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Una devozione costante a Maria

Posté par atempodiblog le 22 janvier 2014

Una devozione costante a Maria dans Citazioni, frasi e pensieri t8l0gi

“Una sincera, figliale, illimitata fiducia in Maria, una tenerezza singolare verso di Lei, una devozione costante ci renderanno superiori ad ogni ostacolo, tenaci nelle risoluzioni, rigidi verso di noi, amorevoli con il prossimo ed esatti in tutto”.

San Giovanni Bosco

divisore dans Medjugorje

freccetta.jpg Novena a San Giovanni Bosco (da recitarsi dal 22 al 30 gennaio)

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L’amore cristiano non è quello delle telenovele

Posté par atempodiblog le 22 janvier 2014

L'amore cristiano non è quello delle telenovele dans Citazioni, frasi e pensieri s2eey1

“Guardate che l’amore di cui parla Giovanni non è l’amore delle telenovele! No, è un’altra cosa”.

Papa Francesco

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Terminato il tormento
Dell’amore insoddisfatto
Più grande tormento
Dell’amore soddisfatto”.

Thomas Stearns Eliot

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“In tutto ciò che valga la pena fare, sino ad ogni piacere, c’è un punto di dolore o di noia che deve essere preservato, proprio perché il piacere possa rivivere e durare. L’allegria della battaglia viene dopo il primo timore della morte; l’allegria nel leggere Virgilio viene dopo la noia dell’apprendimento; la gioia del bagnante, dopo il primo colpo dell’acqua fredda e il successo del matrimonio viene solo dopo la delusione della luna di miele”.

Gilbert Keith Chesterton

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SUORA-MAMMA/ Il peccato, da occasione di misericordia a “scusa” per non amare più

Posté par atempodiblog le 21 janvier 2014

SUORA-MAMMA/ Il peccato, da occasione di misericordia a scusa” per non amare più
di Don Federico Pichetto – Il Sussidiario

 SUORA-MAMMA/ Il peccato, da occasione di misericordia a “scusa” per non amare più dans Articoli di Giornali e News 2uhr0ur

Caro direttore,
mi permetto di ritornare un attimo sulla vicenda della suora del Salvador che la scorsa settimana a Rieti, tra il clamore dei media e la rozza ironia della Rete, ha partorito un bambino nell’ospedale cittadino. Lo faccio per un particolare – riportato dal Corriere della Sera – tutt’altro che secondario: le suore dell’Istituto cui questa donna appartiene si sarebbero infatti rifiutate di andarle a far visita perché – cito – con quello che ha fatto non pare il caso”. Io non so quanto di vero ci sia in questa ricostruzione giornalistica, ma una risposta del genere mette in luce, una volta per tutte, quale sia la malattia profonda del nostro mondo occidentale: il fatto che tutti, ad un certo punto, ci sentiamo autorizzati e giustificati a smettere di amare.

Infatti, a parte l’ossimoro di suore che non si curano di una loro professa perché peccatrice”, ci sono un sacco di esempi che costellano la nostra quotidianità e che ci dicono che il peccato – l’unico vero peccato – sia proprio questo smettere di amare.

C’è sempre una situazione o un’azione che ci porta a interrompere il bene: per noi stessi, per gli altri, per Dio. Il protestantesimo è nato proprio su questa resa” rispetto alla natura umana: Lutero si guardò dentro e vide che c’era una parte di sé così mostruosa e vecchia” che mai egli avrebbe potuto amare. Ognuno di noi, a volte, smette di amare l’ampiezza e la profondità del proprio cuore, rifugiandosi in qualunque surrogato di bene la vita offra. Nello stesso modo si smette di amare il marito, la moglie, i genitori o i figli, rottamando matrimoni o amicizie come fossero cioccolatini. Eppure tutti noi sbagliamo, tutti pecchiamo. Noi occidentali, però, abbiamo trasformato il peccato da occasione di misericordia a ragione valida per non amare più. Quante volte gli altri ci amano finché non pecchiamo. Quante volte noi amiamo gli altri finché sono perfetti”.

Il cristianesimo è la notizia di un Dio che – dinnanzi al peccato di Adamo – non ha smesso di amare, ma si è fatto Adamo per abbracciare un uomo che, già in quel giardino, aveva deciso che – pur di avere un certo frutto – andava bene anche smettere di amare Dio. A differenza di Cristo noi siamo soliti smettere di amare chi smette di amarsi, i peccatori. Così facendo creiamo delle solitudini affettive” che l’uomo pretende poi di colmare da sé, col compiacimento del potere e l’approvazione dei media.

Per questo il Papa ci sta dicendo che l’unico errore che può fare un cristiano è proprio quello di smettere di amare” sé e l’altro in nome di un’idea, di una dottrina, di un errore. È in questo modo che, in effetti, facciamo spazio al potere, al piacere e al ricatto del far di tutto pur di possedere”. Nessuno, però, è giustificato quando smette di amare, anche se – certamente – l’amore non si può né imporre né pretendere: l’amore è generato sempre  da un’esperienza di amore.

Se noi non sperimentiamo nella nostra vita l’amore di Dio, ma solo il Suo giudizio, ovviamente il giudizio sarà anche il metro con cui misureremo la vita degli altri. Per questo il Papa non si mette l’elmetto e non attacca a testa bassa i peccatori, ma solo le strutture di peccato” che si manifestano nel carrierismo, nello sfruttamento e nelle lobby di pressione internazionale: perché il mondo ha bisogno di perdono e di responsabilità, il mondo ha bisogno di ritrovare tutta la dignità dell’essere uomini, stigmatizzando quegli atteggiamenti e comportamenti che calpestano l’amore totale e definitivo, pretendendo di essere giustificati sempre e comunque. Il dolore, che l’altro può arrecarci col proprio male, non può mai essere fonte di alcun diritto, ma solo occasione per riaprire tutto il proprio cuore nella ricerca di Ciò che è fedele, ciò che non tradisce e non delude.

Questo è quello che auguro alle suore di Rieti e a tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, hanno deciso di interrompere il Bene. Nell’ora del dolore e della prova è un Altro Amore che dobbiamo cercare affinché il nostro cuore si apra e non smetta mai di abbracciare la vita in tutta la sua drammaticità. In ogni vuoto d’amore si fa strada la chiacchiera, la deresponsabilizzazione e la presunzione. L’Occidente non ripartirà mai da una protesta o da una decisione moralmente ordinata: l’unica speranza del nostro tempo è trovare un volto – una valida ragione – per cui valga la pena non cedere alla tentazione di andare oltre, alla tentazione – insomma – di allontanare i poveri e i peccatori dalla nostra presunta perfezione.

È per questo che siamo insieme, è per questo che c’è il Papa. Perché nessun uomo abbia mai un alibi valido e corretto per smettere di amare e di amarsi. Il peccato non è la fine del mondo, ma l’inizio di un Amore più grande. Quello che proviene dalla passione che Cristo mostra tutti i giorni per la mia vita.

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Sant’Andrea delle Fratte: il santuario della Madonna del Miracolo

Posté par atempodiblog le 20 janvier 2014

Accanto all’altare della Basilica di Sant’Andrea delle Fratte c’è una placca, in francese, che recita così:
“Il 20 gennaio 1842, Alphonse Ratisbonne da Strasburgo venne qui da ebreo ostinato. Questa Vergine gli apparve così come tu la vedi. Cadde ebreo e si alzò cristiano. – Forestiero, portati a casa il prezioso ricordo della misericordia di Dio e del potere della Vergine”.

Sant’Andrea delle Fratte: il santuario della Madonna del Miracolo
di Cristina Mochi - Radici Cristiane

Sant'Andrea delle Fratte: il santuario della Madonna del Miracolo dans Alfonso Maria Ratisbonne madonnadelmiracolo

Un esterno austero, in semplici mattoni, contrasta con l’interno fulgido e brillante della chiesa dedicata a sant’Andrea, poi considerata santuario mariano dopo l’apparizione miracolosa della Vergine. Il candido campanile diventa monumentale ostensorio proteso verso il cielo: l’architettura si fa simbolo di Grazia, Borromini il suo umile servo.
L’episodio che ha inciso profondamente nella storia della chiesa e dell’intera cristianità è rappresentato dall’Apparizione della Vergine a S. Andrea delle Fratte, il 20 gennaio 1842, e la consecutiva conversione dell’ebreo Alfonso Ratisbonne.
Da quel momento le iniziative dedicate alla “Madonna del Miracolo”, come amava chiamarla il popolo romano, si moltiplicarono, portando all’istituzione del Rosario giornaliero e del Mese Mariano. Per la devozione e le molte conversioni, Papa Benedetto XV chiamò questo Santuario la “Lourdes Romana”.

