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La grande promessa dei primi cinque sabati del mese

Posté par atempodiblog le 10 décembre 2013

La grande promessa dei primi cinque sabati del mese dans Fatima 29aw3tc

«Il 10 dicembre 1925 mi apparve la Vergine Santissima e al suo fianco un Bambino, come sospeso su una nube. La Madonna gli teneva la mano sulle spalle e, contemporaneamente, nell’altra mano reggeva un Cuore circondato di spine. In quel momento, il Bambino disse: “Abbi compassione del Cuore di tua Madre Santissima avvolto nelle spine che gli uomini ingrati gli configgono continuamente, mentre non c’è chi faccia atti di riparazione per strappargliele”. E subito la Vergine Santissima aggiunse: “Guarda, figlia mia, il mio Cuore circondato di spine che gli uomini ingrati infliggono continuamente con bestemmie e ingratitudini. Consolami almeno tu e fa sapere questo: a tutti coloro che per cinque mesi, al primo sabato, si confesseranno, riceveranno la santa Comunione, reciteranno Il Rosario, e mi faranno compagnia per quindici minuti meditando i Misteri, con l’Intenzione di offrirmi riparazioni, prometto di assisterli nell’ora della morte con tutte le grazie necessarie alla salvezza”».

Suor Lucia di Fatima

divisore dans Medjugorje

freccetta.jpg I primi 5 sabati del mese

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L’uso che fa l’uomo della bellezza

Posté par atempodiblog le 10 décembre 2013

L'uso che fa l’uomo della bellezza dans Citazioni, frasi e pensieri 35bc86c

Dopo aver contemplato in Maria la bellezza al suo grado sommo, proviamo ad abbassare per un momento lo sguardo sulla terra e vedere che uso fa l’uomo di questo dono di Dio che è la bellezza. Questo tema stava particolarmente a cuore a Paolo VI, il quale ritorna su questo argomento in tutti i suoi discorsi fatti come cardinale di Milano per la festa dell’Immacolata. In uno di essi diceva:

“A chi vorrebbe vedere riflessi quei raggi divini e umani della Madonna nelle anime nostre e dei nostri fratelli, stringe il cuore vedere invece tutt’altra scena. Tante anime di adole­scenti e perfino di fanciulli, che sarebbero belle, candidate a tante sublimi virtù, a tanta poesia dello spirito, a tanto vigore di azione, sono subito deturpate, subito macchiate, fiaccate da un dilagare di tentazioni, che non riusciamo più a reprimere.

I nostri ragazzi, le no­stre ragazze, che cosa leggono? che cosa vedono? che cosa pensano? che cosa desiderano?…Quante anime profanate! Quante famiglie spezzate! Quante persone hanno una doppia vita! Quan­ti amori diventati tradimenti! Quale dissipazione di energia umana, pro­prio in questo groviglio di indisciplina di costume e di vizi ormai tollera­ti, di questa esibizione della passione e del vizio”.

di Padre Raniero Cantalamessa

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Lettera a Gesù Bambino

Posté par atempodiblog le 9 décembre 2013

Lettera a Gesù Bambino
di Padre Livio Fanzaga – Il Timone
Tratta da: Radio Maria

Lettera a Gesù Bambino dans Angeli Padre-Livio-Santo-Natale

Caro Gesù Bambino,

in questi giorni, in cui nella nostra società molti festeggiano il Natale, senza sapere chi è il festeggiato, da povero italiano non ho timore di rivolgermi a te, ben sapendo che solo tu sei in grado di concederci le grazie di cui abbiamo bisogno. A chi infatti dovremmo chiederle se non a te? Sei l’unico che è rimasto credibile in questo mondo, dove tutti promettono e nessuno mantiene. Non mi lascio ingannare dal modo umile e discreto con cui sei entrato in questo mondo. Apparentemente sei venuto a mani vuote, al freddo e al gelo di una grotta, a stento riscaldata da un bue e un asinello. Deposto in una mangiatoia, non stavi meglio di tanti bambini che fuggono dalla fame e dalla guerra verso le nostre contrade. Eri privo di tutto, ma avevi vicino a te due persone meravigliose, come mai ce ne sono state: tua madre Maria e il tuo custode, Giuseppe, che ti guardavano incantati, ben sapendo quale dono in quel momento il Cielo aveva fatto alla terra. Sei nato povero fra i poveri, bisognoso di tutto, ma hai arricchito il mondo con la tua presenza. Venendo in mezzo a noi ci hai fatto il regalo più grande che potessimo desiderare. Tu, Bambino Gesù, sei la nostra luce, la nostra salvezza, la nostra pace. A Natale hai dato al mondo in regalo te stesso. Lo ha annunciato l’angelo ai pastori assopiti, improvvisamente svegliati da una musica celestiale: “Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore, che è il Cristo Signore”.

Caro Gesù Bambino, sei tu il regalo di Natale che vorrei chiedere in primo luogo per il mio paese, per questa Italia che ha regalato il presepe al mondo, ma che adesso lo proibisce negli asili e nelle scuole e che si mostra sempre più insofferente per tutto ciò che ti riguarda. Qualcosa di strano e di pericoloso sta succedendo da qualche tempo. Proprio nelle nazioni dove il tuo Vangelo ha prodotto i frutti più belli di fede, di carità e di civiltà, è scesa una nebbia spessa che ti copre e ti oscura, come se la gente si fosse stancata di te. Sono sempre meno le persone che ti ricordano. Sono pochissimi quelli che sanno che il giorno di Natale è quello del tuo compleanno. Quando vado al supermercato faccio fatica a trovare una scritta di “Buon Natale” da appendere sulla porta di casa. Pare che la nostra società ti abbia privato del permesso di soggiorno. Non puoi immaginare quanto ci rimanga male. Tu forse ci sei abituato perché, da quando hai posto la tua tenda in questo mondo, sei divenuto un perenne fuggiasco.

Non mi rassegno però al fatto che tu te ne debba andare anche dalla nostra bella Italia. Mi chiedo che cosa saremmo senza di te. Che cosa ne faremmo di decine di migliaia di chiese vuote, che verrebbero messe in vendita a prezzi stracciati, trasformate in moschee o in discoteche, o addirittura rase al suolo per non pagare la tassa sul fabbricato? Che ne sarebbe delle nostre meravigliose opere d’arte, che tutto il mondo ci invidia, dove Tu e tua Madre siete stati la scintilla che ha acceso il genio di innumerevoli pittori e scultori? Che ne sarebbe della nostra lingua e della nostra letteratura prive dell’anima cristiana che l’ha alimentate, facendo di esse un patrimonio inestimabile dell’umanità? Senza di te, caro Gesù Bambino, la nostra Italia diventerebbe un cumulo di macerie, un deserto senza vita, infestato da serpenti e da scorpioni. Non te ne andare Bambino Gesù. Ti diamo la cittadinanza italiana, ti esentiamo dalle tasse, ti procuriamo una casa e un lavoro, ma non te ne andare.

