cattolici oggi afferma la ‘realtà’ della resurrezione, non la ‘storicità’». Sofismi o necessarie distinzioni, ricerca teologica o eresie travestite da astrusi giochi di parole?
Per la verità lo stesso presidente della Conferenza episcopale tedesca, il vescovo Karl Lehmann, uno dei vicepresidenti del Sinodo sull’Europa, ha usato questa distinzione in un’intervista rilasciata il 16 aprile all’agenzia Kna: «Quanto alla ‘fattualità storica’ della resurrezione di Gesù Cristo, la cosa è complessa. Comunque è un evento reale. La resurrezione di Gesù Cristo da parte di Dio Padre è, strettamente intesa, un avvenimento nella sfera di Dio, che nel suo nucleo non appartiene alla nostra storia. Ma essa si ripercuote in quanto evento nello spazio e nel tempo». Lehmann, che è stato l’assistente di Karl Rahner, parla difficile per i semplici cristiani. Non così il cardinale Camillo Ruini che, negli stessi giorni, nell’articolo di Pasqua, comparso sul Messaggero, usava la semplicità di san Pietro e san Paolo: «E’ anzitutto una questione di fatto: Gesù è o no risorto? Le testimonianze sono molte, ed alcune sono arrivate a noi in forma diretta e personale da parte dei protagonisti, come ad esempio, e incontestabilmente, quella dell’apostolo Paolo nelle sue lettere. Su questo piano dei dati di fatto nulla di altrettanto attendibile, o anche solo di paragonabile, può essere addotto per negare la resurrezione di Gesù».

Le prove
Perché la teologia è oggi così fumosa e astrusa sulla resurrezione? Ha forse ragione Drewermann? Come vengono trattati i due capisaldi storici della testimonianza degli apostoli indicati da Paolo VI: il sepolcro vuoto e le apparizioni del Risorto?
«Sì» ammette Gibellini «è vero che i racconti delle apparizioni di Gesù sono contestati. Ma è chiarissimo, è ormai assodato che le apparizioni sono racconti credenti della comunità cristiana che presuppongono la fede e non resoconti cronachistici. Perciò hanno tutto un tessuto simbolico».
La prova? «Non sono concordabili fra loro: i racconti delle tre donne, poi la Maddalena, poi Pietro, Giacomo, Gesù in Galilea o a Gerusalemme…» Ma è corretta questa liquidazione?
Erich Stier, uno storico tedesco dell’antichità, risponde così ai teologi: «Come esperto in storia antica devo dichiarare che le fonti sulla resurrezione di Gesù, con la loro notevole relativa contraddittorietà nel dettaglio, rappresentano per lo storico addirittura un criterio di straordinaria credibilità. Perché se fossero state costruite ad arte da una comunità o da un qualsiasi altro gruppo, formerebbero un blocco completo, chiaro e privo di lacune. Qualsiasi storico, infatti, è particolarmente scettico proprio quando un evento straordinario viene riferito mediante resoconti assolutamente privi di contraddizioni». Ma Gibellini, e con lui i teologi, è irremovibile: «Con il progresso degli studi biblici questi resoconti non si possono più accogliere come racconti cronachistici: presuppongono la fede». Ed è questo che si trova scritto nei testi di teologia?
Facciamo una rapida carrellata. Karl Rahner scrive: «Possiamo ammettere tranquillamente che i resoconti, che ci si presentano a prima vista come dettagli storici (historische) degli eventi della resurrezione e rispettivamente degli eventi delle apparizioni, non si lasciano totalmente armonizzare: quindi vanno interpretati piuttosto come rivestimenti plastici e drammatizzanti (di tipo secondario) dell’esperienza originaria “Gesù vive”, e non come descrizione di questa stessa nella sua autentica essenza originaria», insomma non vanno interpretati «come esperienza quasi grossolanamente sensibile». Gli apostoli vedrebbero la resurrezione soprattutto in riferimento al destino di Cristo, «questo destino (e non semplice mente una persona esistente cui in antecedenza è capitato questo e quello) viene spe rimentato come valido e salvato» (Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, pag. 357). Rahner è un simbolo. Quando fu sottoposta ai 1007 studenti della Gregoriana -la più prestigiosa università pontificia- la domanda «quale teologo antico o moderno ha avuto o ha maggiore influenza?» quasi la metà (501) rispose: Karl Rahner (a san Tommaso andarono 203 voti, a sant’Agostino ancora meno).
«Gli antichi, non noi, potevano accettare sic et simpliciter quei racconti» ci spiega ancora Gibellini. «E’ ciò che va sotto il nome di “innocenza narrativa”. Oggi sappiamo come sono nati quei testi, dove sono nati -nella comunità- e ci guardiamo bene dal prenderli alla lettera come resoconti storici: così salviamo quel nocciolo di realtà che pur vi è dietro. Chiamiamo la nostra “seconda innocenza narrativa”».
Ma quando Paolo VI parlava di presenza «empirica e sensibile» di Gesù risorto non prendeva alla lettera quei resoconti? Lo stesso Giovanni Paolo II, in un memorabile discorso nel mercoledì, il 25 gennaio 1989, affermava: «Il Risorto “in persona” apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!” Essi infatti “credevano di vedere un fantasma”. In quella occasione Gesù stesso dovette vincere i loro dubbi e il loro timore e convincerli che “era lui”: “Toccatemi e convincetevi: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”. E poiché loro “ancora non credevano ed erano stupefatti”, Gesù chiese loro di dargli qualcosa da mangiare e “lo mangiò davanti a loro”». Insomma «egli stabilisce con loro rapporti diretti, proprio mediante il tatto. Così nel caso di Tommaso… Li invita a constatare che il corpo risorto, col quale si presenta a loro, è lo stesso che è stato martoriato e crocifisso».
C’è dunque un insegnamento pubblico, ufficiale della Chiesa per il popolo ed un altro, una sapienza nascosta per i dotti, che disprezza la «rozza grossolanità» dei resoconti apostolici? E c’è ancora qualcuno che prende alla lettera la testimonianza oculare degli apostoli?
«Sì, la manualistica cattolica, ufficiale e scolastica, è la vecchia apologetica. Ma questa posizione che direi “massimalista” oggi non ha più nessun seguito fra i teologi» risponde Gibellini. «Vi è poi l’estremo opposto, rappresentato da Schillebeeckx, per cui la resurrezione sarebbe il prodotto dell’esperienza di commozione profonda che hanno avuto gli apostoli. E infine vi è una via media che si può identificare con Walter Kasper».

La vita media, cioé i moderati
Su questa via media conviene gran parte della teologia cattolica? «Sì, la cristologia di Kasper (Gesù il Cristo, Queriniana) ha avuto enorme circolazione, è un testo tradotto in tutte le lingue, che raggiunge una sintesi eccezionale. Direi è un’opera che fa testo, che rappresenta il modo in cui la teologia cattolica oggi riflette sulla resurrezione».
Gibellini si riconosce anche lui nella «via media». Cosa dice Kasper? Sui racconti del sepolcro vuoto, per esempio: che non sono «racconti storici», ma «testimonianze della fede». Inoltre: «Gli enunciati della tradizione neotestamentaria della resurrezione di Gesù non sono affatto neutrali: sono confessioni e testimonianze prodotte da gente che crede». «Le testimonianze sulla resurrezione parlano di un avvenimento che trascende la sfera di tutto ciò che si può storicamente constatare… ciò che è storicamente accertabile non è la resurrezione, ma soltanto la fede che i primi testimoni ebbero in essa». E Gesù che appare fisicamente ai suoi? «Questi racconti vanno dunque interpretati alla luce di quanto essi vogliono esprimere, nel loro carattere cioè di legittimazione della fede pasquale… Le apparizioni non sono eventi riducibili ad un piano puramente oggettivo. Chi ne fa esperienza non è l’osservatore distaccato e neutrale… questo loro “vedere” è stato reso possibile dalla fede».
C’è anche in Kasper un’istintiva ripugnanza al materialismo dei racconti evangelici «dove si parla di un Risorto che viene toccato con le mani e che consuma pasti coi discepoli… A prima vista potrebbero sembrare affermazioni piuttosto grossolane, che rasentano il limite delle possibilità teologiche e che corrono il pericolo di giustificare una fede pasquale troppo “rozza”». Sono accettabili solo se si va oltre la lettera, per ciò che i loro autori volevano esprimere… Anche nel Catechismo per adulti dei vescovi tedeschi, redatto appunto da Kasper, si legge: «Ogni racconto testimonia la comune fede pasquale delle comunità… Sia le narrazioni, talvolta un pò drastiche, dei pasti consumati con il Risorto, sia i racconti a riguardo della tomba vuota, intendono esprimere simbolicamente la corporeità della resurrezione di Gesù».
E’ questa la «seconda innocenza» sopravvenuta dopo venti secoli cristiani. Ma c’è chi parla di truffa intellettuale. Padre Daniel Ols, dell’Angelicum, segretario della Società San Tommaso, ci dice: «Non ha senso dire che la resurrezione non è un fatto storico. Un fatto che non sia storico non è un fatto (anche se, chiaramente, la resurrezione è un mistero che oltrepassa la storia)».
Con un pò d’ironia e un pò di amarezza conclude: «E poi non c’è niente di nuovo: i protestanti-liberali già un secolo fa sostenevano queste idee. E merce trita e ritrita. Deriva dall’errore idealista per cui il cristianesimo è una dottrina: tutto il resto è solo un rivestimento mitico che ha per scopo di far capire verità intemporali o norme di azione. L’importante sarebbe comprendere i significati. Dei fatti che ne sono veicoli possiamo anche fare a meno». Infatti per Drewermann la resurrezione è un’immagine che c’insegna a confidare «nell’amore di Dio più forte della morte». «Ma sono i fatti che sono opera di Dio!» ribatte Ols.
Lo smarrimento dei cristiani semplici è grande, perché purtroppo anche ai preti nei seminari e nei corsi di aggiornamento vengono insegnate tali teorie e quindi la predicazione domenicale ne risente. Peggio però se si tratta di cattolici impegnati, più a contatto con i dottori. Qualche tempo fa su una rivista dei padri passionisti del santuario di San Gabriele fu pubblicata una lettera firmata B.Z., da Napoli: «Sto frequentando un corso di teologia per laici» diceva il lettore. «Arrivati a studiare la resurrezione di Cristo, mi si sono confuse le idee. Il professore, un teologo abbastanza noto tra noi, ha cominciato a distinguere tra fatti storici e fatti di fede, tra dati oggettivi ed esperienza personale degli apostoli. Non ci capisco più niente e sento distrutta la mia fede… Insomma, è vero o non è vero che Gesù è risorto?».