Borromini elabora gli esterni
La chiesa di S. Andrea delle Fratte, sorta verso il Mille e denominata S. Andrea infra hortos, per il carattere rurale della zona, fu dedicata all’Apostolo protettore del Regno di Scozia e per questo fu affidata prima alla comunità scozzese, poi alla Confraternita del Sacramento, ed infine concessa, da Papa Sisto V, nel 1585, ai Minimi di San Francesco di Paola, all’indomani dello scisma della chiesa inglese.
Nel 1653 si decise il completamento secondo il progetto di Francesco Borromini, che intervenne prevalentemente sugli esterni: mascherò la cupola all’interno di un alto tamburo (mutilo purtroppo del lanternino), realizzò il campanile e la tribuna.
Priva di ogni superflua decorazione, realizzata preferendo al marmo la duttilità del mattone, l’architettura si traduce in una scultura dai caldi passaggi chiaro-scurali, plasmata com’è dalla luce. Superbo lo snello campanile, trasformato in fiaccola dell’Amor Divino, nel quale sono inserite le erme dei Cherubini, gli Angeli più vicini a Dio, a cui la tradizione cristiana ha affidato il difficile compito di tradurre l’immagine della Grazia Divina.
Una spiritualità sentita e profonda, quella del Borromini, che sa trasformarsi in “architettura parlante”. Anche gli interni di S. Andrea ci sanno svelare sorprese inaspettate.

Capolavori di Bernini all’interno
Di grande impatto scenografico sono i due Angeli di Gian Lorenzo Bernini, iniziati nel 1667 e posti ai lati dell’abside. L’Angelo con il cartiglio e quello con la corona di spine, dovevano far parte della serie di dieci Angeli con i simboli della Passione voluti da Papa Clemente IX per il Ponte Sant’Angelo.
Le due statue di S. Andrea delle Fratte, le uniche realizzate dal Bernini, ritenute troppo belle per essere sciupate dalle intemperie, rimasero nello studio del maestro e solo più tardi vennero destinate alla chiesa.
Giovan Battista Maini, invece, è l’autore della scultura rappresentante S. Anna morente, posta nel transetto a sinistra. L’opera ci appare come chiara ed efficace interpretazione del tipo berniniano della beata Ludovica Albertoni e della Trasverberazione di S. Teresa, motivi che sprigionano grande forza drammatica proposta con l’accentuazione espressiva del volto e dei gesti, secondo la descrizione dello stato estatico della stessa S. Teresa d’Avila, canonizzata nel 1622.

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[Ma che sant'uomo!] La monaca di Watton

Posté par atempodiblog le 20 janvier 2014

[Ma che sant'uomo!] La monaca di Watton
Tratto da: Una penna spuntata

[Ma che sant'uomo!] La monaca di Watton dans Misericordia 2wnpq3c

Aelred di Rielvaux si lasciò scappare un mugolio di disperazione. “No, aspetta, non dirmelo. Non dirmelo. Vediamo se indovino. È successo al priorato di Watton”. Il segretario abbassò lo sguardo con aria imbarazzata. “Ehm. Proprio così, signore”. Aelred alzò gli occhi al cielo, come ad invocare un po’ di pazienza. “Ma ci credo”, sbottò. “In nome del cielo, si poteva anche immaginare. Ma a te, a naso, verrebbe mai in mente di far convivere, praticamente nello stesso edificio, un gruppo di giovani suore e un gruppo di giovani canonici?”. Il segretario continuò a fissarsi la punta degli stivali. “Ehm…”. “Ed è proprio una cosa generalizzata, eh!”, continuò Aelred. “Ho già convocato il fondatore dell’ordine, gli ho già fatto presente che una situazione del genere espone a pericoli tremendi: gli ho spiegato che ne va del buon nome della sua fondazione, gli ho spiegato che la paglia vicino al fuoco brucia e che la situazione non è sostenibile… e lui, testa dura, continua sulla stessa strada. Le suore si dedicano alla vita contemplativa e i canonici maschi le aiutano nei lavori pesanti, dice. Io non so come possa essere così incapace di vedere i rischi”. “Sì, ehm”. Il segretario tossicchiò, forse per farsi coraggio: “nello specifico, in questi mesi, i canonici maschi avevano lavorato proprio nei locali del convento delle suore, diverse ore al giorno, per far lavori di muratura”. Aelred si nascose il viso fra le mani, sospirando. “E”, si fece forza il segretario, “la suora in questione, forse, non era davvero vocata a questa vita. Qui, nella lettera, si parla di una ragazza che era entrata in monastero quando aveva quattro anni, come oblata, e che adesso sarebbe in età da marito”. “Fantastico”, commentò Aelred con sarcasmo: “mi sembra proprio il mix perfetto. E io cosa c’entro, in tutto questo?”. Il segretario tossicchiò di nuovo: era visibilmente imbarazzato. “Ecco: abbiamo ricevuto questa lettera da parte di Gilbert di Sempringham… il fondatore dell’ordine, insomma. Nella sua pergamena, Gilbert ammette che la situazione gli sta sfuggendo di mano e vi implora di intervenire, di indagare… voi che avete più esperienza, che siete a capo di un’abbazia da tanti anni…”. Poco ci mancò che Aelred scoppiasse a ridere. “Devo indagare? Cioè, vuole che gli spieghi nei dettagli cos’è successo?”. “. Cioè. No! Nel senso”. Il segretario era diventato leggermente violaceo. “È che la storia non finisce qui. Ci sono state delle complicanze”. “Oh misericordia. Peggio ancora di così?”. “Purtroppo sì, signore. Perché le consorelle a un certo punto si sono accorte degli incontri clandestini fra la monaca e questo canonico, al che le hanno parlato e le hanno ingiunto di smettere. E poi immagino che la ragazza abbia confessato i suoi peccati e abbia fatto penitenza, comunque fino a quel punto se la son sbrigati da soli nel convento”. “Eh. E dunque?”. Il segretario prese un profondo respiro. “E dunque, dopo qualche tempo la monaca di Watton s’è scoperta incinta”. “Oh, Signore”, sussurrò Aelred. “E a quel punto, stando alla lettera, le consorelle sono un po’ uscite di testa. Perché dicevano che una suora incinta gettava infamia su tutto il monastero, attirava l’ira di Dio sulla comunità, era una vergogna per il buon nome… insomma, alcune hanno proprio dato fuori di matto e hanno proposto di uccidere la suora incinta. Poi è intervenuta la frangia più moderata della comunità, che ha deciso di tenere con sé la consorella mettendola in stato di semi-reclusione”. “Ehm. Già meglio…”, mormorò Aelred, a voce bassa. “Sì, ehm. Diciamo che poi le consorelle fuori di testa sono andate a cercare il padre del bambino, e l’hanno trovato, e hanno costretto la suora incinta a castrarlo pubblicamente davanti a tutti per punizione di quello che aveva fatto…”. “Ma in nome del cielo!!”. “Ehm. Comunque lui sta bene. Cioè, è sopravvissuto. Ma il problema è un altro, cioè che hanno piazzato ‘sta suora incinta in una celletta isolata in cui vive in uno stato di semi-reclusione, a metà fra la penitenza e la punizione e la prevenzione di altri gesti sconsiderati, che Dio non voglia!… solo che, ehm, adesso la suora non è più incinta”. “Cioè, ha partorito?”, domandò Aelred. “No, no! Non ha partorito. È proprio che non è più incinta”. Aelred sgranò gli occhi, orripilato. “Mi stai dicendo che si è procurata un aborto?!”. “No! Cioè: è quello che si stanno chiedendo tutti, a quanto pare. Era già in stato avanzato di gravidanza: la sera prima aveva il pancione, il petto gonfio, tutti quei segni esteriori della gravidanza, e la mattina dopo era tornata alla normalità, come se niente fosse successo, e del bambino non c’era traccia. Lei asserisce di non aver fatto assolutamente nulla, e di non sapere dove sia suo figlio”. Sant’Aelred di Rielvaux guardò a lungo il suo segretario, che coraggiosamente ricambiò lo sguardo tenendo in mano la lettera. “È stato appunto in questo frangente che il fondatore dell’ordine ha richiesto l’aiuto di qualcuno con più esperienza, signore”.

