Fëdor, il Papa e la verità nel volto di un bambino

Posté par atempodiblog le 28 décembre 2013

Fëdor, il Papa e la verità nel volto di un bambino
di Alessandro D’Avenia – Avvenire
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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Sulla sofferenza dei bambini Papa Francesco cita Dostoevskij come «un maestro di vita» e spiega che «l’unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché». «Signore, perché? Lui non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo». Alla domanda sulla sofferenza dei bambini: «Un maestro di vita per me è stato Dostoevskij, e quella sua domanda, esplicita e implicita, ha sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i bambini? Non c’è spiegazione. Mi viene questa immagine: a un certo punto della sua vita il bambino si “sveglia”, non capisce molte cose, si sente minacciato, comincia a fare domande al papà o alla mamma. È l’età dei “perché”. Ma quando il figlio domanda, poi non ascolta tutto ciò che hai da dire, ti incalza subito con nuovi “perché?”. Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che dà sicurezza. Davanti a un bambino sofferente, l’unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché. Signore, perché? Lui non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo».

Il Papa cita Fëdor Dostoevskij come maestro di vita, e non è la prima volta. Un autore di romanzi è considerato a tutti gli effetti qualcuno che può “in-segnare la vita”, perché la bellezza riconcilia la verità con la vita. La verità astratta, senza carne, solleva sensi di colpa o noia. Invece, quando la verità mantiene la sua dimensione carnale, seduce, perché si veste di bellezza incompiuta, che l’uomo riconosce proprio perché incompiuta, e proprio perché bellezza. In questi casi la vita, orfana e rintanata in un cantuccio, prende coraggio, esce fuori e va incontro alla verità fatta consimile. Ci capita leggendo un romanzo di dire: mi ha capito, mi ha salvato, è arrivato al momento giusto. La letteratura a volte, con la sua grazia, affianca l’impresa formidabile della Grazia. Ci riesce Dostoevskij. Nel citarlo il Papa evoca le brucianti pagine in cui Ivan Karamazov, nella sofferenza degli innocenti, scorge un segno dell’assenza di Dio e se ne serve per la sua ribellione. Quella del freddissimo Ivan verso il dolore innocente non è però com-passione ma denuncia, scusa, teoria progettata da un cuore incapace di amare con i fatti e bisognoso quindi di auto-giustificazione. Egli s’aggrappa a quel dolore non per alleviarlo, ma per usarlo. Prende le distanze da quel dolore per mettere a tacere la sua coscienza e Dio, ergendosi a giudice di un mondo e di un Dio sbagliati. Ivan non muove un dito, non si china sul dolore, ma lo lascia lì, per servirsene come atto di accusa e come certificato medico per il suo cuore gelido. Per Ivan il dolore innocente è la frontiera sbarrata a un Dio che non risponde ai perché dell’uomo, la frontiera che segna il confine della terra dell’uomo in cui Dio non può entrare perché non ha i documenti in regola e viene rimandato indietro. Su quella stessa frontiera lo lascia entrare il Papa che incontra proprio lì lo sguardo di Dio, un Dio con la carta d’identità in regola, e tanto di fotografia: Cristo. Anche Dostoevskij smaschera la “colpa originale” di Dio e la rinvia alla libertà dell’uomo. Nelle pagine dello stesso romanzo il monaco Zosima ricorda il fratello Markel, morto giovane. Anche lui, come Ivan, lontano da Dio. Markel però, grazie al suo male, ha una conversione profonda fino a dire «in verità ognuno è colpevole dinanzi a tutti, per tutti e per tutto. Io non so come spiegarlo, ma sento fino allo spasimo che è così». Proprio questa consapevolezza gli ha dato la gioia del Paradiso, perché gli ha aperto occhi e cuore all’Amore. Egli si fa carico del dolore innocente come colpevole: veste così i panni del Dio che nella notte di Natale veste quelli dell’uomo. Sembrano parole provenienti da un mondo altro quelle di Markel, ma sono le parole che usano i santi definendo la propria essenza incapace di amare e benedire. Prima ancora di riferirsi ai peccati effettivamente commessi, essi dicono “sono un peccatore”. E lo dicono proprio perché la santità di Dio li ha toccati.

Sono due le possibilità che Dostoevskij prospetta di fronte al male, all’ingiustizia, al dolore: Ivan, l’uomo che resta uomo, o Markel, l’uomo che è trasformato in un altro Cristo. O si maledice un mondo siffatto, nel quale siamo convocati senza consenso, trincerandosi dietro un legittimo atto di accusa al mondo e a chi l’ha fatto, allontanandocene, accusando la storia fino a disprezzarla: si diventa freddi, rigidi, effettivamente “cattivi”; oppure si benedice il mondo e si assume su di sé la colpa, rimanendo nel dinamismo della storia, accettando il male che ogni giorno riserva (la morte si sconta vivendo), lasciando che la pena ferisca la carne e a contatto con essa, in Cristo, venga superata chinandosi e abbracciando: si diviene più aperti ed effettivamente buoni, di una bontà che non è nostra. Maledire gli altri e il mondo ci porta a maledire Dio e in ultima istanza noi stessi. Ivan. Benedire gli altri e il mondo invece è essere dentro lo sguardo che Dio ha sulle cose e le persone, è essere liberi dal giudizio, e noi saremo giudicati come abbiamo giudicato, salderemo il debito che abbiamo imputato ai nostri debitori. Markel.

Cristo è la via. Non giudica la storia, la prende su di sé con tutto il suo male e chiede di unirsi a lui, per aggiungere liberamente ciò che “manca” alla sua com-passione per l’uomo. Da lì nasce la tenerezza di cui parla il Papa, che altrimenti rischia di esser scambiata per inconcludente emozione verso chi soffre. Tenerezza è affermare la bellezza di ogni persona voluta da Dio (marito, moglie, amico, parente, cliente, passante, estraneo…) anche se ne abbiamo perso le ragioni. Proprio questa è la conversione di Markel a cui Ivan non approda, proprio questo dono è venuto a farci Dio: la trasformazione della nostra incapacità di vedere bene il mondo e il bene nel mondo. Tenero è un Dio che non risponde al nostro perché sul male con un discorso, una teoria, che non ci darebbe soddisfazione se non per poco, perché il male resterebbe lì, ma ci soddisfa col suo sguardo, col suo volto di bambino, con una manina tesa a stringere un pollice adulto. Nessuno si sente giudicato da un neonato, ma solo trasformato, vinto nelle sue resistenze, ammaestrato.

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