Vedo che non ti lasci convincere. Vuoi qualcosa d’altro. Ho capito, non ti interessano le nostre cose, ma i nostri cuori. In questo Natale vorresti trovare un posticino nel cuore di ogni italiano. In fondo che cosa ci costa? Dovremmo solo fare un po’ di pulizia , tirare via il marcio, raccogliere la spazzatura e portare tutto in quel luogo benedetto dove il tuo amore tutto brucia e consuma. Questo è ciò che desideri, ciò che chiedi, ciò che ti aspetti da questa Italia che da due millenni ricolmi di doni. Vorresti che mettessimo da parte i pregiudizi, le cattiverie, le guerre che non ci stanchiamo di farti da ormai da troppo tempo. Che cosa ci abbiamo guadagnato a mettere al tuo posto Babbo Natale, a sostituire le pecore con le renne, a chiamare festa d’inverno la tua venuta in mezzo a noi? Il bilancio è fallimentare. Siamo poveri e disperati. Ritorna Gesù Bambino.

Senza di te siamo perduti. Vieni con il tuo sorriso a ridarci la speranza. Porta la tua famiglia in mezzo a noi, perché ci siamo dimenticati che cosa sia una famiglia. Porta la tua pace nei nostri cuori senza pace.

Ti prego, lasciati convincere. Lo so bene che non siamo moltissimi che desiderano la tua venuta. Anche oggi, come al tempo di Erode, quelli che abitano nei palazzi ti hanno in antipatia.

Lo sanno che tu sei un rubacuori e sono invidiosi. Ma anche fuori dai palazzi già si preparano a trasformare il tuo Natale in una festa di carnevale. Cerca di accontentarti, come già facesti a Betlemme con pochi pastori che ti adoravano estasiati. Ci saranno anche quest’anno, te lo promettiamo. Al suono delle campane correremo alla Messa di mezzanotte, perché tu nasca nel nostro cuore. Prima di chiudere questa letterina, forse un po’ impertinente, ti vorrei ricordare che in Italia c’è il tuo Vicario, il Vescovo di Roma. E’ un tipo forte e paterno, pieno di bontà e di misericordia. La gente lo ama e lo ascolta volentieri. Mi ricorda il tuo padre putativo, San Giuseppe. E’ un motivo in più perché tu resti fra noi, in questa Italia che con te è una Regina, senza di te una bandiera sgualcita.

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Immacolata, quando il popolo sconfisse i teologi

Posté par atempodiblog le 8 décembre 2013

Immacolata, quando il popolo sconfisse i teologi
di Maria Gloria Riva – La nuova Bussola Quotidiana

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Anno 1617: l’università di Granata (seguita da quelle spagnole e italiane) è la prima ad emettere il “votus sanguinis”, il giuramento, cioè, di difendere l’Immacolata Concezione fino all’effusione del sangue.

Questo evento rappresenta forse, il culmine della lunga vicenda storica che accompagnò la proclamazione del dogma dell’Immacolata, da parte di Pio IX, l’8 dicembre del 1854. Una vicenda per certi aspetti affascinante perché vide “battersi” in un confronto serrato il “sensus fidei” del popolo e la riflessione prudente del Magistero. La tradizione ebbe la meglio anzi, fu essa a dare maggior garanzie di solidità a questo dogma tanto discusso da teologi e biblisti. Fra gli artisti, interpreti di questo movimento popolare, famosissimo fu il Murillo con oltre 25 tele dedicate all’Immacolata, ma accanto a lui anche Velasquez e il meno noto Zurbarán, in mostra in questi giorni a Ferrara.

Francisco Zurbarán, nato a Fuentes de Cantos, Estremadura, nel 1598, e morto nel 1664, fu artista, profondamente immedesimato nelle pratiche dell’ascetica e della mistica tanto da meritare il titolo di pittore dei frati. Una delle sue tele dell’Immacolata Concezione si trova oggi nel Museo Diocesano di Sigüenza (Siviglia).

Secondo le regole dettate dal Pacheco, la Vergine Immacolata doveva essere dipinta come una giovinetta di dodici, tredici anni, avere i capelli rossi sciolti sulle spalle, una tunica rosa con manto azzurro, la corona di dodici stelle sul capo e una falce di luna sotto i suoi piedi. Zurbarán così l’aveva dipinta attorno al 1630 in una tela conservata ora al Museo del Prado. La tela di Sigüenza presenta alcune varianti rispetto a questo canone e benché non rechi alcuna data, pare essere di quello stesso 1630 e commissionata all’artista dal capitolo della Cattedrale di Siviglia.

Nell’ampio cielo notturno la Vergine giovanissima e bianco vestita risplende sospesa a mezz’aria come una celeste apparizione. “Signore, la tua grazia è nel cielo” cantava l’antico salmista! (Sal. 36, 6) Quella grazia che è nel cielo, quella grazia che “vale più della vita” (Sal. 63, 4) è presente nella Vergine di Nazaret, salutata dall’Angelo come la “piena di grazia”.

Il volto dipinto dal pittore di Fuentes nella tela di Sigüenza è quello di una bimbetta. Zurburàn più tardi, in un’altra sua Virgen niña, realizzerà il volto di Maria prendendo a modello quello della figlioletta Manuela che all’epoca aveva sette anni. Il successo di questo ritratto sarà tale da influenzare le successive opere sull’Immacolata, in particolare le versioni dello stesso Murillo.

Nella tela di Sigüenza i capelli rossi, prescritti da Pacheco, si sono fatti scuri e incorniciano un volto candido di incomparabile bellezza. Maria è la sposa del Cantico dei Cantici, nera ma bella, che si leva terribile come un vessillo spiegato, salda come torre d’avorio e leggiadra come una colomba. Fissando questa fanciulla orante, il cui sguardo pietoso accarezza il profilo della città che si stende sotto ai suoi piedi, l’osservatore si sente ricolmare di sentimenti di pace e soavità e l’animo è mosso a desiderare l’innocenza perduta.

Le virtù di Maria sono narrate dagli attributi abilmente confusi tra cielo e nubi. Maria è la Porta del cielo per ogni credente; è la stella mattutina alla quale guarda colui che si è smarrito nelle tenebre del proprio cuore; è lo specchio senza macchia dell’Amore di Dio; è la scala di Giacobbe che rende familiari uomini e angeli. Lei – del resto- degli angeli è Regina. Tra le nubi se ne scorgono a decine: l’attorniano, le gonfiano il manto di seta: sono i putti. Sono anch’essi il segno di quell’innocenza perduta che vive nel cuore dell’uomo come perenne nostalgia. Alcuni di questi putti – semi nascosti dal manto di Maria, scrutano l’orizzonte terreste.

Siviglia giace addormentata, vive nelle tenebre e non lo sa, la vita della sua gente è esposta alle procelle della storia, ma ignora quanto sia vicino il porto di salvezza. È una città precisa, ma che scolora sotto l’ispirazione dell’artista animato dalla fede: l’intero panorama è una parabola del potente patrocinio di Maria aperto ad ogni uomo, ad ogni città. È lei il porto della Salute è lei il Perpetuo soccorso ai naviganti della Storia. Avvolti nell’oscurità, si scorgono la fonte su un selciato a forma di croce, il pozzo, il cedro, il cipresso, la palma, la città murata, la torre: sono tutti simboli che descrivono le virtù di Maria, che la incastonano dentro la sapienza antica dell’unica Parola che salva.

