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Eritrea, una voce dall’inferno

Posté par atempodiblog le 7 novembre 2013

Eritrea, una voce dall'inferno dans Articoli di Giornali e News mnd3La prima colonia italiana, l’Eritrea (1889-1941), è oggi ritenuta il paese africano dove i diritti dell’uomo sono più violati e fornisce il maggior numero dei profughi africani che ogni giorno sbarcano (se non muoiono nel deserto o in mare) a Lampedusa e sulle coste della Sicilia. Non è nel caos politico-militare come Libia e Somalia, vittime di bande tribali o islamiste. L’Eritrea è sotto il tallone di Isaias Afewerki, storico capo del movimento indipendentista eritreo, presidente dal 1993 (anno dell’indipendenza dall’Etiopia), che ha imposto un regime mono-partitico, eliminato i media indipendenti e schiacciato l’opposizione. Il popolo vive in un regime di terrore e di progressivo impoverimento, fino a denutrizione e fame diffuse, in un paese con 5 milioni di abitanti e 121.000 kmq (più di un terzo dell’Italia), che aveva una fiorente produzione agricola. Ho intervistato un profugo eritreo di 67 anni giunto in Italia all’inizio del 2013. Parla abbastanza bene l’italiano (aveva studiato nella scuola italiana di Asmara). È pienamente d’accordo con il “Coordinamento Eritrea Democratica” che nell’ottobre scorso ha promosso una manifestazione a Roma per protestare contro il governo eritreo, che è la causa prima delle migliaia di eritrei che tentano tutte le vie pur di fuggire dal loro paese. Gli chiedo com’è la situazione in cui si trova il popolo eritreo. Ecco la sua risposta:

«Abbiamo combattuto contro gli etiopi per avere la democrazia, la libertà, lo sviluppo e ci ritroviamo con un dittatore che peggio di così non credo sia possibile. Il presidente Afewerki ha studiato in Cina ai tempi di Mao Tse-tung ed è tornato in Eritrea per combattere la guerra di liberazione dall’Etiopia. Aveva una formazione e idee comuniste ed ha combattuto con l’aiuto di Russia e Cina; poi, acquistata l’indipendenza nel 1993, ha continuato con quei legami, consiglieri e aiuti, realizzando in Eritrea un regime maoista o staliniano che sta soffocando il popolo. Il paese è governato da un uomo solo. Anche i suoi collaboratori, se solo sospetta che tramano contro di lui, li fa gettare nelle terribili prigioni dei detenuti politici, dove marciscono migliaia di veri o presunti oppositori, che sono l’élite del paese. Dopo la guerra con l’Etiopia per i confini nel 1998-2000, quasi tutti i ministri del suo governo si sono uniti e hanno protestato col Presidente perché non si doveva fare la guerra (che ha distrutto le poche industrie che esistevano) e perché era necessario andare verso la libertà di espressione. Il presidente li ha fatti arrestare tutti, mi pare 12 su 15, e gettare in carcere e oggi, con il sistema durissimo di quelle prigioni (dicono sotto terra), almeno la metà sono già morti. Sono migliaia i prigionieri politici, l’Onu li quantifica (giugno 2012) tra i 5.000 e i 10.000, ma io penso molti di più.

«Dopo la guerra con l’Etiopia, Afewerki ha militarizzato il paese rendendolo una vera prigione per tutti. Non ci sono più giornali né radio libere, chi parla male del governo è arrestato, chi sente radio o TV straniere lo stesso.
Nelle famiglia c’è lo spionaggio di quel che si dice, di quel che si fa, di chi si incontra.
Tutti si chiudono in se stessi e si cerca di sopravvivere. I giovani e le ragazze che arrivano ai 18 anni devono fare il servizio militare obbligatorio, che si sa quando comincia ma non quando finisce. Non ci sono più università, ne è rimasta una sola del governo, ma è un campus per pochi privilegiati, che fanno gli esercizi militari e studiano. Nessuno può emigrare prima dei 50 anni. Dopo sì, perché hanno interesse a mandare fuori gli anziani, che poi aiutano i parenti e quindi l’Eritrea.

«Con l’Etiopia non c’è guerra, ma i confini sono chiusi, nessuno passa, nessuno commercia, non si può nemmeno telefonare in Etiopia. Se un eritreo vuole telefonare ad un suo parente in Etiopia, deve telefonare in Italia e pregare qualcuno che telefoni in Etiopia per lui. All’inizio del 2013 c’è stato un tentativo di ribellione. Generali e colonnelli si sono ribellati e dai confini con l’Etiopia sono arrivati fino a Decameré e poi ad Asmara, ma sono stati fermati dai carri armati. Ne hanno ammazzati molti, altri sono fuggiti o in prigione. Non c’è persecuzione contro i cristiani, la Chiesa copta, dopo qualche tentativo di ribellarsi, adesso è succube e manovrata dal governo che aveva tentato di fare un altro patriarca, ma poi il popolo si ribellava e hanno fatto marcia indietro. La Chiesa cattolica è l’unica che ha preso posizione con i suoi vescovi denunziando la violazione della libertà e dei diritti dell’uomo. Cinque anni fa il governo varò una legge che penalizzava fortemente le religioni, i vescovi cattolici erano gli unici che dichiaravano di non essere d’accordo e la gente diceva: “Meno male che i cattolici, piccola minoranza, hanno il coraggio di resistere alla dittatura”. Poi si unirono anche i copti e i musulmani.

«Il governo non ha nazionalizzato l’economia perché chi lavora, chi commercia, chi avvia iniziative è sempre il partito. L’Eritrea esporta un po’ di pesce e di prodotti agricoli pregiati e ha un certo numero di turisti. Ultimamente ci sono miniere d’oro, prodotto d’esportazione. La ferrovia costruita dall’Italia fra Massawa e Asmara, che passa dal mare ai 2300 metri di altezza della capitale, era una meraviglia di gallerie, ponti, viadotti. Adesso c’è qualche vecchia littorina italiana usata quasi solo per turismo. Asmara è stata definita la più bella capitale dell’Africa ed è vero. Ci sono chiese, palazzi, piazze, viali, dove si vede l’influsso degli anni Trenta dell’Italia e dell’Europa di quel tempo. Gli architetti italiani si sono sbizzarriti a costruire secondo tutti gli stili architettonici che c’erano in Europa fra le due guerre mondiali. E poi c’è il sole, il clima meraviglioso in tutte le stagioni, le regioni dell’altopiano eritreo che contengono anche ruderi del passato cristiano di molti secoli addietro, le famose chiese costruite fra le rocce e nelle rocce. Ma oggi tutto è in mano al governo, anche commercianti e negozianti lavorano per il governo a 500 nafka al mese (cioè circa 5 Euro), perché importa solo il governo. L’Eritrea potrebbe vivere bene se fosse libera, ma com’è adesso sta morendo».

di Piero Gheddo – La nuova Bussola Quotidiana

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Il primato del Santo Padre nel cuore di Maria

Posté par atempodiblog le 6 novembre 2013

Il primato del Santo Padre nel cuore di Maria dans Fede, morale e teologia uutw

Se noi vogliamo amare molto il Papa, quindi, dobbiamo chiedere questa grazia alla Madonna, perché chi può amare il Papa come lo ama Lei?
Il Papa è la nostra roccia, una roccia evangelica, una roccia divina, perché creata dalla Parola viva di Gesù, Verbo incarnato: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt l6,l8).
Giustamente san Francesco di Sales diceva che «Gesù Cristo, la Chiesa e il Papa sono tutt’uno». È impossibile dividerli. Essi sono la «testata d’angolo» (Lc 20,17) dell’umanità, del mondo, dell’universo da salvare.
Per questo c’è tanta superficialità nelle parole di chi dice che accetta Gesù Cristo e la Chiesa, ma non il Papa.
Quando Napoleone tenne prigioniero il papa Pio VII, per decidere alcune questioni sulla Chiesa, radunò egli stesso a Parigi molti vescovi di Francia e d’Italia, e voleva che deliberassero sui punti in questione.
Ma i Vescovi rimasero in assoluto silenzio. Napoleone insistette e fece forti pressioni. Nulla. Allora cominciò a impazientirsi e a minacciare. A questo punto il più anziano dei Vescovi si alzò e disse con molta calma: «Sire, aspettiamo il Papa. La Chiesa senza il Papa non è la Chiesa!».
Soltanto il Papa, il Successore di san Pietro, insegna il Catechismo, «è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (n.882).

Non può sbagliare
Il Papa è l’unico maestro sulla terra che non possa mai sbagliare nell’insegnamento della fede e della morale.