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Importanza e obbligatorietà dell’abito ecclesiastico

Posté par atempodiblog le 14 avril 2014

“L’abito ecclesiastico, come quello religioso, ha un particolare significato: per il sacerdote diocesano esso ha principalmente il carattere di segno, che lo distingue dall’ambiente secolare nel quale vive; per il religioso e per la religiosa esso esprime anche il carattere di consacrazione e mette in evidenza il fine escatologico della vita religiosa. L’abito, pertanto, giova ai fini dell’evangelizzazione ed induce a riflettere sulle realtà che noi rappresentiamo nel mondo e sul primato dei valori spirituali che noi affermiamo nell’esistenza dell’uomo. Per mezzo di tale segno, è reso agli altri più facile arrivare al Mistero, di cui siamo portatori, a Colui al quale apparteniamo e che con tutto il nostro essere vogliamo annunciare”.

Giovanni Paolo II

Importanza e obbligatorietà dell’abito ecclesiastico dans Fede, morale e teologia 1zl66c0

In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero – uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri – sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta, come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico. Il presbitero dev’essere riconoscibile anzitutto per il suo comportamento, ma anche per il suo vestire in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo, la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa.

L’abito ecclesiastico è il segno esteriore di una realtà interiore: «infatti, il sacerdote non appartiene più a se stesso, ma, per il sigillo sacramentale ricevuto (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1563, 1582), è “proprietà” di Dio. Questo suo “essere di un Altro” deve diventare riconoscibile da tutti, attraverso una limpida testimonianza. […] Nel modo di pensare, di parlare, di giudicare i fatti del mondo, di servire ed amare, di relazionarsi con le persone, anche nell’abito, il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale».

Per questa ragione, il sacerdote, come il diacono transeunte, deve:

a) portare o l’abito talare o «un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali»; quando non è quello talare, deve essere diverso dalla maniera di vestire dei laici e conforme alla dignità e alla sacralità del ministero; la foggia e il colore debbono essere stabiliti dalla Conferenza dei Vescovi;

b) per la loro incoerenza con lo spirito di tale disciplina, le prassi contrarie non contengono la razionalità necessaria affinché possano diventare legittime consuetudini e devono essere assolutamente rimosse dalla competente autorità.

Fatte salve situazioni specifiche, il non uso dell’abito ecclesiastico può manifestare un debole senso della propria identità di pastore interamente dedicato al servizio della Chiesa.

Inoltre, la veste talare – anche nella forma, nel colore e nella dignità – è specialmente opportuna perché distingue chiaramente i sacerdoti dai laici e fa capire meglio il carattere sacro del loro ministero, ricordando allo stesso presbitero che è sempre e in ogni momento sacerdote, ordinato per servire, per insegnare, per guidare e per santificare le anime, principalmente attraverso la celebrazione dei sacramenti e la predicazione della Parola di Dio.

Indossare l’abito clericale funge inoltre da salvaguardia della povertà e della castità.

Tratto da: Direttorio per il ministero per la vita dei presbiteri della Congregazione per il Clero

Divisore dans Sacramento dell’Ordine

Freccia Il sacerdote deve essere riconoscibile (di Mario Palmaro e Alessandro Gnocchi)

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Il Papa: il teologo sia aperto e preghi, se si compiace del suo pensiero è un narcisista

Posté par atempodiblog le 14 avril 2014

Il Papa: il teologo sia aperto e preghi, se si compiace del suo pensiero è un narcisista dans Fede, morale e teologia 2dsijgh

Il Papa ha ricevuto nell’Aula Paolo VI in Vaticano i professori, gli studenti e il personale non docente della Pontificia Università Gregoriana, del Pontificio Istituto Biblico e del Pontificio Istituto Orientale. Il Papa ha ringraziato per il suo saluto il preposito generale dei Gesuiti, padre Nicolas. “Le Istituzioni a cui appartenete, riunite in Consorzio dal Papa Pio XI nel 1928 – ha detto – sono affidate alla Compagnia di Gesù e condividono lo stesso desiderio di «militare per Iddio sotto il vessillo della Croce e servire soltanto il Signore e la Chiesa Sua sposa, a disposizione del Romano Pontefice, Vicario di Cristo in terra» (Formula, 1). E’ importante che tra di esse si sviluppino la collaborazione e le sinergie, custodendo la memoria storica e al tempo stesso facendosi carico del presente e guardando al futuro … con creatività e immaginazione, cercando di avere una visione globale della situazione e delle sfide attuali e un modo condiviso di affrontarle, trovando vie nuove senza paura”.

“Il primo aspetto che vorrei sottolineare – ha proseguito il Papa – pensando al vostro impegno, sia come docenti che come studenti, e come personale delle istituzioni, è quello di valorizzare il luogo stesso in cui vi trovate a lavorare e studiare, cioè la città e soprattutto la Chiesa di Roma. C’è un passato e c’è un presente. Ci sono le radici di fede: le memorie degli Apostoli e dei Martiri; e c’è l’“oggi” ecclesiale, c’è il cammino attuale di questa Chiesa che presiede alla carità, al servizio dell’unità e della universalità. Tutto questo non va dato per scontato! Va vissuto e valorizzato, con un impegno che in parte è istituzionale e in parte è personale, lasciato all’iniziativa di ciascuno. Ma nello stesso tempo voi portate qui la varietà delle vostre Chiese di provenienza, delle vostre culture. Questa è una delle ricchezze inestimabili delle istituzioni romane. Essa offre una preziosa occasione di crescita nella fede e di apertura della mente e del cuore all’orizzonte della cattolicità. Dentro questo orizzonte la dialettica tra “centro” e “periferie” assume una forma propria, cioè la forma evangelica, secondo la logica di Dio che giunge al centro partendo dalla periferia e per tornare alla periferia”.

“L’altro aspetto che volevo condividere – ha aggiunto – è quello del rapporto tra studio e vita spirituale. Il vostro impegno intellettuale, nell’insegnamento e nella ricerca, nello studio e nella più ampia formazione, sarà tanto più fecondo ed efficace quanto più sarà animato dall’amore a Cristo e alla Chiesa, quanto più sarà solida e armoniosa la relazione tra studio e preghiera. Questa non è una cosa antica, questo è il centro! Questa è una delle sfide del nostro tempo: trasmettere il sapere e offrirne una chiave di comprensione vitale, non un cumulo di nozioni non collegate tra loro. C’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini, non di una sintesi ma di una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di fede. La filosofia e la teologia permettono di acquisire le convinzioni che strutturano e fortificano l’intelligenza e illuminano la volontà… ma tutto questo è fecondo solo se lo si fa con la mente aperta e in ginocchio. La mente aperta e in ginocchio. Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre”.

Il Papa ha quindi ha proseguito: “Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo, secondo quella legge che san Vincenzo di Lerins descrive così: «annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate» (Commonitorium primum, 23: PL 50, 668): si consolida con gli anni, si dilata col tempo, si approfondisce con l’età. Questo è il teologo che ha la mente aperta. E il teologo che non prega e che non adora Dio finisce affondato nel più disgustoso narcisismo. E questa è una malattia ecclesiastica. Fa tanto male il narcisismo dei teologi, dei pensatori”.

“Il fine degli studi in ogni Università pontificia – ha sottolineato – è ecclesiale. La ricerca e lo studio vanno integrati con la vita personale e comunitaria, con l’impegno missionario, con la carità fraterna e la condivisione con i poveri, con la cura della vita interiore nel rapporto con il Signore. I vostri Istituti non sono macchine per produrre teologi e filosofi; sono comunità in cui si cresce, e la crescita avviene nella famiglia. Nella famiglia universitaria c’è il carisma di governo, affidato ai superiori, e c’è la diaconia del personale non docente, che è indispensabile per creare l’ambiente familiare nella vita quotidiana, e anche per creare un atteggiamento di umanità e di saggezza concreta, che farà degli studenti di oggi persone capaci di costruire umanità, di trasmettere la verità in dimensione umana, di sapere che se manca la bontà e la bellezza di appartenere a una famiglia di lavoro si finisce per essere un intellettuale senza talento, un eticista senza bontà, un pensatore carente dello splendore della bellezza e solo “truccato” di formalismi. Il contatto rispettoso e quotidiano con la laboriosità e la testimonianza degli uomini e delle donne che lavorano nelle vostre Istituzioni vi darà quella quota di realismo tanto necessaria affinché la vostra scienza sia scienza umana e non di laboratorio”.

Papa Francesco ha così concluso: “Cari fratelli, affido ciascuno di voi, il vostro studio e il vostro lavoro all’intercessione di Maria, Sedes Sapientiae, di sant’Ignazio di Loyola e degli altri vostri santi Patroni. Vi benedico di cuore e prego per voi. Anche voi, per favore, pregate per me! Grazie!”.

Tratto da: Radio Vaticana

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Novena alla Madonna dell’Arco

Posté par atempodiblog le 12 avril 2014

Novena alla Madonna dell’Arco (da recitarsi dal 12 al 20 aprile).
Lunedì dell’Angelo (celebrazione mobile, nel 2014 cade il 21 aprile)
Questa novena può essere recitata anche in qualsiasi momento per le proprie necessità.

Novena alla Madonna dell'Arco dans Preghiere madonna_dell_arco_napoli

          1. Vergine buona, che hai voluto chiamarti dell’Arco, quasi a ricordare ai cuori afflitti, alle anime pentite e bisognose che tu sei l’arco di pa­ce che annunzia il perdono e le promesse divi­ne, guarda benigna a me che t’invoco, a me che ti supplico con il rimorso nel cuore per tante col­pe commesse, con la fronte mortificata per tan­te mie miserie e ingratitudini. Ottienimi dal Fi­glio tuo la grazia di comprendere lo stato del­l’anima mia, di piangere i miei peccati e deplo­rarli. Egli mi conceda, per la tua materna in­tercessione, un proposito fermo, una volontà costante nel bene. Che questo momento sereno passato ai tuoi piedi sia il principio d’una vita senza peccato e piena d’ogni virtù cristiana. Ave, Maria…

        2. Vergine santa, che hai scelto il santuario dell’Arco a trono delle tue misericordie e hai voluto la tua immagine circondata dagli innu­merevoli attestati di riconoscenza dei fedeli, da te beneficati e soccorsi con mille prodigi, ani­mato dalla fiducia per tanto tuo amore verso i miseri e per tanti doni che hai sparso nel mon­do, stretto dai dolori, ricorro alla tua protezio­ne, perché tu mi conceda…. (Si chieda la grazia che si desidera)
Tu ottienimi ciò dal Figlio tuo e come un giorno facesti lieti gli sposi a cui mancava il vi­no domandando per loro a Gesù il primo mira­colo, dona anche a me, che attendo la gioia so­prattutto dalla tua bontà, di poter aggiungere la mia povera voce di gratitudine alla voce dei tan­ti e tanti che ti invocarono e furono esauditi.
Non sono degno, è vero, di ottenere questa grazia: povera è l’anima mia, la mia preghiera non è animata da sufficiente spirito di fede ne­cessario per aprire le porte dei cieli; ma tu sei ric­ca d’ogni grazia, ma tu sei buona, e tutto accet­terai, maternamente compassionevole delle mie deficienze e dei miei bisogni. Ave, Maria…

       3. Vergine gloriosa, che un giorno volesti ap­parire circondata da stelle luminose, io ti prego di voler essere in ogni momento la stella che gui­da il mio cammino. Tu nelle tempeste della vita, tra i mille pericoli per l’anima e il corpo, brilla al mio sguardo così che io possa sempre trova­re la via che conduce al porto della vita eterna. E quando, compiuti i giorni della mia fragile esi­stenza, attenderò il Giudice eterno, tu soccorri­mi; sorreggi tu la vita che manca; fa’ più vivida e forte la mia fede; ripeti all’anima parole di speranza e di protezione, donami una carità più ardente.
Da te voglio essere presentato al mio Giudice come un tuo devoto, misero ma fedele e grato. Tu devi in quell’ora apparire all’anima qual sei, la bella aurora dei cieli, dove verrò a lodarti con i santi e gli angeli per tutti i secoli. Amen.