L’opera era sicuramente una pala d’altare, poiché l’astro lunare, con la gobba rivolta verso l’alto e la luce che irraggia verso il basso, rappresentava l’ideale estensione della luce del Sacramento che proprio sotto questo dipinto il sacerdote celebrava. Tra le punte della luna, del resto, s’incunea placida una nave, è l’immagine della Chiesa che Cristo, continua a proteggere con la sua luce e per mezzo della potente intercessione di Maria, sua madre.

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L’Immacolata Concezione

Posté par atempodiblog le 7 décembre 2013

L'Immacolata Concezione dans Angeli 2gtovwhLa proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria avviene nel 1854 ad opera di Pio IX.
Altro non si fece che evidenziare una verità da sempre creduta nella Tradizione della Chiesa, come in più parti chiarisce la Bolla Ineffabilis Deus con cui venne proclamato il dogma in esame: «Fin dai tempi più antichi [tale dottrina] era intimamente radicata nel cuore dei fedeli e veniva mirabilmente diffusa dall’impegno e dallo zelo dei vescovi del mondo cattolico».
Lo stesso Pio XII confermerà un secolo dopo questa linea, affermando: «Lo attestano gli scritti dei santi padri, i concili e gli atti dei romani pontefici, (…) le antichissime liturgie e (…) tutte le comunità dei cristiani orientali».
Ma esattamente di che cosa si tratta? Di credere che la beatissima Vergine Maria sin dal primo istante sia stata concepita libera da ogni macchia di colpa originale per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo (CCC n. 491).
Luca, infatti, riferisce che l’arcangelo Gabriele chiama Maria “piena di grazia” (1,28), mentre Elisabetta saluta Maria come la “benedetta fra tutte le donne” (1,42). È piena di grazia perché l’incarnazione del Verbo, l’unione della natura divina con quella umana in Cristo, si realizza e compie proprio in lei e perché la grazia salvifica di Cristo agisce in lei sin dal primo istante della sua esistenza.
La sua singolarità ben emerge dalle seguenti parole di Giovanni Paolo II: «Nell’ordine della grazia, cioè della partecipazione alla natura divina, Maria riceve la vita da colui al quale ella stessa, nell’ordine della generazione terrena, diede vita come madre. La liturgia non esita a chiamarla “genitrice del suo Genitore” e a salutarla con le parole che Dante Alighieri pone in bocca a S.Bernardo: “figlia del tuo Figlio”».
Aggiungiamo con Pio IX che Dio «la ricolmò – assai più di tutti gli spiriti angelici e di tutti i santi – dell’abbondanza di tutti i doni celesti in modo tanto straordinario, perché Ella (…) mostrasse quella perfezione di innocenza e santità da non poterne concepire una maggiore dopo Dio».
Pure san Luigi M. Grignion di Montfort, nel suo famoso trattato, volle significarne la pienezza di perfezione riportando la felice espressione: «Tutto ciò che conviene a Dio per natura conviene a Maria per grazia».
Alla luce di quanto sopra, quindi, risulta intuibile la grandezza di Maria anche nel piano salvifico che Dio ha stabilito per l’uomo. Ella, prima come umile serva “obbedendo divenne causa di salvezza per sé e per tutto il genere umano” (Sant’Ireneo); poi, assunta in cielo e quale Regina dell’universo, continua a ottenerci le grazie della salute eterna. Affidiamoci dunque fiduciosi alla nostra amorevole Madre.

di Roberto Lanzilli – Il Timone

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La nostra paura più profonda

Posté par atempodiblog le 7 décembre 2013

“Sono molto grato alla Chiesa cattolica. Quando i neri non potevano nemmeno salire su un autobus, la Chiesa cattolica li faceva vescovi e cardinali”.

Nelson Mandela

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La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura è di essere potenti al di là di ogni misura.
È la nostra luce, non la nostra oscurità a terrorizzarci maggiormente.
Noi ci chiediamo: “Chi sono io per essere così brillante, stupendo, pieno di talenti e favoloso?”.
In realtà dovremmo chiederci: Chi sei tu per non esserlo?”.
Tu sei figlio di Dio. Il tuo giocare in piccolo non serve al mondo. Non c’è nulla di illuminato nel ridursi perché gli altri non si sentano insicuri intorno a te.
Siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è dentro di noi. Essa non è solo in alcuni: è in tutti!
E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsciamente diamo agli altri il permesso di fare la stessa cosa.
Nel momento in cui siamo liberi dalle nostre paure, la nostra presenza libera automaticamente gli altri.

Nelson Mandela

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Un dono assolutamente gratuito

Posté par atempodiblog le 7 décembre 2013

Un dono assolutamente gratuito dans Citazioni, frasi e pensieri Madonna-e-Bambino

“La Grazia, elargita da Dio e comunicata attraverso il Mistero del Verbo incarnato, è un dono assolutamente gratuito con cui la natura viene guarita, potenziata e aiutata a perseguire il desiderio innato nel cuore di ogni uomo e di ogni donna: la felicità”.

Benedetto XVI

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San Gregorio Armeno, un angolo ricco di fede, tradizione e bellezza

Posté par atempodiblog le 6 décembre 2013

San Gregorio Armeno, un angolo ricco di fede, tradizione e bellezza
Nel cuore della Napoli artigiana, illuminata dalle piccole luci colorate tipiche degli addobbi natalizi, si sviluppa una delle più celebri strade del storico: San Gregorio Armeno, famosa nel mondo per il suo antichissimo monastero e ancor più per le caratteristiche botteghe artigianali di presepi natalizi.
di Roberta Mochi – Radici Cristiane

San Gregorio Armeno, un angolo ricco di fede, tradizione e bellezza dans Articoli di Giornali e News San-Gregorio-Armeno-un-angolo-ricco-di-fede-tradizione-e-bellezza

Uno splendido campanile pensile caratterizza ancora di più il panorama della “platea nostrana”, nome attribuito alla zona dopo che il quindicesimo vescovo di Napoli San Nostriano, fece costruire qui le terme per i poveri. Questo, che era il centro artistico e culturale della città, diede i natali a Gian Battista Vico e fu la dimora di Francesco de Sanctis e Benedetto Croce e tuttavia, conserva ancora la vitalità che l’ha contraddistinto per secoli.

La strada è infatti oggi un pullulare di turisti provenienti da tutto il mondo, scolaresche e folle di diversa origine e provenienza vengono in visita spinte dalla possibilità di trovare sui banchi e nei vecchi negozi ogni elemento da utilizzare per l’addobbo del presepe natalizio, dai pastori al sughero per le grotte, delle suppellettili agli animali da cortile, minuziosamente riprodotti in ogni particolare.

Ma San Gregorio Armeno non è solo il piacere della suggestione profusa dei dettagli e delle sfumature, dal profumo rigorosamente realistico, delle statuine esibite nelle botteghe ammassate fra loro nello stretto percorso; offre, piuttosto, la possibilità di visitare il Monastero omonimo.