«La fede romana – scriveva san Girolamo – è inaccessibile all’ errore». Ed è per questo che san Cipriano poteva affermare: «La Chiesa di Roma è radice e madre di tutte le Chiese». Soltanto chi si trova unito al Papa è sicuro di essere nella verità infallibile di ciò che deve credere e operare per salvarsi.
È Gesù stesso che volle l’infallibilità di san Pietro: «Ho pregato perché non venga meno la tua fede» (Lc 22,32). È Gesù stesso che lo volle nostra guida infallibile: «Tu conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,32).
Per questo il Papa è l’unico maestro universale e indefettibile; anzi, è l’unico che può «confermare la fede» dei cristiani, garantendola infallibilmente da ogni errore dottrinale e morale. In questo senso, sulla terra il Papa, ogni Papa, è il sommo teologo, il sommo biblista, il sommo moralista.
Soltanto la sua parola di maestro universale è parola divinamente garantita da Cristo «Via, Verità e Vita» (Gv l4,6).
Per questo san Tommaso d’Aquino, chiamato «maestro del mondo», era pronto a rinunciare a qualsiasi pensiero dei grandi Santi Padri, di fronte al pensiero del Papa.

Il fiasco dell’Inferno
Contro il Papato faranno fiasco non solo tutti gli uomini che volessero lottarlo, ma anche tutto l’Inferno. È sempre Gesù che lo garantisce: «Le porte dell’Inferno non prevarranno mai» (Mt l6,l8).
E non solo i nemici non prevarranno, ma si sfracelleranno su questa «testata d’angolo, roccia contro cui si sbatte e pietra di rovina. Difatti, contro di essa andranno ad urtare coloro che non hanno voluto credere al Vangelo…» (1 Pt 2,7-8).
Contro di essa andò a sbattere Lutero, l’impenitente eresiarca, che offendeva e malediceva il Papa come un forsennato: «O Papa, io sarò la tua morte!… Sì, io, papa Lutero I, per comandamento di Nostro Signore Gesù Cristo e dell’Altissimo Padre, ti mando all’Inferno!…».
Povero e infelice Lutero!
Contro il Papa si scagliò anche il terribile Napoleone. Il Papa, inerme, gli disse: «Il Dio d’altri tempi vive ancora. Egli ha sempre stritolato i persecutori della Chiesa…».
Sull’isolotto di sant’Elena, Napoleone ricordava queste parole, e diceva a un amico: «Ah, perché non posso gridare da qui, a quelli che hanno qualche potere sulla terra: Rispettare il rappresentante di Gesù Cristo! Non toccate il Papa: altrimenti sarete annientati dalla mano vendicatrice di Dio. Anzi, proteggete la Cattedra di Pietro!».

«I falsi maestri»
Scrivendo a Timoteo, san Paolo insegna questa importante verità: quando non si sopporta più la sana dottrina, ci si procura «una folla di maestri» che consentano di «assecondare le proprie passioni», e che parlino di fantasie anziché di verità (cf 2 Tm 4,3-4).

Ci siamo. Basta leggere certi libri di teologi ritenuti «grandi e celebri» per dare ragione a san Paolo a occhi chiusi. E questi teologi sono davvero «una folla» e hanno messo su un mercato enorme di libri e riviste che sono pressoché tutti simili a cibi guasti, avariati o sospetti. Poveri gli incauti che ci cascano a comprarli!
Questi teologi sono «i falsi maestri» di cui parlano con parole terribili, anzi, spaventose, san Pietro e san Paolo (cf 2 Pt 2,2-ll; l Tm 1,3-7; 4,1-ll; 6,3-5; 2 Tm 3,1-7; 4,1-5). Questi «falsi maestri» vengono chiamati dal papa Paolo VI «teologi da camera» e «autoteologi», e di essi – dice ancora il Papa – è necessario «diffidare», perché fanno fare «naufragio nella fede» (l Tm l,l9).

Pregare per il Papa
La piccola Giacinta di Fatima, prima della morte ebbe dalla Madonna una visione in cui vide il Papa in mezzo a gravissime sofferenze.

La piccola veggente raccomandò con tutte le forze, da parte della Madonna, di pregare per il Papa, di soffrire con lui e per lui, che deve pascere il gregge universale (Gv 21,15-17).
Si sa che sempre ci sono state anime generose che hanno offerto e immolato la loro vita per il Papa. San Vincenzo Strambi, ad esempio, confessore del papa Leone XII, si offrì come vittima per far vivere più a lungo il Papa. E così avvenne: il Papa visse per altri cinque anni, mentre san Vincenzo morì cinque giorni dopo la sua offerta.
Guido Negri, intrepido soldato, morì al fronte dopo aver offerto la sua vita per il Papa.
Noi tutti possiamo dimostrare al Papa il nostro filiale attaccamento, come lo dimostrava san Massimiliano M. Kolbe, che considerava ogni volta una grazia entusiasmante poter vedere il Papa, accostarsi vicino, baciargli la mano; come lo dimostrava san Pio da Pietrelcina, che voleva avere sempre l’immagine del Papa accanto a quella della Madonna, e poco prima di morire scrisse una lettera al Papa per rinnovargli la sua dedizione e fedeltà totale.

Tratto da: Maggio mese di Maria di padre Stefano Maria Manelli FI. Casa Mariana Editrice

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Breve triduo a Sant’Andrea Avellino

Posté par atempodiblog le 6 novembre 2013

Breve triduo a Sant’Andrea Avellino
In onore del glorioso protettore contro la morte improvvisa e accidenti apoplettici

Questo triduo può essere recitato in preparazione della festa del santo, il 10 novembre, dal 7 al 9 novembre, o in qualsiasi momento per le proprie necessità.

Breve triduo a Sant'Andrea Avellino dans Preghiere lgus
Corpo di sant’Andrea Avellino venerato nella Basilica di san Paolo Maggiore di Napoli

Nel nome del Padre…

I. Gloriosissimo Sant’ Andrea Avellino, che siete venerato come protettore contro la morte improvvisa, fiduciosamente vi preghiamo di preservarci da un male così pericoloso e frequente.

Pater, Ave, Gloria.

- Per intercessione di Sant’ Andrea, o Signore, liberaci dalla morte improvvisa.

II. Gloriosissimo Santo, se mai dovessimo essere colpiti da malattie che mettono improvvisamente in pericolo la nostra vita, vi preghiamo di ottenerci almeno il tempo di ricevere i santi Sacramenti e morire in grazia di Dio.

Pater, Ave, Gloria.

- Per intercessione di Sant’ Andrea, o Signore, liberaci dalla morte improvvisa.

III. Gloriosissimo santo, che patiste prima di morire, per gli assalti del demonio, una fiera agonia, dalla quale vi liberarono la beatissima Vergine e san Michele Arcangelo: devotamente vi preghiamo di aiutarci nel punto tremendo della morte nostra.

Pater, Ave, Gloria.

- Per intercessione di Sant’ Andrea, o Signore, liberaci dalla morte improvvisa.

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Giuseppe Moscati, la carità trasforma il mondo

Posté par atempodiblog le 6 novembre 2013

La carità trasforma il mondo
Giuseppe Moscati preferì il lavoro nell’ospedale alle glorie accademiche. Fu un medico, un laico, un cristiano che si adoperò per tutta la sua vita in un “amore” senza limiti per i poveri ammalati, membra sofferenti di Cristo.

di Maria Di Lorenzo – Madre di Dio

Giuseppe Moscati, la carità trasforma il mondo dans Pompei Blessed-Moscati

«Da ragazzo guardavo con interesse all’Ospedale degli incurabili, che mio padre mi additava da lontano dalla terrazza di casa, ispirandomi sentimenti di pietà per il dolore senza nome, lenito in quelle mura. Un salutare smarrimento mi prendeva e cominciavo a pensare alla caducità di tutte le cose, e le illusioni passavano, come cadevano i fiori degli aranceti che mi circondavano. Allora compreso tutto negli iniziati studi letterari, non sospettavo e non sognavo che, un giorno, in quell’edificio bianco, alle cui vetrate si distinguevano appena, come bianchi fantasmi, gli infermi ospitati, io avrei ricoperto il supremo grado clinico».
Ai tempi di Giuseppe Moscati, l’Ospedale degli incurabili era uno dei più famosi d’Europa. Era costituito da vari edifici, circondati da giardini, chiostri e fontane. Lì vi tenevano corsi universitari e vi insegnavano uomini famosi, della statura di Gaetano Rummo e Antonio Cardarelli. Oltre ad essere casa di cura era anche un centro di fede, pietà e misericordia. Un luogo fortemente legato alla vicenda e alla memoria di Giuseppe Moscati, il medico santo. Che aveva rinunciato alla cattedra universitaria per stare vicino agli ammalati, vero samaritano del Cristo sofferente. 

