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Uno spicchio di cielo

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2014

“Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni crematori, non veda il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza”.

Uno spicchio di cielo dans Citazioni, frasi e pensieri be8v1g

Non ci credete? Invece è così! Il filo spinato, il fumo denso che esce dai comignoli dei forni, le urla degli aguzzini, uomini e donne stremati per i lavori forzati, un odore di morte e un respiro di disperazione. Tutto questo è il lager nazista di Auschwitz. In quella folla di vittime c’è una giovane donna ebrea olandese dotata di una straordinaria intelligenza e di un cuore mistico. Nei fogli sgualciti di un taccuino annota il suo “diario” e il suo sguardo non si perde nel grumo oscuro del male che la avvolge, ma si leva lassù, in quello spicchio di cielo che riesce a intravedere nella baracca in cui è relegata. Ed è in quella contemplazione che «il dominio della morte» circostante scompare e appaiono i campi infiniti del firmamento e la danza delle stelle, e in quei segni brillano la libertà e la bellezza che invano gli oppressori cercano di cancellare sulla terra. Nel cuore fiorisce, allora, la speranza, la pace, la serenità. Noi che, invece, abbiamo tutto spesso non crediamo che questo sia possibile e siamo incupiti, insoddisfatti, agitati. Scriveva ancora questa donna: «La mia vita è un ininterrotto ascoltare “dentro me stessa e gli altri” Dio. In realtà è Dio che ascolta “dentro di me”. Di sera, quando, coricata sul letto, mi raccolgo in te, mio Dio, lacrime di gratitudine mi inondano il volto ed è questa la mia preghiera». Tra le vittime delle camere a gas di Auschwitz del 30 settembre 1943 “secondo un rapporto della Croce Rossa” c’era anche lei, Etty (Ester) Hillesum di 29 anni.

del Card. Gianfranco Ravasi – Avvenire

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Wojtyla, il diario salvato dal fuoco diventa un libro

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2014

La rivelazione? Giovanni Paolo II ordinò a monsignor Dziwisz di distruggere quelle pagine. Ma il segretario gli  disobbedì
Wojtyla, il diario salvato dal fuoco diventa un libro
Quelle 600 pagine di appunti: «Siamo peccatori, così dobbiamo presentarci a Cristo»

di Maria Antonietta Calabrò – Il Corriere della Sera

Wojtyla, il diario salvato dal fuoco diventa un libro dans Libri i751kl

A leggerli questi appunti, annotati da un santo su un’agenda comune, con grafia minuta, non si può non dare ragione all’arcivescovo di Cracovia, suo segretario: «Darli alle fiamme sarebbe stato un crimine». E’ vero Giovanni Paolo II nel suo testamento aveva chiesto che dopo la sua morte quelle sue privatissime riflessioni spirituali fossero distrutte insieme alla corrispondenza privata. Ma quante volte si dimostra che l’obbedienza è non sempre è una virtù. E che una decisione presa in coscienza si rivela quella più giusta. Ebbene, il cardinale Stanislao Dziwisz ha fatto la sua scelta, ha deciso di conservarli. Oltre 600 pagine di annotazioni. Essi sono stati i documenti principali alla base del processo di canonizzazione, cui si sono aggiunti i due miracoli riconosciuti dalla Chiesa come autentici interventi di Dio ottenuti grazie all’ intercessione del Papa che sarà proclamato santo nel prossimo mese di aprile.

Questi documenti — finora assolutamente inediti — saranno pubblicati in Polonia dalla casa editrice Znak , mercoledì prossimo, 5 febbraio. E il Corriere è in grado di anticiparne alcuni dei più significativi.

Grazie al fatto che non sono stati distrutti e che diventeranno un libro, tutto il mondo potrà leggere gli appunti spirituali del primo Papa globale della storia, scritti durante un arco di quarant’anni (1962-2003). Essi ci permettono di avvicinarsi al mistero della sua anima, dal momento che, come annota colui che gli è succeduto come cardinale di Cracovia, sono «una chiave per capire la sua spiritualità e quindi la parte più intima di un uomo: il suo rapporto con Dio, con il prossimo e con se stesso».

E’ una raccolta insolita e commovente, grazie alla quale lo accompagniamo nei suoi momenti di maggiore vicinanza a Dio. Possiamo conoscere Wojtyła che ammette le sue debolezze, combatte contro di esse, ma si fida sempre più di Dio che delle proprie forze. Possiamo conoscere un uomo che sino alla fine lottò per vivere nella verità. Impressionante, ad esempio, la nota dell’ottobre 1978, appena successiva all’elezione al Pontificato. Giovanni Paolo II scrive della grave malattia in cui cadde il suo carissimo amico, il vescovo Andrzej Deskur, che il 13 ottobre « si sentì improvvisamente molto male e rimase parzialmente paralizzato. Nonostante una cura al Policlinico Gemelli ed un’altra in Svizzera, non guarì».

Ricorda il Pontefice appena eletto che il «14 X (ottobre, ndr) andai a trovare Andrzej all’ospedale. Lo feci durante il viaggio verso il conclave durante il quale si doveva scegliere il successore di Giovanni Paolo I (26.VIII – 28.IX.1978)». E poi aggiunge: «Non riesco a non legare il fatto che il 16.X fui scelto come successore, con l’evento di tre giorni prima. Il sacrificio del mio fratello Andrzej nel suo vescovado mi appare come una preparazione a questo fatto. Tutto, tramite la sua sofferenza, era incluso nel mistero della Croce e della Redenzione compiuta da Cristo». E rivela: «Andrzej Deskur, che lavorava dagli anni Cinquanta per la Commissione dei Mezzi di Comunicazione (negli ultimi tempi svolgeva il ruolo di Presidente) mi portò a conoscenza di tante questioni importantissime per la Santa Sede. L’ultima parola di quell’iniziazione diventò la sua croce». Infine conclude : «Debitor factum sum…» .

Come, poi, non stupirsi dell’assonanza tra un altro appunto, molto più indietro nel tempo, risalente al 1964, e quello che nei primi dieci mesi di Pontificato, abbiamo sentito ripetere da Papa Francesco. Anche Wojtyla fa «riferimento a San Pietro che non era perfetto e lo riconosceva “sono un peccatore”. = Siamo tutti dei peccatori, ma anche i vescovi nel loro insieme (i tempi dell’Arianesimo, della Rivoluzione Francese, d’Harbigny) // Rinunciare a “acceptatio personae propriae” (accettazione della propria persona) e presentarsi così davanti a Cristo».

Impressionante quando spiega quale deve essere l’atteggiamento che deve avere «un vescovo verso un peccatore: il cuore aperto… E alla fine credere nella vittoria della Grazia Divina sul peccato … Il nostro compito è: far venire la Grazia. Non capitolare di fronte a nessun peccato (delictum). Misericordia = summa christianitatis [la misericordia = essenza del cristianesimo]».

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Al Paradiso per mezzo di Maria

Posté par atempodiblog le 26 janvier 2014

Al Paradiso per mezzo di Maria dans Citazioni, frasi e pensieri Maria-e-Ges

La santa Madre è anche chiamata dalla Chiesa stella del mare: “Ave, Maris Stella”. Infatti, dice san Tommaso, “come i naviganti sono guidati al porto per mezzo della stella, così i cristiani sono guidati al Paradiso per mezzo di Maria”. Allo stesso modo, san Pier Damiani la chiama “Scala del Cielo” poiché “per mezzo di Maria Dio è sceso dal cielo in terra, affinché grazie a lei gli uomini meritassero di salire dalla terra al Cielo”. Sant’Anastasio esclama: “Ave, sei stata ripiena di grazia perché Tu fossi la via della nostra salvezza e il cammino per ascendere alla patria celeste”. Perciò san Bernardo chiama la Vergine “Veicolo per salire al Cielo” e san Giovanni Geometra la saluta: “Salve, Nobilissimo Cocchio” sul quale i suoi devoti sono condotti in Cielo. San Bonaventura dice: “Beati quelli che Ti conoscono, o Madre di Dio! Il conoscerTi è la strada della vita immortale e il pubblicare le Tue virtù è la via della salvezza eterna”. Nelle Cronache francescane si narra che fra Leone vide un giorno una scala rossa sopra cui stava Gesù Cristo e una scala bianca sopra cui stava la Sua santa Madre. Osservò che alcuni cominciavano a salire la scala rossa ma, dopo pochi gradini, cadevano; ricominciavano a salire e cadevano di nuovo. Esortati ad andare per la scala bianca, li vide salire felicemente, mentre la Beata Vergine porgeva loro la mano e così giungevano senza difficoltà in paradiso.

Sant’Alfonso Maria de Liguori

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No a invidie e chiacchiere, distruggono le comunità

Posté par atempodiblog le 26 janvier 2014

No a invidie e chiacchiere, distruggono le comunità dans Lourdes 2gtnea0

“La persona invidiosa, la persona gelosa è una persona amara: non sa cantare, non sa lodare, non sa cosa sia la gioia, sempre guarda ‘che cosa ha quello ed io non ne ho’. E questo lo porta all’amarezza, un’amarezza che si diffonde su tutta la comunità. Sono, questi, seminatori di amarezza. E il secondo atteggiamento, che porta la gelosia e l’invidia, sono le chiacchiere. Perché questo non tollera che quello abbia qualcosa, la soluzione è abbassare l’altro, perché io sia un po’ alto. E lo strumento sono le chiacchiere. Cerca sempre e vedrai che dietro una chiacchiera c’è la gelosia e c’è l’invidia. E le chiacchiere dividono la comunità, distruggono la comunità”.