***

L’abate di Rielvaux si inginocchiò davanti alla monaca di Watton, guardandola con dolcezza. Sembrava così incredibilmente piccola e spaventata, presa in mezzo a questa storia orribile e decisamente più grossa di lei. Aveva gli occhi rossi di chi ha pianto a lungo, e stava seduta su un pagliericcio nella sua piccola celletta. Un grosso catenaccio le stringeva il polso sinistro, impedendole di scappare. Aelred guardò la suora negli occhi, e accennò un sorriso per rassicurarla. “Dov’è il tuo bambino, sorella?”, le chiese a bassa voce. Gli occhi della suora si riempirono di lacrime, di nuovo. “Io non lo so, signore! Io non lo so, ve lo giuro su quanto ho di più caro al mondo!”. Aelred aprì la bocca e poi la richiuse senza aver detto niente, cercando disperatamente qualcosa di sensato da fare a quel punto. “Sorella, ehm”, iniziò molto cautamente. “Come è possibile che non lo sappiate? Voglio dire”, ed esitò: “eravate incinta, e siete chiusa in una stanza con un catenaccio che vi inchioda alla parete… come è possibile che di punto in bianco…?”. La monaca di Watton abbassò lo sguardo, singhiozzando. “Nessuno qui vi accusa di niente”, disse Aelred velocemente: “o quantomeno, io non vi accuso di nulla, non vi conosco e vi do credito di fiducia: sono stato inviato qui apposta per capire. Solo che, se voi non ci spiegate…”. La monaca singhiozzò: “io l’ho già spiegato, ma nessuno mi crede!”. “Ma può darsi che vi creda io, sorella”, ribatté Aelred a bassa voce. “Coraggio”. “È stato Henry Murdac, signore. È venuto nella mia cella”, singhiozzò la suora, “e ha portato con sé il bambino, dicendo che con lui sarebbe stato al sicuro, e che tutto sarebbe andato bene”. Seguì un silenzio di dieci secondi abbondanti. Aelred fissò la suora, che dal canto suo teneva lo sguardo fisso sul pagliericcio del suo letto. “Henry Murdac”, ripeté infine sant’Aelred, lentamente. “Sì, signore. Il vescovo di York”. Ci fu un altro lungo silenzio. “Henry Murdac è morto, sorella. Da anni”, disse Aelred con cautela. “Lo so”, fece la monaca rincominciando a piangere. “È stata un’apparizione: è venuto nella mia cella, di notte, per due volte; risplendeva di luce. La prima notte mi ha rassicurata, ha detto che sarebbe andato tutto bene e di prepararmi, e con un tocco ha spezzato la catena che mi legava il braccio destro”; ed effettivamente indicò, per terra, un moncone di catena che sembrava essersi rotta in due. “La notte successiva è tornato” – e gli occhi della suora erano pieni di lacrime – “ed era in compagnia di due donne, anch’esse splendenti di luce: una di loro, forse, era la Vergine Maria”. Aelred sgranò gli occhi: “attenta a quello che dici, sorella”. “Dico il vero!”, insisté la suora. “Loro…”. Prese un respiro profondo. “Mi sono improvvisamente sentita sgravata, ed ecco che una delle due donne teneva fra le sue braccia il mio bambino. Il vescovo Murdac mi ha detto che non ci sarebbe mai stato spazio, nel convento, per il bambino, e che io sarei stata costretta a fuggire col neonato subito dopo il parto, accompagnata da uno scandalo che mi avrebbe seguita per sempre. Ha detto che la situazione era troppo delicata, e che io ed il bambino avremmo fatto una brutta fine, abbandonati a noi stessi. E quindi ha detto che avrebbe provveduto a portare il bimbo in un posto dove sarebbe stato meglio… io vi giuro, mio signore, che non ho fatto assolutamente niente al bambino: l’ho visto e l’ho baciato, era sereno, se ne stava accoccolato fra le braccia della signora splendente di luce… stava bene…”. Per la seconda volta nell’arco di pochi minuti, Aelred boccheggiò alla disperata ricerca di qualcosa da dire. “Il vescovo Murdac era sempre stato il mio protettore, per così dire”, insisté la suora fra le lacrime. “Era lui che mi aveva portata al convento quand’ero bambina, quand’ero rimasta sola. È tornato tante volte a visitarmi, finché è stato in vita… e forse, anche dopo la morte ha voluto prendersi cura di me…”. Aelred si passò una mano fra i capelli, cominciando a presagire che quella sarebbe stata una lunga, lunga storia.

***

Una mezz’oretta più tardi, l’abate di Rielvaux era a colloquio con la madre superiora del monastero. “Non è possibile”, domandò cautamente, “che la ragazza abbia partorito durante la notte, e che qualcuno abbia provveduto a portare via il neonato?”. “No. Lo escludo”. L’anziana suora sembrava categorica. “Io stessa custodisco le chiavi della cella in cui è reclusa: nessuno avrebbe potuto entrare e uscire da quella stanza senza avvisarmi”. “Ecco: a proposito del trattamento vergognoso riservato alla sventurata ed al suo amante, si potrebbe aprire un capitolo a parte. Lodo il vostro zelo e apprezzo il vostro sdegno, ma tutto questo non è tollerabile. Ma per ora mi preme capire cosa ne è stato del bambino”, sospirò sant’Aelred, ed esitò. “Ed è possibile – scusate la domanda, ma sono obbligato a chiedere – è possibile che qualche consorella, nel corso di questi mesi, sia riuscita a far scivolare nel cibo della ragazza qualche… erba in grado di causare l’aborto…?”. “No! In nome del cielo, no! Non posso nemmeno immaginarlo!”. “E del resto” insistette l’uomo, cautamente, “entrando nella cella la mattina dopo, voi non avete trovato dei… resti… dei segni di sangue…?”. “No”, ripeté la suora. “Anzi: abbiamo ordinato alla consorella di spogliarsi; dovevamo capire. Il suo ventre era piatto e liscio, e il suo seno era tornato quello di una ragazza che non ha mai avuto latte”. Aelred soppesò le parole della suora, lanciando un’occhiata al crocifisso appeso al muro. “Avete mai preso in considerazione l’ipotesi che la ragazza dica la verità?”, domandò piano. La madre superiora batté i pugni sul tavolo per lo sdegno. “Che la Vergine Maria sia venuta a prendere il bambino di una suora rimasta incinta dopo aver infranto il voto di castità assieme a un frate, e che contestualmente abbia liberato la peccatrice dalle catene che la legavano alla cella? Come se la sciagurata fosse una povera vittima innocente?!”. Aelred accennò un mezzo sorriso. “Forse, la Vergine Maria non condivideva il trattamento che avevate in mente di riservare alla ragazza e al suo bambino?”.

***

Nessuno, al priorato di Watton, riuscì mai ad appurare cosa fosse successo davvero quella notte. Del resto, i miracoli non si provano con una indagine razionale. Certo è che, nella notte successiva, lo stesso Aelred inviò alcune sentinelle a sorvegliare, dall’esterno, la cella della reclusa, per controllare che la suora non avesse trovato un qualche modo per comunicare con l’esterno. Nessuno entrò e nessuno uscì dalla cella, quella notte: le sentinelle di Aelred furono pronte a giurarlo. Di conseguenza, nessuno comprese mai come fosse stato possibile che, la mattina dopo, all’interno della cella, fosse scomparsa nel nulla anche la seconda catena che, fino a poche ore prima, aveva avvinto il polso sinistro della suora. “È stato il vescovo Murdac!”, spiegò la monaca fra i singhiozzi, senza nemmeno avere il coraggio di allontanarsi da quel letto in cui era stata confinata. “Dovete credermi, io non ho fatto niente! Il vescovo ha detto che adesso ero libera: libera di cominciare una nuova vita, perché il mio peccato era stato perdonato!”.

Nessuno, al priorato di Watton, poté mai confermare le parole della ragazza – ma, del resto, qualcosa di inspiegabile era accaduto, in quelle notti. E immaginando che il Signore avesse scelto quei segni per manifestare la sua volontà, le monache di Watton agirono di conseguenza.

***

La monaca di Watton è stata, per così dire, la prima “storia bizzarra di buffi fatti medievali” che io abbia mai letto in assoluto. Frequentavo, all’epoca, la prima liceo classico; e la storia della suora incinta era inclusa in una raccolta di leggende medievali che mi era stata regalata per Natale da un amico di famiglia. Avrò avuto sedici anni, all’epoca; e, all’epoca, avevo riso molto per la trucida descrizione del modo in cui le suore di Watton avevano costretto all’evirazione il canonico libidinoso. Ché si è trattata di una lunga e trucida tortura dettagliatamente descritta a pro’ dei posteri, veh! A distanza di quasi dieci anni, ripensando a questa storia, sono molto più colpita da un altro particolare. Forse meno trucido, ma più significativo: questa sconcertante misericordia.

Innanzi tutto: la storia della monaca di Watton è “vera”, per così dire. Nel senso: ce la descrive proprio sant’Etelredo di Rielvaux, rievocando un episodio che, a suo dire, gli era realmente accaduto qualche anno prima: forse nel 1159; forse nel 1164. Comunque, in un’epoca abbastanza antica: in quegli anni, non è che si andasse tanto per il sottile con le suore (!) fornicatrici (!) che rimanevano incinte (!) di un canonico (!). Nel suo scritto, Etelredo di Rielvaux critica la durezza con cui i due peccatori erano stati trattati dai confratelli… però mi sa che era lui ad essere in minoranza: mi sa che l’atteggiamento comune, nei confronti di due peccatori di questo calibro, era comunque abbastanza impietoso, all’epoca. Per non parlare poi della reazione del popolino: immaginate lo sdegno, le battutacce, lo stigma su chi ha peccato e/o su chi ha messo i peccatori nelle condizioni di peccare! E invece, Etelredo di Rielvaux – evidentemente, sentendone il bisogno – se ne esce con questa strana storia di misericordia e di assoluzione, che se non sapessi che è originale mi sembrerebbe persino troppo “moderna” per esser vera.

È stata una leggenda inventata a tavolino? Ah, alcuni storici suggeriscono anche questa ipotesi: grazie a un miracolo di questo tipo, il monastero di Watton non era più “quel covo di peccatori dove le suore fornicano coi frati”; anzi, diventava “quel luogo di misericordia dove il Signore Iddio ha operato grandi prodigi”. Vabbeh, d’accordo: mettiamo in campo pure quest’ipotesi.

