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Papa: “No a ‘tratta delle novizie’. Accettare peccatori, non i corrotti”

Posté par atempodiblog le 3 janvier 2014

«La Civiltà Cattolica» pubblica un resoconto del dialogo tra Francesco e i superiori degli ordini religiosi avvenuto a fine novembre: nei seminari «dobbiamo formare il cuore. Altrimenti formiamo dei piccoli mostri»
Andrea Tornielli – Vatican Insider

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«La Chiesa deve essere attrattiva. Svegliate il mondo. Siate testimoni di un modo diverso di fare, di agire, di vivere». È quanto ha detto Papa Francesco in una conversazione con l’Unione dei superiori generali degli Istituti religiosi maschili, ricevuti il 29 novembre scorso in Vaticano. Un resoconto ragionato del dialogo tra il primo Pontefice gesuita è riportato nel prossimo numero de «La Civiltà Cattolica». Nell’incontro con i superiori religiosi Francesco ha toccato molti temi, ha invitato a «formare il cuore» nei seminari per non creare dei «piccoli mostri», ha elogiato l’impegno di Benedetto XVI contro la pedofilia, ha chiesto di vigilare sul fenomeno della cosiddetta «tratta delle novizie», cioè il massiccio reclutamento di giovani suore nei Paesi extraeuropei da parte di alcune congregazioni per trapiantarle in Europa.

«È possibile vivere diversamente in questo mondo – ha spiegato Francesco – Stiamo parlando di uno sguardo escatologico, dei valori del Regno incarnati qui, su questa terra. Si tratta di lasciare tutto per seguire il Signore. No non voglio dire ‘radicale’. La radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico. Io mi attendo da voi questa testimonianza». Francesco ha sottolineato che i religiosi «devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo» e ha ricordato che «la vita è complessa, è fatta di grazia e di peccato. Se uno non pecca, non è un uomo. Tutti sbagliamo e dobbiamo riconoscere la nostra debolezza. Un religioso che si riconosce debole e peccatore non contraddice la testimonianza che è chiamato a dare, ma anzi la rafforza, e questo fa bene a tutti. Ciò che mi aspetto è dunque la testimonianza», questa «testimonianza speciale».

Nei seminari, ha detto ancora il Papa, «dobbiamo formare il cuore. Altrimenti formiamo dei piccoli mostri. E questi piccoli mostri» poi «formano il popolo di Dio. Questo mi fa venire davvero la pelle d’oca». Sempre a proposito della formazione dei religiosi, Francesco ha detto che nei seminari vanno accettati i peccatori ma non i corrotti: «Non sto parlando di persone che si riconoscono peccatori: tutti siamo peccatori, ma non tutti siamo corrotti. Si accettino i peccatori ma non i corrotti». Parlando degli abusi sui minori, Bergoglio ha citato la grande decisione di Benedetto XVI nell’affrontare i casi di abuso, che «ci deve servire da esempio per avere il coraggio di assumere la formazione personale come sfida seria avendo in mente sempre il popolo di Dio».

Sempre a proposito di formazione, Francesco ha ricordato come ipocrisia e clericalismo possono minare la vita religiosa già dagli anni del noviziato. «L’ipocrisia, frutto del clericalismo, è uno dei mali più terribili… non si risolvono i problemi semplicemente proibendo di fare questo o quello, serve tanto dialogo, tanto confronto». Per quanto riguarda le vocazioni in crescita nelle Chiese giovani e il rischio di «reclutamento vocazionale», ribattezzato nel 1994 dai vescovi filippini «tratta delle novizie», il Papa ha invitato a «tenere gli occhi aperti su queste situazioni».

Francesco ha poi ricordato, a proposito dei carismi dei fondatori degli ordini religiosi, che «Il carisma è uno, ma, come diceva sant’Ignazio, bisogna viverlo secondo i luoghi, i tempi e le persone. Il carisma non è una bottiglia di acqua distillata. Bisogna viverlo con energia, rileggendolo anche culturalmente». «Ma così – ha aggiunto il Papa – c’è il rischio di sbagliare, direte, di commettere errori. È rischioso. Certo, certo: faremo sempre degli errori, non ci sono dubbi. Ma questo non deve frenarci, perché c’è il rischio di fare errori maggiori». Infatti, ha sottolineato Francesco, «dobbiamo sempre chiedere perdono e guardare con molta vergogna agli insuccessi apostolici che sono stati causati dalla mancanza di coraggio. Pensiamo, ad esempio, alle intuizioni pionieristiche di Matteo Ricci che ai suoi tempi sono state lasciate cadere». Un riferimento importante, quest’ultimo, alla realtà della Cina, dove il modello di evangelizzazione portato avanti dal missionario gesuita è tutt’oggi ricordato per la sua capacità di adattarsi alla cultura e alla mentalità cinesi.