Papa Francesco

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“La forma più alta di invidia, che giustamente è collocata fra i peccati contro lo Spirito Santo, è l’invidia spirituale: invidia della grazia altrui, invidia per le grazie che Dio dà agli altri”. (di Padre Livio Fanzaga)

Ma l’antipatia di Madre Maria Teresa Vauzou per Bernadette raggiunse il livello di gelosia patologica (ella stessa ammise ad una consorella, più avanti, che avvertiva un malevolo, ossessivo bisogno di tormentare e umiliare Bernadette. Divenne la missione di questa donna. Un esempio per dimostrare quanto insanamente egocentrica e patologica fosse l’invidia di questa donna: qualche tempo dopo la morte di Bernadette, quando la Madre Generale annunciò che la Chiesa stava preparando l’inizio del processo di beatificazione di Bernadette,  Madre Vauzou energicamente affermò che avrebbero dovuto aspettare che ella fosse morta!). […]

Alcune delle altre superiori presero spunto dal rispetto per madre Vauzou per umiliare Bernadette. Madre Imbert, di ritorno da un viaggio a Roma, incontrò le suore nel cortile del convento. Salutò tutte le novizie e diede ad ognuna un abbraccio e un caloroso saluto personale. Le giovani suore gradirono l’attenzione. Quando, però, la superiora giunse a Bernadette, silenziosamente l’abbracciò e passò oltre. L’atmosfera felice si dissolse subito a causa di questa palese scortesia.

Tratto da: InfoBarrel LifeStyle

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San Paolo Apostolo (dell’Abate Giuseppe Ricciotti)

Posté par atempodiblog le 25 janvier 2014

San Paolo Apostolo (dell’Abate Giuseppe Ricciotti)
Tratto da: Frasiarzianti’s Blog

San Paolo Apostolo (dell'Abate Giuseppe Ricciotti) dans Fede, morale e teologia Caravaggio_La_conversione_di_San_Paolo

“La Grecia, ormai immiserita sotto l’aspetto economico ed anche artistico, non viveva che del suo passato glorioso”.

“Anche oggi, dopo tanto pensiero cristiano, non si leggono senza profonda impressione le sentenze di Seneca morale, le Dissertazioni e il Manuale di Epitteto, e le meditazioni dell’imperatore filosofo”.

“Ogni giorno muoio, aveva affermato Paolo quando era ancor vivo, e lo stesso può egli ripetere ancor adesso vedendo com’è trattata la sua eredità morale in nome della scienza. Da vivo egli moriva ogni giorno perché compiva in se stesso le cose mancanti alle tribolazioni del Cristo, e anche adesso egli prosegue in questo compimento perché la passione del Cristo si prolunga nei secoli sopra il suo corpo mistico. Ma anche dopo questa rinnovata morte Paolo imita il Cristo suo maestro: ogni volta egli risorge più vivo di prima, o ogni colpo mortale ch’egli riceve si converte per lui in un guadagno. Lo proclama egli stesso incessantemente dal suo sepolcro a Roma, attorno al quale stanno scolpite le sue parole: Per me il morire è un guadagno.”

“Quando, alcuni secoli prima, Paolo passava lunghe serate in quel suo laboratorio da tessitore, in piedi, poggiando appena un braccio sull’angolo del telaio, mentre la sua mano nervosa tormentava incessantemente la barba, e stava là a dettare con faticosa lentezza parola su parola a Terzo, il quale accoccolato a terra in un angolo scriveva con la tavoletta sulle ginocchia e con la lucerna sul pavimento – Paolo in quelle serate fondava la prima università di teologia che abbia avuto il cristianesimo.”

“Testimonio in greco si dice martire; perciò Stefano figurò nella Chiesa come il proto-martire, ossia il primo-testimonio del Cristo. Ma come non pensare a quell’altro testimonio della Legge giudaica, che stava là a lapidare con le mani dei testimoni serviti da lui? Come non scorgere un ideale collegamento fra quel primo testimonio di un ordine nuovo, e quell’ultimo testimonio di un ordine antico?”

“Il viaggio del focoso fariseo alla volta di Damasco fu, nel campo morale, una copia esatta del viaggio del Titanic. Il nocchiero Paolo era incrollabilmente sicuro di sé dominava la sua rotta, aveva previsto tutto: tutto, salvo l’imprevedibile. Ad un tratto, sulla sua rotta, si profilò una montagna bianca, e contro di essa egli andò a cozzare.”

“La conversione di Paolo è nella storia delle origini cristiane l’avvenimento di maggiore importanza e di conseguenze più decisive dopo la resurrezione di Gesù; anzi, per coloro che considerano – falsissimamente – Paolo come il vero costruttore concettuale del cristianesimo, l’adesione di lui a Gesù segna il vero inizio della nuova fede, mentre la resurrezione di Gesù resta un semplice articolo di quella fede.”

“Le grandi conversioni al Cristo non hanno mai importato la soppressione dell’indole individuale, ma solo la sua sublimazione: la psiche del convertito rimane sostanzialmente quella di prima, soltanto che viene sollevata in una sfera immensamente più alta.”

“Chi era più degno di stringere nel suo pugno il dominio del mondo, un uomo in tali condizioni di spirito oppure il Cesare del Palatino con le sue trenta e più legioni dislocate su tutto il mondo conosciuto? Se il mondo è dominato dall’idea, era più degno Paolo; se è domainato dalla forza, era più degno Cesare. La Storia, con la sua scelta tra i due, ha dato la risposta.”

“In questo capovolgimento di criteri umani sta tutto il segreto dei successi missionari di Paolo: l’uomo fallisce sempre, ma Dio trionfa sempre. E’ il segreto del discorso della montagna, che troppo spesso non è stato afferrato da critici e filosofi.”

“Con ogni esattezza storica si può affermare che la Chiesa cristiana – nelle sue parvenze esteriori – è stata concepita e formata in seno alla sinagoga giudaica, e che per un certo tempo la vita della prima è rimasta conglutinata con la vita della seconda, sebbene fosse una vita vita del tutto propria e nettamente indirizzata ad una totale indipendenza. L’ultimo legale, che un ancora alla madre la figlia già nata, fu l’osservanza dei riti prescritti dalla Legge di Mosè: troncato questo legame, la Chiesa acquistò vita autonoma del tutto indipendente dalla Sinagoga. Chi osò praticare questo troncamento, di conseguenze incalcolabili per la storia dell’umanità, fu Paolo. Egli dunque, sotto questo aspetto, fu il maieutico della Chiesa.”

“Un ostacolo maggiore di questo indifferentismo Paolo non trovò mai altrove. Delle gelosie dei Giudei egli si compiaceva; delle violenze dei pagani si rallegrava; ma l’inerte indifferenza degli Ateniesi lo snervò, pari ad esperto nocchiere che si mantiene indomito tra l’infuriare d’una tempesta ma resta abbattuto da una fiaccante bonaccia.”

“I Romani, pratici di legge, sanno che la legge costringe l’uomo soltanto finché vive”.

“…come egli allora stava contemplando Roma dai Colli Albani, così un trentennio prima Gesù aveva contemplato Gerusalemme dal Monte degli Olivi pochi giorni prima della sua morte; se allora Gesù aveva pianto, adesso il suo apostolo sorrideva, ma l’antico pianto del maestro giustificava adesso il sorriso del discepolo.”

“Quel corpo sanguinolento fu poi incurvato, in maniera che protendesse il collo. Un ordine del centurione: un lampo della spada: un tonfo. La testa balzò poco distante; il corpo si afflosciò in un lago di sangue. Grida sghignazzanti s’alzarono dal gruppo dei Giudei; una pace serena si diffuse sui visi dei fratelli cristiani. Questa fu la morte di Paolo di Tarso, giudeo per sangue, cittadino romano per diritto, anticamente maestro della Legge mosaica per libera elezione, successivamente apostolo del Vangelo cristiano per superna vocazione. Ognuna di queste sue quattro prerogative fu rispecchiata nella sua morte.”

“Nell’interno della basilica sta ritta la millenaria torre più salda dell’acciaio, il morto tuttora vivo, che lancia incessantemente al mondo intero il suo messaggio di spirito.”

“Oggi cristianesimo significa in massima parte Paolo, come civiltà umana significa in massima parte cristianesimo: l’uomo veramente civile, consciamente o no e in misura più o meno grande, è oggi seguace di Paolo.”

“Quasi sterile è il tentativo da lui fatto nel centro della sapienza umana, all’Areopago di Atene…”.

“L’unico vero libro composto da Paolo è dunque la sua vita, nel quale libro le pagine sono le opere da lui compiute, e di tratto in tratto tra queste pagine si trovano alcune note delucidative che sono le lettere. L’argomento di tutto il libro è designato dalle stesse parole di lui: Siate imitatori di me, come anch’io di Cristo”.

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Chi ha in odio il Cristianesimo

Posté par atempodiblog le 25 janvier 2014

Chi ha in odio il Cristianesimo dans Citazioni, frasi e pensieri 2pzle1u

“Ci sono persone che odiano il Cristianesimo, ma chiamano il loro odio ‘amore per tutte le religioni’”.

Gilbert Keith Chesterton

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Il buon vino della vecchiaia

Posté par atempodiblog le 25 janvier 2014

Il buon vino della vecchiaia dans Papa Francesco I jkeiza

I due Vegliardi
Sulla terrazza di un ristorante affacciato su un lago, contemplo a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, un inedito adattamento della contemplazione ignaziana dei Due Stendardi, che potremmo definire i Due Vegliardi. Alla mia sinistra c’è una non più giovane coppia in cui vediamo riflessa quell’estetica dei comportamenti che siamo soliti definire “buone maniere”. Intendo maniere senza manierismi né smancerie, semplicemente lo specchio di una società ordinata. Ben vestiti, sia pure senza ricercatezze, dai modi gentili e delicati, ma senza sofismi. Naturalmente elegante la signora con le sue premure verso il marito, la cui espressione apparentemente burbera nella lettura del giornale si allarga poi in un sincero sorriso quando all’accensione della pipa sbuffano allegre le prime nuvole di fumo. Si direbbe che le loro chiome ormai bianche siano corone illuminate dai raggi del sole.