Ma a livello pastorale, a me piace tantissimo la storia della monaca di Watton. Veniamo messi a parte di questo miracolo, ma poi il predicatore non ci racconta nient’altro sul destino della suora. Sarà rimasta in convento con le sue consorelle, ad espiare i suoi peccati? Si sarà fatta una nuova vita da qualche altra parte, magari in un paese in cui nessuno conosceva i suoi trascorsi? E il bambino: che fine ha fatto? È volato in cielo con la Madonna, perché il Signore lo chiamava a sé? È stato affidato miracolosamente alle cure di una coppia sterile, capace di prendersi cura di lui meglio di quanto avrebbe potuto fare, all’epoca, una suorina altomedievale senza nessun parente ad aiutarla? Non lo so. Non lo sa nessuno. Sant’Etelredo non ce lo dice, il futuro delle due creature è ammantato da un velo di riserbo e di discrezione. Non ci interessa e non deve interessarci: non è questo l’insegnamento che voleva trasmetterci il Santo di Rielvaux.

E non è sorprendente che questa lezione oggi arrivi a noi, in diretta da un’omelia di un abate altomedievale?

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IL CASO/ La suora incinta e le domande sulla vocazione ridotte a “bar sport”

Posté par atempodiblog le 20 janvier 2014

IL CASO/ La suora incinta e le domande sulla vocazione ridotte a “bar sport”
di  Don Federico Pichetto – Il Sussidiario

IL CASO/ La suora incinta e le domande sulla vocazione ridotte a “bar sport” dans Articoli di Giornali e News 2z83lsk

Parliamoci chiaro: la notizia di una suora del Salvador di 31 anni che a Rieti, denunciando al 118 dolori addominali, si è scoperta essere incinta, ricorda o una di quelle barzellette che mirano ad ammantare di cinismo la vocazione religiosa, o un’inquietante pagina di Arrigo Boito che – più di cent’anni fa – metteva in guardia dal considerare la realtà come univoca e si divertiva a scandalizzare i ben pensanti, rivelando gli scheletri nell’armadio delle fanciulle apparentemente immacolate.

Il pretesto, infatti, è solare: insinuare il sospetto che la religione altro non sia che una gigantesca messa in scena condita di ipocrisia, un coacervo di perversioni che – sotto l’abito canonico – prende la forma mostruosa del potere e si ripara, grazie al sistema giudiziario ecclesiastico, da ogni tipo di conseguenza. È accaduto con i preti pedofili e accade ogni qual volta un uomo (o una donna) di Chiesa incorre in una condotta non consona alla propria scelta di vita.

La questione, tuttavia, abbraccia almeno tre dimensioni che non possono essere equivocate. Da un lato c’è la responsabilità pubblica. Un religioso non può pensare di avere la stessa “privacy” di un ottimo elettricista; un uomo di Chiesa sa bene che ogni suo gesto – per quanto intimo e nascosto – risulta nel nostro tempo come un “gesto pubblico”. Non serve spostare la riflessione sul diritto alla riservatezza di ogni cittadino: chi abbraccia una certa vita sceglie di non appartenersi più, di vivere di fronte a tutti. Su questo noi “uomini del sacro” abbiamo una responsabilità maggiore, oggettivamente ineludibile. La coscienza di questa responsabilità può crescere nel tempo, ma non può mai essere evitata, soprattutto come tematica cardine per gli anni della formazione.

E qui arriva la seconda dimensione da considerare: quella educativa. Nei mesi in cui infuriava la pedofilia come “scandalo nella Chiesa” sono state elaborate analisi profondamente errate che ancora oggi ci portiamo dietro: il problema di ogni fragilità affettiva – perfino della perversione più sconveniente – non sta infatti nell’impianto dogmatico e morale del cattolicesimo (in rimedio al quale ieri si diceva “fate sposare i preti” e oggi si sussurra “date una famiglia alle suore”), il problema affettivo è una questione dell’uomo, legata all’uomo. Senza voler “scaricare il barile” su nessuno, si può tranquillamente affermare che certi mostri sono il prodotto culturale e antropologico della nostra epoca, non l’esito di una presunta castrazione operata dalla fede. È l’uomo che oggi su questo tema ha bisogno di essere educato, non la Chiesa che deve “aggiornarsi”.

A riprova di ciò possiamo citare la notizia diffusa ieri dalla Santa Sede sui casi, più di 400, di sacerdoti cattolici ridotti allo stato laicale per motivi legati alla sfera affettiva negli ultimi due anni. Non mi risulta che pari provvedimenti siano stati assunti nel mondo della scuola o dello sport dove, per dovere di verità, i numeri dei casi di abuso sui minori sono nettamente maggiori di quelli registrati in passato in seno alla Chiesa, come non mi risulta che il biasimo collettivo per scelte di vita affettivamente difficili raggiunga il mondo delle donne in carriera o degli uomini consacrati al proprio lavoro.

Il cruccio del mondo è quello di trovare il modo di emarginare tutto ciò che disturba o che mette in discussione il sistema, mentre la vera emergenza è quella di un’umanità incapace di amare, affettivamente schiava delle mode e dei ricatti provenienti dai modelli relazionali dell’occidente. Tutto questo rende la dimensione educativa prioritaria per qualunque comunità ecclesiale: ogni storia deve essere sostenuta e protetta, affinché la persona possa degnamente abbracciare le scelte che compie, sviluppando una sensibilità e una maturità adeguata alla propria stagione della vita.

Il caso della suora di Rieti non è preoccupante per lo scivolone morale in cui è occorsa la religiosa, ma per un’esperienza della fede che si rivela incapace di accogliere tutte le domande e il dramma dell’uomo, fino al punto da muoverlo a cercare in altro la propria soddisfazione e la propria consistenza umana. A questo livello non sono pochi gli interrogativi che sorgono sulla cascata di vocazioni che giungono dai paesi del Sud del mondo e che sono accolte, dai vari ordini e dalle congregazioni religiose, spesso in modo acritico e devozionale.

Infine, credo che sia anche fondamentale ricordare che in questa vicenda c’è una dimensione personale ineffabile. Nessuno sa che cosa ci sia nel cuore di quella donna. Far diventare la sua storia tema da “bar sport” o vicenda da strumentalizzare risulta alquanto meschino e grottesco, al punto tale che alla fine non si sa se l’immaturità affettiva sia maggiormente attribuibile alla giovane mamma o ai suoi illustri, e interessati, censori.

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Ma la speranza non va da sé

Posté par atempodiblog le 20 janvier 2014

Ma la speranza non va da sé dans Charles Péguy rsx204

Ma la speranza non va da sé.
La speranza non va da sola.
Per sperare, bambina mia,
bisogna esser molto felici,
bisogna aver ottenuto,
ricevuto una grande grazia…
La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà.
Ama quel che non è ancora e che sarà.
Nel futuro del tempo e dell’eternità…
E in mezzo alle due sorelle maggiori sembra lasciarsi tirare.
Come una bambina che non abbia la forza di camminare.
E venga trascinata su questa strada contro la sua volontà
Mentre è lei a far camminar le altre due.
E a trascinarle,
E a far camminare tutti quanti,
E a trascinarli.

Charles Péguy – Il portico del mistero della seconda virtù
Tratta da: Lo Straniero

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Le radici profonde non gelano

Posté par atempodiblog le 19 janvier 2014

«Non tutto quel ch’è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch’è forte non s’aggrinza
E le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L’ombra sprigionerà una scintilla,
Nuova la lama ora rotta,
E re quei ch’è senza corona.

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Forse non è molto buona come poesia, ma rende l’idea, poiché la parola di Elrond non ti basta. Se ti è costata un viaggio di centodieci giorni faresti bene ad ascoltarla». [Bilbo] Si sedette con un grugnito.
«Ho scritto io quei versi», sussurrò a Frodo, «per il Dùnadan, quando mi parlò di sé per la prima volta, tanto tempo fa. Desidererei quasi non aver concluso le mie avventure e poter partire con lui quando giungerà la sua ora».