Ricco di virtù
Giuseppe Moscati nacque a Benevento il 25 luglio 1880; l’8 dicembre 1888, solennità dell’Immacolata, ricevette la Prima Comunione, e dopo aver conseguito alcuni anni dopo la maturità classica con ottimi voti, si iscrisse alla Facoltà di medicina: il 4 agosto 1903 conseguì la laurea con una tesi sull’urogenesi epatica, con il massimo dei voti e la lode, mentre la tesi veniva dichiarata degna di pubblicazione.
A 31 anni il dott. Moscati vinse il concorso di coadiutore ordinario negli Ospedali riuniti di Napoli, e da allora l’ospedale e i poveri che visitava gratuitamente a domicilio furono tutta la sua vita.
Libero da ogni ambizione terrena, dedicò tutto se stesso, il cuore e la mente, ai suoi infermi ed anche all’educazione dei giovani medici. Gruppi di giovani studenti e di giovani dottori infatti lo seguivano di letto in letto nelle sue visite agli ammalati, per poter apprendere il segreto della sua arte.
Ma questo “segreto” in realtà era assai semplice. Esso, prima ancora che nella scienza medica che pur possedeva perfettamente, era racchiuso nella sua vita di carità e nel profondo spirito di preghiera che animava la sua giornata terrena.
Scrivendo un giorno ad un collega, Moscati gli dice: «Pensate che i vostri infermi hanno soprattutto un’anima, a cui dovete sapervi avvicinare, e che dovete avvicinare a Dio; pensate che vi incombe l’obbligo di amore allo studio perché solo così potete adempiere al grande mandato di soccorrere le infelicità».
Molti di quelli che l’avevano conosciuto lo ricordavano in preghiera, inginocchiato dinanzi al Santissimo Sacramento nella chiesa del Gesù nuovo o di santa Chiara, particolarmente al mattino, prima di recarsi in ospedale. «Quanta dolcezza provo nel comunicarmi ai piedi della Madonna, mi sembra di diventare più piccolo e le dico le cose come sono». 

Devotissimo di Maria
L’Eucaristia era il centro della sua vita e a questa si univa una profonda devozione alla Madre di Dio. È stato ritrovato a tal proposito un commento di Giuseppe Moscati ai versetti dell’Ave Maria, che ci fa comprendere meglio la sua spiritualità mariana. Lo scritto non è datato e porta il titolo: Come recito l’Ave Maria.
In esso il futuro Santo scrive: «Per evitare distrazioni, e per recitare con maggiore fervore l’Ave Maria, sono solito riportarmi col pensiero ad una immagine, o meglio al significato di una immagine della beatissima Vergine, mentre pronuncio i vari versetti della preghiera contenuti nel Vangelo di Luca. E prego in questo modo: Ave, Maria, gratia plena… Il mio pensiero corre alla Madonna delle Grazie, così come è rappresentata nella chiesa di santa Chiara. Dominus tecum… Mi si presenta alla mente la Santa Vergine sotto il titolo del rosario di Pompei. Benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus… Ho uno slancio di tenerezza per la Madonna sotto il titolo del buon consiglio, che mi sorride così come è effigiata nella chiesa delle Sacramentine. Innanzi a questa immagine di lei ed in questa chiesa io feci abiura degli affetti impuri terreni. Benedicta tu in mulieribus… E se sto davanti al Tabernacolo mi rivolgo al Santissimo Sacramento: Benedictus fructus ventris tui, Jesus.
Sancta Maria, Mater Dei… Volo con l’affetto alla Madonna sotto il privilegio della Porziuncola di Francesco di Assisi. Ella implorò a Gesù Cristo il perdono dei peccatori; e Gesù le rispose di non poterle nulla negare, perché sua Madre! Ora pro nobis peccatoribus… Ho lo sguardo alla Madonna quando apparve a Lourdes, dicendo che bisognava pregare per i peccatori… Nunc et in hora mortis nostrae… Penso alla Madonna venerata sotto il nome del Carmine, protettrice della mia famiglia; confido nella Vergine che sotto il titolo del Carmine arricchisce di doni spirituali i moribondi e libera le anime dei morti nel Signore!».

Scienziato e santo
Il 12 aprile 1927, Martedì santo, il prof. Moscati, dopo aver partecipato, come ogni giorno, alla Messa e aver ricevuto la Comunione, trascorse la mattinata in ospedale per poi tornare a casa. Consumò, come sempre, un frugale pasto e poi si dedicò alle consuete visite ai pazienti nel suo studio. Ma verso le tre del pomeriggio si sentì male, si adagiò sulla poltrona, e incrociate le braccia sul petto spirò serenamente. Non aveva ancora compiuto 47 anni.
La notizia della sua morte si sparse velocemente, e il dolore di tutti fu grande. Soprattutto i poveri lo piansero a dirotto, perché con lui avevano perso anche il loro più grande benefattore.
La devozione per il “Medico santo” cominciò a crescere di giorno in giorno finché, tre anni dopo la sua morte, il 16 novembre 1930, in seguito all’istanza di varie personalità del clero e del laicato, l’Arcivescovo di Napoli concesse il trasferimento del suo corpo dal cimitero di Poggioreale alla chiesa del Gesù nuovo, tra due ali imponenti di folla. 

16 luglio 1931
La commozione e il rimpianto della gente si trasformarono presto in preghiera e in richieste di grazie fisiche e spirituali, che molti asserirono di aver ricevuto per la sua intercessione, finché il 16 luglio 1931 iniziarono i processi informativi presso la Curia di Napoli, primo atto ufficiale nel cammino verso la sua canonizzazione.
Dichiarato Venerabile nel 1973, fu beatificato da Paolo VI il 16 novembre 1975 e canonizzato da Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987, mentre era in corso a Roma la VII Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, che trattava della “Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, a 20 anni dal Concilio vaticano II”. Non poteva esserci una coincidenza migliore: Giuseppe Moscati era un laico che aveva svolto la sua missione nella Chiesa e nel mondo.

La sua festa liturgica venne fissata, in seguito, al 16 novembre di ogni anno
La canonizzazione del medico Giuseppe Moscati era stata fortemente auspicata da studiosi, medici e studenti universitari, che avevano davanti agli occhi come guida e modello la sua splendida figura di scienziato e di uomo di fede, impegnato a lenire le sofferenze degli uomini e a condurre gli ammalati a conoscere l’amore di Cristo.

Agostino Gemelli
Come aveva già intuito appena due anni dopo la sua morte, nel 1930, padre Agostino Gemelli che in un articolo apparso su Vita e Pensiero tracciava un ritratto di Moscati definendolo «una fusione perfetta e cosciente del cristiano, dello scienziato e dell’uomo». Un fenomeno, sottolineava Gemelli, abbastanza raro tra i cultori delle scienze mediche, ma Moscati «nel riconoscimento che Dio è autore dell’ordine materiale e di quello soprannaturale aveva trovato il mezzo per giungere alle armonie di scienza e fede». Come lui stesso, il “Medico santo”, aveva compreso e quindi affermato in uno scritto davvero illuminante del 1922: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo…».

Divisore dans San Francesco di Sales

Freccia dans Viaggi & Vacanze Novena a San Giuseppe Moscati (da recitarsi dal 7 al 15 novembre)

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La pace: nostra amica diletta

Posté par atempodiblog le 5 novembre 2013

La pace: nostra amica diletta
di Sant’Agostino
Tratto dal: Bollettino trimestrale Santa Chiara da Montefalco, n.1 – 2011 

La pace: nostra amica diletta dans Fede, morale e teologia 1rgvE’ il momento questo di esortare la Carità vostra ad amare la pace secondo tutte le forze di cui il Signore vi fa dono, e a pregare il Signore per la pace. La pace sia la nostra diletta, la nostra amica; possiamo noi vivere, con essa nel cuore, in casta unione, possiamo con lei gustare un riposo pieno di fiducia, un sodalizio senza amarezze. Vi sia con essa indissolubile amicizia. Sia il suo abbraccio pieno di dolcezza. Non è difficile possedere la pace. E’, al limite, più difficile lodarla. Se la vogliamo lodare, abbiamo bisogno di avere capacità che forse ci mancano; andiamo in cerca delle idee giuste, soppesiamo le frasi. Se invece la vogliamo avere, essa è lì, a nostra portata di mano e possiamo possederla senza alcuna fatica.
Quelli che amano la pace vanno lodati.
Quelli che la odiano non vanno provocati col rimprovero: è meglio cominciare a calmarli con l’insegnamento e con la strategia del silenzio. Chi ama veramente la pace ama anche i nemici della pace.
Facciamo un esempio: tu che ami questa luce visibile non ti adiri con i ciechi ma li compiangi. Ti rendi conto di quale bene tu godi, di quale bene essi sono privi e ti appaiono degni di pietà. Davvero non li condanneresti, anzi, se ne avessi la possibilità, che so io, una capacità medica, o anche un farmaco utile, ti affretteresti a far qualcosa per risanarli. Così, se ami la pace, chiunque tu sia, abbi compassione di chi non ama quello che tu ami, di chi non possiede quello che possiedi tu. Facciamo in modo di aiutare con ogni mezzo i malati d’occhi, con ogni sforzo, con ogni tentativo: anche loro malgrado, anche se resistono alla cura, e saranno felici quando avranno riacquistato la vista! Supponi che il malato si irriti con te.
Non stancarti di aiutarlo standogli vicino.
Se invece ami, tieni, possiedi la pace, puoi invitarne quanti vuoi alla partecipazione di questo possesso. Anzi, i suoi confini si allargano quanto più cresce il numero di coloro che la posseggono. Una casa terrena non contiene più di un certo numero di abitanti. In quanto alla pace essa cresce in proporzione del numero di chi ne usufruisce.