Tratta da: Il radicchio

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Amare gli altri così come sono

Posté par atempodiblog le 12 avril 2014

Amare gli altri così come sono dans Citazioni, frasi e pensieri Amare_il_prossimo

“Cosa fa” venne chiesto al signor K., “quando ama una persona?”. “Ne faccio un abbozzo”, disse il signor K., “e mi preoccupo che gli assomigli”. “Chi? L’abbozzo”. “No”, disse il signor K., “la persona”.

da Storie del signor Keuner di Bertold Brecht

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Omelia per la Domenica delle Palme di San Josemaría: la lotta interiore

Posté par atempodiblog le 12 avril 2014

La lotta interiore di San Josemaría Escrivá de Balaguer
Tratto da: San Josemaría Escrivá 

Omelia per la Domenica delle Palme di San Josemaría: la lotta interiore dans Commenti al Vangelo ingresso_ges_a_gerusalemme

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73 pixtrans dans San Josemaria Escriva' de Balaguer Al pari di ogni festa cristiana, quella che oggi celebriamo è soprattutto una festa di pace. I rami d’ulivo, nel loro antico simbolismo, evocano un episodio narrato nel libro della Genesi: Noè attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca, e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra                 (Gn 8, 10-11). Ora ricordiamo che l’alleanza tra Dio e il suo popolo è riconfermata e stabilita in Cristo, perché Egli è la nostra pace (Ef 2, 14). Nella meravigliosa unità della Liturgia della Santa Chiesa Cattolica, che ricapitola il vecchio e il nuovo, noi leggiamo oggi parole di profonda gioia: Le folle degli Ebrei, portando rami d’ulivo, andavano incontro al Signore e acclamavano a gran voce: « Osanna all’Altissimo Dio » (antifona alla distribuzione delle palme).
L’acclamazione a Gesù rievoca nel nostro spirito quella che ne salutò la nascita a Betlemme. Via via che egli avanzava — narra san Luca — stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: « Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli! » (Lc 19, 36-38).
Pax in coelo! Ma gettiamo uno sguardo anche sul mondo. C’è forse pace sulla terra? No, non c’è. Vi è una pace apparente, l’equilibrio della paura, dei compromessi precari. Non c’è pace nemmeno nella Chiesa, così scossa da tensioni che lacerano la bianca tunica della Sposa di Cristo. Non c’è pace in tanti cuori che tentano invano di compensare l’inquietudine dell’anima con un’attività incessante, con la minuscola soddisfazione di beni che non saziano, perché lasciano dietro di sé il sapore amaro della tristezza.
Le palme — scrive Sant’Agostino — sono segno di trionfo, perché indicano la vittoria. Il Signore avrebbe vinto morendo sulla Croce. Nel segno della Croce avrebbe trionfato sul diavolo, principe della morte (SANT’AGOSTINO, In Ioannis Evangelium tractatus, 51, 2 [PL 35, 1764]). Gesù è la nostra pace perché Egli ha vinto. Ha vinto perché ha combattuto la dura battaglia contro tutto il cumulo di malizia dei cuori umani.
Cristo, nostra pace, è anche Via (cfr Gv 14, 6). Se vogliamo la pace, dobbiamo seguire i suoi passi. La pace è la conseguenza della guerra, della lotta. Lotta ascetica, intima, che ogni cristiano è tenuto a sostenere contro tutto ciò che nella sua vita non viene da Dio: la superbia, la sensualità, l’egoismo, la superficialità, la meschinità del cuore. È inutile reclamare la serenità esteriore quando manca la tranquillità nella coscienza, nell’intimo dell’anima, perché dal cuore provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie (Mt 15, 19). 
74 pixtrans Ma questo linguaggio non suonerà antiquato? Non è stato forse sostituito da parole d’occasione, da cedimenti personali rivestiti di orpelli falsamente scientifici? Non vige ormai un tacito accordo secondo cui i veri beni sono il denaro che compra tutto, il potere temporale, la furbizia di rimanere sempre sulla cresta dell’onda, la sapienza umana che si autodefinisce adulta e ritiene di aver superato il sacro?
Non sono mai stato né sono pessimista, perché la fede mi dice che la vittoria di Cristo è definitiva e che Egli ci ha dato, a garanzia della sua conquista, un comando che per noi è un impegno: lottare. Noi cristiani siamo vincolati da un impegno d’amore liberamente accettato quando abbiamo accolto la chiamata della grazia divina; siamo vincolati da un obbligo che ci spinge a lottare tenacemente, perché sappiamo bene di essere fragili, al pari degli altri uomini. Ma sappiamo anche che, adoperando i mezzi, saremo il sale, la luce, il lievito del mondo: saremo la consolazione di Dio.
La nostra volontà di perseverare con fermezza in questo proposito d’amore è inoltre un dovere di giustizia. Il modo pratico di corrispondere a questa esigenza, comune a tutti i fedeli, è una battaglia incessante. La tradizione della Chiesa ha sempre considerato i cristiani come milites Christi, soldati di Cristo. Soldati che portano agli altri la serenità mentre combattono costantemente le proprie cattive inclinazioni. Sovente, per scarso senso soprannaturale, per mancanza di fede pratica, non si vuol capire nulla della vita presente concepita come milizia. Si insinua maliziosamente che, considerandoci milites Christi, corriamo il pericolo di servirci della fede per fini temporali di sopraffazione e di parte. Questo modo di pensare è una deprecabile e irragionevole semplificazione che va di pari passo con la comodità e la viltà.
Non c’è niente di più estraneo alla fede cristiana del fanatismo con cui vengono proposti strani connubi tra il profano e lo spirituale, qualunque ne sia il colore. Tale pericolo non esiste se per lotta si intende quello che Cristo ci ha insegnato, e cioè la guerra che ognuno deve combattere contro se stesso, lo sforzo sempre rinnovato di amare di più Dio, di respingere l’egoismo, di servire tutti gli uomini. Rinunciare a questa impresa, sotto qualunque pretesto, significa darsi per vinti anzitempo, restare annientati e senza fede, con l’anima abbattuta e dispersa in compiacenze meschine.
Per il cristiano, combattere la propria battaglia al cospetto di Dio e di tutti i fratelli nella fede, è la necessaria conseguenza della sua condizione. Se pertanto qualcuno non lotta, tradisce Gesù Cristo e il suo Corpo Mistico, che è la Chiesa. 
75 pixtrans La lotta del cristiano non ha soste, perché nella vita interiore si verifica quel continuo cominciare e ricominciare che impedisce che a un dato momento la superbia ci faccia considerare perfetti. È inevitabile che vi siano molte difficoltà nel nostro cammino; se non trovassimo ostacoli, non saremmo creature di carne ed ossa. Vi saranno sempre delle passioni pronte a trascinarci in basso, e dovremo sempre difenderci da tali deliri, più o meno veementi.
Il fatto di sentire nel corpo e nell’anima il pungolo della superbia, della sensualità, dell’invidia, della pigrizia, dello spirito di sopraffazione, non dovrebbe costituire una scoperta. Si tratta di un male antico, sistematicamente verificato nella nostra esperienza personale; esso è il punto di partenza e l’atmosfera abituale per vincere in questo intimo sport, nella nostra corsa verso la casa del Padre. San Paolo insegna infatti: Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, perché non succeda che dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato (1 Cor 9, 26-27).
Per cominciare a sostenere la prova, il cristiano non deve aspettare segnali esterni o stati d’animo favorevoli. Nella vita interiore ciò che conta non sono gli stati d’animo, ma la grazia divina, la volontà, l’amore. Tutti i discepoli furono capaci di seguire Gesù nell’ora del trionfo a Gerusalemme, ma quasi tutti lo abbandonarono nell’ora ignominiosa della Croce.
Per amare sul serio è necessario essere forti, leali, avere il cuore saldamente ancorato alla fede, alla speranza e alla carità. Solo chi è inconsistente e fatuo muta capricciosamente l’oggetto dei suoi affetti, che in realtà non sono affetti, ma soddisfazioni egoistiche. Quando c’è amore c’è lealtà, vale a dire capacità di donazione, di sacrificio, di rinuncia. E nel bel mezzo della donazione, del sacrificio e della rinuncia, pur con il tormento delle contrarietà, si trovano la felicità e la gioia; una gioia che nulla e nessuno potrà toglierci.
In questa giostra d’amore, le cadute non devono avvilirci, ancorché fossero gravi, purché ci rivolgiamo a Dio nel Sacramento della Penitenza con dolore sincero e proposito retto. Il cristiano non è un collezionista fanatico di certificati di servizio senza macchia. Gesù Nostro Signore, che tanto si commuove dinanzi all’innocenza e alla fedeltà di Giovanni, si intenerisce allo stesso modo, dopo la caduta di Pietro, per il suo pentimento. Gesù, che comprende la nostra fragilità, ci attrae a sé guidandoci come per un piano inclinato ove si sale a poco a poco, giorno per giorno, perché desidera che il nostro sforzo sia perseverante. Ci cerca come cercò i discepoli di Emmaus, andando loro incontro; come cercò Tommaso per mostrargli e fargli toccare con le sue stesse mani le piaghe aperte sul suo corpo. Proprio perché conosce la nostra fragilità Gesù attende sempre che torniamo a Lui. 
76 pixtrans Ci dice san Paolo: Prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù (2 Tm 2, 3). La vita del cristiano è milizia, è guerra, bellissima guerra di pace che non assomiglia in nulla alle imprese belliche degli uomini, perché queste si ispirano alla divisione e all’odio, mentre la guerra che i figli di Dio combattono contro il proprio egoismo si fonda sull’unità e sull’amore. Noi — insegna infatti san Paolo — viviamo nella carne, ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio (2 Cor 10, 3-4). È la schermaglia senza tregua contro l’orgoglio, contro la prepotenza che ci dispone ad agire malamente, contro l’arroganza nel giudicare.
In questa domenica delle Palme, nel commemorare il giorno in cui il Signore dà inizio alla settimana decisiva per la nostra salvezza, mettiamo da parte le considerazioni superficiali, andiamo all’essenza, a ciò che è veramente importante. Ebbene, la nostra aspirazione è andare in Cielo. Altrimenti non c’è nulla che valga la pena. Per andare in Cielo è indispensabile la fedeltà alla dottrina di Cristo. Per essere fedeli è indispensabile insistere con costanza nella lotta contro gli ostacoli che si oppongono alla nostra felicità eterna.
So bene che, quando si parla di lotta, si erge dinanzi a noi la consapevolezza della nostra fragilità che ci fa prevedere le cadute e gli errori. Ma Dio mette in conto queste cose: mentre si cammina è inevitabile che si alzi la polvere della strada. Siamo creature, e come tali abbiamo tanti difetti. Direi che conviene che ve ne siano sempre: sono come un’ombra che fa sì che nell’anima, per contrasto, risaltino di più la grazia di Dio e il nostro sforzo di corrispondere al favore divino. Questo chiaroscuro ci fa più umani, più umili, più comprensivi, più generosi.
Cerchiamo di non ingannarci: se nella nostra vita costatiamo momenti di slancio e di vittoria, costatiamo pure momenti di decadimento e di sconfitta. Tale è stato sempre il pellegrinaggio terreno dei cristiani, non esclusi quelli che veneriamo sugli altari. Vi ricordate di Pietro, di Agostino, di Francesco? Non ho mai apprezzato quelle biografie che ci presentano — con ingenuità, ma anche con carenza di dottrina — le imprese dei santi come se essi fossero stati confermati in grazia fin dal seno materno. Non è così. Le vere biografie degli eroi della fede sono come la nostra storia personale: lottavano e vincevano, lottavano e perdevano; in tal caso, contriti, tornavano alla lotta.
Non sorprendiamoci di vederci sconfitti con relativa frequenza: di solito, o anche sempre, in cose di poca importanza ma che ci affliggono come se ne avessero molta. Quando c’è amor di Dio, quando c’è umiltà, quando c’è perseveranza e fermezza nella lotta, queste sconfitte non avranno mai molto peso. Non solo, ma verranno le vittorie, che saranno a nostra gloria agli occhi di Dio. Non esiste l’insuccesso quando si agisce con rettitudine di intenzione, quando si vuole compiere la volontà di Dio e si fa affidamento sulla sua grazia, consapevoli del nostro nulla. 
77 pixtrans Ma è in agguato un nemico potente che si oppone al nostro desiderio di incarnare fino in fondo la dottrina di Cristo: è la superbia, che cresce quando non cerchiamo di scoprire dietro agli insuccessi e alle sconfitte la mano benefica e misericordiosa del Signore. L’anima si vela allora di penombra — di triste oscurità — e si sente perduta. L’immaginazione inventa ostacoli irreali che si dissolverebbero se guardassimo le cose con un briciolo di umiltà. A motivo della superbia e dell’immaginazione l’anima si caccia a volte in tortuosi calvari, nei quali però non v’è Cristo, perché dove è il Signore si gode la pace e la gioia, anche quando l’anima è in carne viva e circondata da tenebre.
C’è un altro nemico ipocrita della nostra santificazione: l’idea che la battaglia interiore vada sferrata contro ostacoli straordinari, contro draghi che buttano fuoco dalle fauci. È un altro tranello dell’orgoglio: vogliamo lottare, ma con grande spettacolo, tra squilli di trombe e svettare di stendardi.
Dobbiamo convincerci che il nemico più grande della roccia non è il piccone o altro strumento di demolizione, per potente che sia: è quell’acqua insignificante che penetra, a goccia a goccia, tra le sue fenditure, fino a disgregarne la struttura. Il pericolo più grande per il cristiano è quello di disprezzare la lotta nelle cose piccole che penetrano a poco a poco nell’anima fino a renderla molle, fragile e indifferente, insensibile ai richiami di Dio.
Ascoltiamo il Signore: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto (Lc 16, 10). È come se Egli ci ricordasse: lotta ogni istante in quei particolari in apparenza di poco conto, ma grandi al mio cospetto; vivi con precisione il compimento del dovere; sorridi a chi ne ha bisogno, anche se la tua anima è sofferente; dedica all’orazione il tempo necessario, senza ritagliarlo; va’ incontro a chi cerca il tuo aiuto; esercita la giustizia arricchendola con il garbo della carità.
Queste e altre simili sono le mozioni che ogni giorno sentiremo dentro di noi, come richiami silenziosi che ci spingono ad allenarci nello sport soprannaturale del dominio di noi stessi. Ci illumini la luce di Dio, facendoci percepire i suoi ammonimenti; ci aiuti Lui a lottare e sia al nostro fianco nella vittoria; non ci abbandoni al momento della caduta, perché con Lui potremo sempre rialzarci e continuare a combattere.