Il Monastero

Il monastero di San Gregorio Armeno ha origini davvero molto antiche; venne fondato intorno al 725 da un gruppo di monache in fuga dalla Bisanzio iconoclasta, il cui viaggio e arrivo a Napoli sono oggi rappresentati da Luca Giordano negli affreschi della controfacciata (1678-79).
Lo stesso artista volle partecipare nel senso più pieno del termine a questo complesso architettonico, al punto da inserire il proprio ritratto nell’affresco, tuttora visibile, nell’uomo che indica il luogo del riparo delle suore.
Inizialmente, il monastero era un groviglio di case, circondato da un muro non troppo alto. Ognuna di queste abitazioni aveva più camere, una cucina e una cantina (e non mancavano altre comodità).
Le monache, al momento di fare ingresso nel convento, potevano occupare gli alloggi liberi o farne fabbricare di nuovi a proprie spese.
Nel 1563, concluso il Concilio di Trento, venne imposta la clausura e le monache di San Gregorio, dopo un periodo di preparazione di circa un anno, iniziarono la vita claustrale il 17 gennaio 1570, quando fecero la professione religiosa, abbandonando gli antichi riti greci e cambiando l’abito da bianco in nero.
L’assetto attuale del monastero, invece, risale al 1574, anno in cui, racconta il canonico Celano, “resa comoda l’abitazione ed atta alla vita comune”, la badessa Donna Giulia Caracciolo, nell’ambito delle riforme imposte dal Concilio di Trento, concepì la nuova chiesa e “la principiò col disegno, modello e guida di Vincenzo Della Monica e Giovan Battista Cavagna e quasi tutto fu fatto del denaro proprio di essa Donna Giulia”.
Il Celano definì questa chiesa come una “stanza di paradiso in terra” e tale doveva apparire soprattutto nei giorni festivi, in cui la sua sontuosa omogeneità nei colori verde e oro sfavillava nello splendore degli arredi e degli argenti.
Pochi anni più tardi, terminata la chiesa, vennero iniziati i lavori per il prezioso e spettacolare soffitto ligneo, dipinto dal fiammingo Teodoro d’Errico e dalla sua bottega. Il partito a cassettoni domina la navata unica e copre anche il Coro della Monache, nascosto da una splendida Gelosia del Settecento.

Gli arredi della chiesa sono estremamente importanti, ed amplificano l’effetto scenografico e teatraleggiante degli interni: cantorie di cartapesta, balaustre di marmo con fogliami a traforo e grate in legno intagliato occhieggiano all’altare maggiore con tarsie marmoree, lapislazzuli e madreperla: e ancora, la mirabile raggiera in ottone del comunichino, le decorazione in stucco dorato dell’abside sino ai due enormi e fastosi organi settecenteschi: il tutto testimonia, con la propria luminosa presenza, la vitalità e perizia la tradizione artigianale locale tra Sei e Settecento.
Proprio in questo secolo, infatti, la chiesa fu completamente rivestita da un nuovo apparato decorativo, eseguito da abilissime mani, che furono coordinate dalla sapienza espressiva di Niccolò Tagliacozzi Canale, architetto e scultore, ideatore di molte altre macchine decorative, permanenti ed effimere, della città e venne eretto (1716), sul cavalcavia che univa le due aree appartenenti al convento il campanile di stile barocco.
Nell’ultima cappella a destra, infine, sono custodite le spoglie e le reliquie di santa Patrizia, venerata a punto tale dai napoletani che, nell’accezione popolare, la chiesa viene chiamata col suo nome.

Il chiostro

Il chiostro custodisce nel centro, tra aiuole in fiore ed alberi di agrumi la fontana di Matteo Bottigliero, le cui statue raffigurano l’incontro al pozzo di Cristo e la Samaritana. Un’iscrizione ricorda che la fonte, ‘ricca per ameno gioco di acque’, dolce spettacolo per gli occhi, venne fatta costruire dalla badessa Violante Pignatelli, nel 1783. Mentre sul lato opposto fa riferimento al restauro voluto dalla badessa Francesca Caracciolo del 1843 ‘affinché alle vergini sacre a Dio non mancasse il perpetuo simbolo della evangelica purezza e della fonte divina della viva acqua’.

Interessante anche il lato del portico corrispondente la navata della chiesa, in cui è possibile notare alcune aperture dotate di grate a sedili, attraverso cui le monache potevano assistere alla Messa senza allontanarsi dal chiostro stesso.
Questa area, si arricchì, nel corso del tempo, di una moltitudine di opere d’arte portate in dote dalle fanciulle che si monacavano. Tutti questi beni sono oggi protetti in quello straordinario museo devozionale che è il salottino della Badessa.

Freccia dans Santo Natale Il presepe napoletano

Santa Patrizia e le Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucarestia

Nata a Costantinopoli verso la seconda metà del secolo VII e probabilmente discendente dell’Imperatore d’Oriente Costante II, Patrizia, pure essendo cresciuta nel lusso, si distacca ben presto dallo stile di vita a cui le  sue nobili origini l’avevano destinata, mostrando eccezionali doti di carità e solidarietà.
Giunta a Roma, viene consacrata a Dio dal Pontefice e, tornata in Patria alla morte del padre, distribuisce la propria copiosa eredità ai bisognosi. Subito dopo parte alla volta della Palestina ma una furiosa tempesta dirotta la sua nave verso il Golfo di Napoli dove trova riparo e ospitalità presso il Castel dell’Ovo.
Qui costituisce una comunità di preghiera e alla sua morte lascia un testamento spirituale che viene seguito da quelle amiche che ne volevano continuare l’opera. Viene sepolta nel monastero dei santi Nicandro e Marciano, che diventa sede delle sue ‘patriziane’.
Nel 1864 le pie donne devono lasciare l’edificio e vengono ricoverate presso il monastero femminile benedettino di San Gregorio Armeno dove portano le sue spoglie.
Pian piano le patriziane si estinguono e nel 1922 iniziano ad operare nel monastero le Suore Crocifisse Adoratici dell’Eucarestia (fondate nel 1855 a Napoli da Madre Maria Pia della Croce), che con tanta venerazione continuano a custodire l’urna con il sangue di santa Patrizia.
Si racconta infatti, che, alla morte della Santa, una fedele le sottrasse un dente, provocando una emorragia. Quel sangue, raccolto ed esposto alle suore, si sciolse e da allora torna liquido proprio il giorno della festa di santa Patrizia, il 25 agosto e, dal Seicento, anche ogni martedì. E’ la riptezione di questo miracolo che ha suscitato un culto popolare così vasto.

Suore Crocifisse – Piazzetta di San Gregorio Armeno, I – 80138  Napoli – Tel. 0815520186

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La maldicenza

Posté par atempodiblog le 6 décembre 2013

“Quelli che vivono giudicando il prossimo, parlando male del prossimo, sono ipocriti, perché non hanno la forza, il coraggio di guardare i loro propri difetti. Il Signore non fa, su questo, tante parole. Poi dirà, più avanti, che quello che ha nel suo cuore un po’ d’odio contro il fratello è un omicida… Anche l’Apostolo Giovanni, nella sua prima Lettera, lo dice, chiaro: colui che odia suo fratello, cammina nelle tenebre; chi giudica il fratello, cammina nelle tenebre”.