Alla mia destra, altro tavolino, altra vecchiaia, tutt’altra (anti)estetica: un uomo rinsecchito, dai modi vanamente giovanili come la t-shirt inneggiante alla marjuana e capello lungo a completare il look rivoluzionario del giovane che fu e che non è più. Anche qui una chioma candida, ma più che una corona richiama una pianta appassita. Sembra di assistere ad un curioso contrasto tra Pannella e Tolkien, oppure chiamateli come preferite, in ogni caso ai due tavolini vedo altrettante immagini della vecchiaia, che spingono a riflettere su quale mentalità, quale idea di società, ci sia dietro ciascuno dei due – e di riflesso a chiedersi in quale dei due modi vorremmo invecchiare. Dimmi come invecchi e ti dirò chi sei. A tale proposito l’allora cardinale Jorge M. Bergoglio raccontava un episodio molto significativo accaduto all’aeroporto: «All’improvviso uno dei viaggiatori, un noto imprenditore piuttosto avanti negli anni, incominciò a spazientirsi perché la sua valigia tardava. Non nascondeva affatto la sua stizza e faceva una faccia come per dire: “non sapete chi sono io. Non sono abituato a dover aspettare come un tizio qualunque”. La prima cosa che mi sorprese fu che un anziano perdesse la pazienza. […] Siccome sapevo che vita conducesse e conoscevo il suo desiderio di replicare il mito di Faust, continuando a comportarsi come se avesse sempre trent’anni, mi intristì vedere una persona che non era riuscita a godersi la saggezza della vecchiaia. Che invece di affinarsi come un buon vino, si era inacidito come uno cattivo».

La memoria viva
Ancora il cardinal Bergoglio, eletto al soglio pontificio col nome di Francesco, continua a raccomandare l’importanza del “buon vino” della vecchiaia, rivolgendosi ad una società che invece abbandona bambini ed anziani alla più volte denunciata “cultura dello scarto”: «Speranza e futuro presuppongono memoria. La memoria dei nostri anziani è il sostegno per andare avanti nel cammino. Il futuro della società, e in concreto della società italiana, è radicato negli anziani e nei giovani: questi, perché hanno la forza e l’età per portare avanti la storia; quelli, perché sono la memoria viva». Ripenso al tesoro prezioso costituito dai ricordi di un amico di famiglia classe 1920, insostituibile ponte tra me e i miei antenati che ho potuto così conoscere grazie ai suoi racconti, attingendo ai quali ho potuto “gustare” anch’io storie, ambienti, personaggi che non ho mai visto, restituendo colore a quelle poche sbiadite foto pervenute, che raccontano di un “mondo piccolo”, simile a quello descritto da Guareschi, con la differenza che a popolarlo erano persone dai nomi (e cognomi) familiari. Ho potuto fare capolino nella locanda gestita dalla bisnonna, intravedere il grigio e il rosso del braciere sempre acceso, il colore cupo del vino attraverso il verde delle bottiglie, sentire l’odore del fumo; ho intravisto l’affaccendarsi di mia nonna   che tra i clienti che si fermavano a pranzo conobbe suo marito; intanto suo fratello, giovane avvocato, si concedeva una meritata tregua da libri e codici, leggendo il giornale – così come lo vedo in una vecchia foto. Il bisnonno nel frattempo teneva banco nella tabaccheria: un uomo piccolo ma robusto, un tipetto sanguigno, impeccabile nel suo colletto inamidato e i baffi ben modellati, secondo la moda dell’epoca, consapevole di esercitare ancora un certo fascino sulle signore – salvo dimenticarsene improvvisamente di fronte alla bisnonna che brandiva la molla del camino a guisa di scettro (e di arma)… Rivedo queste scene passando sulle stesse strade, vedendo le stesse pietre che videro loro, pensando anche alla fiammella della fede che da quelle generazioni è giunta fino a me – tremolante e sempre a rischio di spegnersi nella tempesta dei limiti umani , eppure perennemente accesa. «Preghiamo per i nostri nonni e per le nostre nonne che tante volte hanno avuto un ruolo eroico nella trasmissione della fede in tempi di persecuzioni», continua Papa Francesco, e dalla gratitudine per i “miei” vecchi il pensiero salta alle nonne russe, che custodirono le icone per tutto il rigido inverno sovietico che voleva spegnerne la luce dorata ed eterna. Ma lo stesso si potrebbe dire delle nonne occidentali che nell’inverno della secolarizzazione e del relativismo hanno conservato il senso del soprannaturale – magari dietro le apparenze dimesse di un vecchio santino o della “classica” madonnina con l’acqua di Lourdes -, tenendo viva quella tensione verso l’Infinito di cui il nostro mondo dall’orizzonte ristretto si illude di poter fare a meno.

Il vino di Pietro
Sono quelle stesse scintille di eternità a illuminare il volto delle nonne, conferendo loro quella specifica bellezza della vecchiaia. Bellezza e vecchiaia sembrano quasi un ossimoro, una contraddizione in termini, ma solo se riduciamo la bellezza a un rivestimento puramente esteriore o se il buon vino della vecchiaia inacidisce. Se invece si affina, persino la sofferenza può esaltarne il sapore. Il vecchio che vive da eterno adolescente non attrae nessuno, se non per interesse; ma il mondo intero si è stretto intorno alla sedia a rotelle e poi al capezzale di Giovanni Paolo II, malato e poi morente, incapace di parlare e poi persino di benedire, ma ancora capace di attrarre. Salvifici doloris…Poi venne Benedetto XVI e le folle dei fedeli smentirono i pronostici: piazza san Pietro si riempiva anche con il mite professore tedesco che faceva “teologia in ginocchio”. E si riempì anche Castel Gandolfo, quando abbandonò i panni di Pietro per indossare quelli, inconsueti, del Bianco Eremita. Ancora i pronostici furono smentiti: ci si aspettava un pontefice relativamente giovane e invece venne Francesco, un ciclone di 76 anni. L’eterna giovinezza di una Chiesa fondata da un trentenne è affidata alle cure di un uomo anziano, il Papa immagine della Paternità celeste, modello di ogni paternità che esiste in terra. Pietro ha i capelli bianchi ma attrae più di qualsiasi “idolo” ventenne e continua ad attrarre le generazioni spaesate, artefici e vittime della cultura dello scarto – che è al contempo scarto della cultura, della memoria, della sapienza antica. Talvolta non solo gli anziani sono rifiutati ma giungono essi stessi a rifiutare la propria vecchiaia, in un affannoso (e sterile) tentativo di fermare il tempo – la “crisi del nonno” è forse l’epilogo naturale della crisi del padre (e del Padre). Ed è proprio in questa situazione, per uno dei misteriosi paradossi della storia, che nella vigna del Signore si è presentata l’inedita situazione di, non uno, bensì due Anziani che nella diversità dei ruoli – uno regnante, l’altro orante – custodiscono ed elargiscono il buon vino della memoria e della speranza ad un mondo che, altrimenti, rischia di inacidirsi.

di Stefano Chiappalone
Fonte: Comunità Ambrosiana
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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Santa Maria della Pace, un luogo di preghiera

Posté par atempodiblog le 24 janvier 2014

Il 24 gennaio la Chiesa celebra la festa di Santa Maria della Pace. Nella chiesa di Santa Maria della Pace a Roma riposano le sacre spoglie di San Josemaria Escrivá. Nella Cripta della chiesa è sepolto Mons. Álvaro del Portillo. Sono molti coloro che vi si recano a chiedere aiuto o a ringraziare per i favori ricevuti.

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Chiesa Prelatizia di Santa Maria della Pace
Un luogo di preghiera dove riposano le sacre spoglie di San Josemaria Escrivá.
Tratto da: San Josemaría Escrivá

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Il corpo di san Josemaria riposa in un’urna collocata sotto l’altare della Chiesa di Santa Maria della Pace. Milioni di persone in tutto il mondo ricorrono a San Josemaria per chiedere a Dio Nostro Signore grazie di qualsiasi tipo. E sono molti coloro che visitano la Chiesa Prelatizia per pregare o per ringraziare per le grazie ricevute attraverso la sua intercessione.

Il 31 dicembre del 1959, San Josemaria celebrò la prima Messa in Santa Maria della Pace, che in seguito all’erezione dell’Opus Dei come Prelatura personale diventò la Chiesa Prelatizia. La devozione di Mons. Escrivá alla Vergine è il motivo del titolo della chiesa e dell’immagine che la presiede. Nella cripta della Chiesa si trova la Cappella del Santissimo e vari confessionali. San Josemaria predicó con instancabile zelo la necessità di ricorrere ai Sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucarestia, doni di Dio ai suoi figli gli uomini, fonte di pace e di allegria perenni.

“La Madonna – così l’invoca la Chiesa – è la Regina della pace. Per questo quando la tua anima, l’ambiente familiare o professionale, la convivenza nella società o tra i popoli sono agitati, non cessare di acclamarla con questo titolo: “Regina pacis, ora pro nobis!” – Regina della pace, prega per noi! Hai provato, almeno, quando perdi la serenità?… – Ti sorprenderai della sua immediata efficacia”. San Josemaria Escrivá

Nella cripta è sepolto Mons. Álvaro del Portillo (1914-1994), Vescovo e primo successore di San Josemaría alla guida dell’ Opus Dei.