Non possiamo sostare. Il Signore ci chiede di lottare guadagnando sempre di più in prontezza, in profondità, in estensione. È nostro dovere superarci, perché in questa prova c’è un’unica meta, la gloria del Cielo: se non la raggiungiamo, tutto sarà stato inutile. 
78 pixtrans Colui che vuole lottare fa uso dei mezzi appropriati. E i mezzi, in venti secoli di cristianesimo, non sono cambiati: preghiera, mortificazione e pratica dei Sacramenti. Poiché anche la mortificazione è orazione — preghiera dei sensi — possiamo indicare questi mezzi con due sole parole: preghiera e Sacramenti.
Vorrei ora che considerassimo insieme quella sorgente di grazia divina, quella meravigliosa manifestazione della misericordia di Dio che sono i Sacramenti. Meditiamo lentamente la definizione che di essi dà il Catechismo di san Pio V: Segni sensibili che producono la grazia, e al tempo stesso la manifestano, come ponendola dinanzi agli occhi (Catechismo romano del Concilio di Trento, II, cap. I, 3). Dio Nostro Signore è infinito, il suo amore è inesauribile, la sua clemenza e la sua pietà verso di noi non hanno limiti: e benché ci conceda la sua grazia in tanti altri modi, ha istituito espressamente e liberamente — solo Lui poteva farlo — quei sette segni efficaci per mezzo dei quali, in modo stabile, semplice e accessibile a tutti, gli uomini possono partecipare ai meriti della Redenzione.
Quando si abbandonano i Sacramenti, la vera vita cristiana si estingue. E tuttavia, specialmente ai nostri giorni, è palese che molti dimenticano e persino disprezzano questo flusso redentore di grazia che Cristo ci offre. È doloroso parlare di questa piaga della società che si chiama cristiana, ma è necessario, se vogliamo che nelle nostre anime si consolidi il desiderio di ricorrere con più amore e più gratitudine a queste sorgenti di santificazione.
Non manca oggi chi decide, senza scrupolo alcuno, di rinviare il Battesimo dei neonati e — perpetrando un grave attentato alla giustizia e alla carità — li priva della grazia della fede, del tesoro inestimabile della presenza della Trinità Beatissima nell’anima che viene al mondo macchiata dal peccato originale. Costoro pretendono anche di svilire la natura peculiare del Sacramento della Cresima che la Tradizione, con insegnamento unanime, considera come un irrobustimento della vita spirituale, un’effusione tacita e feconda dello Spirito Santo perché l’uomo, fortificato soprannaturalmente, possa lottare come soldato di Cristo — miles Christi — nella battaglia interiore contro l’egoismo e la concupiscenza.
Quando si perde sensibilità per le cose di Dio, sarà pure difficile comprendere il Sacramento della Penitenza. La confessione sacramentale non è un dialogo umano, ma un colloquio divino; è un tribunale di sicura e divina giustizia, ma soprattutto di misericordia, con un giudice che, nel suo amore, non gode della morte del peccatore, ma desidera che si converta e viva (Ez 33, 11).
È veramente infinita la tenerezza di Nostro Signore. Guardate con quanta delicatezza tratta i suoi figli. Ha fatto del Matrimonio un vincolo santo, l’immagine dell’unione di Cristo con la sua Chiesa (cfr Ef 5, 32), un Sacramento grande, su cui si fonda la famiglia cristiana perché sia, con la grazia di Dio, un ambito di pace e di concordia, una scuola di santità. I genitori sono i cooperatori di Dio: è questo il fondamento dell’amabile dovere di venerazione cui i figli sono tenuti a corrispondere. Ben a ragione il quarto comandamento può essere chiamato — come ho scritto molti anni fa — precetto dolcissimo del decalogo. Quando si vive il matrimonio come Dio vuole, santamente, il focolare sarà un angolo di pace luminoso e allegro. 
79 pixtrans Per mezzo dell’Ordine Sacro, Dio nostro Padre ha reso possibile che alcuni fedeli, in virtù di una nuova e ineffabile infusione dello Spirito Santo, ricevano nell’anima un carattere indelebile che li configura a Cristo Sacerdote perché possano agire in nome di Gesù, Capo del Corpo Mistico (cfr CONCILIO DI TRENTO, Sessione XXIII, c. 4; CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, 2). Grazie al loro sacerdozio ministeriale, che differisce dal sacerdozio comune dei fedeli non solo in grado, ma nell’essenza (cfr CONCILIO VATICANO II, Cost. Lumen Gentium, 10), i ministri sacri possono consacrare il Corpo e il Sangue di Cristo, offrire a Dio il Santo Sacrificio, perdonare i peccati nella confessione sacramentale ed esercitare il ministero della dottrina in iis quae sunt ad Deum (Eb 5, 1), in tutto e soltanto ciò che concerne Dio.
Pertanto il sacerdote deve essere esclusivamente un uomo di Dio, deve respingere la tentazione di affermarsi in campi nei quali i fedeli non hanno bisogno di lui. Il sacerdote non è uno psicologo, né un sociologo, né un antropologo: è un altro Cristo, lo stesso Cristo, con il compito di prendersi cura delle anime dei suoi fratelli. Sarebbe triste che il sacerdote, basandosi su una scienza umana che potrà coltivare solo superficialmente se, al tempo stesso, si dedica al suo ministero, si ritenesse senz’altro autorizzato a pontificare in materia di teologia dogmatica e morale. Dimostrerebbe unicamente la sua duplice ignoranza — sia nella scienza umana che in quella teologica — anche se il suo superficiale rivestimento di sapienza riuscisse a trarre in inganno taluni lettori o uditori sprovveduti.
È di pubblico dominio il fatto che taluni ecclesiastici sembrano oggi disposti a fabbricare una nuova Chiesa, tradendo Cristo, barattando i fini spirituali — la salvezza delle anime, una per una — con fini temporali. Se non superano questa tentazione, tralasceranno il compimento del sacro ministero, perderanno la fiducia e il rispetto del popolo e causeranno una tremenda desolazione in seno alla Chiesa; intromettendosi per di più, indebitamente, nella libertà politica dei fedeli e degli altri uomini, arrecheranno confusione nella convivenza civile, rendendosi pericolosi anche in questo ambito. L’Ordine Sacro è il Sacramento del servizio soprannaturale ai fratelli nella fede; sembra che taluni vogliano mutarlo in strumento terreno di un nuovo dispotismo. 
80 pixtrans Ma continuiamo a contemplare la meravigliosa realtà dei Sacramenti. Nell’Unzione degli Infermi — come oggi viene chiamata l’Estrema Unzione — assistiamo a una preparazione piena d’amore al viaggio che avrà termine nella casa del Padre. Infine, nella Sacra Eucaristia, che potremmo chiamare Sacramento della suprema benignità divina, Dio ci concede la sua grazia donando Se stesso: Gesù Cristo, realmente presente, sempre — e non soltanto durante la Santa Messa — con il suo Corpo, il suo Sangue, la sua Anima e la sua Divinità.
Penso sovente alla responsabilità che grava sui sacerdoti di assicurare a tutti i fedeli l’accesso alla sorgente divina dei Sacramenti. La grazia di Dio si fa incontro ad ogni singola anima; ogni creatura richiede un’assistenza concreta e personale. Le anime non si possono trattare in massa! Non è lecito offendere la dignità umana e la dignità dei figli di Dio non soccorrendo personalmente ciascuno con l’umiltà di chi sa di essere strumento per amministrare l’amore di Cristo. Perché ogni singola anima è un tesoro meraviglioso; ogni uomo è unico, insostituibile. Ogni uomo vale tutto il sangue di Cristo.
Stavamo parlando di lotta. Sappiamo che essa richiede allenamento, alimentazione adeguata, medicine urgenti in caso di infermità, di contusioni, di ferite. I Sacramenti, medicina principale della Chiesa, non sono superflui: quando vengono abbandonati volontariamente, non è possibile fare un solo passo nel cammino al seguito di Gesù. Ne abbiamo bisogno come abbiamo bisogno della respirazione, della circolazione del sangue, della luce. Ne abbiamo bisogno per saper cogliere in ogni istante ciò che il Signore vuole da noi.
L’ascetica esige fortezza, e il cristiano trova la fortezza nel Creatore. Siamo oscurità, ed Egli è vivissimo splendore; siamo infermità, ed Egli è vigorosa salute; siamo miseria, ed Egli è infinita ricchezza; siamo debolezza, ed Egli ci sostiene, quia tu es, Deus, fortitudo mea (Sal 42, 2): tu sei sempre, mio Dio, la nostra fortezza. Non c’è nulla quaggiù che possa opporsi allo sgorgare impaziente del Sangue redentore di Cristo. Ma la nostra piccolezza può offuscarci lo sguardo al punto di non avvertire più la grandezza divina. Ecco dunque la responsabilità di tutti i fedeli, specialmente di coloro che hanno il compito di guidare spiritualmente — di servire — il Popolo di Dio, di non soffocare le fonti della grazia, di non vergognarsi della Croce di Cristo. 
81 pixtrans Nella Chiesa di Dio lo sforzo costante di essere sempre più leali alla dottrina di Cristo è un obbligo per tutti. Nessuno ne è esente. Qualora i pastori non lottassero faccia a faccia con se stessi per acquistare sensibilità di coscienza, rispetto e fedeltà al dogma e alla morale — che costituiscono il deposito della fede, il patrimonio comune — acquisterebbero realtà le parole profetiche di Ezechiele: Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele, predici e riferisci ai pastori: « Dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana… Non avete reso le forze alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza » (Ez 34, 2-4).
Il rimprovero è duro, ma più grave è l’offesa che si fa a Dio quando — avendo avuto la missione di vegliare sul bene spirituale di tutti — si maltrattano le creature privandole dell’acqua pura del Battesimo che rigenera l’anima, del balsamo della Confermazione che la fortifica, del tribunale che perdona, dell’alimento che dà la vita eterna.
Quando accadono queste cose? Quando si abbandona la guerra di pace, la lotta interiore. Chi non combatte si espone a ogni forma di schiavitù capace di incatenare i nostri cuori di carne: la schiavitù della visione puramente umana, la schiavitù del desiderio affannoso di potenza e di prestigio temporale, la schiavitù della vanità, la schiavitù del denaro, la servitù della sensualità…
Qualora vi imbattiate in pastori indegni di questo nome — e Dio può permettere questa prova — non scandalizzatevi. Cristo ha promesso alla sua Chiesa un’assistenza infallibile, ma non ha garantito la fedeltà degli uomini che la compongono. Ad essi non mancherà la grazia — abbondante, generosa — se mettono, da parte loro, quel poco che Dio chiede: vigilanza attenta e sforzo per togliere di mezzo, sempre con la grazia di Dio, gli ostacoli alla santità. Quando manca lotta, anche chi sembra collocato in alto può trovarsi molto in basso agli occhi di Dio. Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti  (Ap 3, 1-3).
Sono esortazioni che l’Apostolo Giovanni rivolge nel primo secolo a chi era a capo della Chiesa nella città di Sardi. L’eventuale decadimento del senso di responsabilità in alcuni pastori non è quindi un fenomeno legato ai nostri giorni; si manifesta già al tempo degli Apostoli, nello stesso secolo in cui Gesù Cristo Nostro Signore era vissuto sulla terra. Nessuno può ritenersi sicuro se tralascia di combattere contro se stesso. Nessuno può salvarsi da solo. Nella Chiesa tutti abbiamo bisogno dei mezzi concreti che ci fortificano: l’umiltà, che ci dispone ad accettare l’aiuto e il consiglio; la mortificazione, che prepara il cuore perché vi regni Cristo; lo studio della dottrina sicura di sempre, che ci aiuta a conservare la fede e a propagarla. 
82 pixtrans La liturgia della domenica delle Palme pone sulle labbra dei fedeli questa acclamazione: O porte, alzate i vostri architravi; alzatevi, o porte antiche, perché deve entrare il Re della gloria! (antifona alla distribuzione delle palme). Chi resta chiuso nella cittadella del proprio egoismo non scenderà sul campo di battaglia. Se invece alza le porte del proprio castello e lascia entrare il Re della pace, scenderà poi con Lui a combattere contro tutta la miseria che offusca gli occhi e rende insensibile la coscienza.
Alzatevi, o porte antiche! La necessità della lotta non è una novità nel cristianesimo. È la verità perenne: senza lotta non si conquista la vittoria, senza vittoria non si raggiunge la pace. Senza pace la gioia umana sarà soltanto apparente, falsa, sterile; sarà gioia che non si trasforma in aiuto agli uomini, né in opere di carità e di giustizia, né di perdono e di misericordia, né di servizio a Dio.
Si ha l’impressione che oggi, dentro la Chiesa e fuori, in alto come in basso, molti abbiano rinunciato alla lotta — alla guerra contro se stessi, contro le proprie inclinazioni — per consegnarsi, armi e bagagli, in potere di servitù che avviliscono l’anima. È un pericolo che minaccia da sempre tutti i fedeli.
È necessario pertanto ricorrere insistentemente alla Trinità Beatissima perché abbia compassione di noi tutti. Parlando di queste cose, mi sento turbato nel riferirmi alla giustizia di Dio. Ricorro piuttosto alla sua misericordia, alla sua compassione, perché non guardi i nostri peccati, ma i meriti di Cristo e quelli della sua Santissima Madre — che è anche Madre nostra — del santo Patriarca Giuseppe che gli fece da padre, e di tutti i santi.
Il cristiano può essere ben sicuro che se desidera lottare, il Signore — come leggiamo nella Messa della festa odierna — lo terrà per la mano destra. Gesù, che entra in Gerusalemme cavalcando, Re di pace, un povero asinello, è colui che disse: Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono (Mt 11, 12). Questa forza non è una violenza contro gli altri: ma fortezza per combattere le proprie debolezze e le proprie miserie, coraggio di non mascherare le proprie infedeltà, audacia per confessare la fede anche quando l’ambiente è ostile.
Oggi, come ieri, dal cristiano ci si attende eroismo. Eroismo in grandi conflitti, se è necessario; ed eroismo — più consueto — nelle piccole avvisaglie di ogni giorno. Quando si lotta assiduamente, con Amore, fin nelle cose piccole, in modo tale che la lotta sembri impercettibile, il Signore è sempre accanto ai suoi figli come pastore pieno d’amore: Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata… Abiteranno in piena sicurezza nella loro terra. Sapranno che io sono il Signore, quando avrò spezzato le spranghe del loro giogo e li avrò liberati dalle mani di coloro che li tiranneggiano (Ez 34, 15-16 e 27).