Papa Francesco

La maldicenza dans Citazioni, frasi e pensieri calunnia_botticelli
La calunnia di Sandro Botticelli

«Chi si applica a conoscere se medesimo loda gli altri», diceva l’abate Giovanni (Vit. Patr). Attaccando l’onore e la riputazione del prossimo, accusandolo, diffamandolo… accusiamo, condanniamo e copriamo di obbrobrio noi medesimi; infatti si dà cosa più odiosa della maldicenza? Vi è azione che tanto ci disonori quanto l’essere conosciuti per diffamatori? Voi attaccate gli altri, ma siete voi senza macchia? Perché non ricordate la sfida di Gesù ai Giudei maligni e invidiosi che gli avevano condotto innanzi la donna adultera che volevano lapidare (IOANN. VIII, 7)? «Perché mai, diceva loro altra volta il Salvatore, perché vedete la festuca nell’occhio del fratello e non vi accorgete del tronco che è nel vostro? Con qual fronte potete dire a vostro fratello: lascia che ti cavi questa festuca dall’occhio, mentre non vedete il trave che imbratta il vostro? Ipocrita! comincia a liberare il tuo, poi netterai quello del tuo prossimo»  (Luc. VI, 42).
Il colmo poi dell’ingiustizia sta in ciò che il più mordace mormoratore il quale pretende e si affoga il diritto di malmenare, denigrare, lacerare il prossimo, s’impenna e strepita se un altro si permette di pungerlo con un frizzo. Egli il perfetto, l’inviolabile! O accecamento!

Cornelio a Lapide

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Elogio cristiano del Natale consumistico

Posté par atempodiblog le 5 décembre 2013

E’ lecito essere felici, quando il mondo è pieno di sofferenza?

Elogio cristiano del Natale consumistico dans Antonio Socci Regali-di-Natale

“Ora, qualcuno potrebbe dire: ma sarà lecito essere tanto felici, quando il mondo è così pieno di sofferenza, quando esiste tanta oscurità e tanto male? E’ lecito essere così spavaldi e gioiosi? La risposta può essere soltanto: «sì»! Perché dicendo «no» alla gioia non rendiamo servizio ad alcuno, rendiamo il mondo solamente più oscuro. E chi non ama se stesso non può dare nulla al prossimo, non può aiutarlo, non può essere messaggero di pace. Noi questo lo sappiamo dalla fede, e lo vediamo ogni giorno: il mondo è bello e Dio è buono. E per il fatto che Egli si è fatto uomo ed è venuto in mezzo a noi, che Egli soffre e vive con noi, noi lo sappiamo definitivamente e concretamente: sì, Dio è buono ed è bene essere persona. Noi viviamo di questa gioia, e partendo da questa gioia cerchiamo anche di portare gioia agli altri, di respingere il male e di essere servitori della pace e della riconciliazione”.

Benedetto XVI

Botti di Capodanno, l'appello dei medici degli ospedali: “E' una tradizione negativa e pericolosa” dans Articoli di Giornali e News Santo-Natale

Elogio cristiano del Natale consumistico
di Antonio Socci – Libero

Regali-e-doni-natalizi dans Articoli di Giornali e News

Natale è alle porte. E ci toccherà sorbirci le solite lagnose recriminazioni moralistiche contro il “Natale consumistico”.
E’ un uggioso “refrain” in cui si sono specializzati molti ecclesiastici, ma anche tanti laici, non credenti, che – per esempio dalle pagine di Repubblica, del Corriere della sera o della Stampa – biasimano il presunto paganesimo della “corsa ai regali” (e lo fanno, ovviamente, mentre i loro stessi giornali vivono di pubblicità e i loro editori prosperano sui consumi).
Oltretutto i “consumi natalizi” sono pure un beneficio per la nostra economia che soffre di un Pil stentato, per cui è irritante vedere gli stessi che scagliano anatemi sul consumismo, strillare poi – il mese dopo – per le aziende che chiudono, per l’economia che ristagna e il deficit che cresce (come pure il debito essendo rapportati al pil).
Dunque mi appello ai parroci: per favore, quest’anno, evitateci queste geremiadi anticonsumistiche.
Perché non c’è cosa più insopportabile (e acristiana) del sentire sacerdoti alla Messa di Natale che – proprio mentre nasce Gesù, il nostro salvatore, la gioia della vita – invece di parlarci di lui, invece di invitarci a rallegrarci, invece di consolare le nostre sofferenze, si mettono a strapazzare i fedeli che si sono scambiati dei doni.
A volte si ha quasi la sgradevole sensazione che a Natale tuonino contro il consumismo perché non hanno nulla da dire su Gesù, perché non si stupiscono più del suo venire al mondo, perché non ne conoscono la meraviglia.
“Expertus potest credere quid sit Jesum diligere”.
Come si può – quando si è sperimentata l’amicizia del Salvatore e se n’è scorta la bellezza ineffabile – mettersi a tuonare contro le luminarie, i pranzi e i regali, invece di parlare di lui?
Non somigliamo a quei farisei che – davanti a ll’uomo misterioso che con un solo gesto guariva un paralitico – si mettevano a polemizzare perché lo aveva fatto di sabato?
Quasi che fosse ovvio e normale che uno potesse stendere la mano e guarire un uomo paralizzato. Si facevano a tal punto violenza da non restare stupiti neanche da un fatto del genere.
E voi sacerdoti di oggi avete da dare la notizia più grande di tutti i tempi, la più commovente, inimmaginabile, consolante, cioè che Dio si fa uomo e viene ad abitare fra noi, che viene a guarirci, a salvarci, avete la notizia che nulla sarà più triste e disperato come prima, e invece di gridarcela, di scoppiare voi stessi in lacrime di letizia e di commozione (perché davvero se non fossimo così tragicamente distratti dovremmo piangerne di gioia), invece di gridarla dai tetti, vi mettete a rompere le scatole sui regali? Quasi indispettiti dalla gioia della gente?
Questa sì che è un’empietà! Oltretutto, se proprio vogliamo essere evangelici, dobbiamo riconoscere che il primo Natale dei regali è stato precisamente quello di duemila anni fa: sono stati i pastori e i Magi a viverlo così.
E il Vangelo li esalta per questa spontanea gratuità. Del resto era un’umile risposta a un immenso dono.
Perché in realtà è Dio stesso che inaugura il “Natale dei regali”. Il “Grande Consumista” è Colui che ci ha regalato il cielo e la terra, l’universo intero, con tutto quello che contiene.
Nessuno ha dissipato e regalato così tanto i suoi beni come quel Dio che ha voluto letteralmente svenarsi per noi.
Natale non è altro che questo: la follia di Dio.
E’ la sua irraggiungibile umiltà, avendo voluto spogliarsi della sua maestà e della sua gloria per abbassarsi fino a farsi un piccolo bambino povero e potersi donare a noi senza umiliarci, ma anzi mendicando il nostro amore.
Si può immaginare una follia d’amore pari a questa?
Riflettiamoci. C’è un Re così grande, ricco e potente che possiede tutto. E dunque ti regala non solo pietre preziose e perle, ma il mondo intero con  tutte le sue meraviglie. Però non gli basta, perché noi siamo insoddisfatti e infelici, e allora vuole donarti di più.
Potrebbe regalarti la felicità (per cos’altro tutti ci agitiamo se non per la felicità?) oppure potrebbe regalarti la bellezza, o la pace del cuore o l’amore o il calore dell’amicizia e potrebbe perfino regalarti tutto questo per l’eternità, senza più la tristezza della fine e della morte.
Ma ha deciso di farti un dono ancora più grande dove tutto questo è contenuto: se stesso, il suo unico e meraviglioso Figlio che letteralmente “è” tutto questo. Infatti Gesù è la vera felicità, la pace, l’amore, la gioia, la vita e lo è per sempre.
E allora come si fa – davanti a un tale Re che ti dona se stesso e tutto il suo regno, senza che tu lo meriti neanche lontanamente – come si fa a non essere strafelici e a non essere mossi spontaneamente, anche noi, a donare?
Ci sono passi bellissimi di Benedetto XVI sul “dono” nell’enciclica “Caritas in veritate”. Egli vede nella cultura del dono addirittura una immensa risorsa sociale.
Ma allora i sacerdoti dall’altare di Natale dovrebbero dire esattamente l’opposto della geremiade contro il consumismo: dovrebbero anzi esortare a donare ancora di più, a donare non solo ad amici, figli o parenti, ma a riempire di doni e di amore anche tutti coloro che sono stati più sfortunati, coloro che vivono in povertà, coloro che soffrono, perché anche loro possano rallegrarsi nel giorno della gioia.
Il papa san Leone Magno, nella sua celebre omelia natalizia, secoli fa, annunciava e quasi gridava: “Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne”.
Vorremmo sentire i parroci o i vescovi che ci ripetono queste parole, che incitano a non fermarsi a pochi regali, a Natale, ma a donare più possibile. A donare perfino se stessi.