Che cosa buona è amare! Amare è già possedere.
E chi non vorrebbe veder crescere ciò che ama? Se vuoi con te pochi partecipi della pace, avrai una pace ben limitata. Ma se vuoi veder crescere questo tuo possesso, aumenta il numero dei possessori. O miei fratelli, in che misura è noto quello che vi ho detto, che amare la pace è possedere un bene; che lo stesso amarla è già possederla? Non ci sono parole adatte a magnificare, non ci sono sentimenti adeguati a meditare questa cosa straordinaria che amare è possedere. Considera gli altri beni per cui gli uomini si accendono di cupidigia. Li puoi vedere: c’è chi ama i terreni; chi l’argento, chi l’oro, chi la numerosa prole, chi case ricche, ben arredate, chi fondi molto ameni e di gran valore. Chi ama queste cose non per il fatto che le ama anche le possiede; può esserne totalmente sprovvisto chi le ama. Ma anche se non può avere, ama, si strugge dal desiderio di avere. Se poi comincia a possedere qualcosa è tormentato dal timore di perderlo. C’è chi ama gli onori, il potere. Quanti privati cittadini aspirano a raggiungere il potere! Ma il più delle volte si trovano all’ultimo giorno della loro vita senza aver raggiunto ciò che volevano. Allora, che prezzo avrà quel bene che potrai possedere appena lo amerai? L’acquisto del nostro tesoro non richiede prezzo. Non devi andare in cerca di un protettore per conseguirlo. Eccolo lì dove tu sei: basta che ami la pace, ed essa istantaneamente è con te.
La pace è un bene del cuore e si comunica agli amici, ma non come il pane. Se vuoi distribuire il pane, quanto più numerosi sono quelli per cui lo spezzi, tanto meno te ne resta da dare.
La pace invece è simile al pane del miracolo che cresceva nelle mani dei discepoli mentre lo spezzavano e lo distribuivano. E intanto abbiate la pace tra voi, fratelli. Se volete attirare gli altri alla pace, abbiatela voi per primi; siate voi anzitutto saldi nella pace. Per infiammarne gli altri dovete averne voi, all’interno, il lume acceso.
E tu, amico della pace, rifletti, e gusta per primo l’incanto della tua diletta. Ardi d’amore tu, così sarai in grado di attirare un altro allo stesso amore, in modo che egli veda ciò che tu vedi, ami ciò che tu ami, possegga ciò che tu possiedi. E’ come se ti parlasse la pace, la tua diletta, e ti dicesse: “Amami e mi avrai sempre. Attira qui ad amarmi tutti quelli che puoi: per un amore casto, integro e permanente; attira tutti quelli che puoi. Essi mi troveranno, mi possederanno, troveranno in me la loro gioia.
Quelli che non vogliono venire è perché non hanno occhi per vedere. Non vogliono venire perché il fulgore della pace abbaglia l’occhio malato della discordia”.
Bisogna procedere, nella cura, con precauzione, con delicatezza. Nessuno attacchi briga con loro. Nessuno voglia con la polemica difendere neanche la sua stessa fede. Dalla disputa può scattare una scintilla di lite ed ecco data l’occasione a chi la cerca. Insomma, se anche devi sentire un’ingiuria, tollera, sopporta, passa oltre. Ricordati che sei in funzione di medico.

Sei amico della pace?
Allora stà interiormente tranquillo con la tua amata. “Così – dirai – non c’è da far nulla?”. Certo che hai qualcosa da fare: elimina i litigi. Volgiti alla preghiera. Non respingere dunque l’ingiuria con l’ingiuria ma prega per chi la fa. Vorresti ribattere, parlare a lui, contro di lui.

Invece parla a Dio di lui.
Vedi che non è esattamente il silenzio che t’impongo. Si tratta di scegliere un interlocutore diverso; quello al quale tu puoi parlare tacendo: a labbra chiuse ma col grido nel cuore.
Dove il tuo avversario non ti vede, lì sarai efficace per lui. A chi non ama la pace e vuol litigare rispondi così con tutta pace: “Di quello che vuoi, odia quanto vuoi, detesta quanto ti piace, sempre mio fratello sei. Perché ti adoperi per non essere mio fratello? Buono, cattivo, volente, nolente, sempre mio fratello sei”.

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L’olio dei farisei

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2013

L'olio dei farisei dans Citazioni, frasi e pensieri qakx

“Nessun uomo può essere veramente buono finché non conosce la propria malvagità, o quella che potrebbe avere; finché egli non ha esattamente compreso quale diritto egli abbia di esprimere tutti quei giudizi e questo disprezzo, e di parlare di ‘criminali’ come se fossero scimmie in una foresta lontana mille miglia; [...] finché egli non ha spremuto dalla sua anima l’ultima goccia dell’olio dei farisei; finché la sua unica speranza è proprio di aver catturato, in un modo o nell’altro, un criminale e di tenerlo chiuso al sicuro nel suo stesso corpo”.

-Gilbert Keith Chesterton-

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I riflessi morenti di un fuoco che deve incendiare il mondo

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2013

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“Il portiere della storia non guarda le loro ragioni, ma guarda i loro visi. Per cancellare di colpo tante immagini deprimenti bastano dieci visi di monaci perduti in fondo  ad un monastero o quella contadina spagnola che intravidi un giorno nel più fitto segreto di una chiesetta di Toledo con le braccia allargate in un gesto sovrano, eretta come una regina, mentre pregava in ginocchio. Ma bisogna dunque frugare nei monasteri e nelle cappelle castigliane per raccogliere i riflessi morenti di un fuoco che deve incendiare il mondo?”.

Léon Bloy

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Nel piccolo cielo dell’anima

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2013

Nel piccolo cielo dell'anima dans Citazioni, frasi e pensieri dlua

Quelli che sanno rinchiudersi nel piccolo cielo della loro anima, ove abita Colui che la creò e che creò pure tutto il mondo, e si abituano a togliere lo sguardo e a fuggire da quanto distrae i loro sensi, vanno per buona strada e non mancheranno di arrivare all’acqua della fonte”.

Santa Teresa d’Avila

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In autunno

Posté par atempodiblog le 3 novembre 2013

In autunno dans Citazioni, frasi e pensieri autunno

In autunno tutto ci ricorda il crepuscolo. E tuttavia mi sembra la stagione più bella; volesse il cielo allora, quando io vivrò il mio crepuscolo, che ci fosse qualcuno che mi ami come io ho amato l’autunno”.

Søren Kierkegaard

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Il Papa: nessun peccato può cancellarci dal cuore di Dio, lasciamoci trasformare da Gesù

Posté par atempodiblog le 3 novembre 2013

“Non c’è peccato o crimine” che possa “cancellare dalla memoria e dal cuore di Dio uno solo dei suoi figli”.
E’ quanto affermato da Papa Francesco all’Angelus in Piazza San Pietro, gremita di fedeli come di consueto la domenica. Il Papa si è soffermato sull’incontro tra Gesù e il pubblicano Zaccheo narrato dal Vangelo per ribadire che Dio sempre aspetta di veder rinascere nel cuore dei peccatori “il desiderio del ritorno a casa”.

di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Il Papa: nessun peccato può cancellarci dal cuore di Dio, lasciamoci trasformare da Gesù  dans Commenti al Vangelo j8fzUn incontro che cambia la vita per sempre. Papa Francesco si è soffermato all’Angelus sull’incontro tra il Signore e il pubblicano Zaccheo. Incontro che avviene a Gerico, mentre Gesù è in cammino verso Gerusalemme:

“Questa è l’ultima tappa di un viaggio che riassume in sé il senso di tutta la vita di Gesù, dedicata a cercare e salvare le pecore perdute della casa d’Israele. Ma quanto più il cammino si avvicina alla meta, tanto più attorno a Gesù si va stringendo un cerchio di ostilità”.