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Milano e dintorni, dietro al S. Chiodo

Posté par atempodiblog le 12 avril 2014

Milano e dintorni, dietro al S. Chiodo dans Articoli di Giornali e News san_carlo_chiodo

Narra A. Buratti nel suo L’azione pastorale dei Borromeo a Milano e la nuova sistemazione urbanistica della città (Milano 1982) che S. Carlo Borromeo, nella sua promozione della pietà cattolica ad ogni livello, avesse trasformato la capitale del Ducato in un’enorme “città rituale”. “Chiese, parrocchie, monasteri, sedi di congregazioni, croci stazionali facevano della città un grande percorso rituale, quasi una grande chiesa in cui tutta la popolazione avrebbe dovuto rivolgersi a Dio” (p. 53). Lungo questo percorso codificato il santo arcivescovo guidò le sue famose processioni penitenziali, che videro come protagonista il S. Chiodo della croce di Cristo. La reliquia che tutti onoreremo solennemente l’8 maggio 2014 ha tracciato, quindi, una sua precisa geografia all’interno della città, che può essere interessante andare a scoprire.

La prima meta è senza dubbio il Duomo, dove il S. Chiodo è conservato in una grande croce bronzea. Il prezioso reliquiario è decorato con simboli della Passione di Cristo e cotte militari, perché sulla croce il Signore ha portato a termine il suo gloriosus certamen contro il male e la morte. Uno dei celebri quadroni di S. Carlo (XVII sec.), esposti in occasione della festa del compatrono di Milano (4 novembre), illustra proprio la processione con il S. Chiodo: l’arcivescovo, scalzo e con il capo coperto da un saio, conduce la reliquia accompagnato da tutta la popolazione, in ogni ordine e grado. E’ uno dei ritratti più intensi di S. Carlo, in cui egli sembra specchiarsi con commozione nel Chiodo. Il Cerano riesce a rendere con gigantesca forza espressiva il volto rigato dalle lacrime del Borromeo: egli soffre con il suo popolo e si aggrappa all’Albero della Vita. 

Una tappa obbligatoria è certamente, nel centro storico, anche la basilica di S. Ambrogio, legata al S. Chiodo per il fatto che all’epoca del Sacro Romano Impero vi venivano incoronati re d’Italia gli imperatori germanici, utilizzando però l’altro esemplare dei chiodi della croce, quello infisso nella Corona Ferrea di Monza.