Aragorn gli sorrise, quindi si rivolse di nuovo a Boromir. «Quanto a me, ti perdono i dubbi», disse. «Rassomiglio poco alle figure di Elendil ed Isildur scolpite in tutta la loro maestà nei saloni di Denethor. Io sono soltanto l’erede d’Isildur, e non Isildur in persona. Ho avuto una vita dura e lunga, e le leghe che separano Gran Burrone da Gondor rappresentano una piccola parte dei miei viaggi. Ho attraversato molte montagne e molti fiumi, e percorso molte pianure, fin nei paesi lontani di Rhûn e Harad dove le stelle sono estranee.
Ma la mia casa è nel Nord. Qui son sempre vissuti gli Eredi di Valandil, una lunga linea ininterrotta per molte generazioni, di padre in figlio. I nostri giorni si sono fatti scuri, e siamo diminuiti; la Spada è sempre passata a un nuovo custode. E ti dirò un’altra cosa, Boromir, prima di concludere:

Siamo uomini solitari, Raminghi delle zone selvagge, cacciatori…, ma ostinati cacciatori dei servi del Nemico, che si trovano in molti luoghi, non soltanto a Mordor.
Se Gondor, Boromir, si è dimostrata una torre robusta, noi abbiamo recitato un’altra parte. Vi sono molte cose malvagie che le vostre forti mura e spade splendenti non arrestano. Sapete poco dei paesi oltre i vostri confini. Pace e libertà, dici? Poco le avrebbe conosciute il Nord, se non fosse stato per noi. Sarebbero state distrutte dalla paura. Ma quando cose oscure vengono dai colli senza case, o strisciano fuori dai boschi senza sole, esse fuggono da noi. Quali strade si oserebbe percorrere, quale la sicurezza delle silenziose campagne, o delle case dei semplici uomini nella notte, se i Numenoreani dormissero, o riposassero tutti nella tomba?
Eppure riceviamo ancora meno ringraziamenti di voi. I viaggiatori ci guardano torvi ed i contadini ci danno nomi spregiativi.

“Grampasso” mi chiama un uomo grasso che vive ad un giorno di marcia dai nemici che gli raggelerebbero il cuore o distruggerebbero la sua cittadina, se non fosse incessantemente protetta. Non desideriamo tuttavia che le cose stiano altrimenti. Se la gente semplice non conosce preoccupazioni e paura, rimarrà tale, e noi per aiutarli dobbiamo restar segreti. Questo è stato il compito della mia gente, con l’accumularsi degli anni, mentre l’erba è cresciuta.
Ma ora il mondo sta cambiando di nuovo. E’ giunta l’ora novella. Il Flagello d’Isildur è scoperto. La Battaglia è prossima. La Spada sarà nuovamente forgiata. Io verrò a Minas Tirith».

Tratto da: Il signore degli anelli, di J.R.R. Tolkien. Ed. BOMPIANI 

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Oggi è il mio giorno preferito

Posté par atempodiblog le 19 janvier 2014

Oggi è il mio giorno preferito dans Citazioni, frasi e pensieri 28tb3i1

Che giorno è?”, chiese Pooh.
È oggi”, squittì Pimpi.
Il mio giorno preferito”, disse Pooh.

Decisamente doveva aver letto Chesterton, il nostro caro amico Winnie. Oggi è il mio giorno preferito.
Al di la della battuta, l’inventore di Winnie the Pooh, Alan Alexander Milne, era davvero amico di Chesterton e membro del Detection Club. Un po’ di influenza l’avrà di certo subita…

Tratto da: G. K. Chesterton – Il blog dell’Uomo Vivo

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18 gennaio 1891, “…oggi nasce a Pianura un bambino…”

Posté par atempodiblog le 18 janvier 2014

18 gennaio 1891, “...oggi nasce a Pianura un bambino...” dans Don Giustino Maria Russolillo La_grazia_a_Don_Di_Fusco
Quadro di Annamaria Arletti

A Pianura si era ammalato il sacerdote don Salvatore di Fusco, confessore e direttore spirituale molto ricercato. La notte nella quale si attendeva il decesso del piissimo sacerdote, avvenne un prodigio. Egli vide la Madonna accanto al suo letto e la sentì dire: “Non aver paura, tu guarirai perché oggi nasce a Pianura un bambino che chiameranno Giustino e sarà una gloria della Chiesa Cattolica”. Era il 18 gennaio del 1891.

Effettivamente, con meraviglia di tutti, don Salvatore guarì. Grato alla Vergine, fece dipingere un quadro raffigurante la scena.  Questo quadro è ora accuratamente custodito dagli eredi.

Quadro_Votivo_Don_Di_Fusco dans Don Giustino Maria Russolillo
Quadro votivo fatto dipingere da don Salvatore Di Fusco

O ammirabile Cuore della Vergine Maria,
M
adre di Dio, vieni in me e stabilisciTi in me,
affinché io pure divenga il tesoro delle parole del divino Verbo Incarnato
e centro di irradiazione dello Spirito Santo nelle anime”.

Beato Giustino M. della SS. Trinità Russolillo

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Quel pezzetto d’eternità nel lager

Posté par atempodiblog le 15 janvier 2014

Quel pezzetto d’eternità nel lager
di Cara Ronza – La nuova Bussola Quotidiana
Tratto da: Una casa sulla Roccia

Quel pezzetto d’eternità nel lager dans Articoli di Giornali e News 9jn5td

Il 27 gennaio, Giorno della memoria, ricorderemo una delle più grandi tragedie del Novecento: la Shoah, sterminio sistematico del popolo ebraico, con la vergogna delle leggi razziali, l’orrore della persecuzione e della deportazione, il disprezzo dell’uomo a cui ha saputo arrivare la follia nazista.

Di fronte a questa tragedia abnorme, alla violenza inaudita, al dolore incancellabile di chi è sopravvissuto, si accendono sentimenti, emozioni, pensieri. Ci assale l’indignazione, magari un confuso senso di colpa oppure ancora l’angoscia che il male possa produrre altre mostruosità del genere. Ci inchioda la paura di cose da cui non saremmo in grado di difenderci, di fatti che potrebbero stravolgere la nostra esistenza. Ma «non sono i fatti che contano nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa», scrive Etty Hillesum. E lo fa mentre si trova a Westerbork, il campo di concentramento da dove gli ebrei olandesi partivano per la loro destinazione finale. Roba da matti. Come si fa a dire che i fatti non contano? Ad avere una certezza, una speranza così? «Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici», direbbe Peguy. Ma come si fa a essere felici in un campo di concentramento?

Bisogna leggere il diario e le lettere di questa giovane donna, morta a 29 anni ad Auschwitz nel 1943, per avere la prova inconfutabile che anche con i piedi piantati nella realtà più maledetta si può vivere una felicità «perfetta e piena». Etty Hillesum sapeva bene ciò che stava accadendo a lei e al suo popolo – «vogliono il nostro totale annientamento» –, eppure considerava il male che le rovinava addosso dall’esterno meno pericoloso dell’odio che poteva nascerle nel cuore. «Le mie battaglie le combatto contro di me, contro i miei propri demoni», nemici di cui comunque non aveva paura. Anche perché era troppo impegnata a fare altro. «Si deve contribuire ad aumentare la scorta d’amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all’odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo inospitale e invivibile».

Era un’illuminata oppure una visionaria? Bastano poche note biografiche per capire che era una donna più che mai attaccata alla vita, sempre inquieta, affamata di conoscenze e di esperienze. Quando inizia a scrivere il suo diario, l’8 marzo 1941, ha 27 anni, è laureata in Giurisprudenza e studia per prendere una seconda laurea in Lingua e letteratura russa. Viene da una famiglia colta di ebrei non praticanti. Ha già vissuto diverse relazioni, nessuna semplice, qualcuna ardita (con il vedovo Hendrik Wegerif, di 21 anni più vecchio di lei), ma sta per essere travolta da una passione che la porterà più lontano di quanto avrebbe mai potuto immaginare, oltre la possibilità di accontentarsi di qualcosa che finisce.

Si è messa a scrivere su suggerimento di Julius Spier, psicoterapeuta tedesco, allievo di Jung, con cui ha iniziato una terapia per cercare di fare ordine nel «gomitolo aggrovigliato» del suo animo. Spier ha 54 anni, è un uomo affascinante. Etty se ne innamora. Spier è «il cemento che salda i miei frammenti» e soprattutto la ricambia. Per capire l’universo di quel suo amante così elevato e complesso, Etty aggiunge alle sue letture preferite, Rilke e Dostoevskij, anche la Bibbia e a Sant’Agostino. Mentre intorno il mondo crolla, Etty ama, legge, vive. Scopre che Spier prega e che pure lei può pregare, perché nel suo cuore, insieme alla sua inquietudine, ha messo su casa anche Dio. «Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo».

Etty ora sa cosa deve fare. Nel luglio 1942 il campo di Westerbork, nel nord est dell’Olanda, diventa “campo di transito di pubblica sicurezza”, luogo di raccolta e smistamento per gli ebrei diretti ad Auschwitz. Il Consiglio Ebraico di Amsterdam, per cui sta lavorando come dattilografa, chiede al comando tedesco di potervi aprire una propria sezione, un “dipartimento di aiuto sociale”. Etty, che più volte avrebbe occasione di mettersi in salvo e di scappare dall’Olanda, si fa trasferire lì, per condividere la sorte del suo popolo, per accompagnare, confortare, offrire con i gesti, quando non può con le parole, l’imprevedibile pienezza che ha nel cuore. «Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito», scrive nel suo diario. Nel campo, tra le baracche, spunta un gelsomino. «La vita è meravigliosamente buona», scrive.

Il Diario e le Lettere di Etty Hillesum, pubblicati in Italia da Adelphi, registrano l’avventuroso e ostinato percorso spirituale di questa donna nata cento anni fa, il 15 gennaio 1914, ma che sentiamo così vicina. Forse perché la sua vita è una testimonianza potente dell’irriducibilità dell’animo umano, che porta l’impronta del suo Creatore e solo quando riposa in Lui trova pace.

«Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile ma non è grave: dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà da sé. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso; se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo; se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. È quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro. Sono una persona felice e lodo questa vita, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra».

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L’incanto di Verona

Posté par atempodiblog le 15 janvier 2014

L’incanto di Verona
di Annamaria Scavo – Radici Cristiane

“Non c’è mondo per me aldilà delle mura di Verona: c’è solo purgatorio, c’è tortura, lo stesso inferno; bandito da qui, è come fossi bandito dal mondo, e l’esilio dal mondo vuol dir morte…”.
(WILLIAM SHAKESPEARE, Romeo e Giulietta, atto III, scena III)

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Sarà forse per i fantasmi di Shakespeare, di Giulietta e Romeo, sarà per tutte quelle fortificazioni che parlano di lotte e di storia, o per i bei palazzi antichi e l’incantevole campagna vista in distanza da bianche balaustre, e per quell’aspetto di piccola cittadina antica e la sua atmosfera rarefatta, le chiese marmoree, le torri alte, le quiete vecchie strade nelle quali “echeggiavano dei Montecchi e Capuleti…”, Verona spinge il visitatore in epoche antiche.
L’Adige l’avvolge e la divide con il suo duplice abbraccio serpentino e ne ha condizionato la vita sin dall’antichità. L’alluvione del 1882 ha imposto un lavoro di pulizia del fiume e di difesa da eventuali piene per mezzo di alti muraglioni. I canali sono stati così eliminati, il fiume scorre rigorosamente entro gli argini, la vita attorno è cambiata, la città è come se non vivesse più sull’acqua.
Verona conserva il tessuto urbano romano delle origini, cui si sono aggiunti palazzi medievali nel centro storico, assieme anche a palazzi più recenti, cinquecenteschi, settecenteschi, ottocenteschi. I quartieri di Veronetta e San Zeno sono caratterizzati da edifici del basso Medioevo. Le zone esterne alle mura presentano edifici e ville in stile barocco, la zona industriale è del Ottocento e Novecento, mentre tutta la città moderna è sorta senza intaccare questi tessuti urbanistici.
Per questi motivi l’Unesco la include tra i beni di interesse mondiale per la sua caratteristica di roccaforte che attraverso varie fasi storiche ha assunto un particolare fascino, e per quel suo essersi sviluppata nel corso di due millenni integrando elementi artistici di alta qualità dall’antichità, al Medioevo e al Rinascimento.
Tratti delle cinque cinte murarie che hanno racchiuso Verona sono tutt’ora visibili da quella romana di epoca imperiale di cui restano solo rovine, a quella del XIII secolo dal Ponte Aleardi sino a Piazza Bra, ben conservata e con tre torri (una è la torre pentagona dei portoni della Bra); alle mura scaligere sul Colle San Pietro con quindici torri; ai terrapieni alzati dai veneziani con alcuni bastoni; alle mura, ai bastioni e ai numerosi forti costruiti dagli austriaci, ancora quasi completamente intatti.
Il cuore antico della città risulta contenuto entro le mura romane tra Porta Borsari, Porta Leoni e le mura di Gallieno. Dall’altra parte, la circonvallazione interna è ricca di fortilizi rinascimentali completati dagli austriaci.

I romani e l’Arena
Dell’epoca romana restano numerosi monumenti. Il più famoso è l’Anfiteatro veronese, il terzo anfiteatro per grandezza dopo il Colosseo e quello di Capua antica, ma il meglio conservato, tanto da ospitare annualmente il festival lirico oltre a numerosi concerti.
Costruito molto probabilmente in epoca augustea, come quello di Pola al quale molto somiglia, era rimasto inizialmente al di fuori delle mura repubblicane e fu poi inglobato da quelle imperiali di Gallieno, formando una curiosa ed apposita ansa.
Ora fa da quinta spettacolare al lato nord di piazza Bra, una grande piazza nata quasi per caso e nel tempo arredata con bei palazzi.
L’Arena, come ora tutti la chiamano, fu utilizzando all’epoca romana per combattimenti fra gladiatori o fra animali, e vari tipi di esecuzioni. In epoca comunale e scaligera vi si tenevano lotte giudiziarie: le cause incerte venivano risolte attraverso la sfida di lottatori dal corpo unto. Dante li descrive nel XVI canto dell’Inferno.
Nel Medioevo l’Arena fu sede di giostre e tornei, per diventare nell’Ottocento teatro di prosa durante la bella stagione. Nel 1931, in occasione del centenario della nascita di Verdi, vi si rappresentò l’Aida. Da quel momento è divenuta il più importante teattro all’aperto ed è valsa a Verona nel 1996 la segnalazione Unesco come “Capitale della lirica e della poesia”.
C’è poi il teatro romano del I secolo a.C., tornato alle luce solo nel 1830 quando vennero abbattuti  gli edifici che lo ricoprivano. Ospita la stagione teatrale veronese estiva.
Restano anche la Porta Borsari, inizialmente detta porta Iovia, perché vicina al tempio di Giove, poi dei Borsari, che erano gli esattori del dazio. Di esse, è ben conservata la facciata interna. E la porta dei Gavi, dedicata alla gens Gavia, romana, che dalla via Postumia portava al centro abitato.
E’ romano il ponte Pietra, l’unico ponte romano ancora visibile in città, formato da cinque arcate, quattro delle quali furono distrutte dai tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale e ricostruite con le pietre stesse ritrovate nel fiume.

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Piazza delle Erbe
All’antico foro romano e al Campidoglio corrisponde l’attuale Piazza delle Erbe, che era al tempo il centro politico ed economico della città,. Nei sotterranei di numerosi edifici si possono visitare le fondamenta di strade, fognature e resti di case e di una basilica romana. Alcuni palazzi sono dipinti a fresco, altri ricordano, per il rapporto larghezza-altezza, le case-torri comunali; il Medioevo e il Rinascimento si palesa nei palazzi più importanti, come palazzo Maffei decorato con divinità greche o la Casa Mercatorum, ora sede di una banca.
Su tutti svetta la Torre dei Lamberti, una torre medievale alta 84 metri costruita nel 1172. Colpita e danneggiata da un fulmine nel 1408, fu ricostruita nel 1448 e i lavori terminarono venti anni dopo. Ne è risultata una torre più alta dell’originale, a cui nel 1779fu aggiunto l’orologio. Per fortuna la ricostruzione ha rispettato i materiali originali, è quindi distinguibile una prima parte in mattoni di tufo, una di soli mattoni e infine il marmo.
Su di essa vennero poste due campane, la Marangona, che segnalava gli incendi e dava le ore, e la Rengo (da arengo, il luogo delle assemblee medievali), che suonava per radunare il consiglio comunale o per chiamare alle armi i cittadini. Dalla sua cima si può godere una fantastica vista panoramica della città.
Una statua antica del 380 orna la fontana della Madonna Verona, una colonna sostiene un’edicola trecentesca con scolpiti la Vergine e i santi Zeno, Pietro martire e Cristoforo; un’edicola detta Tribuna serviva nel secolo XIII durante le cerimonie di insediamento del potestà e dei pretori. Una colonna, davanti a palazzo Maffei sostiene il leone de San Marco, simbolo della serenissima.

Piazza dei Signori e le Arche scaligere
D’angolo, nell’adiacente Piazza dei Signori è il palazzo del Comune o della Ragione, uno dei palazzi meglio conservati anche all’interno, con a fianco l’Arco del Mercato vecchio che serve proprio a far comunicare le due piazze.

Sulla medievale Piazza dei Signori si affacciano palazzi di rilevante importanza storica e artistica: oltre al palazzo del Comune, il palazzo di Cansignorio, la Chiesa di Santa Maria Antica, il palazzo del Podestà, la Loggia del Consiglio. Al centro, in occasione del sesto centenario della nascita, nel1865 è stata posta la statua di Dante Alighieri che proprio nel palazzo del Podestà era stato ospitato a suo tempo.
Il palazzo del Podestà venne costruito da Alberto I della Scala sopra rovine romane e doveva essere adibito a dimora dei signori della città. Nel 1311 vi andò a risiedere Cangrande I e nel tempo il palazzo venne risistemato più volte. Vi furono ospitati uomini illustri come Dante e Giotto.
Caduta la dinastia della Scala il palazzo divenne, durante la dominazione veneziana, sede di importanti magistrature. Erano presenti anche gli uffici del podestà, da cui prese appunto il nome.
Palazzo di Cansignorio, signore della Scala, è stato sede del potere politico degli scaligeri e dei veneziani. Di esso rimane l’originale torre trecentesca mentre la facciata, attribuita all’architetto Michele Sanmicheli, è del XV secolo.
A lato, seminascosta, la chiesa romanica Santa Maria Antica, una piccola chiesa amata dagli scaligeri, tanto che sul portale d’entrata è stato collocato il sarcofago di Cangrande I della Scala. Un cancello in ferro battuto riporta il simbolo di Verona e degli scaligeri, la scala, e nelle arche scaligere sono presenti le tombe di illustri signori della Scala.
Si tratta del monumentale complesso funerario in stile gotico della famiglia scaligera. La grazia di questi sepolcri è stata celebrata da scrittori celebri come John Ruskin che ili paragona al coro di Burg e alla tomba di Francesco II, Duca di borgogna, riconoscendo all’Italia, rispetto alla Francia, il privilegio di aver anticipato il loro incanto di un secolo.
Le arche furono realizzate nel XIV secolo da artisti diversi. Arrivando da Piazza dei Signori si incontra quella di Mastino I della Scala addossata al muro della chiesa di Santa Maria con un sarcofago semplice all’uso romano e poco avanti quella di Alberto I della Scala, più istoriata, ma simile alla precedente.
Vicino al muro esterno vi sono poi tre semplici tombe appartenenti a Bartolomeo I, a Cangrande II e a Bartolomeo II della Scala. Sopra la porta laterale della chiesa è la magnifica arca di Cangrande I, il più grande signore scaligero, al quale Dante ha dedicato il suo Paradiso.
Il sarcofago di Cangrande è sostenuto da quattro cani che reggono lo stemma scaligero e reca sulla facciata anteriore una Pietà, l’Annunciata e l’Angelo Annunciante, ma soprattutto le formelle attorno celebrano la città di Verona e illustrano le vittorie del signore. Sopra il sarcofago giace la statua sorridente di Cangrande, in cima all’arca, la sua statua equestre, di cui attualmente l’originale, assieme a quello di Mastino II, si trova al museo di Castel Vecchio.