E soprattutto a fare a se stessi il regalo più bello: l’amicizia di Cristo.
Mi sembra di sentire qualche amico prete che obietta: “va bene, dici belle cose, ma come si può tacere davanti a chi pensa solo ai regali, alla settimana bianca o alla vacanza alle Maldive o sul Mar Rosso e neanche va alla messa di Natale?”.
Amico sacerdote, perché tu, come loro, pensi che la settimana bianca o le Maldive o il Mar Rosso siano in competizione con il Figlio di Dio che si fa uomo?
Chi ha fatto le maestose montagne e il loro cielo di azzurro purissimo? E chi dà consistenza ai miliardi di cristalli di neve che accecano di luce? E i fondali o i coralli del Mar Rosso? E la luna e le stelle?
“Tutto è stato creato per mezzo di Lui e in vista di Lui e tutto in Lui consiste”. E allora come privarsi di lui? Dovresti dire a coloro che si contentano di così poco (una settimana alle Maldive), a coloro che si rassegnano alla settimana bianca, che possono avere molto di più.
Perché a Natale ci si dona colui in cui c’è la bellezza degli oceani e delle montagne innevate, il refrigerio della brezza d’estate, i colori dei boschi d’autunno, la dolcezza dell’amicizia, lo struggimento dell’amore dei figli, l’ardore dell’amore delle madri e perfino il gusto dei frutti succulenti della terra, la purezza dell’acqua e il sapore del vino. In lui c’è il gusto stesso della vita, il senso dell’esistenza.
Così nella Messa ci sono tutte le montagne innevate e i mari più azzurri, tutte le bellezze dell’universo. Non a caso la liturgia coinvolge tutti i cinque sensi nell’adorazione, perché Dio si è fatto carne ed è venuto a salvare tutto l’uomo, è venuto a portargli una felicità che passa anche attraverso i sensi umani, i sentimenti umani. E’ venuto a divinizzare tutto l’uomo.
“Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio” afferma sant’Atanasio di Alessandria (De Incarnatione, 54, 3: PG 25, 192).
E chi – ditemi – chi, sapendo tuttociò, può essere così masochista da rifiutare questo stupefacente regalo: essere trasformati in dèi, essere divinizzati, partecipare alla signoria di Dio sull’universo, partecipare alla gioia di Dio?

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Benson, folgorato sulla via di Luxor

Posté par atempodiblog le 3 décembre 2013

Benson, folgorato sulla via di Luxor
Storia di un pastore anglicano convertito al cattolicesimo. E molto citato da Papa Bergoglio
di Mattia Ferraresi – Il FoglioBenson, folgorato sulla via di Luxor dans Robert Hugh Benson empty

Schermata%202013-12-02%20a%2011_06_34 dans Stile di vitaIl cardinale John Henry Newman paragonava l’esperienza di chi, come lui, ha abbandonato la chiesa d’Inghilterra per passare al cattolicesimo alla passeggiata notturna di un personaggio delle fiabe attraverso un villaggio incantato. Al sorgere del sole improvvisamente i prodigi meravigliosi che avevano intrattenuto il viaggiatore per tutta la notte scompaiono, come liquefatti dalla luce del giorno, tanto che il protagonista si chiede se siano davvero esistiti o fossero soltanto i frutti di una grandiosa allucinazione. Robert Hugh Benson, pastore cresciuto nella più anglicana delle famiglie, ha sperimentato la sensazione che si accompagna alla fine di un sortilegio e l’ha immediatamente raccontata in una serie di articoli apparsi sulla rivista americana Ave Maria fra il 1906 e il 1907. Dopo accorate richieste che gli scritti fossero raccolti e pubblicati in un volume, magari arricchiti da qualche riflessione ulteriore, Benson ha acconsentito all’operazione editoriale ma non ha trovato modo di aggiungere nuovi elementi. Al sorgere del sole, il vecchio villaggio anglicano era scomparso. Trovava persino difficile ricordarne le fattezze, come certi sogni che appaiono chiari e distinti nel momento in cui ci si sveglia ma svaporano se ci si riaddormenta anche soltanto per un attimo. Riferendosi a sé in terza persona, forse per compensare “il raccapricciante egoismo” che trasuda negli articoli autobiografici, scrive: “Egli non è più in grado, come nei primi mesi dopo la sua conversione, di paragonare i due sistemi religiosi, dal momento che ciò che ha lasciato non gli appare più come un oggetto coerente. Ci sono, certamente, associazioni, ricordi ed emozioni ancora impressi nella sua mente […] e tuttavia non riesce più a vedere in questi altro che indizi, frammenti e aspirazioni distaccate dal loro centro e ricostruite in un edificio puramente umano senza fondamenta né solidità”.

Potrebbe sembrare che il passaggio dal mondo anglicano a quello cattolico sia stato per Benson tutto sommato naturale e indolore, il sorgere del sole della fede universale su una tradizione che gli era apparsa in tutta la sua modesta portata, ma non è così. Percorrere il guado fra un credo religiosamente corretto e morto e la religione del Dio vivente non è un’impresa senza rischi. Benson era il figlio più giovane di Edward White Benson, pastore anglicano che diventerà poi arcivescovo di Canterbury, uomo dotto la cui incrollabile fede è perfettamente impressa nella scena della sua morte: si spegne nel 1896 mentre è inginocchiato in chiesa, assorto nella meditazione. Ogni domenica Edward portava i figli a passeggio per la campagna inglese e leggeva episodi tratti dall’Acta Martyrum. Soltanto molti anni dopo Robert scoprirà che il padre traduceva all’impronta dall’originale latino, in un inglese perfettamente oliato da decenni di frequentazione dell’apparato agiografico. “La sua influenza su di me è stata talmente profonda che non posso sperare di riuscire a descriverla”, ricorda Benson. Il padre “non mi aveva mai capito molto bene”, a differenza della madre, con la quale terrà un lunghissimo e intimo carteggio, ma l’influsso della personalità paterna permea le profondità più recondite della vita della famiglia e in particolare quella del giovane Robert, che deciderà di farsi pastore anglicano nonostante le obiezioni e i dubbi sulla fede che ciclicamente affioreranno negli anni della formazione, quando “l’unico mio vero amico era un ateo dichiarato”.

