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Il Papa: il seminario non è un rifugio, guai ai pastori che pascolano se stessi e non il gregge

Posté par atempodiblog le 14 avril 2014

Il Papa: il seminario non è un rifugio, guai ai pastori che pascolano se stessi e non il gregge
Non state diventando “funzionari di un’azienda”, ma “pastori ad immagine di Gesù”. E’ l’esortazione che Papa Francesco ha rivolto ai seminaristi del Pontificio Collegio Leoniano di Anagni, fondato nel 1897 da Leone XIII e che forma i futuri sacerdoti della regione Lazio. Dal Papa, in un intervento più volte a braccio, anche un severo richiamo a quei pastori che “pascolano se stessi e non il gregge”. I seminaristi hanno partecipato all’udienza dopo un pellegrinaggio a piedi, definito dal Papa un “simbolo molto bello del cammino” da percorrere nell’amore di Cristo.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

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Trasformare i “progetti vocazionali in feconda realtà apostolica”. Papa Francesco ha sintetizzato così il compito del Leoniano, come di tutti i seminari ed ha messo l’accento sull’“atmosfera evangelica”, che “consente a quanti vi si immergono di assimilare giorno per giorno i sentimenti di Gesù Cristo, il suo amore per il Padre e per la Chiesa, la sua dedizione senza riserve al Popolo di Dio”. Ed ha indicato nella “preghiera, studio, fraternità e vita apostolica” i “quattro pilastri della formazione”:

“Voi, cari seminaristi, non vi state preparando a fare un mestiere, a diventare funzionari di un’azienda o di un organismo burocratico. Abbiamo tanti, tanti preti a metà cammino … Un dolore, che non sono riusciti ad arrivare al cammino completo; hanno qualcosa dei funzionari, qualche dimensione burocratica e questo non fa bene alla Chiesa. Mi raccomando, state attenti a non cadere in questo! Voi state diventando pastori ad immagine di Gesù Buon Pastore, per essere come Lui e in persona di Lui in mezzo al suo gregge, per pascere le sue pecore”.

“Di fronte a questa vocazione – ha detto – noi possiamo rispondere come la Vergine Maria all’angelo: ‘Come è possibile questo?’”. Diventare “buoni pastori” ad immagine di Gesù, ha osservato Francesco, “è una cosa troppo grande, e noi siamo tanto piccoli”, ma in realtà “non è opera nostra”, “è opera dello Spirito Santo, con la nostra collaborazione”:

“Si tratta di offrire umilmente sé stessi, come creta da plasmare, perché il vasaio, che è Dio, la lavori con l’acqua e il fuoco, con la Parola e lo Spirito. Si tratta di entrare in quello che dice san Paolo: ‘Non vivo più io, ma Cristo vive in me’ (Gal 2,20). Solo così si può essere diaconi e presbiteri nella Chiesa, solo così si può pascere il popolo di Dio e guidarlo non sulle nostre vie, ma sulla via di Gesù, anzi, sulla Via che è Gesù”.

E’ vero, ha detto il Papa, “che all’inizio, non sempre c’è una totale rettitudine di intenzioni”, aggiungendo che “è difficile che ci sia”:

“Tutti noi sempre abbiamo avuto queste piccole cose che non erano di rettitudine di intenzione, ma questo col tempo si risolve con la conversione di ogni giorno. Ma pensiamo agli apostoli! Pensate a Giacomo e Giovanni, che uno voleva diventare il primo ministro e l’altro il ministro dell’economia, perché era più importante. Gli apostoli… pensavano un’altra cosa e il Signore con tanta pazienza… ha fatto la correzione dell’intenzione e alla fine era tanta la loro rettitudine dell’intenzione che hanno dato la vita nella predicazione e nel martirio”.