«Sono convinto di una cosa – ha detto ancora il Papa nell’incontro con i superiori religiosi – I grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia». Francesco ha anche rilanciato quanto affermava il generale dei gesuiti Pedro Arrupe, sul fatto che «è necessario un tempo di contatto reale con i poveri». «Per me – ha detto Bergoglio – questo è davvero importante: bisogna conoscere la realtà per esperienza, dedicare un tempo per andare in periferia per conoscere davvero la realtà e il vissuto della gente. Se questo non avviene, allora ecco che si corre il rischio di essere astratti ideologi e fondamentalisti, e questo non è sano».

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Per leggere integralmente il colloquio di Papa Francesco con i Superiori Generali cliccare qui 2e2mot5 dans Diego Manetti «Svegliate il mondo!».

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Il Papa nella Chiesa del Gesù: il Vangelo si annuncia con dolcezza e amore, non con le bastonate

Posté par atempodiblog le 3 janvier 2014

Il Papa nella Chiesa del Gesù: il Vangelo si annuncia con dolcezza e amore, non con le bastonate
Tratto da: News.va

Il Papa nella Chiesa del Gesù: il Vangelo si annuncia con dolcezza e amore, non con le bastonate dans Fede, morale e teologia 20u6cco

Papa Francesco ha presieduto stamani nella Chiesa del Gesù la Messa nel giorno della ricorrenza liturgica del Santissimo Nome di Gesù. La celebrazione ha un carattere di ringraziamento per l’iscrizione al catalogo dei Santi, il 17 dicembre scorso, di Pietro Favre, primo sacerdote gesuita. Sono presenti il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, il cardinale vicario Agostino Vallini, il vescovo di Annecy, mons. Yves Boivineau, nella cui diocesi è nato Favre, e circa 350 gesuiti.

Nell’omelia il Papa ha ricordato quanto dice San Paolo: «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2, 5-7).  “Noi, gesuiti – ha rilevato – vogliamo essere insigniti del nome di Gesù, militare sotto il vessillo della sua Croce, e questo significa: avere gli stessi sentimenti di Cristo.  Significa pensare come Lui, voler bene come Lui, vedere come Lui, camminare come Lui.  Significa fare ciò che ha fatto Lui e con i suoi stessi sentimenti, con i sentimenti del suo Cuore”.

“Il cuore di Cristo – ha proseguito – è il cuore di un Dio che, per amore, si è «svuotato».  Ognuno di noi, gesuiti, che segue Gesù dovrebbe essere disposto a svuotare se stesso.  Siamo chiamati a questo abbassamento: essere degli «svuotati».  Essere uomini che non devono vivere centrati su se stessi perché il centro della Compagnia è Cristo e la sua Chiesa.  E Dio è il Deus semper maior, il Dio che ci sorprende sempre. E se il Dio delle sorprese non è al centro, la Compagnia si disorienta.  Per questo, essere gesuita significa essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta.  E questa è l’inquietudine della nostra voragine. Quella santa e bella inquietudine!”.

Il Papa ha quindi proseguito: “Ma, perché peccatori, possiamo chiederci se il nostro cuore ha conservato l’inquietudine della ricerca o se invece si è atrofizzato; se il nostro cuore è sempre in tensione: un cuore che non si adagia, non si chiude in se stesso, ma che batte il ritmo di un cammino da compiere insieme a tutto il popolo fedele di Dio.  Bisogna cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo ancora e sempre.  Solo questa inquietudine dà pace al cuore di un gesuita, una inquietudine anche apostolica, non ci deve far stancare di annunciare il kerygma, di evangelizzare con coraggio.  È l’inquietudine che ci prepara a ricevere il dono della fecondità apostolica.  Senza inquietudine siamo sterili”.