Quando chiede al padre se la formula del Credo sull’unica “santa chiesa” comprenda anche i cattolici, rimane insoddisfatto della risposta. Alla chiesa di Roma, però, non accede tramite un pertugio teologico. Newman aveva lasciato la chiesa d’Inghilterra dopo una lunga riflessione sul rapporto fra la dottrina anglicana e il Concilio di Trento, passaggio che l’aveva portato “ex umbris et imaginibus in veritatem”; Benson coglie l’universalità del credo cattolico in una piccola chiesa egiziana. Poco dopo la morte del padre, il medico gli ordina di passare l’estate nel clima caldo dell’Egitto, essenziale per dare sollievo a uno stato di salute che sarà precario fino al giorno della sua morte, causata da un infarto a 43 anni. Sulla via per Luxor visita le cattedrali di Parigi, incontra la sensibilità orientale di Venezia, s’immerge nelle bellezze fiorentine, nei fasti del cattolicesimo romano, respira la fede barocca e ancestrale dell’Italia meridionale; ma niente scuote il suo animo come quella chiesa copta di nessun conto mimetizzata fra le case di fango di un villaggio qualsiasi. Ci era entrato quasi senza volerlo: “Ora sono certo che è stato lì che per la prima volta qualcosa di simile a un’esplicita fede cattolica si è fatto largo dentro di me. Quella chiesa era chiaramente parte della vita del villaggio, era alta come le case arabe, era aperta, ed era esattamente come tutte le altre chiese cattoliche, a eccezione degli ovvi limiti artistici. Lì mi è sembrato seriamente concepibile l’idea che Roma avesse ragione e noi torto”.

In quella che nel linguaggio francescano, nel senso del vescovo di Roma, si chiamerebbe periferia esistenziale, Benson ha intuito che la chiesa d’Inghilterra, con le sue scuole azzimate, i rituali perfettamente levigati, la precisione dottrinaria che suo padre incarnava (a quel punto Benson leggeva quotidianamente la Bibbia in greco) era la vera periferia della cristianità. Una nicchia autoreferenziale, chiusa al mondo, incomunicabile, il contrario esatto di quel modesto tempio copto che lo aveva affascinato più delle millenarie basiliche dell’Europa cattolica. L’incrocio fra universalismo, periferia, identità e tradizione porta dritti all’omelia di Papa Francesco del 18 novembre, la requisitoria a sfondo maccabeo del progressismo adolescenziale, con potente condanna del “pensiero unico” che discende dalle lusinghe della mondanità e tonanti richiami identitari. Quella che ha fatto vacillare chi credeva di stare in piedi snocciolando le contraddizioni del Papa dialogante e spogliato della regalità che deriva dalla custodia della dottrina. Nel quotidiano esercizio omiletico di Santa Marta, Francesco ha fatto riferimento al romanzo “Il Padrone del mondo”, il testo di gran lunga più noto dell’apologeta inglese. Benson, ha detto Bergoglio, ha spiegato con potenza narrativa la battaglia fra lo spirito del mondo e la chiesa, e “quasi come fosse una profezia, immagina cosa accadrà. Quest’uomo, si chiamava Benson, si convertì poi al cattolicesimo e ha fatto tanto bene. Ha visto proprio quello spirito della mondanità che ci porta all’apostasia”.

“Il Padrone del mondo” è stato consegnato alla storia come romanzo “distopico”, ma sarebbe più corretto definirlo romanzo “parabolico”, nel senso che usa la forma della parabola, quindi dell’analogia, non si spinge nell’ambito della divinazione del futuro prossimo che verrà. Sta di fatto che il padrone del mondo è la storia di un conflitto esistenziale, moderno e contemporaneamente escatologico, fra la visione cristiana del mondo e un surrogato postcristiano fatto di umanitarismo, massoneria, ideali puri che sono il preludio di un inferno sulla terra. E la via che porta al regno di Satana e a un anticristo che sembra appena uscito dal Consiglio di sicurezza dell’Onu è, come al solito, lastricata di buoni propositi.

Ad aumentare la potenza dello scenario dipinto da Benson c’è la componente profetica, naturalmente, e letto a decenni di distanza il romanzo appare come una rappresentazione fedele, almeno concettualmente, con quello che poi è successo. Quando lo ha scritto, nel 1907, non c’erano ancora state guerre mondiali, genocidi nel mezzo dell’Europa né rivoluzioni bolsceviche. Lo spirito del mondo lavorava su più fronti per congegnare alternative dal volto umano all’oppiaceo della religiosità e Benson è stato perspicace nel cogliere i segni dei tempi e riversarli – amplificati – nelle sagome apocalittiche dei suoi personaggi, a partire da Giuliano Felsemburgh, grandioso leader anticristico – il nome evoca Giuliano l’apostata – a metà fra Barack Obama e un banchiere svizzero in partenza per una riunione del Bilderberg. La chiesa del padrone del mondo è un corpo mistico assediato, minoritario e tuttavia pugnace, sostenuto dallo Spirito e armato della spada della verità. Ridotta all’irrilevanza dal mondo, la chiesa combatte per la sua stessa vita senza concessioni e ricatti, sapendo che “dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. In questa parabola si potrebbe leggere una rappresentazione assai muscolare della lotta fra chiesa e mondo, un conflitto di trincea culturale ed escatologico fra identità incompossibili, lanciate come frecce verso niente meno che l’Apocalisse.

Si potrebbe essere tentati di mettere Benson nella schiera degli opliti della fede, un katechon che tiene chiuse le porte dell’inferno modernista e non tollera compromessi sulla strada della riabilitazione del regno divino. Uno che si sarebbe trovato più a suo agio nella cappella palatina di Aquisgrana che in una chiesa di fango alla periferia del Cairo. Il fraintendimento, in effetti, non si è fatto attendere. Per rettificare in qualche modo Benson ha scritto, pochi anni dopo la pubblicazione del “Padrone del mondo”, una seconda parabola, intitolata “L’alba di tutto”, controprofezia in cui la chiesa vince la battaglia contro lo spirito del mondo. Invece del massone-umanitario Felsemburgh è il Papa a guidare il consesso di nazioni i cui sovrani, uno a uno, si convertono al cristianesimo, modellando le società che governano alla dottrina cristiana. L’Europa trova la via virtuosa per coniugare la mentalità medievale con la prosperità moderna, cosa che affascina – ma senza soddisfare del tutto – il protagonista del romanzo, un prete che si risveglia dopo un lungo periodo di coma.

“In un libro precedente chiamato ‘Il Padrone del mondo’ – scrive Benson – ho tentato di tracciare la proiezione di quello che, pensavo, ci si potrebbe ragionevolmente aspettare fra cent’anni, se le attuali linee del cosiddetto ‘pensiero moderno’ fossero semplicemente prolungate nel tempo. Mi hanno detto ripetutamente che l’effetto del libro è stato quello di deprimere e scoraggiare in misura eccessiva i cristiani ottimisti. In questo libro cercherò, sempre in forma di parabola, non certo di ritirare ciò che ho affermato nel precedente, ma di seguire le linee opposte di pensiero per tracciare lo sviluppo che, penso, ci si potrebbe ragionevolmente aspettare se il processo opposto iniziasse, e l’antico pensiero si affermasse. Talvolta sentiamo dire dai moralisti che viviamo in tempi critici, espressione con la quale intendono dire che non sono certi se la loro parte vincerà o meno. In tal senso, nessun tempo può essere critico per i cattolici, perché i cattolici non possono avere alcun tipo di dubbio sulle possibilità di vittoria della loro parte. Ma da un altro punto di vista, tutti i periodi sono critici, perché ogni tempo contiene in sé il conflitto fra due forze irriconciliabili”.