Tornando verso il Duomo da via Lanzone e scendendo verso Porta Ticinese, si cammini fino alla basilica di S. Lorenzo, famosa per le sue colonne di spoglio romane. I bivacchi della movida utilizzano spesso come punto di appoggio la statua bronzea dell’imperatore Costantino, che regge una piccola croce tra le mani. Costantino nel 313 diede proprio a partire da Milano ai cristiani di tutto l’impero romano la possibilità di poter esporre quel distintivo pubblicamente, senza pericolo. S. Elena, madre dell’imperatore, portò  i S. Chiodi in Occidente.

Il devoto del S. Chiodo e di S. Carlo non mancherà di fermarsi anche davanti alla chiesetta di S. Carlo al Lazzaretto. Era, infatti, l’antica cappella, aperta sui lati, presso la quale veniva celebrata quotidianamente la Messa a conforto dei tanti degenti del nosocomio. E’ la reliquia più consistente della pestilenza che consentì il ritorno in auge del S. Chiodo nella devozione popolare dopo secoli di oblio.

Sia durante che dopo la peste del 1576 S. Carlo promosse l’edificazione di croci stazionali ai crocicchi delle strade della città e del contado. Le modifiche urbanistiche dell’Illuminismo e dell’Ottocento, nonostante qualche ripristino storicista, hanno indelebilmente devastato il tessuto della Milano borromaica, facendo scomparire la quasi totalità delle croci all’interno della città. Rimane, emblematicamente, la dicitura “Crocetta” per uno slargo servito dalla MM3 e oggi contrassegnato da una statua di S. Calimero vescovo, a cui è dedicata una vicina chiesetta.

Molto più fortunati, da questo punto di vista, gli ambrosiani che vivono nel contado, dove le croci di S. Carlo, a guardia spesso dei locai lazzaretti, sono ancora numerosissime. Ne ricordiamo solo una, quella che domina ancora oggi l’alzaia del naviglio Martesana all’ingresso della cittadina di Gorgonzola. Superbo esempio di come dovevano essere le crocette milanesi, è un’alta colonna in pietra di ordine “dorico” del 1576, che reca sulla sommità una piccola croce bronzea. Una croce “fiorita”, che manifesta, cioè, i frutti della Grazia promananti dalla Passione di Cristo.

La raffigurazione della Madonna con il Figlio morto sulle ginocchia è assai comune nella pietà lombarda. Il catafalco processionale (XIX  sec.) collocato nel santuario dell’Addolorata di Cernusco sul Naviglio è molto caratteristico. Gli angeli recanti gli strumenti della Passione si dispongono a raggiera attorno al Redentore esanime, ma il putto che reca le tenaglie con uno dei chiodi è proteso verso i fedeli. Indica un’evidente predilezione per quello strumento di tortura, divenuto l’emblema della salvezza di Milano.

di Michele Brambilla – Comunità Ambrosiana

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Il Papa e l’idolatria del pensiero unico

Posté par atempodiblog le 11 avril 2014

La libertà e la memoria
Il Papa e l’idolatria del pensiero unico
di Marina Corradi – Avvenire

 Il Papa e l'idolatria del pensiero unico dans Articoli di Giornali e News suuiiv

«È qualcosa di più che una semplice testardaggine. È di più: è l’idolatria del proprio pensiero». Il Papa che siamo abituati a vedere sorridente, a Santa Marta ieri era quasi grave. Parlava di una cosa che ci riguarda, ma che spesso fatichiamo a riconoscere. Parlava, Francesco, della “dittatura del pensiero unico”.

E cos’è? potrebbe chiedersi un ragazzo (non un vecchio, no, i vecchi in Italia ricordano ancora). È il dramma, ha spiegato il Papa, «del cuore chiuso: e quando il cuore è chiuso chiude la mente, e quando cuore e mente sono chiusi non c’è più posto per Dio, ma soltanto per ciò che noi crediamo che si debba fare».

È quando insomma, e Francesco qui ha ricordato le dittature del secolo scorso, gli uomini si ergono a padroni della vita e della morte, e il potere detta nuove regole al vivere comune, e decide magari che alcuni uomini sono superiori agli altri, o che i malati di mente sono da sterilizzare o eliminare. È accaduto, neanche ottant’anni fa. E noi, figli di quella generazione, studiando sui libri di scuola ci domandavamo com’era stato possibile che l’Occidente aderisse a simili follie; e credevamo a un assurdo impazzimento del mondo, dal quale poi però, al costo di milioni di morti, ci si era risvegliati – per sempre. Invece il Papa, il Francesco della tenerezza e della misericordia, ci ha detto ieri gravemente che l’avvitarsi della ragione e del cuore che poi genera le dittature non è solo il fenomeno di un lontano passato. Succede quando cuore e mente si chiudono, quando si mette da parte Dio, e ci si fa di noi stessi i creatori. E anche oggi, ha aggiunto, «c’è l’idolatria del pensiero unico». Che certo non è una dittatura, ma qualcosa di più sottile: «Oggi – ha spiegato Francesco – si deve pensare così, e se tu non pensi così non sei moderno, non sei aperto, o peggio».

Non ne sappiamo forse qualcosa anche nella nostra democrazia? Ancora vent’anni fa, sarebbe sembrato inutile ribadire che un figlio deve avere un padre e una madre, giacché almeno su questo si era tutti d’accordo. Ora invece parlare di “madre” e « “padre” pare quasi scorretto; più prudentemente si comincia a dire “genitore 1” e “genitore 2”, e non importa se siano dello stesso sesso.

Sesso? Ma esiste poi, il sesso, come dato originario? Pare di no, ci dicono, e più modernamente si parla di “gender”, cioè una cosa che ti scegli tu, indipendentemente dal corpo con cui sei nato. Se tornassero in vita i nostri nonni sarebbero sbalorditi dal non veder più riconoscere la semplice oggettività delle cose, o, per dirla come la filosofa Hannah Arendt, la “realtà del dato”. Del dato di natura, che finora in nessuna rivoluzione era mai stato sovvertito.

Così che, cadute tutte le vecchie i­deologie,  una nuova ideologia sembra ambire a imporre un colletti­vo  modo di pensare: l’ideologia che vuole svellere i cardini della percezio­ne  che abbiamo di noi stessi.

Ideologia, diceva sempre Arendt, è ciò che acceca sulla realtà. Quella realtà del dato di natura, evidente a un bambino, che si confonde quando quel bambino cresce, se chiude cuo­re  e ragione e sceglie di essere, di sé, l’assoluto padrone.

Non l’ avvertiamo forse, l’avanzare del nuovo pensiero unico? Oramai per di­re  pubblicamente che il matrimonio è fra un uomo e una donna ci vuole un po’ di coraggio, e anche per dire che i bambini hanno bisogno di un padre e di una madre (appena ieri, dopo la sen­tenza  che per le coppie smantella il di­vieto  di fecondazione eterologa, che univoco coro di consensi, sui media…). E certo, siamo liberi di pensarla diver­samente;  non tanto però di dirlo ad al­ta  voce, giacché ci accorgiamo che d’improvviso colleghi e conoscenti si rabbuiano: non decliniamo il Verbo della modernità correttamente. Ma cosa fare contro la smemoratez­za  collettiva di ciò che appena ieri e­ra  perfettamente chiaro? Forse, a qualcuno piacerebbe che si partisse per una qualche ‘guerra’. Invece, il Papa, uomo di Dio, dice semplice­mente:  essere umili e pregare, prega­re  e vigilare, «perché il Signore ci dia sempre la libertà del cuore aperto». Il dono di ricordarci che siamo creatu­re,  e che non c’è da inventarci nuovi mondi ‘migliori’ – ma da stare in a­scolto, e aderire.

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Il Papa: il diavolo c’è anche nel XXI secolo, impariamo dal Vangelo come combatterlo

Posté par atempodiblog le 11 avril 2014

Impariamo dal Vangelo a lottare contro le tentazioni del demonio. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha sottolineato che tutti siamo tentati, perché il diavolo non vuole la nostra santità. Ed ha ribadito che la vita cristiana è proprio una lotta contro il male.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Il Papa: il diavolo c’è anche nel XXI secolo, impariamo dal Vangelo come combatterlo dans Anticristo 1z53wc9

“La vita di Gesù è stata una lotta. Lui è venuto a vincere il male, a vincere il principe di questo mondo, a vincere il demonio”. Papa Francesco ha esordito così nella sua omelia, tutta dedicata alla lotta contro il demonio. Una lotta, ha detto, che deve affrontare ogni cristiano. Il demonio, ha sottolineato, “ha tentato Gesù tante volte, e Gesù ha sentito nella sua vita le tentazioni” come “anche le persecuzioni”. Ed ha avvertito che noi cristiani, “che vogliamo seguire Gesù”, “dobbiamo conoscere bene questa verità”:

“Anche noi siamo tentati, anche noi siamo oggetto dell’attacco del demonio, perché lo spirito del Male non vuole la nostra santità, non vuole la testimonianza cristiana, non vuole che noi siamo discepoli di Gesù. E come fa lo spirito del Male per allontanarci dalla strada di Gesù con la sua tentazione? La tentazione del demonio ha tre caratteristiche e noi dobbiamo conoscerle per non cadere nelle trappole. Come fa il demonio per allontanarci dalla strada di Gesù? La tentazione incomincia lievemente, ma cresce: sempre cresce. Secondo, cresce e contagia un altro, si trasmette ad un altro, cerca di essere comunitaria. E alla fine, per tranquillizzare l’anima, si giustifica. Cresce, contagia e si giustifica”.

La prima tentazione di Gesù, ha osservato, “quasi sembra una seduzione”: il diavolo dice a Gesù di buttarsi dal Tempio e così, sostiene il tentatore, “tutti diranno: ‘Ecco il Messia!’”. E’ lo stesso che ha fatto con Adamo ed Eva: “E’ la seduzione”. Il diavolo, ha detto il Papa, “quasi parla come se fosse un maestro spirituale”. E “quando viene respinta”, allora “cresce: cresce e torna più forte”. Gesù, ha rammentato il Papa, “lo dice nel Vangelo di Luca: quando il demonio è respinto, gira e cerca alcuni compagni e con questa banda, torna”. Dunque “cresce anche coinvolgendo altri”. Così è “successo con Gesù”, “il demonio coinvolge” i suoi nemici. E quello che “sembrava un filo d’acqua, un piccolo filo d’acqua, tranquillo – ha ammonito Francesco – diviene una marea”. La tentazione “cresce, e contagia. E alla fine, si giustifica”. Il Papa ha ricordato che quando Gesù predica nella Sinagoga, subito i suoi nemici lo sminuiscono, dicendo: “Ma, questo è il figlio di Giuseppe, il falegname, il figlio di Maria! Mai andato all’università! Ma con che autorità parla? Non ha studiato!”. La tentazione, ha detto, “ha coinvolto tutti, contro Gesù”. E il punto più alto, “più forte della giustificazione – ha rilevato il Papa – è quello del sacerdote”, quando dice: “Non sapete che è meglio che un uomo muoia” per salvare “il popolo?”:

“Abbiamo una tentazione che cresce: cresce e contagia gli altri. Pensiamo ad una chiacchiera, per esempio: io ho un po’ di invidia per quella persona, per l’altra, e prima ho l’invidia dentro, solo, e bisogna condividerla e va da un’altra persona e dice: ‘Ma tu hai visto quella persona?’ … e cerca di crescere e contagia un altro e un altro … Ma questo è il meccanismo delle chiacchiere e tutti noi siamo stati tentati di fare chiacchiere! Forse qualcuno di voi no, se è santo, ma anche io sono stato tentato di chiacchierare! E’ una tentazione quotidiana, quella. Ma incomincia così, soavemente, come il filo d’acqua. Cresce per contagio e alla fine si giustifica”.