Il Papa ha sottolineato così l’importanza di “meditare ogni giorno il Vangelo, per trasmetterlo con la vita e la predicazione E ancora, “sperimentare la misericordia di Dio nel sacramento della Riconciliazione, e questo non lasciarlo mai”. “Confessarsi sempre!”, ha esortato, e “così diventerete ministri generosi e misericordiosi perché sentirete la misericordia di Dio su di voi per diventare ministri generosi e misericordiosi”. Essere buoni pastori, ha detto, “significa cibarsi con fede e con amore dell’Eucaristia, per nutrire di essa il popolo cristiano”, “significa essere uomini di preghiera, per diventare voce di Cristo che loda il Padre e intercede continuamente per i fratelli”. Se voi “non siete disposti a seguire questa strada, con questi atteggiamenti e queste esperienze – ha ammonito il Papa – è meglio che abbiate il coraggio di cercare un’altra strada”:

“Ci sono molti modi, nella Chiesa, di dare testimonianza cristiana e tante strade che portano alla santità anche. Nella sequela ministeriale di Gesù non c’è posto per la mediocrità, quella mediocrità che conduce sempre ad usare il santo popolo di Dio a proprio vantaggio. Guai ai cattivi Pastori che pascolano se stessi e non il gregge! – esclamavano i Profeti (cfr Ez 34,1-6), con quanta forza”.

Agostino, ha detto il Papa, prende questa frase profetica nel suo De Pastoribus. “Guai ai cattivi pastori – ha ammonito il Papa – perché il seminario, diciamo la verità, non è un rifugio per tante limitazioni che possiamo avere, un rifugio di mancanze psicologiche o un rifugio perché non ho il coraggio di andare avanti nella vita e cerco lì un posto che mi difenda”:

“No, non è quello. Se il vostro seminario fosse quello, diventerebbe un’ipoteca per la Chiesa! No, il seminario è proprio per andare avanti, avanti in questa strada e quando sentiamo i profeti dire ‘guai!’ che questo ‘guai!’ vi faccia riflettere seriamente sul vostro futuro. Pio XI una volta aveva detto che era meglio perdere una vocazione che rischiare con un candidato non sicuro. Era alpinista, conosceva queste cose”.

Il Papa ha concluso il suo discorso affidando i seminaristi alla Vergine Maria. “I mistici russi – ha osservato – dicevano che nel momento delle turbolenze spirituali bisogna rifugiarsi sotto il manto della Santa Madre di Dio”. Uscire dunque, ma “coperti con il manto” di Maria.

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Il teologo non vede e non tocca: Drewermann e la storicità della risurrezione (1992)

Posté par atempodiblog le 14 avril 2014

Il teologo non vede e non tocca
Drewermann e la storicità della risurrezione
Il caso Drewermann è solo la punta dell’iceberg. Così libri e giornali stanno andando all’attacco delle prove storiche della resurrezione.
di Antonio Socci - Il Sabato, 16.5.1992, n. 20, p. 50-53.
Fonte: Storia Libera

Il teologo non vede e non tocca: Drewermann e la storicità della risurrezione (1992) dans Antonio Socci 2qtfj1y

E’ il 1970. Paolo VI, dopo la grande testimonianza data alla Chiesa e al mondo con il ‘Credo del popolo di Dio’ del 30 giugno ’68, in parecchi drammatici discorsi parla dell’«ora inquieta della Chiesa», vede su di essa «nuvole, tempesta, buio», denuncia la penetrazione dentro le sue volte del «fumo di Satana». Proprio in questi mesi Paolo VI riesce a realizzare un suo grande desiderio per confermare il fondamento della fede: «Et resurrexit tertia die», un grande simposio internazionale sulla resurrezione di Gesù. Il titolo fu proprio «Resurrexit». Alla fine gli studiosi furono ricevuti dal Papa. «Ricordo che Paolo VI parlava in francese» dice il padre Ignace de la Potterie «e sottolineò i due capisaldi storici della testimonianza degli apostoli: la tomba vuota e le apparizioni di Gesù risorto. Il come e il quando della resurrezione è un mistero, ma resta il ‘fatto’ e qui Paolo VI scandì bene queste parole: “Il fatto empirico e sensibile delle apparizioni pasquali”. Ed aggiunse un monito che colpì molti di noi: “.
Era anche un grido di allarme… Poi accadde un piccolo incidente. Racconta padre De La Potterie: «Quando, nel 1974, uscirono gli Atti del simposio con l’allocuzione pontificia, pubblicati dalla Libreria editrice vaticana, quella frase -essendo stata pronunciata a braccio non c’era». Una metafora di ciò che doveva avvenire nella Chiesa. Nelle scorse settimane alcuni giornali hanno avanzato delle conclusioni: nella Chiesa si è tacitamente smesso di credere al fatto storico della resurrezione e alla prova costituita dalle apparizioni «empiriche e sensibili» di Gesù.