Eppure, ha proseguito, proprio a Gerico accade “uno degli eventi più gioiosi narrati da san Luca: la conversione di Zaccheo”. Quest’uomo, ha detto il Papa, “è una pecora perduta, è disprezzato e scomunicato, perché è un pubblicano”, “amico degli odiati occupanti romani, ladro e sfruttatore”. A Zaccheo viene dunque impedito di avvicinarsi a Gesù per la sua cattiva fama, ma lui non si dà per vinto e si arrampica su un albero per poterlo vedere passare. “Questo gesto esteriore, un po’ ridicolo – ha osservato – esprime però l’atto interiore dell’uomo che cerca di portarsi sopra la folla per avere un contatto con Gesù”. Zaccheo stesso, ha soggiunto, “non sa il senso profondo del suo gesto” e “nemmeno osa sperare che possa essere superata la distanza che lo separa dal Signore”. Si rassegna “a vederlo solo di passaggio”:

“Ma Gesù, quando arriva vicino a quell’albero, lo chiama per nome: ‘Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua’ (Lc 19,5). Quell’uomo piccolo di statura, respinto da tutti e distante da Gesù, è come perduto nell’anonimato; ma Gesù lo chiama, e quel nome, Zaccheo, nella lingua di quel tempo, ha un bel significato pieno di allusioni: ‘Zaccheo’ infatti vuol dire ‘Dio ricorda’. E’ bello: ‘Dio ricorda’”.

Gesù va, dunque, nella casa di Zaccheo, “suscitando le critiche di tutta la gente di Gerico” perché invece di visitare “le brave persone che ci sono in città, va a stare proprio” da un pubblicano. Ed il Papa ha chiosato: “anche in quel tempo si chiacchierava tanto”. A costoro, Gesù risponde che va da Zaccheo proprio “perché lui era perduto”. “Anch’egli è figlio di Abramo”, aggiunge, e da ora nella sua casa, nella sua vita, entra la gioia:

“Non c’è professione o condizione sociale, non c’è peccato o crimine di alcun genere che possa cancellare dalla memoria e dal cuore di Dio uno solo dei suoi figli. ‘Dio ricorda’, sempre, non dimentica nessuno di quelli che ha creato; Egli è Padre, sempre in attesa vigile e amorevole di veder rinascere nel cuore del figlio il desiderio del ritorno a casa. E quando riconosce quel desiderio, anche semplicemente accennato, e tante volte quasi incosciente, subito gli è accanto, e con il suo perdono gli rende più lieve il cammino della conversione e del ritorno”.

Guardiamo Zaccheo oggi sull’albero, ha esortato Papa Francesco: “è ridicolo”, ma il suo “è un gesto di salvezza”:

“Ed io dico a te: se tu hai un peso sulla tua coscienza, se tu hai vergogna di tante cose che hai commesso, fermati un po’, non spaventarti, pensa che Uno ti aspetta, perché mai ha smesso di ricordarti, di pensarti. E questo è il tuo Padre, è Dio, è Gesù che ti aspetta. Arrampicati, come aveva fatto Zaccheo; sali sull’albero della voglia di essere perdonato. Io ti assicuro che non sarai deluso. Gesù è misericordioso e mai si stanca di perdonare. Ricordartelo bene, eh! Così è Gesù”.

Anche oggi, ha detto ancora il Papa, lasciamoci come Zaccheo “chiamare per nome da Gesù”. Anche noi, ha riaffermato, “ascoltiamo la sua voce che ci dice: ‘Oggi devo fermarmi a casa tua’”, “nella tua vita” e “nel tuo cuore”.

“E accogliamolo con gioia: Lui può cambiarci, può trasformare il nostro cuore di pietra in cuore di carne, può liberarci dall’egoismo e fare della nostra vita un dono d’amore. Gesù può farlo. Lasciati guardare da Gesù”.

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Ivan Dragicevic di Medjugorje: “La Madonna mi ha portato per due volte in Paradiso”

Posté par atempodiblog le 3 novembre 2013

“La Madonna mi ha portato per due volte in Paradiso”
Uno dei sei veggenti di Medjugorje rivela al direttore di Radio Maria: “È uno spazio senza confini, ci sono gli angeli e la gente cammina e canta”
di Padre Livio Fanzaga – Il Giornale (06/2013) – I segreti di Medjugorje. La Regina della Pace

Ivan Dragicevic di Medjugorje: “La Madonna mi ha portato per due volte in Paradiso” dans Medjugorje 4lztCiao Ivan, ci puoi descrivere com’è un’apparizione della Madonna?
«Vicka, Marija ed io abbiamo l’incontro con la Madonna ogni giorno. Ci prepariamo recitando il rosario alle 18 con tutta la gente nella cappella. Come si avvicina il momento, le 7 meno 20, io avverto di più la presenza della Madonna nel mio cuore.
Il primo segno del suo arrivo è una luce, una luce del Paradiso, un pezzo di Paradiso viene a noi. Appena arriva la Madonna non vedo più niente attorno a me: vedo solo lei! In quel momento non sento né spazio né tempo. In ogni apparizione la Madonna prega con le mani distese sui sacerdoti presenti; benedice tutti noi con la sua benedizione materna. Negli ultimi tempi la Madonna prega per la santità nelle famiglie. Prega nella sua lingua aramaica. Poi, segue una conversazione privata fra noi due. È difficile descrivere com’è un incontro con la Madonna. Ad ogni incontro mi rivolge un pensiero così bello che posso vivere di questa parola per un giorno».

Come ti senti dopo l’apparizione?
«È difficile trasmettere agli altri questa gioia. C’è un desiderio, una speranza, durante l’apparizione, e io dico nel cuore: “Madre, rimani ancora un po’, perché è così bello stare con te!”. Il suo sorriso, guardare i suoi occhi pieni d’amore… La pace e la gioia che sento durante l’apparizione mi accompagnano tutta la giornata. E quando la notte non posso dormire, penso: che cosa mi dirà la Madonna il prossimo giorno? Esamino la mia coscienza e penso se le mie azioni erano nella volontà del Signore, e se la Madonna sarà contenta? Il suo incoraggiamento mi dà una carica speciale».

La Madonna da più di trent’anni vi rivolge dei messaggi. Quali sono i principali?
«La pace, la conversione, il ritorno a Dio, la preghiera con il cuore, la penitenza con il digiuno, il messaggio dell’amore, il messaggio del perdono, l’eucarestia, la lettura della sacra scrittura, il messaggio della speranza. La Madonna si vuole adattare a noi e allora li semplifica per aiutarci a praticarli e viverli meglio. Quando ci spiega un messaggio ci mette molto impegno perché possiamo capirlo. I messaggi sono rivolti al mondo intero. La Madonna non ha mai detto “carissimi italiani… cari americani…”. Ogni volta dice “Cari figli miei”, perché siamo tutti importanti per lei. Alla fine dice: “Grazie cari figli, perché avete risposto alla mia chiamata”. La Madonna ci ringrazia».

La Madonna dice che dobbiamo accogliere i suoi messaggi «col cuore»?
«Insieme con il messaggio per la pace, quello più ripetuto in questi anni è il messaggio della preghiera col cuore. Tutti gli altri messaggi si basano su questi due. Senza preghiera non c’è la pace, non possiamo riconoscere il peccato, non possiamo perdonare, non possiamo amare. Pregare col cuore, non in maniera meccanica, non per seguire una tradizione, non guardando l’orologio… La Madonna desidera che dedichiamo il tempo a Dio. Pregare con tutto il nostro essere perché sia un incontro vivo con Gesù, un dialogo, un riposo. Così possiamo essere pieni di gioia e di pace, senza pesi nel cuore».

Quanto vi chiede di pregare?
«La Madonna desidera che preghiamo ogni giorno tre ore. La gente quando sente questa richiesta si spaventa. Però quando parla di tre ore di preghiera non intende solo la recita del rosario, ma anche la lettura della sacra scrittura, la messa, l’adorazione del Santissimo e la condivisione familiare della Parola di Dio. Aggiungo le opere di carità e l’aiuto al prossimo. Ricordo che anni fa è venuta una pellegrina italiana dubbiosa a proposito delle tre ore di preghiera. Abbiamo conversato un po’. L’anno seguente è tornata: “La Madonna chiede sempre tre ore di preghiera?”. Le ho risposto: “Sei in ritardo. Adesso desidera che preghiamo 24 ore”».

Cioè, la Madonna chiede la conversione del cuore.
«Esatto. Aprire il cuore è un programma per la nostra vita, come la nostra conversione. Io non mi sono convertito di colpo: la mia conversione è un percorso per la vita. La Madonna si rivolge a me e alla mia famiglia e ci aiuta perché desidera che la mia famiglia sia un modello per gli altri».