Stiamo attenti, ha detto ancora il Pontefice, “quando, nel nostro cuore, sentiamo qualcosa che finirà per distruggere” le persone. “Stiamo attenti – ha rimarcato – perché se non fermiamo a tempo quel filo d’acqua, quando crescerà e contagerà sarà una marea tale che soltanto ci porterà a giustificarci male, come si sono giustificate queste persone”, affermando che “è meglio che muoia un uomo per il popolo”:

“Tutti siamo tentati, perché la legge della vita spirituale, la nostra vita cristiana, è una lotta: una lotta. Perché il principe di questo mondo – il diavolo – non vuole la nostra santità, non vuole che noi seguiamo Cristo. Qualcuno di voi, forse, non so, può dire: ‘Ma, Padre, che antico è lei: parlare del diavolo nel secolo XXI!’. Ma, guardate che il diavolo c’è! Il diavolo c’è. Anche nel secolo XXI! E non dobbiamo essere ingenui, eh? Dobbiamo imparare dal Vangelo come si fa la lotta contro di lui”.

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Via Crucis di Don Giustino Maria Russolillo

Posté par atempodiblog le 11 avril 2014


VIA CRUCIS

di don Giustino Maria Russolillo – Devozionale

Via Crucis di Don Giustino Maria Russolillo dans Don Giustino Maria Russolillo Stazioni-Via-Crucis

I Stazione
Gesù è condannato a morte

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

Che mistero d’iniquità si compie dagli uomini, che mistero di amore ci riveli in te!
O mio Signore! Devo consentire alla tua morte? Ma non posso consentire alla tua condanna! Condanno a morte ogni peccato anche veniale. Voglio distruggerlo in me stesso e nel mondo! Mi abbandono con te alla passione e morte. Fammi una vivente e operante compassione con te, per te stesso! Amen.

Da ripetere alla fine di ogni stazione:
Padre nostro,
Ave Maria,
Gloria al Padre.
Santa Madre, deh, voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore.

Stazioni-Via-Crucis dans Preghiere

II Stazione
Gesù è caricato della Croce

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

O mio Signore! che io sia tutto una vivente e operante compassione per te!
Ma sono io forse la tua croce, o Gesù? Certo lo sono stato! Non lo sono forse ancora? Ma non voglio esser guardato, accolto e abbracciato come la tua croce! Che io non sia mai croce per nessuno, ma invece porti la croce anche degli altri. Senza nulla perdere di pace e dolcezza, per la forza del tuo amore! Voglio essere da te guardato, accolto, abbracciato con amore ben diverso dell’amore alla croce! Che ogni anima ti sia di gioia e gloria per ragioni superiori a quelle del ritorno del figliuol prodigo.

Stazioni-Via-Crucis dans Quaresima

III Stazione
Gesù cade sotto la croce la prima volta

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

O mio Signore, fammi tutto una vivente e operante compassione per te nel mio prossimo! …in questo spasimo della caduta del corpo flagellato, coronato di spine, caricato della croce, in questa umiliazione della tua perdita di forze fisiche e di equilibrio esterno sofferta per me. Che tutte le mie debolezze fisiche sino a sfinimento, restino a maggior forza dell’anima! Ma che mai i demoni abbiano a sghignazzare per vedermi sopraffatto dalle miserie morali. Infondimi tenerezza di amore per compatire e rialzare tutti quelli che cadono. Cadano da ogni parte, senza più rialzarsi, tutti i nemici dell’anima, a cui ho dato baldanza coi miei difetti!

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IV Stazione
L’incontro con la Madre

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

O mio Signore, fammi tutto una vivente e operante compassione per la SS. Vergine tua madre! O SS. Vergine Maria madre di Dio, fammi tutto una vivente e operante compassione per Gesù Figlio di Dio e tuo. Il suo Spirito ha tolto l’impedimento che non ti lasciava venire al Calvario. Il suo Cuore penante all’estremo ti ha chiamata da lontano «o Madre mia!». D’allora ognuno che soffre ti chiama vicino «Madonna mia, Mamma mia!». E tu gli vieni sempre vicino, perché gli sei veramente madre! E presso ogni cuore spezzato è Gesù, e soffre ogni nostro dolore!

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V Stazione
Gesù aiutato dal Cireneo a portare la Croce

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

O mio Signore, fammi tutto una vivente e operante compassione per te in ogni sofferente! Tu non a caso t’incontri in ognuno che soffre e stenta a portare la sua croce. Ogni suo dolore è soltanto effetto di colpe sue personali o solidali con gli altri! Con la colpa, egli si è gettato a perdizione fuori del tuo Cuore, squarciandolo di offesa! Col dolore, si sforza di cancellare la colpa e ritornare a te! Ma non basta mai. Tu fai tutto tuo il suo stesso dolore, non meno che egli fece tutta a te l’offesa infinita delle colpe. E prendi su te tutta la croce, a lui offrendo perdono delle colpe e indulgenza della pena. O benedetto in eterno!

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VI Stazione
Gesù asciugato dalla Veronica

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

O Figlio e mio Dio! Vorrei toglierti piano piano la corona di spine dal capo! O Figlio e Dio mio, vorrei farti sedere sulle ginocchia, e riposare e confortare!
O Figlio, vorrei soavemente ripulire il tuo volto dagli sputi e dal sangue! O Figlio, vorrei con lo stesso Cuore della Vergine Madre ripagarti del dolore! O Figlio, vorrei che lo Spirito Santo mi stampasse il tuo volto in tutto l’essere!
O Gesù, vorrei rendere il tuo volto a ognuno,perché ti seguisse in amore! O Gesù, vorrei che tu vedessi in me il volto del Padre, con l’espressione dello Spirito Santo.

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VII Stazione
Gesù cade sotto la croce la seconda volta

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

O mio Signore, per tutti i tuoi fini sublimi tu abbandoni la tua umanità dolorante all’urto violento delle potestà infernali! Ti adoro, o sapienza e amore, o giustizia e misericordia, che trionfi nella passione di Gesù. Tu, in questa stessa caduta, dai la forza alle anime di superare gli scoraggiamenti e le delusioni. Concedimi di non abbattermi mai lungo il cammino della perfezione. Tu infondi nelle anime la luce per sventare ogni insidia, e la forza per superare ogni assalto diabolico. Concedimi di mai subire, per effetto di mie colpe, qualsiasi influsso del maligno. Nel Santo Spirito, a gloria e consolazione tua, voglio aiutare il prossimo a liberarsi da ogni potestà delle tenebre.

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VIII stazione
Incontro con le pie donne

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

O mio Signore Gesù Cristo! Che anch’io m’incontri con te, col tuo sguardo, col tuo Cuore, a ogni spettacolo di male! Attraverso il tuo sguardo, mi si comunichi il tuo amore e prima come odio e dolore, lotta e vittoria contro ogni peccato. M’incontri con te a ogni spettacolo di sofferenza, e compatisca al mio prossimo come a te in persona. Che anch’io m’incontri col tuo sguardo e col tuo Cuore in ogni mia sofferenza, e ne resti consolato. Che anch’io m’incontri col tuo sguardo e col tuo Cuore nella perfetta compassione per le tue pene, e ne resti più unito a te! Che anch’io m’incontri col tuo sguardo nell’ora della morte, e attraverso il tuo sguardo venga al Paradiso. O Signore Gesù, sia ogni anima così unita a te, che ognuno senta il tuo Cuore nello sguardo di ogni fratello.

Stazioni-Via-Crucis

IX Stazione
Gesù cade sotto la Croce la terza volta

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

O Gesù, tu vuoi abbandonare la tua umanità a tutto l’effetto di dolori fisici, ed essa si abbatte ancora una volta mortalmente. Come l’abbandonasti a tutti gli effetti della tristezza e timore nell’orto, ed essa sudò sangue in agonia mortale. Ma io penso che tu soccombi al presentimento del sacrificio supremo, quale fu l’abbandono misterioso del Padre!
O mio Signore! glorifico il tuo amore di anima umana, di cuore di carne per il Padre Iddio! Questo tuo amore infonde sempre nuove forze a tutta l’umanità tua dolorante, agonizzante. Esso ti rialza, animoso, e ti offre alla crocifissione ed a sofferenze maggiori, prima che alla morte. Dammi questo tuo amore che trionfi, in me e in ogni anima, di tutte le prove, e così mi congiunga a te, per sempre.

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X Stazione
Gesù spogliato delle sue vesti

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

Ti cadono, strappate con violenza, le vesti, e tutte le orribili piaghe si riaprono sul tuo corpo. Tu appari ora in un vestito di sangue, tutto rigato di lividure, tutto increspato di brandelli sanguinolenti. Nessuno ti ha tolto una spina dal capo, nessuno ti ha lavato una piaga, nessuno spasimo ti è stato addolcito!
Non posso fissare il tuo corpo vestito di sangue, senza timore d’impazzire. Così tu mi acquisti la veste della luce, della grazia e della gloria, con cui vuoi vedermi appresso a te, sempre! Che mai i nemici abbiano da me il potere di strapparmi gli abiti delle virtù, di cui tu mi orni. Che sempre l’anima lavori ad acquistare le abitudini virtuose dei tuoi eletti e il corredo nuziale divino!

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XI Stazione
Gesù inchiodato in Croce

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

Eccoti, nel tuo ammanto di sangue, entrare nella sala del convito nuziale della morte! Ti offrono il calice inebriante di fiele, aceto e mirra, e tu lo gusti! Ma non sino ad attutire il senso del dolore! E poi spontaneamente ti distendi sul letto della croce, e offri le mani e i piedi al bacio della morte.
Chi può assistere a questa carneficina? Anche se si trattasse di un povero agnello vivo! Quei colpi martellano nel cuore e nell’anima! Non posso udirli senza timore d’impazzire. A ogni colpo tutto il corpo freme! E l’anima geme la sua preghiera! Padre perdona loro! O mani belle! Mani di preghiera, nel vostro ultimo tremore, voi benedite il cuore dei carnefici!