Nuovi Lutero?
A Pasqua il settimanale francese L’Express dedica la copertina a Eugen Drewermann. Il teologo tedesco, autore di veri best seller, che vuol trasformare Gesù Cristo in una favola/terapia psicanalitica, è al centro di un grande battage giornalistico in tutta Europa. All’Express rivela che i Vangeli non vanno presi alla lettera, il loro carattere infatti è «simbolico». La resurrezione di Gesù? «E’ la sua persona che è resuscitata, non il suo corpo». Infatti «la sua resurrezione ha avuto luogo nel corso della sua vita». In che consiste questa strana resurrezione? «Egli si è liberato da un “io” che trae i suoi strumenti dal dominio, dal potere, dal denaro, dalla pretesa di possedere la verità». Così, ridotto a simbolo, l’avvenimento di Gesù Cristo non ha più niente di «unico»: «Anche altre religioni, per esempio l’antica religione egiziana, conoscono l’idea della divinità che, in forma umana, muore e risorge». Ad un’agenzia cattolica (la vecchia Informations catholiques) dice: «Bisogna innanzitutto comprendere che la resurrezione non si applica in particolare alla persona di Cristo. Gesù stesso è cresciuto in questa credenza che ha almeno duemila anni più del cristianesimo».
Grazie alle edizioni du Cerf, dei padri domenicani, che hanno invitato il teologo tedesco a Parigi alla veglia di Pasqua, adesso i francesi potranno trovare in libreria tre delle maggiori opere di Drewermann.
Ma c’è di più. L’Express pubblica anche un sondaggio sulla fede dei cattolici francesi. Ne viene fuori che il 25% dei praticanti non crede alla resurrezione di Gesù ed il 48% non crede alla resurrezione dei morti che professa nel Credo. Per i teologi le cose vanno anche peggio. Drewermann in una precedente intervista a Der Spiegel aveva dichiarato: «Quello che dico, lo dice la maggior parte dei teologi che trattano la medesima questione. Solo che non lo fanno se non servendosi di proposizioni subordinate limitative che dovrebbero garantire da una eventuale persecuzione dall’alto».
Un’accusa sconcertante? E’ vero che gran parte dei teologi contemporanei -come Drewermann- non credono che i resoconti evangelici sulla resurrezione vadano presi alla lettera? E’ vero che non credono alla presenza «empirica e sensibile» di Gesù quando tornò fra i suoi dopo la resurrezione? Ed è vero che nei loro libri dicono con complicate perifrasi ciò che Drewermann scrive apertamente?
«Purtroppo penso di sì» risponde amaramente padre De la Potterie, «e mi sembra che la tendenza a negare la storicità dei Vangeli sia oggi molto diffusa». Sul fronte opposto sentiamo Rosino Gibellini, che ha appena pubblicato il volume La teologia del XX secolo (Queriniana): «Drewermann vuole sottolineare soprattutto il valore simbolico della resurrezione. E’ la sua idea. Ma è vero che la maggior parte dei teologi cattolici oggi afferma la ‘realtà’ della resurrezione, non la ‘storicità’». Sofismi o necessarie distinzioni, ricerca teologica o eresie travestite da astrusi giochi di parole?
Per la verità lo stesso presidente della Conferenza episcopale tedesca, il vescovo Karl Lehmann, uno dei vicepresidenti del Sinodo sull’Europa, ha usato questa distinzione in un’intervista rilasciata il 16 aprile all’agenzia Kna: «Quanto alla ‘fattualità storica’ della resurrezione di Gesù Cristo, la cosa è complessa. Comunque è un evento reale. La resurrezione di Gesù Cristo da parte di Dio Padre è, strettamente intesa, un avvenimento nella sfera di Dio, che nel suo nucleo non appartiene alla nostra storia. Ma essa si ripercuote in quanto evento nello spazio e nel tempo». Lehmann, che è stato l’assistente di Karl Rahner, parla difficile per i semplici cristiani. Non così il cardinale Camillo Ruini che, negli stessi giorni, nell’articolo di Pasqua, comparso sul Messaggero, usava la semplicità di san Pietro e san Paolo: «E’ anzitutto una questione di fatto: Gesù è o no risorto? Le testimonianze sono molte, ed alcune sono arrivate a noi in forma diretta e personale da parte dei protagonisti, come ad esempio, e incontestabilmente, quella dell’apostolo Paolo nelle sue lettere. Su questo piano dei dati di fatto nulla di altrettanto attendibile, o anche solo di paragonabile, può essere addotto per negare la resurrezione di Gesù».