La Madonna parla di un suo «piano» che si deve realizzare: sono già passati 31 anni, qual è questo piano?
«La Madonna ha un progetto preciso per il mondo e per la Chiesa. Dice: “Io sono con voi e insieme con voi voglio realizzare questo piano. Decidetevi per il bene, lottate contro il peccato, contro il male”. Non so fino in fondo che cos’è questo piano. Ciò non significa che io non debba pregare per la sua realizzazione. Non dobbiamo sempre sapere tutto! Dobbiamo fidarci delle richieste della Madonna».

In nessuno dei santuari che conosco vengono tanti sacerdoti come a Medjugorje…
«È segno che qui c’è la sorgente. Quei sacerdoti che vengono una volta, torneranno. Nessun sacerdote che viene a Medjugorje lo fa perché obbligato, ma perché ha sentito una chiamata».

In questo periodo, specialmente nei messaggi a Mirjana, la Madonna raccomanda di pregare per i pastori…
«Anche nei messaggi che dà a me sento questa preoccupazione per i pastori. Ma nello stesso tempo, con la preghiera per i sacerdoti, vuole portare speranza nella Chiesa. Ama i suoi “figli amatissimi” che sono i preti».

La Madonna ha fatto vedere ai veggenti l’aldilà per ricordarci che sulla terra siamo pellegrini. Ci racconti questa esperienza?
«Nel 1984 e anche nel 1988 la Madonna mi ha fatto vedere il Paradiso. Me lo ha detto il giorno prima. Quel giorno, ricordo, la Madonna è venuta, mi ha preso per mano e in un attimo sono giunto in Paradiso: uno spazio senza frontiere nella valle di Medjugorje, senza confini, dove si sentono canti, ci sono angeli e la gente cammina e canta; tutti vestono abiti lunghi. La gente appariva della stessa età… È difficile trovare le parole. La Madonna ci guida verso il Paradiso e quando viene ogni giorno ci porta un pezzetto di Paradiso».

È giusto dire, come ha detto anche Vicka, che dopo 31 anni «siamo ancora agli inizi delle apparizioni»?
«Tante volte i sacerdoti mi chiedono: perché le apparizioni durano così a lungo? Oppure: abbiamo la Bibbia, la Chiesa, i sacramenti… La Madonna ci chiede: “Tutte queste cose le vivete? Le praticate?”. Questa è la domanda a cui dobbiamo dare risposta. Veramente viviamo ciò che conosciamo? La Madonna è con noi per questo. Sappiamo che dobbiamo pregare in famiglia e non lo facciamo, sappiamo che dobbiamo perdonare e non perdoniamo, conosciamo il comandamento dell’amore e non amiamo, sappiamo che dobbiamo fare opere di carità e non le facciamo. La Madonna è così a lungo fra noi perché siamo testardi. Non viviamo quello che conosciamo».

È giusto dire che il «tempo dei segreti» sarà un tempo di grande prova per la Chiesa e per il mondo?
«Sì. Riguardo ai segreti non possiamo dire nulla. Posso solo dire che viene un tempo molto importante, in particolare per la Chiesa. Dobbiamo tutti pregare per questa intenzione».

Sarà un tempo di prova per la fede?
«Lo è già un po’ adesso».

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Chesterton: La storia in giallo

Posté par atempodiblog le 3 novembre 2013

Chesterton: La storia in giallo
Un esempio di didattica alle superiori, quando la fantasia viene in soccorso alla storia.

Con Chesterton alle radici della modernità attraverso la metafora
di Roberto Filippetti
Tratto da: Cultura Cattolica

Novembre ’95. IV superiore. “Professore, ci hanno dettato il nuovo orario provvisorio: abbiamo lei alla VI ora del sabato”. Tanto in Italiano con Machiavelli, quanto in Storia col Protestantesimo e la Riforma cattolica stiamo approfondendo le radici della modernità. Mi viene un’idea: leggere insieme in classe un racconto di G. K. Chesterton: Il martello di Dio (dal volume L’innocenza di Padre Brown, BUR, 1989).

Chesterton: La storia in giallo dans Anticristo uqitSiamo in un villaggetto, Bohun Beacon, appollaiato su una ripida altura, sormontata da un’imponente chiesa gotica. Ai suoi piedi la bottega del fabbro e l’osteria, ove – dopo l’ennesima notte di bagordi – sta seduto Norman Bohun. Lì lo sorprende suo fratello Wilfred Bohun, pio e austero prete anglicano. I Bohun sono rampolli dell’antica famiglia medievale che ha dato lustro (“Beacon”) al villaggio, “ma è un grave errore credere che simili casate mantengano alta la tradizione cavalleresca. A parte i poveri, sono ben pochi quelli che conservano le tradizioni; gli aristocratici non seguono le tradizioni, ma la moda” (vecchio Chesterton, hai colpito ancora!). Norman, il libertino, confessa di star andando a fare visita alla moglie del fabbro – donna formosa, bellissima, e cattolica – dato che l’erculeo marito di lei – protestante presbiteriano – è fuori paese. Il reverendo Wilfred mette in guardia il fratello sia dai fulmini di Dio che dalla forza dell’uomo, ma Norman replica di essere uscito di casa “parzialmente corazzato”: ha in testa uno strano cappello verde che cela un elmetto d’acciaio. Wilfred, disgustato, s’avvia verso la chiesa, dalla quale sta uscendo Joe, l’idiota del villaggio; prima di entrare nell’edificio sacro, fa in tempo a vedere il fratello dissoluto che si prende gioco del povero ragazzo, gettandogli monetine nella bocca aperta, in un crudele tiro al bersaglio. Il reverendo, che ama andare a pregare nei luoghi alti e solitari, sale su uno stallo posto sotto una splendida vetrata gotica. Lì mezz’ora dopo lo trova Gibbs, l’ateo ciabattino del paese, e gli porta la tragica notizia: Norman è stato ammazzato. Giace a terra con il cranio ridotto a “un’orrenda massa molle spiaccicata”. Gli stanno attorno l’ispettore di polizia, il medico, il pastore presbiteriano, mentre un pretino cattolico – padre Brown – parla con la bellissima moglie del fabbro. Al ciabattino Gibbs tutto sembra chiaro: solo un gigante come il fabbro può aver assestato un tal colpo. Il medico conferma: schegge di cranio si sono conficcate addirittura nel terreno. L’ispettore rinviene l’arma del delitto: un piccolo, leggero martello che sta, insanguinato e sporco di capelli, vicino al muro della chiesa. La cosa – nota padre Brown – è di per sé misteriosa: perché un uomo così grosso ha usato un martello tanto piccolo?

Intanto il fabbro, calmo e tranquillo, sta tornando in paese con due amici. Visto il cadavere, con “occhi d’acciaio” fissa “quel cane d’un peccatore” e commenta: “È andato all’inferno”. È subito invitato dal ciabattino ateo a tacere: sono gli altri che devono dimostrarne la colpevolezza. Gibbs è pieno “d’ammirazione per il sistema giudiziario inglese; giacché non c’è uomo più attaccato alla legge di un laicista convinto” (quant’è vero, vecchio Chesterton!). Il fabbro ha un alibi di ferro: ha molti testimoni, puritani come lui, che gli sono rimasti accanto “nella sala del comitato della nostra missione per il risveglio della fede, che tiene seduta tutta notte: pensiamo alla salvezza delle anime noi!”. Chi è allora l’assassino? A parere del medico non può essere che la moglie del fabbro, e cerca di dimostrarlo entrando nei meandri della coscienza di una donna che tradisce il marito, ma che forse odia l’arrogante e perfido amante. Padre Brown ribatte che l’ipotesi non è ragionevole, perché non considera tutti i fattori: il colpo ha frantumato un elmetto di ferro come se fosse vetro, impossibile per le esili braccia di quella donna. “Lei è come molti altri medici, – osservò -. La sua scienza psicologica è davvero suggestiva; ma la sua scienza fisica è del tutto inconcepibile” (cosa non di poco conto per un fisiatra!) Tocca ora al reverendo Bohun avanzare la propria ipotesi: solo un idiota si sarebbe servito di un martello così piccolo, avendone a disposizione tanti più grandi; l’assassino è Joe il matto che, come ogni pazzo, “nel suo parossismo può avere la forza di dieci uomini”. Padre Wilfred ha un sorriso “scomposto ma stranamente felice”: da prete, non vuole che il reo finisca sul patibolo e Joe, essendo idiota, verrà risparmiato. Il medico è convinto. Anche padre Brown trova l’ipotesi “intrinsecamente inattaccabile”, eppure afferma “sulla base di quanto sa positivamente, che non è la vera”. Il medico è stizzito. “Questi preti papalini sono diabolicamente astuti”. Anche il fabbro (ormai scagionato: lui era lontano e il suo martello “non aveva 44 ali per volare lungo mezzo miglio”) ha un idea: è la mano stessa di Dio che ha fulminato il malvagio per difendere l’onore della donna. A padre Brown, che con Wilfred si sta avviando a visitare l’antica chiesa gotica (già cattolica ed ora anglicana), il dottore chiede di svelare il mistero di quell’omicidio, ma il nostro pretino replica: “Esiste un’eccellente ragione perché un uomo che esercita il mio ministero tenga le cose per sé quando non ne è sicuro: e la ragione è ch’è sempre suo dovere tenerle per sé quando è sicuro”.