Orari di Santa Maria della Pace

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Sante Messe: Tutti i giorni alle ore 8.30, 12.00 e 19:30*. *La Santa Messa dalle 19.30 non si celebrerà durante i mesi di luglio ed agosto. 

Durante la Settimana Santa, dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua, si celebrerà la Santa Messa solo alle 8.30, tranne Giovedì, Venerdì e Sabato Santo. 

Viale Bruno Buozzi, 75 00197 Roma telefono 06-808961 

Apertura: Tutti i giorni dalle 8.30 alle 20.25 (dalle 14.00 alle 17.00, entrata da Via di Villa Sacchetti, 36) 

Nei giorni 16 e 17 luglio 2013 la Chiesa Prelatizia sarà chiusa per lavori di manutenzione 

Confessioni: In italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo e portoghese. Se un gruppo vuole avvisare in anticipo del suo arrivo o un sacerdote desidera celebrare la santa Messa, si può chiamare il numero 06-808961. 

freccetta.jpg Mappa per raggiungere la chiesa

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Un cuore santo e misericordioso

Posté par atempodiblog le 24 janvier 2014

Un cuore santo e misericordioso
Se il corpo di san Francesco di Sales riposa nella sua Annecy, il suo cuore, incorrotto e fonte di miracoli, è venerato oggi, dopo tante traversie, a Treviso, nel monastero delle Visitandine.
di Roberto de Mattei – Radici Cristiane

Tratto da: Il giudizio cattolico

Un cuore santo e misericordioso dans San Francesco di Sales San-Francesco-di-Sales

San Francesco di Sales, conosciuto in tutto il mondo, gode di una notorietà speciale in Italia, anche grazie a san Giovanni Bosco, che volle perpetuarne la memoria e lo spirito fondando la congregazione dei salesiani. Pochi sanno però che se il corpo di san Francesco di Sales riposa ad Annecy, il suo cuore, integro e incorrotto, è conservato in Italia, nella cittadina di Treviso. Vale la pena ripercorrerne il movimentato itinerario.
Il 28 dicembre 1622, il grande santo savoiardo moriva a Lione, colpito da un attacco apoplettico, all’età di 54 anni. Appena diffusasi la notizia, i fedeli accorsero in folla per venerare la sua salma che solo dopo una lunga contesa, fu restituita alla città di Annecy, dove aveva risieduto come vescovo della calvinista Ginevra e dove, con santa Giovanna di Chantal, aveva fondato l’ordine della Visitazione. Il cuore, che nell’operazione di imbalsamazione era stato trovato “grande, sano e completo”, fu lasciato alle suore visitandine di Lione che lo avevano ospitato negli ultimi giorni.
Il monastero di Lione, intitolato a Santa Maria di Bellecour, era stato fondato nel 1615. Mons. Marquemont, arcivescovo di quella città aveva rifiutato però l’idea originaria di Francesco di Sales, che era quella di dar vita ad una congregazione femminile di vita attiva, senza clausura.
Con quella docilità alla Provvidenza che caratterizza la sua spiritualità, il Santo accettò di mutare le regole primitive della Visitazione, che nel 1618 fu trasformata in Ordine religioso con voti solenni e clausura pontificia.
Ordine contemplativo dunque, destinato, per la sua straordinaria fioritura, a rendere nel XVII e nel XVIII secolo un servizio alla Chiesa complementare a quello che sul piano dell’attività educativa e culturale andavano svolgendo i gesuiti.
Le religiose di Lione, il “secondo” monastero della Visitazione, dopo quello di Annecy, avevano l’onore di conservare il cuore del fondatore, custodito in uno splendido reliquiario d’oro donato da Luigi XIII Re di Francia.
Nel 1658, quando il delegato del Papa Alessandro VII stese l’atto ufficiale di autentica del cuore lo trovò incorrotto, in ottimo stato ed effondente un profumo dolce e penetrante. Questa misteriosa fragranza era la stessa che ad Annecy diffondevano i suoi resti mortali, impregnando i chiostri e i viali, e che emanava tutto ciò che era appartenuto al Santo, come il cappello a Vienna e il breviario conservato a Nevers.
Il cuore di san Francesco di Sales divenne per i lionesi uno degli oggetti più cari di venerazione e di culto. Ogni anno, negli ultimi giorni di gennaio, veniva esposto pubblicamente per quattro giorni consecutivi, con un’immensa affluenza di popolo.

Nella tempesta rivoluzionaria
Chi avrebbe immaginato che il regno “cristianissimo” di Francia avrebbe presto abbracciato la via della rivolta e della scristianizzazione? La “figlia primogenita della Chiesa” celebrava i suoi Stati Generali, il 5 maggio 1789, in un clima ancora sacrale, ma dopo pochi mesi annunciava al mondo la soppressione degli ordini religiosi, la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, la Costituzione Civile del Clero, che la poneva in rotta aperta con Roma.
Dopo il 10 agosto 1792, anche per le visitandine di Lione la situazione si fece insostenibile. Le religiose vennero sottoposte a interrogatori e vessazioni di ogni genere e finalmente costrette alla dispersione e alla fuga.
Abbandonarono da un giorno all’altro tutto, ma non il loro bene più caro, la reliquia del fondatore, che da quel momento accompagnò la loro peregrinazione. Nei primi mesi del 1793, mentre Luigi XVI veniva condotto al patibolo e la Vandea si sollevava in armi, le suore, divise in piccoli gruppi, senza passaporti o commendatizie attraversarono la Francia e la Svizzera per giungere avventurosamente a Mantova, dove l’Imperatore del Sacro Romano Impero aveva offerto loro la possibilità di aprire un monastero.

Il cuore in Italia
L’accoglienza della popolazione fu calorosa, ma la tranquillità di breve durata. Agli inizi di aprile del 1796, il generale Bonaparte valicava le Alpi e dilagava nella Pianura Padana. Le religiose, incalzate dalle armate francesi, sempre portando con sé il cuore del Salesio, furono costrette ad un nuovo peregrinare che le portò in Boemia a Krumau, quindi a Vienna e finalmente, nel 1801, a Venezia.
Il cuore di san Francesco di Sales e le sue suore avevano possesso del monastero di San Giuseppe di Castello di Venezia, presso il quale esse tennero un educandato frequentato per quasi un secolo dalle migliori famiglie venete. A questa aristocrazia di sangue e di spirito appartennero nell’Ottocento modelli di visitandine come le madri Giulia Gaetana Thiene, Teresa Caterina Michiel, Giuseppina Antonietta Monico.
Si chiuse il secolo e il vento del laicismo e dell’anticlericalismo tornò a soffiare. In Italia prese di mira i beni religiosi e tra questi il monastero di San Giuseppe, che secondo le leggi del tempo apparteneva al demanio.
Pio X, che da cardinale le aveva protette, indusse le suore a costruire un nuovo monastero a Treviso, in località Le Corti, non lontano da quella Riese dove era nato e aveva trascorso la sua infanzia contadina.
Santo attira santo. Il 2 luglio 1913, festa titolare dell’ordine, mons. Giacinto Longhin vescovo di Treviso di cui è oggi in corso la causa di beatificazione, accoglieva il nuovo insediamento della comunità facendosene fino alla sua morte, nel 1936, l’infaticabile protettore.

“Vi lascio il mio spirito e il mio cuore”
Dopo tre secoli di storia movimentata, il cuore errabondo di san Francesco di Sales sembra aver trovato dunque il suo riposo nella aristocratica e tranquilla cittadina veneta.  Le eredi del monastero di Lione, che oggi sopravvive a Treviso, vivono raccolte, nella preghiera e nel silenzio, attorno al cuore del fondatore, che, poco prima di morire, aveva detto alle sue figlie: “Vi lascio il mio spirito e il mio cuore”.
Chi volesse gustare la profondità di questo spirito, non ha che da attingere direttamente alle fonti. Del grande scrittore e patrono dei giornalisti, numerose sono le opere recentemente ristampate, tra le quali i Trattenimenti e le Esortazioni (Città Nuova) rivolte alle suore della Visitazione, le incantevoli Lettere a Chantal (Rusconi), le battagliere Controversie (Morcelliana) e naturalmente i due capolavori: la Filotea e il Trattato dell’Amor di Dio, ( Paoline).
San Francesco di Sales, conosciuto come il santo del sentimento e della dolcezza, vi appare come l’uomo incrollabile nella difesa della fede e nell’amore esclusivo a Dio e alla sua giustizia. «Io – scriveva – sono l’uomo più affettuoso del mondo, e tuttavia non amo – credo – assolutamente nulla se non Dio e tutte le anime per Dio».

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“Beato Francesco di Sales salvami!”