Le prove
Perché la teologia è oggi così fumosa e astrusa sulla resurrezione? Ha forse ragione Drewermann? Come vengono trattati i due capisaldi storici della testimonianza degli apostoli indicati da Paolo VI: il sepolcro vuoto e le apparizioni del Risorto?
«Sì» ammette Gibellini «è vero che i racconti delle apparizioni di Gesù sono contestati. Ma è chiarissimo, è ormai assodato che le apparizioni sono racconti credenti della comunità cristiana che presuppongono la fede e non resoconti cronachistici. Perciò hanno tutto un tessuto simbolico».
La prova? «Non sono concordabili fra loro: i racconti delle tre donne, poi la Maddalena, poi Pietro, Giacomo, Gesù in Galilea o a Gerusalemme…» Ma è corretta questa liquidazione?
Erich Stier, uno storico tedesco dell’antichità, risponde così ai teologi: «Come esperto in storia antica devo dichiarare che le fonti sulla resurrezione di Gesù, con la loro notevole relativa contraddittorietà nel dettaglio, rappresentano per lo storico addirittura un criterio di straordinaria credibilità. Perché se fossero state costruite ad arte da una comunità o da un qualsiasi altro gruppo, formerebbero un blocco completo, chiaro e privo di lacune. Qualsiasi storico, infatti, è particolarmente scettico proprio quando un evento straordinario viene riferito mediante resoconti assolutamente privi di contraddizioni». Ma Gibellini, e con lui i teologi, è irremovibile: «Con il progresso degli studi biblici questi resoconti non si possono più accogliere come racconti cronachistici: presuppongono la fede». Ed è questo che si trova scritto nei testi di teologia?
Facciamo una rapida carrellata. Karl Rahner scrive: «Possiamo ammettere tranquillamente che i resoconti, che ci si presentano a prima vista come dettagli storici (historische) degli eventi della resurrezione e rispettivamente degli eventi delle apparizioni, non si lasciano totalmente armonizzare: quindi vanno interpretati piuttosto come rivestimenti plastici e drammatizzanti (di tipo secondario) dell’esperienza originaria “Gesù vive”, e non come descrizione di questa stessa nella sua autentica essenza originaria», insomma non vanno interpretati «come esperienza quasi grossolanamente sensibile». Gli apostoli vedrebbero la resurrezione soprattutto in riferimento al destino di Cristo, «questo destino (e non semplice mente una persona esistente cui in antecedenza è capitato questo e quello) viene spe rimentato come