Il piccolo sacerdote offre però due indizi: il fabbro sbaglia a dire che il colpo è piombato giù per miracolo (“a parte il miracolo che l’uomo di per sé rappresenta, col suo cuore strano, malvagio, e tuttavia semieroico”); la fiaba di un martello che vola “è la cosa più vicina alla verità”. Quindi i due religiosi entrano in chiesa. Wilfred porta Brown su in alto, sotto la vetrata; ma il prete cattolico sale più in alto ancora, fin sulla piattaforma esterna e chiede a Wilfred di raggiungerlo. Da lassù il recinto del fabbro appare minuscolo e il cadavere di Norman sembra “una mosca schiacciata”. “Penso che è pericoloso fermarsi in questi luoghi alti, sia pure per pregare – disse padre Brown -. Le altezze furono fatte perché si guardi a esse, non perché da esse si guardi in giù. La religione puritana del fabbro fa di lui “un buon uomo”, ma non un cristiano: duro, impetuoso, inesorabile”: è la religione di chi, dalle cime, guarda “all’ingiù, sul mondo, invece che in alto, verso il cielo. L’umiltà è madre di giganti. Si vedono cose grandi dalla valle; e solo cose piccole dalle cime”. Ma anche ad un altro uomo è accaduto di salire in alto a guardare il mondo da lassù: egli aveva cominciato “col pregare assieme agli altri, davanti all’altare, ma poi fu preso dalla passione dei luoghi alti e solitari, per andarvi a dire le preghiere: angoli o nicchie sui campanili e sulle guglie. E una volta, su uno di questi luoghi che danno le vertigini… immaginò di esser Dio… e commise un gran delitto”. Da lassù gli uomini gli apparivano “come insetti”, e specialmente uno, con quel cappello verde, gli sembrò “un insetto velenoso”; aveva poi a disposizione quella terribile energia della natura che è la forza di gravità, per la quale un piccolo martello, raccolto da terra in un impeto “d’ira non giusta”, diventa un’arma micidiale. Il reverendo Wilfred, smascherato, sta per gettarsi nel vuoto, ma padre Brown lo blocca: “Non da questa porta, – disse con dolcezza: – questa conduce all’inferno”. Quindi aggiunge che non lo denuncerà, poiché Wilfred “non è ancora andato all’estremo del male”: non ha infatti cercato di far ricadere la colpa sul fabbro o sulla donna, ma ha tentato di accollare il delitto all’idiota Joe “perché sapeva che non poteva essere condannato. Questo è uno di quei barlumi ch’è mia missione trovare negli assassini” (e di lì a poco, liberamente, da uomo, Wilfred scenderà per la porta giusta e andrà a costituirsi).Quest’ultima battuta di padre Brown descrive il genio della posizione cattolica: una capacità “ecumenica” di valorizzare il buono, pur di mezzo al marciume.

[...]

Suona la campanella. La sesta ora del sabato è… miracolosamente volata. Abbiamo imparato qualcosa in più sul laicismo legalista, sul puritanesimo calvinista, sullo psicologismo scientista, sul farisaico superomismo. Ma soprattutto abbiamo ricevuto da Chesterton una lezione di metodo che è – manzonianamente – “il sugo di tutta la storia”: padre Brown risolve il caso perché è aperto a tutta la realtà, tiene conto di tutti i fattori; e ci suggerisce quell’amore al Destino grazie al quale vediamo i “barlumi” ch’è nostra missione trovare.

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Il Cardinal Federigo Borromeo, testimone della tenerezza della Chiesa

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

L’Innominato e il Cardinal Federigo
Proviamo ad immedesimarci con lo stato d’animo dell’Innominato; anzi entriamo nella scena sostituendoci a lui.
di Maria Vittoria Pinna. Curatore: Don Gabriele Mangiarotti – Cultura Cattolica

Il Cardinal Federigo Borromeo, testimone della tenerezza della Chiesa dans Alessandro Manzoni ynjeIl cuore è sconvolto, non capisco nulla, quell’uggia iniziale si è trasformata, dopo l’incontro con la fragile Lucia, in disperazione. Poi, quando tutto sembrava finire in una resa totale al nulla, quello strano duplice pensiero: e se l’altra vita non esiste?… e se invece esiste?
Era un’oscurità davvero insopportabile che un colpo di rivoltella non avrebbe risolto… Poi quell’immagine inspiegabilmente autorevole che sembrava schiacciarmi e ripeteva a voce non più supplichevole, ma decisa, autorevole e foriera di una strana speranza: Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia… Quindi il proposito di liberare la giovane: ma la pace all’animo tormentato non arrivava. Non ho nemmeno fatto in tempo a ripiombare nella disperazione che quello scampanio, quella folla gioiosa per le strade proprio sul far dell’alba, lungi dall’infastidirmi come un ostacolo al mio rimuginare, mi incuriosisce, nonostante il dispetto. Il bravo incaricato, mi spiega l’arcano: è in visita pastorale al paese il cardinal Federigo… un uomo… ma chissà cosa avrà quest’uomo che sembra dar tanta gioia alla gente… Ma… può darsi che abbia la capacità di dirmi qualcosa che plachi anche il mio tormento… (che strano: sono tanti piccoli fatti, ma passano in un secondo e mi resta soltanto il cuore pieno di angoscia e… di una speranza inspiegabile…)

Ebbene, ci andrò. Cammino inquieto senza la mia solita scorta e non mi importa della stranezza della cosa per chi mi vede: nessuno ha in cuore il diavolo che mi tormenta…
Son qui nell’atrio in mezzo a una brigata di tonache nere che mi guardano con sospetto. A dire il vero nemmeno me ne accorgo, meglio: non mi preoccupo affatto. Voglio vedere quest’uomo e lo vedrò (ho sempre fatto quello che volevo e nessuno me lo ha impedito!)
Ecco che il Cappellano crocifero mi introduce nella stanza in cui il Cardinale aspetta di celebrare gli uffizi divini. Non so cosa farò, non so cosa dirò, ma ora sono davanti a lui . Un attimo e lui mi viene già incontro con fare premuroso e pieno d’affetto a braccia spalancate, come con una persona desiderata.
Non ho parole, ma anche lui mi guarda e tace: ma perché sono qui? Il tormento mi dilania… ma non ho nemmeno voglia di parlare. Sollevo lo sguardo e… avverto un… sentimento di venerazione imperioso e insieme soave, che, aumentando la fiducia, mitiga il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatte, e… gli impone silenzio.
Ha anche lui uno sguardo penetrante e dopo un po’ mi dice: “Oh!(…) Che preziosa visita è questa! E quanto vi devo esser grato di questa preziosa risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!”.
“Rimprovero” ,
ma cosa mi dice… “Certo, m’è un rimprovero (…) ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io”.
Ma lo sa chi sono io? Sì, lo sa, ma come può essere così accogliente per me? Ecco, mi parla: ma cos’è questo strano sentimento che mi allarga cuore e polmoni togliendomi quella oppressione insostenibile? e come mai non mi indispettisce il sentirmi ricordare le mie malefatte?… Nella sua voce non c’è rimprovero, c’è una dolcezza, una pacatezza, una sicurezza che nemmeno la mia cattiveria possono turbare… Mi accoglie per quello che sono!!! No, non lo merito… che faccio: piango? Ma come è liberante questo pianto… mi conosco… ora, ora capisco cosa sono stato veramente… Dio mio, perdono… ma come potrò rimediare a tanto male fatto?

Ormai la conversione per l’Innominato ha avuto il sigillo del confronto con una Presenza carica di messaggio: dentro la Chiesa questo tipo di conforto avviene dentro un sacramento, segno efficace del perdono di Dio alla nostra miseria.