La Basilica di san Zeno
E’ doveroso ricordare che Verona come la sede di uno splendido romanico, appunto il romanico veronese, che trova una delle sue più interessanti espressioni nella basilica di san Zeno.
Ci si trova in una zona non molto vicina alla città vecchia, ma in un’area già frequentata in epoca romana, dove la via Gallica si univa con la Postumia. Qui si estendeva la necropoli cittadina anzi, secondo la tradizione, il cristianesimo a Verona è nato proprio in questi cimiteri ove furono sepolti i predecessori di san Zeno.
Nel V secolo vi sorse isolata la Chiesa di san Procolo in onore del quarto vescovo sul luogo della sua sepoltura. La chiesa esiste ancora, completamente ricostruita dopo il terremoto del 1117.
Analogamente si era costruita nel 581 una chiesetta sulla tomba di san Zeno, l’ottavo vescovo di Verona. Distrutta dagli ungari, fu ricostruita per volontà del vescovo Raterio e con i fondi dell’Imperatore Ottone I a partire dal 967. Accanto sorse anche l’abazia omonima, mentre un borgo vi si andava organizzando attorno, il burnus Sancti Zenonis, una zona di una certa importanza.
Nel XIII secolo la basilica venne ingrandita, ed in età scaligera fu costruita la torre abbaziale sul fianco sinistro.
La basilica mostra nella facciata uno splendido rosone, inserito in quattro cerchi concentrici di marmo azzurro, detto la ruota della fortuna per il contenuto dei rilievi che lo illustrano. La parte centrale della facciata è scandita da sette lesene in marmo rosa e presenta un interessante protiro. Le colonne, a simboleggiare il diritto e la fede, poggiano su leoni che rappresentano la forza. Sulle mensole interne ed esterne del protiro sono rappresentati dodici mesi ed i mestieri ad essi collegati. Uno splendido portale al centro contiene 48 formelle bronzee decorate con motivi sacri e profani, la cui storia si legge a partire dal basso. L’interno è a croce latina, diviso in tre navate da pilastri e colonne corinzie. Nel presbiterio vi è un trittico di Andrea Mantegna di pregevole fattura, che, portato via da Napoleone, fu recuperato, mentre la corrispondente predella, rimasta in Francia, è presente in copia.

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La Cappella grande del Duomo di Verona

Posté par atempodiblog le 15 janvier 2014

La Cappella grande del Duomo di Verona
Nella cappella grande del Duomo di Verona è presente in nuce quello che sarà lo spirito della vera riforma cattolica in risposta alla rivoluzione protestante che andava in quegli anni affermandosi.

di Martino Cisago – Radici Cristiane

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Il cuore della cattedrale di Verona, rifatta all’interno nello stile del Quattrocento, è a oriente nella “Cappella grande”. Ad esso conduce la “direzione sacra” ad altare Dei: lì, entro la cancellata marmorea, sull’altare dell’abside romanica trasfigurata dal Rinascimento si offre Cristo.
L’arte sostanziata di sapienza, fede, pratica liturgica e docilità alle direttive spirituali e culturali del vescovo Giberti (Palermo 1492-Verona 1542) – gigante della riforma cattolica e antesignano del Concilio di Trento – ha conferito allo spazio l’aspetto dello scrigno prezioso. Gli affreschi, l’altar maggiore con lo scomparso tabernacolo, il pavimento che copre le tombe di Papa Lucio III e del vescovo Ludovico di Canossa, la recinzione marmorea, gli stalli per il vescovo e il capitolo, le cantorie e gli arredi mobili, sono capitoli di un programma episcopale che anticipò in Verona la riforma della Chiesa.

Il programma iconografico
Il cantiere della cappella si aprì tra il 1527 e il 1528. Le pitture del presbiterio di Francesco Torbido (1482 ca-1561) furono ultimate nel 1534 e fanno parte di un piano generale che potrebbe attribuirsi a Giulio Romano (1494-1546).
Giulio, infatti, aveva conosciuto e lavorato per Giberti a Roma e nel 1528 aveva presentato i cartoni per la decorazione pittorica della cappella. Il ciclo è una novità nel contesto veronese della prima metà del XVI secolo; le conseguenze della maniera romanista di Giulio, frutto del classicismo raffaellesco e dell’antico, saranno per Verona assai significative.
Sul fronte dell’arco vediamo l’Annunciazione e negli incavi della base del fondale architettonico, Isaia, additante il cartigio “Ecce Virgo concipiet”, ed Ezechiele, il profeta della nuova Civitas Dei che l’esegesi medievale aveva eletto simbolo di Maria.
Nella volta del presbiterio e nel catino osserviamo «in quattro gran quadri, la natività della Madonna, la presentazione al tempio, et in quello di mezzo, che pare che sfondi, son tre angeli in aria che scortano all’insù e tengono una corona di stelle per coronar la Madonna, la quale è poi nella nicchia accompagnata da molti angeli, mentre è assunta in cielo, e gli apostoli in diverse maniere et attitudini guardano in su» (Vasari).
Il vescovo Giberti, attento all’anima popolare della devozione, non disprezzava queste storie tradizionali e le volle dipinte nel luogo più santo della cattedrale. I riquadri della natività e della presentazione al tempio evocano quelli della “Bibbia di Raffaello” nella II loggia del Palazzo Apostolico vaticano.
L’intelaiatura architettonica dei grandi affreschi si estende anche alla parte inferiore dell’abside dove sono riconoscibili, nella nicchia, un colossale san Zeno, nel fregio e nelle cantorie suppellettili liturgiche.
I due corali con le antifone Veni sponsa Christi e Salve Regina – preziosità decorative alludenti alla riforma liturgico-musicale di Giberti -, anticipano i monocromi con alcune scene dell’Antico Testamento, che la liturgia applica in modo accomodatizio alla maternità verginale di Maria e al suo ruolo di Madre di Dio: il roveto ardente, il sacrificio d’Isacco, il vello di Gedeone, la radice di Jesse, l’arca di Noè, la legge antica del Sinai, Giuditta e Oloferne, l’acqua dalla roccia, il santuario dalle porte chiuse, la vittoria di Davide su Golia.
Anche qui il programma iconografico accosta dogma e pietas: i dogmi della maternità divina di Maria e della sua verginità perpetua stanno accanto alla dottrina, a quel tempo non ancora definita, dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione.

Presbiterio e altare
La cancellata marmorea, idea presente in nuce negli affreschi, modificò l’assetto del presbiterio. La sistemazione, comprendente l’altare con il tabernacolo, la cancellata e il pavimento è da ricondursi all’architetto veronese Michele Sanmicheli (1484-1559).
L’inizio si ebbe nel 1533, allorquando Giberti volle sepolto in cattedrale Ludovico di Canossa suo amico e alleato anche nel proporre al papa l’idea di una riforma generale della Chiesa. Al centro del presbiterio, alto su un podio di tre gradini, si erge l’altare: un policromo cofano marmoreo aperto sul fronte ovest da una fenestrella confessionis che permette la discesa al suo interno.
La confessione incorporata nell’altare unisce al significato teologico quello apologetico: il protestantesimo disprezzava l’uso di porre le reliquie dei martiri, sacrificio degli uomini che si unisce a quello di Cristo, nell’altare.
Giberti, nel desiderio di emulare Roma, optò per un altare che rammentasse le basiliche romane, ma trascurò la tradizionale posizione di questi altari a oriente. Tuttavia, la cancellata che lo circonda ha la funzione di ridestare, velando, il desiderio del Mistero e indica che non vi è necessità visiva fra il popolo e l’azione sacra all’altare.