valido e salvato» (Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, pag. 357). Rahner è un simbolo. Quando fu sottoposta ai 1007 studenti della Gregoriana -la più prestigiosa università pontificia- la domanda «quale teologo antico o moderno ha avuto o ha maggiore influenza?» quasi la metà (501) rispose: Karl Rahner (a san Tommaso andarono 203 voti, a sant’Agostino ancora meno).
«Gli antichi, non noi, potevano accettare sic et simpliciter quei racconti» ci spiega ancora Gibellini. «E’ ciò che va sotto il nome di “innocenza narrativa”. Oggi sappiamo come sono nati quei testi, dove sono nati -nella comunità- e ci guardiamo bene dal prenderli alla lettera come resoconti storici: così salviamo quel nocciolo di realtà che pur vi è dietro. Chiamiamo la nostra “seconda innocenza narrativa”».
Ma quando Paolo VI parlava di presenza «empirica e sensibile» di Gesù risorto non prendeva alla lettera quei resoconti? Lo stesso Giovanni Paolo II, in un memorabile discorso nel mercoledì, il 25 gennaio 1989, affermava: «Il Risorto “in persona” apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!” Essi infatti “credevano di vedere un fantasma”. In quella occasione Gesù stesso dovette vincere i loro dubbi e il loro timore e convincerli che “era lui”: “Toccatemi e convincetevi: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”. E poiché loro “ancora non credevano ed erano stupefatti”, Gesù chiese loro di dargli qualcosa da mangiare e “lo mangiò davanti a loro”». Insomma «egli stabilisce con loro rapporti diretti, proprio mediante il tatto. Così nel caso di Tommaso… Li invita a constatare che il corpo risorto, col quale si presenta a loro, è lo stesso che è stato martoriato e crocifisso».
C’è dunque un insegnamento pubblico, ufficiale della Chiesa per il popolo ed un altro, una sapienza nascosta per i dotti, che disprezza la «rozza grossolanità» dei resoconti apostolici? E c’è ancora qualcuno che prende alla lettera la testimonianza oculare degli apostoli?
«Sì, la manualistica cattolica, ufficiale e scolastica, è la vecchia apologetica. Ma questa posizione che direi “massimalista” oggi non ha più nessun seguito fra i teologi» risponde Gibellini. «Vi è poi l’estremo opposto, rappresentato da Schillebeeckx, per cui la resurrezione sarebbe il prodotto dell’esperienza di commozione profonda che hanno avuto gli apostoli. E infine vi è una via media che si può identificare con Walter Kasper».