I due lati della parabola di Benson non possono essere dunque completamente disgiunti, pena il fraintendimento del significato dei “tempi critici” per la chiesa e il cattolicesimo, circostanza quanto mai attuale. Benson è stato romanziere e apologeta indefesso, ma anche spirito aperto all’incontro con il mondo, forte della natura vitale di un cristianesimo in cui categorie come “cuore” e “incontro” – che aprono l’esortazione apostolica di Francesco, “Evangelii Gaudium” – ricorrono con più frequenza di quanta i suoi ammiratori contemporanei amino ricordare.

Un episodio della sua giovinezza, prima della conversione, illustra sinteticamente la sua sensibilità cristiana. Durante una gita invernale sul Piz Palù, in Engadina, il giovane Benson ha un collasso. I compagni cercano invano di rianimarlo, e sono costretti a trasportarlo per ore prima di riuscire a trovare riparo in mezzo alla tormenta. Durante il trasbordo Benson riacquista coscienza, rendendosi in qualche modo conto della gravità della situazione, ma nessun atto di contrizione, nessuna richiesta di perdono né desiderio di riconciliazione arrivano al suo cuore malandato. Gli insegnamenti, le virtù, la dottrina, il timor di Dio instillato in una rigorosa educazione cristiana non sono sufficienti ad animare l’intenzione del ragazzo che i suoi compagni credono ormai morto. “La mia religione – scrive – così com’era allora, era talmente impersonale e senza vita che, per quanto non abbia mai dubitato dell’oggettiva verità di ciò che mi era stato insegnato, non ho mai amato né temuto Dio. Non sentivo nessuna responsabilità verso di Lui, né mi scuoteva la prospettiva di incontrarLo. Mi ero passivamente accontentato di credere che Lui fosse presente, ma non mi nascondevo da Lui con timore e non aspiravo a Lui con affetto”.

La conversione per Benson ha la forma di un ritorno alla vita dopo un lunga inibizione affettiva verso l’oggetto riconosciuto e ammirato soltanto tramite la pura ragione. E’ stato un cattolico multiforme e tridimensionale, Benson, irriducibile alla dialettica fra tradizione e modernità. I suoi “Paradossi del Cattolicesimo” sembrano scritti apposta per trarre una sintesi dalla dialettica odierna interna alla chiesa. Ne “I Negromanti” ha fissato in forma narrativa le sue considerazioni sull’occultismo e la magia nera che aveva tratto dalle corrispondenze con amici devoti del lato oscuro, alcuni associati al leggendario Aleister Crowley. E’ stato autore di racconti dell’orrore e romanzi storici sullo scisma anglicano. Ha intrattenuto per anni una relazione di amicizia e una fittissima corrispondenza – un biografo definirà il rapporto “casto ma appassionato” – con l’eccentrico Frederick Rolfe, il “Baron Corvo” che nei salotti letterari più quotati dell’epoca faceva vanto della propria omosessualità. Le lettere sono poi state in gran parte distrutte dal fratello.

Negli anni brevi e febbrili della predicazione in Inghilterra, dopo l’ordinazione nella basilica di San Silvestro a Roma, ha incontrato un altro grande convertito, Cyril Martindale, il gesuita che troverà il registro e il linguaggio per raccontare le vite dei santi ai suoi contemporanei. E’ lui a scrivere la prima biografia di monsignor Benson, a soli due anni dalla morte. Dice che si tratta di una “biografia psicologica”, ché sarebbe impossibile rinchiudere la vita di un uomo del genere nei termini di una piatta cronologia. Non è strano che la mente del gesuita sia stata conquistata, anzi travolta, nel giro di pochi anni da Benson. Entrambi erano partecipi di una medesima sensibilità cristiana. Martindale si era convertito alla chiesa di Roma a quattordici anni. Una volta arruolato nella Compagnia di Gesù era stato mandato a Oxford, dove, secondo i piani, sarebbe iniziata la sua carriera di teologo. Ha abbandonato la prospettiva accademica quando a Oxford è arrivato un gruppo di soldati australiani feriti al fronte, e nell’assistenza ai malati ha trovato il fondo ancora inesplorato della sua vocazione. Di lui scrive Bernard Basset: “Era interamente assorbito dai bisogni del presente, sopra tutti quello di portare il messaggio dell’incarnazione a un mondo sofferente. Egalitario, altruista, inquieto, la sua mente è rimasta per sempre un insieme di variazioni su questo tema”. La chiesa di Martindale, il più vicino fra i sodali spirituali di Benson, quello a cui la madre aveva chiesto di raccogliere i materiali per una biografia, era un ospedale da campo.

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Attendere, un’arte che il nostro tempo ha dimenticato

Posté par atempodiblog le 1 décembre 2013

Attendere, un'arte che il nostro tempo ha dimenticato dans Avvento L-arte-dell-Attesa

Celebrare l’Avvento, significa saper attendere, e l’attendere è un’arte che, il nostro tempo impaziente, ha dimenticato. Il nostro tempo vorrebbe cogliere il frutto appena il germoglio è piantato; così, gli occhi avidi, sono ingannati in continuazione, perché il frutto, all’apparenza così bello, al suo interno è ancora aspro, e, mani impietose, gettano via, ciò che le ha deluse. Chi non conosce l’aspra beatitudine dell’attesa, che è mancanza di ciò che si spera, non sperimenterà mai, nella sua interezza, la benedizione dell’adempimento.

Dietrich Bonhoeffer

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Il beato Nunzio Sulprizio

Posté par atempodiblog le 1 décembre 2013

BEATO NUNZIO SULPRIZIO (giovane operaio)
i cui resti mortali si venerano nella Chiesa di San Domenico Soriano, Piazza Dante n.82, Napoli

Il beato Nunzio Sulprizio dans Beato Nunzio Sulprizio 8x07fcIl beato Nunzio Sulprizio nacque a Pescosansonesco (Abruzzo) il 13 aprile 1817.
Rimasto orfano, fu accolto in casa di uno zio, fabbro – ferraio, che lo sottopose ad un lavoro superiore alle sue forze. Ammalatosi, venne ricoverato a Napoli, nell’Ospedale degli incurabili e poi nel Maschio Angioino da un suo benefattore, dove morì a 19 anni, il 5 maggio 1826.
Il Sommo Pontefice Paolo VI lo dichiarò BEATO il 1° dicembre 1963.

PREGHIERA
O Dio, Padre degli orfani, e degli afflitti, sostegno degli operai, Tu, che nell’angelico Nunzio ti sei degnato di compiere cose mirabili, concedi alla tua Chiesa la gloria della Canonizzazione del Tuo servo fedele ed a me la grazia che ardentemente Ti domando …, perché, seguendo il Suo esempio, impari a saper sostenere le amarezze della vita e gli affanni del lavoro. Così sia.

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