Tabernacolo a pianta centrale
Il sistema geometrico della cappella aveva il suo cardine nel tabernacolo a pianta centrale. Giberti fu il pioniere della custodia dell’Eucaristia sugli altari maggiori rendendola obbligatoria in diocesi. Per lui l’altare del Sacramento doveva essere solenne e davvero al centro.
Pier Francesco Zini, un ecclesiastico formatosi alla sua scuola, scrive che il vescovo «rese il coro [della cattedrale] più ampio e più bello con grande arte (…) in modo tale che contenesse il (…) tabernacolo per il Corpo del Signore Gesù Cristo come il cuore nel mezzo del petto e la mente al centro dell’anima (…). Tale è la maestà con la quale è innalzato da quattro angeli di bronzo sull’altare maggiore posto in mezzo al coro, che le menti dei religiosi e dei laici, come è giusto, sono ispirate alla devozione».
Nel 1534 si fusero gli angeli di bronzo che sostenevano la custodia preziosa di cristalli e pietre. Una novità nella forma e nell’iconografia che san Carlo Borromeo pensò bene di proporre per gli altari maggiori delle sue chiese; e pure Papa Sisto V nella cappella sistina a Santa Maria Maggiore volle un tabernacolo così.
Circonda l’altare una cancellata che, sviluppandosi dalle parti estreme dell’abside, ne ripete a rovescio la curvatura. La recinzione evoca altre sistemazioni chiesastiche come quella dell’antica San Pietro descritta nella Donazione di Roma della Sala di Costantino in Vaticano di Giulio Romano e Francesco Penni (1524). Da ultimo la forma sepolcrale dell’altare e il tappeto lapideo, che copre la tomba del papa e dei vescovi Canossa e Giberti, conferiscono al luogo anche un significato funerario.
Così la cappella di Giberti appare grande, bella e spaziosa e adatta alla devozione dei fedeli verso l’altar maggiore dove si celebrava Messa e si conservavano le Sacre Specie. La pianta centrale enfatizza l’altare e il tabernacolo e il tradizionale legame di Maria con gli edifici circolari.

Nello spirito della Riforma cattolica
Tutto è concepito in funzione della Presenza e del dogma mariano. L’altare sotto l’arco, circondato dall’abside e dalla solennità del tornacoro, rende evidente il primato del culto e perciò del Sacrificio Augusto sugli altri interessi della comunità.
L’Eucaristia è la sintesi della storia della salvezza, «il Sacramento più grande e il coronamento di tutti gli altri» (san Tommaso d’Aquino). L’Eucaristia è intimamente legata alla vita della Chiesa e dei fedeli e questa vita si appoggia a essa e in essa continuamente si esprime.
La discesa del Verbo in carne e sangue, annunciata dagli affreschi, si compie definitivamente nel sacrificio del Calvario rinnovato sull’altare. La divina potenza che suscitò il Corpo di Cristo nel grembo di Maria, suscita sull’altare la “mirabile conversione” del pane e del vino che il Concilio di Trento chiama “Transustanziazione”.
Nella Comunione la stessa potenza attua l’intima unione dei fedeli con Cristo immolato per essi e la trasformazione della loro vita nella sua. L’Eucaristia diviene così pegno di quella gloria futura anticipata a Colei che portò Dio nel proprio corpo.
L’Eucaristia renderà vuote le tombe per la gloria. La “tomba nuova… scavata nella roccia”, l’altare, in cui il Verbo incarnato discende fino agli inferi è anche la tomba vuota dell’umanità divinizzata, l’Assunta. La tomba vuota ora è per noi luogo di confessione della fede, di martyria, di venerazione delle reliquie e appello alla santità.

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Seedorf, i concetti più importanti in conferenza: “Milan, arrivo! Sogno il Mondiale per club”

Posté par atempodiblog le 15 janvier 2014

Seedorf, i concetti più importanti in conferenza: “Milan, arrivo! Sogno il Mondiale per club”
Tratto da: Spazio Milan

Seedorf, i concetti più importanti in conferenza: “Milan, arrivo! Sogno il Mondiale per club” dans Stile di vita 2u89vdy

Seedorf ha tenuto una conferenza stampa per annunciare il suo addio al calcio, rileggi le parole dell’ormai nuovo allenatore rossonero. Queste le sue dichiarazioni: “Smetto di giocare a calcio dopo 22 anni. È stata una notte difficile, ma sono soddisfatto di quello che ho fatto nella mia carriera, di quello che ho fatto con il Botafogo. Lascio la squadra con la qualificazione alla Libertadores. Qui ho passato momenti felici, ringrazio tutti e vi guarderò da lontano”. Ancora Clarence: “Spero che il Botafogo continui a crescere e a migliorare mentalmente e tecnicamente. È stato fatto un ottimo lavoro”.

Sull’esperienza brasiliana: “È stato prezioso per la ma vita cambiare città e paese e venire qui, ho affrontato una nuova cultura, ho appreso molto e mi sento migliorato. Ho cercato di proporre delle nuove idee, come l’adottare seriamente la fisioterapia. Le difficoltà ci sono sempre ma vanno affrontate, il ritmo del calcio va sempre aumentato”.

Un retroscena sul suo approdo al Milan: “Ieri, quando mi ha chiamato Silvio Berlusconi, non potevo parlare. Ero ancora concentrato al progetto Botafogo, fatto di giovani e risultati. Sono soddisfatto di quello che ho fatto qui”. Sulla sua carriera da giocatore: “Se avessi potuto giocare altri cinque anni sarei rimasto, perché qui al Botafogo il gruppo è giovane e competitivo. Ma la carriera di un giocatore non è eterna. Il calcio è parte della mia vita, ma non tutta la mia vita. Sapevo che prima o poi sarebbe finita. Ho scelto il Botafogo perché era una sfida tornare a far brillare questa stella. Mi piacciono questo genere di sfida, come poteva essere quella con il Torino in Italia o il Chelsea di dieci anni fa”.

L’ormai ex giocatore del Botafogo saluta così i suoi vecchi tifosi: “Questo non è un addio, ringrazio i tifosi e mi piacerebbe abbracciarli uno ad uno. L’ultima partita, dove ho segnato un gol, è stata fantastica”. Sul Milan invece: “Oggi non dirò nulla sul Milan. E’ una nuova sfida, ma sono tranquillo. Non ne voglio parlare oggi, perché questo è il momento di celebrare la fine della mia avventura al Botafogo”. Unica considerazione sui rossoneri: “Al Milan spero di tornarmi a giocare un Mondiale per club”.

Ultima considerazione del prossimo allenatore rossonero: “Quando sono in un club do sempre il cento per cento. E il Milan è la società in cui sono rimasto di più, dieci anni. Ed è normale che ci siano grandi sensazioni nel rapporto con questo club: è qualcosa di speciale. Ho sempre avuto l’idea di diventare allenatore, anche se non sapevo quando. E’ un passo naturale, ed è anche un modo per proseguire la mia missione nella vita, cercare di rendere il mondo migliore attraverso il calcio. Non più come attore in prima persona, ma allenando gli attori, i giocatori, che sono un modello per i giovani. Bisogna seguire il cuore. La testa può farti prendere decisioni sbagliate, ma il cuore non sbaglia”.

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Il messaggio della visita di Maria a Banneux è lo specchio di tutta la Mariologia

Posté par atempodiblog le 15 janvier 2014

Il messaggio della visita di Maria a Banneux è lo specchio di tutta la Mariologia dans Apparizioni mariane e santuari La-Vergine-dei-Poveri-di-Leon-Jamin

A Banneux, dicendo prima “Io sono la Madre del Salvatore”, ha voluto mettere in risalto non solo la sua opera nel dare alla luce come madre il Figlio di Dio e quindi di Dio, ma anche e in prima istanza, la sua collaborazione all’opera del Salvatore. Come a dire che lo scopo della sua vita, di tutta la sua esistenza non si esauriva nel fatto di aver generato e dato alla luce il Figlio di Dio, ma continuava nel collaborare alla missione di questo Figlio di Dio, venuto per salvare. Sempre. Ora, questa missione di “Corredntrice” continua a svolgerla ancora, sempre, fino alla fine del mondo.

Lei, infatti, era venuta alla ricerca personale dei poveri, aveva quasi bussato alla loro porta, per riportarli alla sorgente di grazia, di ogni ricchezza; Lei era venuta a chiamare, a mettersi a disposizione di tutte le Nazioni. Gesù aveva mandato a predicare il Vangelo a tutte le Nazioni. Lei era venuta per addolcire la sofferenza degli ammalati di ogni tipo. E queste sono le opere che suo Figlio ha compiuto e ora continua a compiere attraverso di Lei e con Lei, fino al punto da rendere visibile a tutti questa sua collaborazione chiamandola accanto a Sé sulla croce.

Ecco che il messaggio della visita di Maria a Banneux, ritenuta a torto “un’apparizione da nulla”, diventa lo specchio di tutta la Mariologia, per immagini prima e con le parole poi.

Padre Angelo Maria Tentori – Sorriso tra gli abeti. La Vergine dei Poveri di Banneux

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