“È questa l’inquietudine – ha osservato – che aveva Pietro Favre, uomo di grandi desideri, un altro Daniele.  Favre era un «uomo modesto, sensibile, di profonda vita interiore e dotato del dono di stringere rapporti di amicizia con persone di ogni genere» (Benedetto XVI, Discorso ai gesuiti, 22 aprile 2006).  Tuttavia, era pure uno spirito inquieto, indeciso, mai soddisfatto.  Sotto la guida di sant’Ignazio ha imparato a unire la sua sensibilità irrequieta ma anche dolce e direi squisita, con la capacità di prendere decisioni.  Era un uomo di grandi desideri; si è fatto carico dei suoi desideri, li ha riconosciuti.  Anzi per Favre, è proprio quando si propongono cose difficili che si manifesta il vero spirito che muove all’azione (cfr Memoriale, 301).  Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo.  Ecco la domanda che dobbiamo porci: abbiamo anche noi grandi visioni e slancio?  Siamo anche noi audaci?  Il nostro sogno vola alto?  Lo zelo ci divora (cfr Sal 69,10)?  Oppure siamo mediocri e ci accontentiamo delle nostre programmazioni apostoliche da laboratorio?  Ricordiamolo sempre: la forza della Chiesa non abita in se stessa e nella sua capacità organizzativa, ma si nasconde nelle acque profonde di Dio.  E queste acque agitano i nostri desideri e i desideri allargano il cuore. Quello di Sant’Agostino: ‘Pregare per desiderare e desiderare per allargare il cuore’. Proprio nei desideri Favre poteva discernere la voce di Dio.  Senza desideri non si va da nessuna parte ed è per questo che bisogna offrire i propri desideri al Signore.  Nelle Costituzioni si dice che «si aiuta il prossimo con i desideri presentati a Dio nostro Signore» (Costituzioni, 638)”.

“Favre – ha ancora detto il Papa -  aveva il vero e profondo desiderio di «essere dilatato in Dio»: era completamente centrato in Dio, e per questo poteva andare, in spirito di obbedienza, spesso anche a piedi, dovunque per l’Europa, a dialogare con tutti con dolcezza, e ad annunciare il Vangelo” E a braccio ha aggiunto: “.Mi viene da pensare alla tentazione, che forse possiamo avere noi e che tanti hanno, di collegare l’annunzio del Vangelo con bastonate inquisitorie, di condanna. No, il Vangelo si annunzia con dolcezza, con fraternità, con amore”.  Quindi ha proseguito: “La sua familiarità con Dio lo portava a capire che l’esperienza interiore e la vita apostolica vanno sempre insieme.  Scrive nel suo Memoriale che il primo movimento del cuore deve essere quello di «desiderare ciò che è essenziale e originario, cioè che il primo posto sia lasciato alla sollecitudine perfetta di trovare Dio nostro Signore» (Memoriale, 63).  Favre prova il desiderio di «lasciare che Cristo occupi il centro del cuore» (Memoriale, 68).  Solo se si è centrati in Dio è possibile andare verso le periferie del mondo!  E Favre ha viaggiato senza sosta anche sulle frontiere geografiche tanto che si diceva di lui: «pare che sia nato per non stare fermo da nessuna parte» (MI, Epistolae I, 362).  Favre era divorato dall’intenso desiderio di comunicare il Signore.  Se noi non abbiamo il suo stesso desiderio, allora abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera e, con fervore silenzioso, chiedere al Signore, per intercessione del nostro fratello Pietro, che torni ad affascinarci. Quel fascino del Signore che portava Pietro a tutte queste pazzie apostoliche …”.

Il Papa così ha concluso la sua omelia: “Noi siamo uomini in tensione, siamo anche uomini contraddittori e incoerenti, peccatori, tutti.  Ma uomini che vogliono camminare sotto lo sguardo di Gesù.  Noi siamo piccoli, siamo peccatori, ma vogliamo militare sotto il vessillo della Croce nella Compagnia insignita del nome di Gesù.  Noi che siamo egoisti, vogliamo tuttavia vivere una vita agitata da grandi desideri. Rinnoviamo allora la nostra oblazione all’Eterno Signore dell’universo perché con l’aiuto della sua Madre gloriosa possiamo volere, desiderare e vivere i sentimenti di Cristo che svuotò se stesso. Come scriveva san Pietro Favre, «non cerchiamo mai in questa vita un nome che non si riallacci a quello di Gesù» (Memoriale, 205).  E preghiamo la Madonna di essere messi con il suo Figlio”.

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Santo e musicista: Alfonso Maria de Liguori

Posté par atempodiblog le 3 janvier 2014

Santo e musicista  Alfonso Maria de Liguori
di Francesco Agnoli – Il Foglio
Tratto da: La Roccia splendente

Santo e musicista: Alfonso Maria de Liguori dans Canti Coro-canti-di-Natale

Tu scendi dalle stelle o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo”: inizia così la più celebre canzone popolare di Natale, e può venir voglia di conoscere chi sia l’autore e quale sia stata la sua vita. Alfonso Maria de Liguori, questo il nome di colui che la ideò, nasce a Napoli nel 1696, da famiglia nobile e ricca. Dati i natali, la sua vita sembrerebbe già scritta: lo aspettano onori, ricchezze, potere. Suo padre nutre grandi ambizioni per il figlio, e lui ha doti non ordinarie. Studia musica, ama dipingere, si iscrive, a 12 anni, presso l’Università di Napoli, per divenire avvocato.