La vita media, cioé i moderati
Su questa via media conviene gran parte della teologia cattolica? «Sì, la cristologia di Kasper (Gesù il Cristo, Queriniana) ha avuto enorme circolazione, è un testo tradotto in tutte le lingue, che raggiunge una sintesi eccezionale. Direi è un’opera che fa testo, che rappresenta il modo in cui la teologia cattolica oggi riflette sulla resurrezione».
Gibellini si riconosce anche lui nella «via media». Cosa dice Kasper? Sui racconti del sepolcro vuoto, per esempio: che non sono «racconti storici», ma «testimonianze della fede». Inoltre: «Gli enunciati della tradizione neotestamentaria della resurrezione di Gesù non sono affatto neutrali: sono confessioni e testimonianze prodotte da gente che crede». «Le testimonianze sulla resurrezione parlano di un avvenimento che trascende la sfera di tutto ciò che si può storicamente constatare… ciò che è storicamente accertabile non è la resurrezione, ma soltanto la fede che i primi testimoni ebbero in essa». E Gesù che appare fisicamente ai suoi? «Questi racconti vanno dunque interpretati alla luce di quanto essi vogliono esprimere, nel loro carattere cioè di legittimazione della fede pasquale… Le apparizioni non sono eventi riducibili ad un piano puramente oggettivo. Chi ne fa esperienza non è l’osservatore distaccato e neutrale… questo loro “vedere” è stato reso possibile dalla fede».
C’è anche in Kasper un’istintiva ripugnanza al materialismo dei racconti evangelici «dove si parla di un Risorto che viene toccato con le mani e che consuma pasti coi discepoli… A prima vista potrebbero sembrare affermazioni piuttosto grossolane, che rasentano il limite delle possibilità teologiche e che corrono il pericolo di giustificare una fede pasquale troppo “rozza”». Sono accettabili solo se si va oltre la lettera, per ciò che i loro autori volevano esprimere… Anche nel Catechismo per adulti dei vescovi tedeschi, redatto appunto da Kasper, si legge: «Ogni racconto testimonia la comune fede pasquale delle comunità… Sia le narrazioni, talvolta un pò drastiche, dei pasti consumati con il Risorto, sia i racconti a riguardo della tomba vuota, intendono esprimere simbolicamente la corporeità della resurrezione di Gesù».
E’ questa la «seconda innocenza» sopravvenuta dopo venti secoli cristiani. Ma c’è chi parla di truffa intellettuale. Padre Daniel Ols, dell’Angelicum, segretario della Società San Tommaso, ci dice: «Non ha senso dire che la resurrezione non è un fatto storico. Un fatto che non sia storico non è un fatto (anche se, chiaramente, la resurrezione è un mistero che oltrepassa la storia)».
Con un pò d’ironia e un pò di amarezza conclude: «E poi non c’è niente di nuovo: i protestanti-liberali già un secolo fa sostenevano queste idee. E merce trita e ritrita. Deriva dall’errore idealista per cui il cristianesimo è una dottrina: tutto il resto è solo un rivestimento mitico che ha per scopo di far capire verità intemporali o norme di azione. L’importante sarebbe comprendere i significati. Dei fatti che ne sono veicoli possiamo anche fare a meno». Infatti per Drewermann la resurrezione è un’immagine che c’insegna a confidare «nell’amore di Dio più forte della morte». «Ma sono i fatti che sono opera di Dio!» ribatte Ols.
Lo smarrimento dei cristiani semplici è grande, perché purtroppo anche ai preti nei seminari e nei corsi di aggiornamento vengono insegnate tali teorie e quindi la predicazione domenicale ne risente. Peggio però se si tratta di cattolici impegnati, più a contatto con i dottori. Qualche tempo fa su una rivista dei padri passionisti del santuario di San Gabriele fu pubblicata una lettera firmata B.Z., da Napoli: «Sto frequentando un corso di teologia per laici» diceva il lettore. «Arrivati a studiare la resurrezione di Cristo, mi si sono confuse le idee. Il professore, un teologo abbastanza noto tra noi, ha cominciato a distinguere tra fatti storici e fatti di fede, tra dati oggettivi ed esperienza personale degli apostoli. Non ci capisco più niente e sento distrutta la mia fede… Insomma, è vero o non è vero che Gesù è risorto?».