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XII Stazione
Gesù muore in Croce

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

Mi abbraccio al piede della tua Croce, o mio Signore! Ricordati di me, o Signore, ora che siedi sul trono della croce! Ricordati di me, o Signore, in tutte le tue parole, e volgi anche a me il tuo pensiero, il tuo sguardo. Dì per me al Padre: «Perdonagli, Padre, perché non sapeva a fondo quello che faceva!
«Di’ per me all’Addolorata: «Ecco ora il tuo figlio!» Dì a me pure: «Ecco la vera Madre tua».
O Dio Spirito Santo! Concedimi di dissetare Gesù, di riparare per ogni nostro male, contraccambiare ogni suo bene! Di’ anche a me, o Gesù, ora e nella morte: «Oggi sarai con me nel Paradiso». Dillo a ogni moribondo. Di’ anche di questo mio spirito, ch’è tutto tuo, o Gesù: «Padre, nelle tue mani, consegno questo spirito mio».

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XIII Stazione
Gesù deposto dalla Croce

v) Ti adoriamo, o Cristo e ti benediciamo.
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

Ti adoro, o Figlio di Dio, in ogni goccia di sangue sparsa per l’orto degli ulivi e per il Pretorio.
Ti adoro, o Figlio di Dio, in ogni goccia di sangue rappreso sugli strumenti della passione e sugli abiti dei carnefici! Non meno di quanto ti adoro,  o Figlio di Dio, o Divinità, sempre presente nello stesso corpo deposto dalla croce. Non meno di quanto ti adoro, o Divinità presente nell’anima di Gesù, separata dal suo corpo, e avviata al Limbo!
Ti adoro in grembo alla Madre! Ma vorrei adorarti col suo pianto, col suo cuore ferito. Adorarti con la sua appassionatissima unione alla divina volontà, con la sua compassione unitissima con la tua. Vorrei essere trovato degno che ti depongano nelle mie braccia, nella tua passione continuata nei secoli.

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XIV Stazione
Gesù posto nel Santo Sepolcro

v) Ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo
r) Perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

Chiedo anch’io il tuo Corpo, o Signore, per accoglierlo, se ti degni essere ricevuto nel mio sepolcro vuoto, ma non nuovo! Mio Dio, è un sepolcro il mio cuore! Imbiancato da fuori, pieno di brutte cose al di dentro! Ma tu col ministero dei tuoi angeli, l’hai purificato; e col tuo Spirito l’hai consacrato!
Vieni e restami nel cuore! A celebrarvi la tua risurrezione e ascensione al cielo. Senza lasciarlo mai, ma facendone il tuo posto come un ciborio eucaristico, tutta la vita presente.
Come un tuo trono nella vita del cielo, e anche dal mio cuore continui a essere il Salvatore delle anime. Anche col mio cuore sii il glorificatore del Padre. E molto più, o Signore, ricevimi nel tuo, dammi il tuo! O SS. Vergine Maria madre di Dio!
Fammi vivere tutto unito e trasformato come te in Gesù crocifisso e sacramentato. S. Giovanni Evangelista e pie donne assistenti alla croce, o santi stimmatizzati e più appassionati di Gesù Crocifisso, pregate per me!

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Santa Gemma Galgani: una sfida al positivismo

Posté par atempodiblog le 11 avril 2014

Santa Gemma Galgani: una sfida al positivismo
«Vedevo bene che Gesù mi aveva tolto i genitori, e alle volte mi sgomentavo, perché credevo di essere abbandonata. Quella mattina me ne lamentavo con Gesù, e Gesù sempre più buono, sempre più tenero, mi ripeteva: “Io, figlia, sarò sempre con te. Sono Io tuo Padre, la Mamma tua sarà quella…” e m’indicò Maria Addolorata. “Vieni, avvicinati… non sei felice di essere figlia di Gesù e di Maria?”». Queste parole di Santa Gemma Galgani sintetizzano bene la sua vita di sofferenza e tutto il suo abbandono a Gesù e a Maria.

di Corrado Gnerre – Radici Cristiane

Santa Gemma Galgani: una sfida al positivismo dans Angeli 2ckmr4

Gemma Galgani nacque nel 1878 a Camigliano, un piccolo paese in provincia di Lucca. La famiglia era di modeste condizioni: il padre farmacista e la madre casalinga. Gemma ebbe un’infanzia normale. Frequentò la scuola a Lucca (dove la famiglia si era trasferita) ed ebbe anche molte amiche.

Dolore, stimmate, santità
La normalità fu infranta da prove ravvicinatissime. Nel 1886 morì la mamma, nel 1894 il fratello Gino e nel 1897 il papà. A questi lutti seguì un crollo finanziario della famiglia e, per lei, una serie di malattie, alcune anche gravi. Da una di queste, nell’inverno del 1898, fu miracolosamente guarita per intercessione di Santa Margherita Maria Alacoque. Queste prove permisero a Gemma di fare passi da gigante nella vita spirituale. Era sempre stata attratta ad avere una forte confidenza con  Gesù. Già dai tempi della scuola riempiva i suoi quaderni di pensieri spirituali e di preghiere. Fu così che, crescendo nella vita spirituale, fu beneficiata di doni mistici straordinari: avvertiva chiaramente accanto a sé la presenza dell’angelo custode e parlava con Gesù e Maria.  Fin quando non ebbe il dono delle stimmate. Ella narra così l’avvenimento: «Eravamo alla sera dell’8 giugno 1899, quando tutto ad un tratto mi sento un interno dolore dei miei peccati… Comparve Gesù, che aveva tutte le ferite aperte; ma da quelle ferite non usciva più sangue, uscivano come fiamme di fuoco, che vennero a toccare le mie mani, i miei piedi, il mio cuore. Mi sentii morire…». Quanto simile questa descrizione a quella che san Pio da Pietrelcina farà della sua stimmatizzazione avvenuta il 20 settembre del 1918. Le profonde ferite alle mani, ai piedi e al costato si riaprivano dalle ore 20 di ogni giovedì alle ore 15 del venerdì, e lo straordinario fenomeno era accompagnato da estasi. I bravi coniugi Giannini vollero prendere Gemma nella loro casa, per sottrarla ad una vita di miseria e la trattarono come una figlia. Qui Gemma condusse una vita ritirata tra casa e chiesa, obbediente alle direttive del direttore spirituale, padre Germano, e delle suore passioniste, che la seguivano da vicino. Intanto la malattia che l’aveva colpita nell’età adolescenziale riprese vigore facendola soffrire tantissimo. L’11 aprile del 1903, vigilia della Pasqua, dopo aver partecipato al racconto della Passione di Gesù, si concluse il suo calvario. Fu beatificata nel maggio del 1933 e canonizzata da Pio XII nel maggio del 1940.

Una “derisione” della mentalità corrente
I tempi in cui visse santa Gemma erano tempi di trionfante positivismo. Ebbene, la sua vita fu una grande confutazione di questa convinzione filosofica. Tanti scienziati andavano a studiarla e non ci capivano nulla. Nessuna teoria umana poteva spiegare i fenomeni straordinari che accompagnavano la sua persona. Santa Gemma parlava con il suo angelo custode e gli dava anche incarichi delicati, come quello di recapitare a Roma la corrispondenza ad alcuni suoi direttori spirituali. Scrisse: «La lettera, appena terminata, la dò all’Angelo. È qui accanto a me che aspetta». E le lettere, misteriosamente, giungevano a destinazione senza passare attraverso le Poste del Regno. Santa Gemma prediceva avvenimenti futuri, cadeva in estasi, sudava sangue. Molti che andavano da lei per curiosare, ne uscivano convinti e convertiti.

L’incredibile lotta contro il diavolo
Un aspetto interessante della vita di santa Gemma fu la lotta contro il demonio. Questi fu ferocisissimo con lei, perché non solo la Santa si offriva vittima per la conversione dei peccatori, ma anche perché con i suoi doni straordinari riusciva a convertire molti. Il demonio le si accaniva infierendo atrocemente: tentava di farla cacciare da casa Giannini. Cercava di ingannare i suoi confessori: frugava il suo diario, lasciando le impronte sulle pagine. La tentava contro la castità, la percuoteva, la sollevava da terra, la trascinava sotto l’armadio della sua stanza. Le appariva sotto l’aspetto dell’angelo custode per ingannarla, le riempiva il cibo di vermi per impedirle di mangiare. Il Signore permise addirittura che il demonio si impossesasse di lei. Il diavolo la scagliava contro gli oggetti sacri, la spingeva a sputare sul crocifisso, la faceva urlare contorcendola. È Gemma stessa che ne dà una descrizione nelle lettere inviate al padre Germano suo confessore: «Il demonio mi fa la guerra, me ne fa di ogni specie. Il demonio non dorme. Chissà che tentazioni ancora avrò da passare… chissà che avverrà quando morirò e dovrò essere giudicata…». I testimoni oculari che l’assistevano, hanno sempre assicurato che Gemma non esagerava. Il padre Pietro Paolo la trovò a terra mentre gemeva. Cecilia Giannini disse di averla vista scuotersi come colpita da percosse, la vide cadere dal letto, la scoprì come morta con la bava alla bocca. Una ragazzina di 12 anni, rimasta a dormire una notte con lei per farle compagnia, si spaventò talmente dei colpi uditi, da rifiutarsi di ritornare. Le persone che l’assistevano, quando il mattino ritornavano, trovavano Gemma sfinita e l’aria satura di odore di zolfo. Una di esse, l’amica Eufemia, raccontò che la Santa chiedeva sempre preghiere e acqua benedetta. Raccontò che Gemma spesso vedeva delle cose brutte intorno a sé. Vedeva il letto pieno di pesci che la rodevano. Si vedeva coperta di vermi e di roba sudicia che chiamava “roba dell’inferno”. È sempre l’amica Eufemia a raccontare: «Non si fa altro che spargere il letto con acqua benedetta. Sta male, pochi minuti fa ha buttato un urlo perché le pareva di avere alla gola uno scorpione che la strozzasse, ma che poi per mezzo dell’acqua benedetta, è uscito dal letto in forma di gatto. Dice che si sente sempre pungere in ogni parte del corpo» E padre Pietro Paolo dichiarò: «Il demonio l’assaliva, ed imperando sopra i sensi di quella creatura, le faceva fare atti da ossessa. Si gettava in terra, si avventava alle persone, se queste le avessero presentato qualche oggetto di devozione, sputava addosso al crocifisso è all’immagine della Madonna, e ricordo che un giorno mi prese in mano la corona della cintola e me la troncò in vari pezzi». Un vero calvario, permesso dal suo Gesù affinché potesse meglio conformarsi a Lui. Pochi istanti prima di morire, santa Gemma pronunciò queste parole: «Non chiedo più nulla. Ho fatto a Dio il sacrificio di tutto e di tutti» …e due lacrime le scesero dagli occhi.

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