L’età minima, per accedere al titolo, sono i 20 anni: Alfonso viene rivestito di una toga più grande di lui, già a 16. Se l’aspirante è eccezionale, si può fare eccezione. Divenuto avvocato, Alfonso si impone una moralità ferrea, in un mestiere difficile. Nello stesso tempo frequenta varie confraternite, che lo portano per esempio a visitare i malati, i sifilitici, i derelitti del grande ospedale di Napoli, gli Incurabili. L’ ingresso “nella confraternita della Visitazione portava per la prima volta il nostro brillante samaritano ad avvicinare, a incontrare, a toccare con le sue mani, ogni settimana, per anni, l’uomo a terra, spogliato, ferito, gemente nel fossato, ai bordi del suo cammino di ricco. Per otto anni si piegherà su di lui con orrore, con amore, con fede nella parola di Gesù: ‘Quello che fate al più piccolo dei miei lo fate a me’” (T.R.Mermet).

Alfonso fa parte anche della Confraternita di santa Maria della Misericordia, i cui membri sono dediti al seppellimento degli indigenti, ai preti pellegrini o stranieri, e a quelli detenuti per indegnità nelle carceri dell’Arcivescovado. Alfonso per dieci anni, dal 1714 al 1726, gira per Napoli, una volta la settimana, questuando per tutti questi. E’ nel 1723, quando la carriera sembra inarrestabile, che proprio mentre si piega su un malato degli Incurabili, egli sente come una voce che lo chiama: “Lascia il mondo e datti a me”. Nonostante la disperazione del padre, Alfonso segue l’ispirazione e si avvia agli studi per il sacerdozio, che sarà speso negli studi, negli scritti di morale (tra cui la Theologia moralis, La pratica del Confessore e Apparecchio alla morte), nelle missioni al popolo, nel confessionale, nelle celle dei prigionieri, tra i lazzaroni, le prostitute, i poco di buono e i peccatori di ogni genere…

Qui, tra questa umanità dolorante, l’uomo di dottrina e di carità, acquista quella saggezza, nel trattare non solo con i malati nel corpo, ma anche con quelli nello spirito, che gli varrà il titolo, concesso da Pio XII nel 1950, di “celeste patrono dei moralisti e dei confessori”. Saggezza che consiste in quel santo equilibrio con cui il santo sa affrontare il peccato: condannandolo, certamente, ma piegandosi anche con benignità ed amore sui peccatori. Alfonso è un avversario del rigorismo che trasforma la vita morale in terrorismo spirituale: confessa, esige e perdona, impone penitenze che non siano eccessive e da buon ammiratore di san Filippo Neri, di san Vincenzo de Paoli e di san Francesco di Sales (quello che invitava a conquistare le anime con il miele piuttosto che con il fiele), impara ad evangelizzare gli uomini con la semplicità (voleva farsi intendere anche dalle “menti di legno”), le devozioni popolari, la meditazione. Tenendosi lontano dallo zelo amaro e dall’algida moralità giansenista. Alfonso invita i confratelli predicatori a non dimenticare di inculcare il “timor di Dio”, ma evitando gli eccessi, le “maledizioni”, perché le conversioni vere nascono solo quando “entra nel cuore il santo amore di Dio”.

Napoli è la città giusta per lui: così piena di contraddizioni, di cultura e di miseria, di fede e di superstizione, di processioni e di bestemmie e sacrilegi… Un impasto in cui l’umanità dà il meglio e il peggio di sé, e in cui non si può raccogliere solo ciò che brilla e riluce, a prima vista.

Napoli è anche la città della musica che Alfonso ama sin da ragazzo (abbandonerà il suo clavicembalo solo una volta divenuto vescovo) e che sarà sempre, per lui, un modo per pregare ed istruire il popolo. Napoli è infatti la città in cui i discepoli di san Filippo Neri, inventore dell’Oratorio, frequentati da Alfonso già dal 1706, propongono di continuo concerti religiosi e ‘ricreativi’; è la città in cui gli orfani “scugnizzi” sono internati nei “Conservatori”, luoghi in cui, come dice la parola, devono essere custoditi e magari educati anche attraverso la musica. “A Napoli, scrive il già citato Mermet, la musica era per il popolo una seconda lingua, così questi Conservatori divennero ‘gabbie di usignoli’ e nel corso del XVII secolo si evolveranno progressivamente in scuole musicali”.

Da sant’Alfonso, “il più napoletano dei santi”, avvocato, moralista, confessore, amico dei poveri, è nato dunque quel canto di cui si diceva all’inizio; come pure quell’altro, bellissimo, in cui i Cieli fermano la loro armonia, perché la Madonna canti la sua ninna nanna; e pure quell’altro, così dolce, in dialetto napoletano: “Quanno nascette Ninno…”.

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