Posté par atempodiblog le 24 janvier 2014

“Beato Francesco di Sales salvami!”
Due fratelli devono attraversare un traballante ponte sopra un fiume in piena. Si raccomandano all’allora beato Francesco di Sales. Tuttavia, il più grande cade ed annega. Ma il giorno dopo…
di Alessandro Nicotra – Il Timone

“Beato Francesco di Sales salvami!” dans San Francesco di Sales San-Francesco-di-Sales

Correva l’anno 1623 ed era il 30 di aprile quando Francesco e Girolamo Genin, decisero di tornare a casa dai genitori sfuggendo dal temuto insegnante di latino, il signor Crozet. Costui, infatti, soleva punirli duramente quando non imparavano le lezioni.
I piccoli Genin, dunque, partirono di nascosto e di primo mattino per lasciare Les Ollièrs, paesino a sud di Ginevra, e giunsero così davanti al fiume Fier: un freddo fiume montano che spesso, in primavera e con lo sciogliersi delle nevi, si gonfiava e straripava prima di sfociare nel Rodano.
I due fratelli, rispettivamente di tredici e di quattordici anni, fissavano sconsolati sia l’impeto del fiume in piena, sia il piccolo ponte formato da tre assi di legno, non fissate tra di loro ed alquanto insicure. Se volevano tornare a casa quel ponte era la loro unica possibilità. “Esitammo a salirvi, temendo per la nostra vita; ma la paura di ricadere nelle mani del signor Crozet ci fece superare quel timore” dichiarerà in seguito Francesco.
Sarà che il fatto accadeva a poca distanza da Annency, località in cui era stato tumulato, nel 1622, l’allora beato Francesco di Sales che in vita era stato vescovo di Ginevra; sarà che a quel tempo erano ancora vivi quegli strani sentimenti da “fanatici, ignoranti e bigotti” che fan chiedere protezione a beati e santi, fatto sta che, prima di tentare l’attraversamento, i due giovani si inginocchiarono e chiesero protezione al servo di Dio e loro conterraneo Francesco di Sales. Gli fecero persino un voto: se avessero passato indenni il fiume avrebbero visitato la sua tomba ed ascoltato la Messa nella chiesa della Visitazione ad Annency. Girolamo, il più grande dei due, salì per primo ed arrivò al centro del ponte e del fiume. E proprio lì avvenne la disgrazia: un passo falso, il tempo di gridare “Beato Francesco di Sales, salvami!”, poi la faccia contro le assi del ponte ed infine la caduta in acqua. Subito il fratello tredicenne corse sul ponte per prestare aiuto a Girolamo. Ma finì a sua volta in acqua, sebbene non distante dalla riva. Francesco, invocando anch’egli e più volte l’omonimo beato, riuscì a mettersi in salvo e, rialzatosi, corse per centinaia di metri lungo il fiume, per riuscire a scorgere Girolamo… Nulla. Il fiume e la corrente l’avevano fatto sparire. Non rimaneva che tornare a Les Ollièrs, per avvertire il signor Puthod, parroco cui erano stati affidati dai genitori. Ma non trovando né Puthod né Crozet, Francesco lasciò detto al sagrestano di riferire loro della disgrazia e nel frattempo si diresse al fiume con alcuni compaesani che volevano aiutarlo. Davanti al ponte si erano già raggruppati molti abitanti di Ornay, il vicino paese che Francesco aveva attraversato in precedenza riferendo tra le lacrime quanto era successo. Ad ormai più di quattro ore dall’accaduto, si continuò a cercare il corpo di Girolamo più per dargli cristiana sepoltura che per la speranza di ritrovarlo vivo.
Si stava per desistere, quando giunse tale Alessandro Raphin, noto ed esperto nuotatore subacqueo conosciuto nella regione come abile ripescatore di corpi annegati. Ma dopo due tentativi falliti anche Raphin voleva desistere; l’acqua era troppo fredda e lui era ormai stremato. Per oltre un’ora si cercò di trovare lungo il fiume, un’ansa od una buca dove il cadavere poteva essere rimasto impigliato. E proprio in una buca assai profonda, il signor Raphin, dopo essere stato convinto a fare un ultimo tentativo, si gettò e rinvenne il cadavere di Girolamo. Il corpo del ragazzo appariva alla vista di tutti i numerosi presenti esanime, bluastro, gonfio, pieno di contusioni e quasi irriconoscibile. Sempre Raphin si caricò il corpo sulle spalle e lo portò a Ornay dove depose in un fienile. Il parroco locale constatò, dopo accurato esame, che il ragazzo era sicuramente morto e fece scavare una tomba nel cimitero della chiesa. Per il funerale bisognava però aspettare l’arrivo del parroco tutore dei Genin. Invero non ci fu da aspettare molto, ma erano già le sei di sera e quindi si decise che la cerimonia funebre sarebbe stata celebrata l’indomani. Il parroco Puthod si fece raccontare tutta la storia sin nei dettagli e quando udì dell’invocazione al beato Francesco di Sales ebbe un sussulto. Poco prima, infatti, mentre stava pregando nel fienile, presso la salma di Girolamo, aveva fatto il seguente voto: “se Dio si compiacerà di ridare la vita al morto per glorificare il suo vero Servo Francesco di Sales, reciterò in loro onore nove messe per nove giorni di fila sulla tomba del beato”. Durante la notte venne celebrata la veglia funebre ed al mattino seguente si preparò al funerale. Del resto, quel corpo annegato il giorno prima appariva sempre più malridotto ed irriconoscibile. Eppure…
Quando Girolamo Genin stava per essere sollevato e deposto nella bara, prima lo si vide alzare un braccio e, subito dopo, lo si sentì pronunciare: “O beato Francesco di Sales!”. Tutti rimasero sorpresi e meravigliati.
Alcuni dei presenti fuggirono, altri persero i sensi e solo in pochi trovarono il fiato ed il coraggio per gridare al miracolo.
Girolamo venne aiutato ad alzarsi e sebbene presentasse parecchie contusioni era vivo! Bevve, si ripulì dalla sabbia del fiume, mangiò e raccontò che, prima di alzarsi, gli era apparso il Beato Francesco di Sales che l’aveva benedetto. Il 4 maggio i fratelli Genin ed il parroco Puthod si recarono ad Annency per tener fede al proprio voto. Un altro miracolo attendeva Girolamo che, dopo essersi coricato sulla tomba d el Servo di Dio, sentì sparire di colpo tutti i dolori e le contusioni di cui ancora soffriva. Nel maggio 1665 Francesco di Sales venne canonizzato e fra i presenti alla cerimonia vi era pure il risorto Girolamo.
Questo miracolo è ben documentato dalle deposizioni dei numerosi testimoni che vi assistettero direttamente. Teniamo conto, infine, che solo Dio può risuscitare veramente un morto. Solo il creatore delle leggi della natura può derogarvi.

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Silenzio, perdono e umilità

Posté par atempodiblog le 23 janvier 2014

Silenzio, perdono e umilità dans Citazioni, frasi e pensieri Beato-Giustino-Maria-della-Santissima-Trinit-Russolillo

“Il Signore ti parlerà a proporzione del tuo silenzio.

Il Signore ti regalerà a proporzione del tuo perdono.

Il Signore ti farà le grazie a proporzione della tua umilà”.

Beato Giustino Maria della Santissima Trinità Russolillo

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Il Papa: il comunicatore sia come il Buon Samaritano, il suo potere è la prossimità

Posté par atempodiblog le 23 janvier 2014

Il Papa: il comunicatore sia come il Buon Samaritano, il suo potere è la prossimità dans Papa Francesco I s0vima

L’icona del Buon Samaritano, è l’augurio del Papa, “ci sia di guida”, “la nostra comunicazione sia olio profumato per il dolore e vino buono per l’allegria”. “La nostra luminosità – afferma ancora – non provenga da trucchi o effetti speciali, ma dal nostro farci prossimo di chi incontriamo” lungo il cammino. “Non abbiate timore di farvi cittadini dell’ambiente digitale – esorta ancora – è importante l’attenzione e la presenza della Chiesa nel mondo della comunicazione, per dialogare con l’uomo d’oggi e portarlo all’incontro con Cristo”. In questo contesto, conclude il Papa, “la rivoluzione dei mezzi di comunicazione e dell’informazione è una grande e appassionante sfida, che richiede energie fresche e un’immaginazione nuova per trasmettere agli altri la bellezza di Dio”.

di Alessandro Giosotti – Radio Vaticana

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Papa Francesco: gelosie, invidie e chiacchiere dividono e distruggono le comunità cristiane

Posté par atempodiblog le 23 janvier 2014

I cristiani chiudano le porte a gelosie, invidie e chiacchiere che dividono e distruggono le nostre comunità: è l’esortazione lanciata da Papa Francesco, stamani, nella Messa presieduta a Santa Marta nella sesta giornata di preghiera per l’unità dei cristiani.
di Sergio Centofanti – Radio Vaticana

Papa Francesco: gelosie, invidie e chiacchiere dividono e distruggono le comunità cristiane dans Mormorazione 2i8dd85

La riflessione del Papa è partita dalla prima lettura del giorno che parla della vittoria degli israeliti sui filistei grazie al coraggio del giovane Davide. La gioia della vittoria si trasforma presto in tristezza e gelosia per il re Saul di fronte alle donne che lodano Davide per aver ucciso Golia. Allora, “quella grande vittoria – afferma Papa Francesco – incomincia a diventare sconfitta nel cuore del re” in cui si insinua, come accadde in Caino, il “verme della gelosia e dell’invidia”. E come Caino con Abele, il re decide di uccidere Davide. “Così fa la gelosia nei nostri cuori – osserva il Papa – è un’inquietudine cattiva, che non tollera che un fratello o una sorella abbia qualcosa che io non ho”. Saul, “invece di lodare Dio, come facevano le donne d’Israele, per questa vittoria, preferisce chiudersi in se stesso, rammaricarsi” e “cucinare i suoi sentimenti nel brodo dell’amarezza”:

“La gelosia porta ad uccidere. L’invidia porta ad uccidere. E’ stata proprio questa porta, la porta dell’invidia, per la quale il diavolo è entrato nel mondo. La Bibbia dice: ‘Per l’invidia del diavolo è entrato il male nel mondo’. La gelosia e l’invidia aprono le porte a tutte le cose cattive. Anche divide la comunità. Una comunità cristiana, quando soffre – alcuni dei membri – di invidia, di gelosia, finisce divisa: uno contro l’altro. E’ un veleno forte questo. E’ un veleno che troviamo nella prima pagina della Bibbia con Caino”.