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Importanza e obbligatorietà dell’abito ecclesiastico

Posté par atempodiblog le 14 avril 2014

“L’abito ecclesiastico, come quello religioso, ha un particolare significato: per il sacerdote diocesano esso ha principalmente il carattere di segno, che lo distingue dall’ambiente secolare nel quale vive; per il religioso e per la religiosa esso esprime anche il carattere di consacrazione e mette in evidenza il fine escatologico della vita religiosa. L’abito, pertanto, giova ai fini dell’evangelizzazione ed induce a riflettere sulle realtà che noi rappresentiamo nel mondo e sul primato dei valori spirituali che noi affermiamo nell’esistenza dell’uomo. Per mezzo di tale segno, è reso agli altri più facile arrivare al Mistero, di cui siamo portatori, a Colui al quale apparteniamo e che con tutto il nostro essere vogliamo annunciare”.

Giovanni Paolo II

Importanza e obbligatorietà dell’abito ecclesiastico dans Fede, morale e teologia 1zl66c0

In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero – uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri – sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta, come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico. Il presbitero dev’essere riconoscibile anzitutto per il suo comportamento, ma anche per il suo vestire in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo, la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa.

L’abito ecclesiastico è il segno esteriore di una realtà interiore: «infatti, il sacerdote non appartiene più a se stesso, ma, per il sigillo sacramentale ricevuto (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1563, 1582), è “proprietà” di Dio. Questo suo “essere di un Altro” deve diventare riconoscibile da tutti, attraverso una limpida testimonianza. […] Nel modo di pensare, di parlare, di giudicare i fatti del mondo, di servire ed amare, di relazionarsi con le persone, anche nell’abito, il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale».

Per questa ragione, il sacerdote, come il diacono transeunte, deve:

a) portare o l’abito talare o «un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali»; quando non è quello talare, deve essere diverso dalla maniera di vestire dei laici e conforme alla dignità e alla sacralità del ministero; la foggia e il colore debbono essere stabiliti dalla Conferenza dei Vescovi;

b) per la loro incoerenza con lo spirito di tale disciplina, le prassi contrarie non contengono la razionalità necessaria affinché possano diventare legittime consuetudini e devono essere assolutamente rimosse dalla competente autorità.

Fatte salve situazioni specifiche, il non uso dell’abito ecclesiastico può manifestare un debole senso della propria identità di pastore interamente dedicato al servizio della Chiesa.

Inoltre, la veste talare – anche nella forma, nel colore e nella dignità – è specialmente opportuna perché distingue chiaramente i sacerdoti dai laici e fa capire meglio il carattere sacro del loro ministero, ricordando allo stesso presbitero che è sempre e in ogni momento sacerdote, ordinato per servire, per insegnare, per guidare e per santificare le anime, principalmente attraverso la celebrazione dei sacramenti e la predicazione della Parola di Dio.

Indossare l’abito clericale funge inoltre da salvaguardia della povertà e della castità.

Tratto da: Direttorio per il ministero per la vita dei presbiteri della Congregazione per il Clero

Una città... da favola: Bergamo, gioiello dell'Alta Italia dans Viaggi & Vacanze sb0nxu

2e2mot5 dans Diego Manetti Il sacerdote deve essere riconoscibile (di Mario Palmaro e Alessandro Gnocchi)

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Il Papa: il teologo sia aperto e preghi, se si compiace del suo pensiero è un narcisista

Posté par atempodiblog le 14 avril 2014

Il Papa: il teologo sia aperto e preghi, se si compiace del suo pensiero è un narcisista dans Fede, morale e teologia 2dsijgh

Il Papa ha ricevuto nell’Aula Paolo VI in Vaticano i professori, gli studenti e il personale non docente della Pontificia Università Gregoriana, del Pontificio Istituto Biblico e del Pontificio Istituto Orientale. Il Papa ha ringraziato per il suo saluto il preposito generale dei Gesuiti, padre Nicolas. “Le Istituzioni a cui appartenete, riunite in Consorzio dal Papa Pio XI nel 1928 – ha detto – sono affidate alla Compagnia di Gesù e condividono lo stesso desiderio di «militare per Iddio sotto il vessillo della Croce e servire soltanto il Signore e la Chiesa Sua sposa, a disposizione del Romano Pontefice, Vicario di Cristo in terra» (Formula, 1). E’ importante che tra di esse si sviluppino la collaborazione e le sinergie, custodendo la memoria storica e al tempo stesso facendosi carico del presente e guardando al futuro … con creatività e immaginazione, cercando di avere una visione globale della situazione e delle sfide attuali e un modo condiviso di affrontarle, trovando vie nuove senza paura”.