Nel cuore di una persona colpita dalla gelosia e dall’invidia – sottolinea ancora il Papa – accadono “due cose chiarissime”. La prima cosa è l’amarezza:

“La persona invidiosa, la persona gelosa è una persona amara: non sa cantare, non sa lodare, non sa cosa sia la gioia, sempre guarda ‘che cosa ha quello ed io non ne ho’. E questo lo porta all’amarezza, un’amarezza che si diffonde su tutta la comunità. Sono, questi, seminatori di amarezza. E il secondo atteggiamento, che porta la gelosia e l’invidia, sono le chiacchiere. Perché questo non tollera che quello abbia qualcosa, la soluzione è abbassare l’altro, perché io sia un po’ alto. E lo strumento sono le chiacchiere. Cerca sempre e vedrai che dietro una chiacchiera c’è la gelosia e c’è l’invidia. E le chiacchiere dividono la comunità, distruggono la comunità. Sono le armi del diavolo”.

“Quante belle comunità cristiane” – ha esclamato il Papa – procedevano bene, ma poi in uno dei membri è entrato il verme della gelosia e dell’invidia e, con questo, la tristezza, il risentimento dei cuori e le chiacchiere. “Una persona che è sotto l’influsso dell’invidia e della gelosia – ribadisce – uccide”, come dice l’apostolo Giovanni: “Chi odia il suo fratello è un omicida”. E “l’invidioso, il geloso, incomincia ad odiare il fratello”. Quindi, conclude:

“Oggi, in questa Messa, preghiamo per le nostre comunità cristiane, perché questo seme della gelosia non venga seminato fra noi, perché l’invidia non prenda posto nel nostro cuore, nel cuore delle nostre comunità, e così possiamo andare avanti con la lode del Signore, lodando il Signore, con la gioia. E’ una grazia grande, la grazia di non cadere nella tristezza, nell’essere risentiti, nella gelosia e nell’invidia”.

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Sposalizio della Vergine col santo Giuseppe

Posté par atempodiblog le 23 janvier 2014

Sposalizio della Vergine col santo Giuseppe
Tratto da: Mistica città di Dio, della venerabile Suor Maria di Gesù de Agreda

Sposalizio della Vergine col santo Giuseppe dans Libri wtf5tx
Sposalizio della Vergine – San Nicola alla Carità (Napoli)

Si celebrano le nozze di Maria santissima col santo e castissimo Giuseppe.

752. Nel giorno in cui la nostra principessa Maria compiva quattordici anni, si radunarono gli uomini della tribù di Giuda e della stirpe di Davide, da cui discendeva la celeste Signora, i quali si trovavano allora in Gerusalemme. Fra gli altri fu chiamato Giuseppe nativo di Nazaret, che soggiornava nella stessa città santa, perché era uno di quelli della stirpe regale di Davide. Aveva trentatré anni, una bella figura e un aspetto attraente, ma di incomparabile modestia e serietà; dotato di santissime inclinazioni, era soprattutto castissimo nelle opere e nei pensieri e, fin dal dodicesimo anno d’età, aveva fatto voto di castità. Era parente della vergine Maria; in terzo grado, e di vita purissima, santa ed irreprensibile agli occhi di Dio e degli uomini.

753. Dopo essersi riuniti nel tempio, quegli uomini non sposati pregarono il Signore insieme con i sacerdoti, perché tutti fossero guidati dal suo divino Spirito in ciò che dovevano fare. A quel punto, l’Altissimo ispirò al cuore del sommo sacerdote di far si che a ciascuno dei giovani ivi raccolti si ponesse una verga secca nelle mani e che tutti poi domandassero con viva fede a sua Maestà di rivelare con tale mezzo chi aveva scelto come sposo di Maria. Siccome il buon odore della virtù ed onestà di questa vergine, nonché la fama della sua bellezza, dei suoi beni e della sua condizione sociale, come pure il fatto che fosse la figlia primogenita e unica nella sua casa, era già manifesto a tutti, ciascuno ambiva la buona sorte di averla come sposa. Solo l’umile e rettissimo Giuseppe, tra i presenti, si reputava indegno di un bene così grande; ricordandosi del voto di castità che egli aveva fatto e riproponendosene in cuor suo la perpetua osservanza, si rassegnò alla divina volontà, rimettendosi a ciò che volesse disporre di lui, nutrendo tuttavia venerazione e stima per l’onestissima giovane vergine Maria più di chiunque altro.

754. Mentre facevano questa orazione, tutti quelli là radunati videro fiorire solo la verga in mano a Giuseppe. Nello stesso tempo, una colomba candidissima, scendendo dall’alto circonfusa di ammirabile splendore, si posò sopra il capo del santo. Contemporaneamente Dio gli parlò nell’intimo con queste parole: «Giuseppe, servo mio, Maria sarà la tua sposa: accettala con attenzione e rispetto, perché ella è gradita ai miei occhi, giusta e purissima d’anima e di corpo, e tu farai tutto quello che ti dirà». Essendosi il cielo dichiarato con quel segno, i sacerdoti diedero alla vergine Maria san Giuseppe, come sposo eletto da Dio. Chiamandola per celebrare le nozze, la prescelta uscì fuori come il sole, più bella della luna. Alla presenza di tutti, il suo aspetto apparve superiore a quello di un angelo, di incomparabile bellezza, onestà e grazia, e i sacerdoti la sposarono con il più casto e santo degli uomini, Giuseppe.

755. La divina Principessa, più pura delle stelle del firmamento, in lacrime e seria come una regina, con umiltà ma anche con maestà – poiché Maria riuniva in sé tutte queste perfezioni – prese congedo dai sacerdoti, domandando loro la benedizione, come anche alla maestra, e perdono alle compagne, ringraziando tutti per i benefici ricevuti da loro nel tempio. Fece tutto ciò con la più profonda umiltà, misurando con molta prudenza le parole, perché in tutte le occasioni parlava poco e con molta sapienza. Si allontanò così dal tempio, non senza grande dispiacere di lasciarlo contro la propria intenzione e il proprio desiderio. In compagnia di alcuni dei ministri che tervivano nel tempio nelle cose temporali – laici dei più autorevoli – col suo sposo Giuseppe si avviò a Nazaret città ale della felicissima coppia. Sebbene san Giuseppe fosse nato in quel luogo, seguendo quanto l’Altissimo aveva disposto per mezzo di alcune vicende, era andato a vivere qualche tempo a Gerusalemme, per migliorare la sua condizione come infatti avvenne, divenendo sposo di colei che era stata scelta da Dio stesso per essere sua madre.

756. Arrivati a Nazaret, dove la Principessa del cielo aveva i suoi beni e le case dei suoi fortunati genitori, furono ricevuti e visitati da tutti gli amici e i parenti con grida di giubilo e applausi, come si usa fare in tali occasioni. Avendo santamente adempito all’obbligo naturale dei contatti e delle relazioni, i due santissimi sposi Giuseppe e Maria, liberi da impegni, restarono a casa loro. Secondo l’usanza introdotta fra gli Ebrei, nei primi giorni del matrimonio era previsto che gli sposi si prendessero un po di tempo per verificare, nella convivenza, le abitudini e l’indole di entrambi, in modo da potersi conformare meglio l’uno all’altra.

757. In tali giorni il santo Giuseppe disse alla sua sposa Maria: «Sposa e signora mia, io rendo grazie all’altissimo Dio per il favore di avermi destinato senza merito ad essere vostro sposo, mentre mi giudicavo indegno della vostra compagnia; ma sua Maestà, che quando vuole può sollevare il povero, mi ha usato questa misericordia. Quindi io desidero che voi mi aiutiate, come spero dalla vostra discrezione e virtù, a dargli il contraccambio che gli devo, servendolo con rettitudine di cuore. A tal fine mi riterrete vostro servo, e col vero affetto con cui vi stimo, vi chiedo che vogliate supplire a molta parte del capitale e di altre doti che mi mancano, le quali mi sarebbero utili per essere vostro sposo; ditemi, signora, qual è la vostra volontà perché io l’adempia».

758. La divina sposa ascoltò questo discorso con cuore umile ed affabile severità nel volto, e rispose al santo: «Signor mio, io sono lieta che l’Altissimo, per mettermi in questa condizione, si sia degnato di assegnarmi voi per sposo e signore, e che il servire voi mi sia stato confermato dalla manifestazione della sua divina volontà. Però, se me lo permettete, vi dirò le intenzioni e i pensieri, che a tal fine desidero comunicarvi». L’Altissimo intanto disponeva con la sua grazia il cuore retto e sincero di san Giuseppe e, per mezzo delle parole di Maria santissima, lo infiammò di nuovo di divino amore. Egli così le rispose: «Parlate, signora, il vostro servo vi ascolta». In questa occasione la Signora del mondo era assistita dai mille angeli della sua custodia in forma visibile, come aveva loro richiesto. Ciò era dovuto al fatto che l’Altissimo, affinché la purissima vergine operasse in tutto con maggior grazia e merito, permise che ella sentisse il rispetto e la considerazione con cui doveva parlare al suo sposo, pur lasciandola nella sua naturale ritrosia ed esitazione che sempre aveva avuto a parlare con gli uomini da sola, cosa che fino allora non aveva mai fatto, se non casualmente qualche volta col sommo sacerdote.

759. Gli angeli santi ubbidirono alla loro Regina e l’assistettero, manifestandosi solo alla sua vista. In loro compagnia parlò al suo sposo san Giuseppe, dicendo: «Signore e sposo mio, è giusto che diamo lode e gloria con ogni devozione al nostro Dio e creatore, infinito nella sua bontà e incomprensibile nei suoi giudizi, che con noi poveri ha manifestato la sua grandezza e misericordia, scegliendoci per essere al suo servizio. Io mi considero, fra tutte, la creatura più debitrice a sua Altezza e, anzi, lo sono più di tutte insieme, perché, meritando meno, ho ricevuto dalla sua liberalissima mano più di loro. Nella mia tenera età, costretta dalla forza di questa verità che la luce divina mi comunicò rivelandomi il disinganno di tutto il visibile, mi consacrai a Dio con voto perpetuo d’essere casta nell’anima e nel corpo. Sono sua, e lo riconosco mio sposo e Signore, con volontà immutabile di mantenere la mia promessa di castità. Per adempiere ciò, signor mio, desidero che mi aiutiate, perché nel resto io sarò vostra serva fedele, ed avrò cura della vostra vita quanto durerà la mia. Accettate, signore e sposo mio, questa santa determinazione e confermatela con la vostra, perché come offerta gradita al nostro Dio eterno, egli ci riceva entrambi quale sacrificio di soave odore, e ci conceda di giungere insieme ai beni eterni che speriamo».

L’intimo giubilo di Giuseppe per le parole della sua divina sposa

760. Il castissimo sposo Giuseppe, pieno d’intimo giubilo per le parole della sua divina sposa, le rispose: «Signora mia, dichiarandomi i vostri pensieri e casti propositi, avete aperto e sollevato il mio cuore, che io non volli manifestarvi prima di conoscere il vostro. Anch’io mi considero, fra gli uomini, debitore al Signore più di tutte le altre creature, perché da molto tempo mi ha chiamato con la sua vera luce, affinché l’amassi con rettitudine di cuore. Voglio, signora, che sappiate che a dodici anni anch’io ho fatto promessa di servire l’Altissimo in castità perpetua. Così ora torno a confermare il medesimo voto, per non invalidare il vostro; anzi, alla presenza di sua Altezza, vi prometto di aiutarvi, per quanto dipende da me, perché in tutta purezza lo serviate e lo amiate secondo il vostro desiderio. Io sarò, con il concorso della grazia, vostro fedelissimo servo e compagno, e vi supplico che accettiate il mio casto affetto e mi riteniate vostro fratello, senza mai dar luogo ad altro lecito amore, fuorché quello che dovete a Dio e poi a me». In questo colloquio l’Altissimo riconfermò nel cuore di san Giuseppe la virtù della castità e l’amore santo e puro che doveva alla sua santissima sposa Maria. Così il santo gliene portava in grado eminentissimo, e la stessa Signora con il suo prudentissimo conversare glielo aumentava dolcemente, elevandogli il cuore.

761. Con la virtù divina con cui il braccio dell’Onnipotente operava nei due santissimi e castissimi sposi, sentirono entrambi incomparabile giubilo e consolazione. La divina Principessa offrì a san Giuseppe di corrispondere al suo desiderio, come colei che era signora delle virtù e, senza difficoltà, praticava in tutto ciò che esse hanno di più sublime ed eccellente. Inoltre l’Altissimo diede a san Giuseppe rinnovata castità e padronanza sulla natura e sulle sue passioni, perché, senza ribellione né istigazione ma con ammirabile e nuova grazia, servisse la sua sposa Maria e, in lei, la volontà e il beneplacito del Signore. Subito distribuirono i beni ereditati da san Gioacchino e da sant’Anna, genitori della santissima Signora. Ella ne offrì una parte al tempio dove era stata, l’altra la distribuì ai poveri e la terza l’assegnò al santo sposo Giuseppe, perché l’amministrasse. Per sé la nostra Regina si riservò solo la cura di servirlo e di lavorare in casa, perché, quanto agli scambi con l’esterno e alla gestione dei beni, degli acquisti o delle vendite, la vergine prudentissima se ne esentò sempre.

762. Nei suoi primi anni, san Giuseppe aveva appreso il mestiere di falegname, come il più onesto e adatto per guadagnarsi da vivere, essendo povero di beni di fortuna. Perciò domandò alla sua santissima sposa se aveva piacere che egli esercitasse quel mestiere per servirla e per guadagnare qualcosa per i poveri, poiché era necessario lavorare senza vivere nell’ozio. La Vergine prudentissima diede a san Giuseppe la sua approvazione, avvertendolo che il Signore non li voleva ricchi, bensì poveri e amanti dei poveri, e che fossero loro rifugio fin dove il loro capitale lo permettesse. Fra i due santi sposi nacque presto una santa contesa, riguardo a chi dei due dovesse prestare ubbidienza all’altro come a superiore. Ma Maria santissima, che fra gli umili era umilissima, vinse in umiltà, né consenù che, essendo l’uomo il capo, si pervertisse l’ordine della natura. Così volle ubbidire in tutto al suo sposo Giuseppe, chiedendogli solamente il consenso per fare l’elemosina ai poveri del Signore; e il santo le diede il permesso di farla.

763. In questi giorni il santo Giuseppe, riconoscendo con nuova luce del cielo le doti della sua sposa Maria, la sua rara prudenza, umiltà, purezza e tutte le sue virtù superiori ad ogni suo pensare ed immaginare, ne restò nuovamente stupito e, con gran giubilo del suo spirito, non cessava con ardenti affetti di lodare il Signore, rendendo-gli ancor più grazie per avergli data tale compagnia e tale sposa superiore ad ogni suo merito. Perché poi quest’opera risultasse in tutto perfettissima, l’Altissimo fece si che la Principessa del cielo infondesse con la sua presenza, nel cuore del suo sposo, un timore ed un rispetto così grande che non è assolutamente possibile spiegare a parole. A provocare ciò in Giuseppe era un certo splendore, come raggi di luce divina, che emanava dal volto della nostra Regina, dal quale traspariva anche una maestà ineffabile che sempre la accompagnava. Le succedeva infatti come a Mosè quando scese dal monte, ma con tanta maggiore intensità, perché si intratteneva con Dio più a lungo e più intimamente.

764. Subito Maria santissima ebbe una visione divina dal Signore, in cui sua Maestà le disse: «Sposa mia dilettissima ed eletta, vedi come io sono fedele nelle mie parole con quelli che mi amano e mi temono. Corrispondi dunque ora alla mia fedeltà, osservando la legge come mia sposa, in santità, purezza e in tutta perfezione. In ciò ti aiuterà la compagnia del mio servo Giuseppe che io ti ho dato. Ubbidisci a lui come devi ed attendi alla sua consolazione, perché tale è la mia volontà». Maria santissima rispose: «Altissimo Signore, io vi lodo e magnifico per i vostri ammirabili consigli e per la vostra provvidenza verso di me, indegna e povera creatura. Il mio desiderio è di ubbidirvi e compiacervi come vostra serva più debitrice a voi di ogni altra creatura. Concedetemi dunque, Signor mio, il vostro favore divino, perché in tutto mi assista e mi governi secondo il vostro maggior compiacimento, affinché, come vostra serva, attenda anche agli obblighi dello stato in cui mi ponete, senza mai vagare fuori dai vostri ordini e dal vostro volere. Datemi la vostra approvazione e benedizione; con essa riuscirò a ubbidire al vostro servo Giuseppe e a servirlo come mi comandate voi, mio creatore e mio Signore».

765. Su questi divini appoggi si fondò la casa e il matrimonio di Maria santissima e di Giuseppe. Dall’8 settembre, data delle nozze, fino al 25 marzo dell’anno seguente, giorno in cui avvenne l’incarnazione del Verbo, i due santi sposi vissero nel modo in cui l’Altissimo li andava rispettivamente predisponendo all’opera per cui li aveva scelti. La divina Signora ordinò poi gli oggetti personali e quelli della sua casa come dirò nei capitoli seguenti.

766. A questo punto però, non posso còntenere oltre il mio affetto senza congratularmi per la fortuna del più felice degli uomini, san Giuseppe. Da dove vi è venuta, o uomo di Dio, tanta beatitudine e tale buona sorte che ha fatto sì che solo di voi, tra i figli di Adamo, si potesse dire che Dio stesso fosse vostro e così solamente vostro da essere ritenuto vostro unico figlio? L’eterno Padre vi dona sua figlia; il divin Figlio vi dona la sua vera Madre e lo Spirito Santo vi consegna e vi affida la sua sposa, ponendovi in sua vece. In tal modo tutta la santissima Trinità vi concede e vi dà in custodia per vostra legittima consorte la sua diletta, unica e fulgida come il sole. Conoscete voi, mio santo, la vostra dignità ed eccellenza? Comprendete che la vostra sposa è la Regina e signora del cielo e della terra, e voi siete depositario dei tesori inestimabili di Dio? Considerate, o uomo divino, il vostro impegno e sappiate che, se gli angeli e i serafini non sono invidiosi, sono però meravigliati ed estatici per la vostra sorte e per il mistero racchiuso nel vostro matrimonio. Ricevete dunque le congratulazioni per tanta felicità in nome di tutto il genere umano. In un certo senso, voi siete l’archivio contenente il registro delle divine misericordie, signore e sposo di colei di cui solo Dio è maggiore, per cui vi ritroverete, fra gli uomini e fra gli stessi ricco e nella prosperità. Ricordatevi però della nostra povertà e miseria, e di me, il più vile verme della terra, che desidero essere vostra fedele devota, beneficata e favorita dalla vostra potente intercessione.