“Il primo aspetto che vorrei sottolineare – ha proseguito il Papa – pensando al vostro impegno, sia come docenti che come studenti, e come personale delle istituzioni, è quello di valorizzare il luogo stesso in cui vi trovate a lavorare e studiare, cioè la città e soprattutto la Chiesa di Roma. C’è un passato e c’è un presente. Ci sono le radici di fede: le memorie degli Apostoli e dei Martiri; e c’è l’“oggi” ecclesiale, c’è il cammino attuale di questa Chiesa che presiede alla carità, al servizio dell’unità e della universalità. Tutto questo non va dato per scontato! Va vissuto e valorizzato, con un impegno che in parte è istituzionale e in parte è personale, lasciato all’iniziativa di ciascuno. Ma nello stesso tempo voi portate qui la varietà delle vostre Chiese di provenienza, delle vostre culture. Questa è una delle ricchezze inestimabili delle istituzioni romane. Essa offre una preziosa occasione di crescita nella fede e di apertura della mente e del cuore all’orizzonte della cattolicità. Dentro questo orizzonte la dialettica tra “centro” e “periferie” assume una forma propria, cioè la forma evangelica, secondo la logica di Dio che giunge al centro partendo dalla periferia e per tornare alla periferia”.

“L’altro aspetto che volevo condividere – ha aggiunto – è quello del rapporto tra studio e vita spirituale. Il vostro impegno intellettuale, nell’insegnamento e nella ricerca, nello studio e nella più ampia formazione, sarà tanto più fecondo ed efficace quanto più sarà animato dall’amore a Cristo e alla Chiesa, quanto più sarà solida e armoniosa la relazione tra studio e preghiera. Questa non è una cosa antica, questo è il centro! Questa è una delle sfide del nostro tempo: trasmettere il sapere e offrirne una chiave di comprensione vitale, non un cumulo di nozioni non collegate tra loro. C’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini, non di una sintesi ma di una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di fede. La filosofia e la teologia permettono di acquisire le convinzioni che strutturano e fortificano l’intelligenza e illuminano la volontà… ma tutto questo è fecondo solo se lo si fa con la mente aperta e in ginocchio. La mente aperta e in ginocchio. Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre”.

Il Papa ha quindi ha proseguito: “Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo, secondo quella legge che san Vincenzo di Lerins descrive così: «annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate» (Commonitorium primum, 23: PL 50, 668): si consolida con gli anni, si dilata col tempo, si approfondisce con l’età. Questo è il teologo che ha la mente aperta. E il teologo che non prega e che non adora Dio finisce affondato nel più disgustoso narcisismo. E questa è una malattia ecclesiastica. Fa tanto male il narcisismo dei teologi, dei pensatori”.

“Il fine degli studi in ogni Università pontificia – ha sottolineato – è ecclesiale. La ricerca e lo studio vanno integrati con la vita personale e comunitaria, con l’impegno missionario, con la carità fraterna e la condivisione con i poveri, con la cura della vita interiore nel rapporto con il Signore. I vostri Istituti non sono macchine per produrre teologi e filosofi; sono comunità in cui si cresce, e la crescita avviene nella famiglia. Nella famiglia universitaria c’è il carisma di governo, affidato ai superiori, e c’è la diaconia del personale non docente, che è indispensabile per creare l’ambiente familiare nella vita quotidiana, e anche per creare un atteggiamento di umanità e di saggezza concreta, che farà degli studenti di oggi persone capaci di costruire umanità, di trasmettere la verità in dimensione umana, di sapere che se manca la bontà e la bellezza di appartenere a una famiglia di lavoro si finisce per essere un intellettuale senza talento, un eticista senza bontà, un pensatore carente dello splendore della bellezza e solo “truccato” di formalismi. Il contatto rispettoso e quotidiano con la laboriosità e la testimonianza degli uomini e delle donne che lavorano nelle vostre Istituzioni vi darà quella quota di realismo tanto necessaria affinché la vostra scienza sia scienza umana e non di laboratorio”.

Papa Francesco ha così concluso: “Cari fratelli, affido ciascuno di voi, il vostro studio e il vostro lavoro all’intercessione di Maria, Sedes Sapientiae, di sant’Ignazio di Loyola e degli altri vostri santi Patroni. Vi benedico di cuore e prego per voi. Anche voi, per favore, pregate per me! Grazie!”.

Tratto da: Radio Vaticana

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