Insegnamento della Regina del cielo

767. Figlia mia, dalla mia esemplare condotta nello stato del matrimonio in cui l’Altissimo mi pose, tu vedi condannati i pretesti che adducono, non essendo perfette, le anime che condividono tale condizione nel mondo. Niente è impossibile a Dio, né a chi con viva fede spera in lui e si rimette in tutto alla sua divina disposizione. Io vivevo in casa del mio sposo con la stessa perfezione con cui servivo nel tempio, perché cambiando stato non mutai l’affetto, né il desiderio e la premura di amare e servire Dio, ma anzi l’aumentai, perché niente mi trattenesse dai miei obblighi di sposa. Fu per questo che ebbi maggiore assistenza dal favore divino che, con la sua mano onnipotente, dispose ed aggiustò tutte le cose in sintonia con i miei desideri. Altrettanto farebbe il Signore con tutte le creature, se da parte loro corrispondessero adeguatamente. Esse invece incolpano lo stato del matrimonio ingannando così se stesse, perché l’impedimento a non essere perfette e sante non è dato dallo stato, ma dai pensieri e dalla sollecitudine vana ed eccessiva a cui si abbandonano, non cercando di piacere al Signore, ma preferendo il loro compiacimento.

768. Se nel mondo non vi è scusa per sottrarsi al dovere di attendere alla perfezione delle virtù, meno ve ne sarà nello stato religioso per gli uffici e i servizi che in esso si svolgono. Non ti pensare mai ostacolata dal tuo ufficio di superiora, perché Dio ti ha posto in tale stato per mezzo dell’obbedienza e non devi mai diffidare della sua assistenza e della sua protezione. Infatti quel giorno egli si fece carico di darti forze ed aiuti, perché tu potessi attendere nello stesso tempo all’obbligo di superiora e a quello particolare della perfezione con cui devi amare il tuo Dio e Signore. Fa’ in modo dunque di vincolarlo col sacrificio della tua volontà, umiliandoti con pazienza in tutto ciò che ordina la sua divina Provvidenza. Se non glielo impedirai, io ti assicuro la sua protezione e che, per esperienza, conoscerai sempre la potenza del suo braccio nel guidarti e nel dirigere perfettamente tutte le tue azioni.

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Benedetta Bianchi Porro

Posté par atempodiblog le 23 janvier 2014

“Io penso che cosa meravigliosa è la vita anche nei suoi aspetti più terribili; e la mia anima è piena di gratitudine e di amore verso Dio per questo”.

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Benedetta Bianchi Porro
La storia della Chiesa è ricca di splendide figure. Che attraverso l’arduo cammino della sofferenza, sopportata con fede, e l’eroismo delle virtù cristiane hanno raggiunto la meta della vita. L’esempio di una venerabile vissuta nel secolo scorso e morta in giovanissima età.
di Matteo Salvatti – Il Timone

2mm9029 dans Stile di vita

Benedetta Bianchi Porro è una figura da tener ben presente ai nostri giorni: rappresenta infatti un’eroicità nel vivere le virtù cristiane non comune, una forza vitale dirompente, un messaggio che colpisce nel profondo. Benedetta non è la stereotipata immagine della santarellina, così distante dalla vita di tutti i giorni, ma una ragazza “virile” nel suo affrontare la vita, la malattia e le prove con coraggio e con grande attaccamento alla realtà, scorgendo quanto Dio tratteggiava sul suo cammino e rimanendo sorpresa della Sua grandezza, ma senza cedere a sensazionalismi, con infinita bontà ma senza buonismo, con dolcezza ma senza edulcorato sentimentalismo. Benedetta viene alla luce l’8 agosto 1936 a Dovadola, un modesto centro in provincia di Forlì, figlia dell’ingegnere Guido Bianchi Porro e di Elsa Giammarchi. Appena nata un’emorragia rischierà di portarla alla morte, così che la madre si trova costretta a conferirle il battesimo di necessità. Il suo calvario inizia prestissimo: a tre mesi le viene diagnostica una poliomielite, e questo comporterà il dover sopportare una menomazione fisica per tutta la vita quale può essere l’avere una gamba visibilmente inferiore all’altra. Oltre alle sofferenze per così dire sensoriali, si aggiunge dunque la derisione da parte dei suoi compagni, che mai condanna, ma che al contrario cerca sempre di comprendere e di scusare. Se da un lato Benedetta è pronta ad aiutare tutti, a essere gentile ed educata, dall’altro sente spesso il bisogno di ritirarsi a meditare, a pregare, a contemplare la grandezza del creato e del suo Creatore. Il cristianesimo di Benedetta non è dunque una sorta di sentimentalismo, di solidarietà di clan, un umanesimo filantropico, ma essenzialmente un essere al servizio della verità, conscia del fatto che la carità della verità è, in ottica cristiana, la più alta forma di carità. Ma torniamo al nostro racconto: il padre, un ingegnere termale, si trasferisce a Sirmione con la famiglia quando Benedetta ha l’età per iscriversi al liceo classico, che frequenterà a Desenzano. A quell’età Benedetta inizia a percepire i primi segnali di sordità; ciò nonostante non si lascia vincere dal timore di diventare sorda ma, al contrario, discerne sempre più cosa è essenziale e si rallegra del fatto che nulla potrà mai assordare la voce della sua coscienza. Benedetta era affezionatissima alla corona del rosario che le fu regalata in occasione del sacramento della prima comunione. Amava pregare la Vergine con una fede vera, autentica e convinta. Dopo aver perso la corona, grande fu la gioia nel ritrovarla “casualmente”: niente, infatti, le era così caro. Aveva ben capito che tutto ci è stato dato per mezzo di Maria. Benedetta individua la sua vocazione, che è quella di diventare medico.

Non mancano, però, le umiliazioni, cui lei sa rispondere sempre con una carità evangelica che lascia sbalorditi per l’illuminazione. Un esempio fra i tanti: un giorno, il professore di anatomia le getta il libretto per terra, dinanzi a tutti gli studenti, berciando che non si è mai visto un medico sordo. Invece di cedere alla collera per un simile maltrattamento, è lei che si scusa con il docente, assicurandogli di non averlo offeso volontariamente. A casa, poi, confiderà alla madre che l’insegnante si era comportato bene, dato che il libretto non si era rotto. Sarà però costretta ad arrendersi e non potrà mai diventare medico, pur essendo giunta all’ultimo esame del corso. Dovrà portare scarpe ortopediche, il busto, il bastone e sottoporsi a una lunghissima via crucis di pesanti interventi chirurgici fino a quando sarà lei stessa a diagnosticare la sua patologia: neurofibromatosi diffusa o morbo di Recklinghausen. Una malattia rarissima che la porterà, poco alla volta, alla perdita di tutti i sensi e a immobilizzarla a letto. Diventerà anche cieca ed è appropriato vedere una somiglianza con il biblico Tobia. Benedetta andrà due volte a Lourdes con il treno ospedale dell’Unitalsi, a ricevere quell’acqua con la quale era stata battezzata dalla madre. Se la prima volta ci va con l’augurio di guarire, è la seconda volta che Dio le dà la grazia speciale di capire il mistero della croce. Molti si accorgono di lei, le chiedono consigli, le scrivono e lei si dona completamente agli altri. Gli ultimi tempi continua a farlo con l’aiuto della madre, sforzandosi di utilizzare un alfabeto muto e servendosi soltanto della mano destra, unica parte del corpo non paralizzata. Chi va a trovare Benedetta non ci va espletando opera di carità, o per pietà, ma per uscirne lui arricchito; è Benedetta che visita i peccatori, i bisognosi, gli afflitti e gli scoraggiati, con la luce del suo spirito cristiano. Incarna perfettamente le parole di San Paolo: «Quando sono debole, allora sì che sono forte. Tutto posso in Colui che mi dà forza». I suoi pensieri sono raccolti in un libro e sono tradotti in tutto il mondo, poiché è impossibile non restare contagiati da questa ragazza. Come per tutti i grandi mistici, anche Benedetta ha dovuto sopportare, oltre alle sofferenze fisiche, anche momenti di aridità, la cosiddetta notte dello spirito, e questo non la sminuisce, ma, al contrario, ne esalta il valore. Il cammino della perfezione passa attraverso la croce. Non c’è santità senza rinuncia e senza combattimento spirituale. Benedetta muore, a 27 anni, la mattina del 23 gennaio del 1964, giorno dello Sposalizio della Vergine. L’ultima sua parola fu «grazie». Tempo prima aveva confidato di aver fatto un sogno: entrare in un cimitero di Romagna e trovare in una tomba aperta una rosa bianca da cui emanava una luce abbagliante. Pochi istanti prima della sua morte, in giardino, una rosa bianca fioriva in modo inspiegabile, data la stagione invernale. La Chiesa l’ha dichiarata Venerabile con Decreto del dicembre 1993. Negli anni l’interesse verso Benedetta aumenta costantemente. Sono ormai più di dieci le biografie pubblicate su di lei. La sua storia ha interessato e colpito innumerevoli personalità, da Ignazio Silone a mons. Ennio Francia, da Giorgio La Pira al cardinal Tonini, da Oscar Luigi Scalfaro a Sergio Zavoli, da mons. Angelo Comastri a Padre Turoldo. Vi è persino un giornale dedicato a lei e un sito internet che porta il suo nome (www.benedetta.it).

Ricorda
«Sappiano che sono pure uniti in modo speciale a Cristo sofferente per la salute del mondo quelli che sono oppressi dalla povertà, dalla infermità, dalla malattia e dalle varie tribolazioni, o soffrono persecuzioni per la giustizia: il Signore nel Vangelo li ha proclamati beati, e “ il Dio… di ogni grazia, che ci ha chiamati all’eterna sua gloria in Cristo Gesù, dopo un po’ di patire, li condurrà egli stesso a perfezione e li renderà stabili e sicuri” (1 Pt 5,10)». (Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen Gentium, n. 41).

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