Ciò detto invito tutti a leggere con attenzione queste pagine bellissime che testimoniano la tenerezza della Chiesa, incaricata da Dio di accogliere e abbracciare nel perdono tutti i suoi figli.
Con una raccomandazione. Non lasciatevi impressionare dalle espressioni del cardinale, che paiono un po’… auliche: tenete presente che siamo nel ’600 e gli ecclesiastici parlavano allora così. Quello che conta e commuove e dà speranza a chiunque è quell’atteggiamento pieno di premura, di attenzione, di accoglienza, di perdono, che solo la presenza di Cristo, vivo e presente nella Chiesa può dare.

divisore dans Medjugorje

Capitolo XXIII de I Promessi Sposi freccetta.jpg L’Innominato e il Cardinal Federigo

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Dio giudice e Misericordioso

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

Dio giudice e Misericordioso dans Alessandro Manzoni cfbw

Si parlava della celebre frase di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”. La pensava così anche il suo contemporaneo Alessandro Manzoni.

Nei “Promessi sposi”, infatti, uno dei personaggi più riusciti è utilizzato dal Manzoni proprio per rendere visibile questo concetto. Parlo dell’Innominato. Quest’uomo malvagio, indurito, ma non per sempre, dai suoi crimini, viene infatti introdotto dal poeta attraverso il paesaggio che lo circonda. L’Innominato infatti abitava “a cavaliere a una valle angusta e uggiosa” e “dall’alto del castellaccio non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto”. Questa breve descrizione, apparentemente geografica, dice già tutto quello che Manzoni pensa di Dio e della morale: l’uomo che non vede nulla “al di sopra di sé”, cioè l’uomo che si pone al di sopra del bene e del male, eliminando Dio dal suo orizzonte, vive già tutti i presupposti per divenire una creatura senza scrupoli e piena solo di se stessa. L’uomo che scarta Dio, in altre parole, siede al suo posto e rifiuta un giudizio su di sé, in nome della sua completa autonomia.

All’Innominato avviene dunque come ad un personaggio di  Dostoevskij, Sigalev: “Sono partito dalla libertà illimitata e finisco nel dispotismo assoluto”. Non vendendo mai alcuno “al di sopra di sé, né più in alto”, l’Innominato finisce inevitabilmente per porre se stesso sopra i propri simili.

Diciamolo subito. Si può finire male anche credendo in Dio. Don Abbondio ne è un esempio, così come lo è un personaggio di Chesterton che è solito passeggiare nella parte sopraelevata della sua chiesa, essendo un pastore. Di lì osserva, dall’alto al basso, tutti gli altri. Sino al punto di ritenere che la sua “bontà” gli permetta di ergersi a giudice di un suo fratello, ubriacone e peccatore; sino al punto di fulminarlo, dall’alto, lasciandogli cadere un martello in testa. 

Perché chi crede in Dio può benissimo farne una sorta di soprammobile, come fa don Abbondio, oppure può essere tentato di sentirsi buono e giusto (lui), in un mondo di peccatori (gli altri). La superbia, male per eccellenza, è dunque sempre in agguato. Per questo Dostoevskij fa dire a padre Zosima, ne “I fratelli Karamazov”: “Amate l’uomo anche con il suo peccato, perché questo riflesso dell’amore divino è il culmine dell’amore sopra la terra”. Non facile, certo.

Ma torniamo al nostro Innominato. Manzoni ne descrive in modo esemplare la conversione. Dice infatti che all’epoca del rapimento di Lucia da lui ordinato, l’Innominato è pervaso da una certa “paura”, “terrore” , “una non so qual rabbia di pentimento”. Cosa è successo di nuovo? Manzoni lo fa capire bene: ci si può credere dio, sino ad un certo punto; si può fare come se Dio non esistesse, finché si è forti, finché si ha successo, finché si calca la scena tra gli applausi del mondo.

Ma poi arriva la vecchiaia, si incomincia ad intravedere la morte, e sentirsi ancora dio si fa difficile. Come Dorian Gray: si può mettere la coscienza del peccato in soffitta per tanto tempo, ma poi ad un certo punto diventa insopprimibile la domanda: e poi?

L’Innominato vorrebbe scacciare i suoi pensieri, vorrebbe rituffarsi nell’azione, che tacita il rimorso e la paura, ma si trova “ingolfato nell’esame di tutta la sua vita”. Finché è colto da una considerazione che ci riporta all’inizio: ma se Dio esiste, quale sarà la mia sorte nell’eternità? Però, “se quella vita (nell’aldilà) non c’è, se è una invenzione dei preti; che fo io? Cos’importa quello che ho fatto? Cos’importa?”.

Se Dio non c’è, infatti, esiste solo la giustizia umana; ma sulla terra vince spesso la forza, l’ingiustizia: e l’Innominato, che lo sa, se lo chiede: “io vinco, che importa dunque il pentimento, il rimorso? Nessuno potrà mai chiedermi conto della mia vita. Neppure dopo la morte”. Ma il dubbio, la paura sono forti. E se invece Dio esiste?

Manzoni descrive sapientemente questi dilemmi, e decide di descrivere l’Innominato sul punto di suicidarsi, in preda alla disperazione. La tentazione umana, come quella di Giuda, è la mancanza di speranza; è la tentazione di fare ancora una volta come se Dio non esistesse, ergendosi a padroni della propria vita sino all’ultimo.  E’ stato il demonio a suggerirti il suicidio, dirà infatti Federigo Borromeo all’Innominato. Come avviene, allora la conversione? In due fasi. Anzitutto la disperazione di chi si riconosce finalmente malvagio, viene incrinata da una frase di Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”.

E’ una frase dolcissima, teneramente cristiana: perdono e misericordia sono possibili al Dio che è giudice, quando non sembrano neppure più possibili all’uomo che sta, per la prima volta, giudicando se stesso. La verità di Dio Giudice, non può però essere separata dalla verità di Dio Misericordioso. Pronto a perdonare chiunque, sempre, sino all’ultima ora. Se c’è pentimento.  Poi, dopo le parole di Lucia, che riaccendono la speranza, un incontro: con Federigo che lo abbraccia e rende presente quel perdono. La Fede si diffonde per contagio.  Contagiano coloro che vivono un Dio giusto e misericordioso. Contagiano talora anche coloro che per una vita si sono seduti sul trono di Dio.

Francesco Agnoli – Il Foglio

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Il “miracolo” di Francesca: una morte che genera vita

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

La forza dell’amore
Il “miracolo” di Francesca: una morte che genera vita
di Giorgio Paolucci – Avvenire

Il “miracolo” di Francesca: una morte che genera vita dans Riflessioni t728In una società in cui la morte è argomento tabù perché non si riconosce più il significato della vita, accadono fatti che si portano dentro un carico di umanità così forte che è sufficiente guardarli per “capire”. Bisogna solo lasciarsi colpire dalla testimonianza che ne sgorga. Basta guardare, basta ascoltare. È tutta da guardare, è tutta da ascoltare la storia di Francesca Pedrazzini, che ha attraversato il mare di una malattia senza scampo con la certezza che Dio continuava a starle accanto. E vivendo così fino all’ultimo respiro, ha lasciato un segno incancellabile nel cuore di tante persone che l’hanno accompagnata nel suo calvario.

Una bella famiglia, la sua. Insegnante di diritto in una scuola superiore di Milano, sposata con Vincenzo, avvocato, tre figli, grintosa e appassionata sul lavoro e con gli amici, un amore speciale per il mare della Grecia. Una vita costellata di superlativi assoluti. Tutto “issimo”: la pizza buonissima, la persona incontrata simpaticissima, e che spesso diventava amicissima. Cercava la felicità ovunque, e se in una cosa ne percepiva anche solo un barlume, quella cosa diventata “issima”.

Un giorno di febbraio del 2011, mentre si toglie il maglione, avverte un fastidio al seno. Un sospetto, poi la visita ginecologica, gli esami, la scoperta di un piccolo tumore, l’intervento chirurgico, i medici che rassicurano – «complimenti, è guarita, tutto a posto». E invece dopo qualche mese il male rispunta, i marker tumorali sono alti, «è arrivato dappertutto, ossa e fegato», si sfoga con un’amica. Francesca va col marito a confidarsi con l’amico Claudio al monastero benedettino della Cascinazza, alle porte di Milano. Un dialogo essenziale. «Noi preghiamo per la tua guarigione – le dice il monaco – ma sappi che se non ci sarà questo miracolo, ce ne sarà uno ancora più grande».

Comincia un calvario fatto di radio e chemioterapia, ricoveri e periodi trascorsi a casa tra letto e divano, cortisone, gonfiori, complicazioni, le ossa che si fanno cristallo. Gli amici, tantissimi, si stringono a lei e alla famiglia. In una mail scrive a Clara: «Sono sopraffatta dalla carità di tutti verso di me e quindi dall’abbraccio di Gesù. Lo sai che si girano un file-excel con i turni mattino-pranzo-pomeriggio-sera? È incredibile, continua a chiamarmi gente che vuole venire a trovarmi». «Sopraffatta». Lo dice anche quando viene a sapere che il giro degli amici si è allargato al punto che c’è gente che prega e chiede la grazia della guarigione in America, Russia, Libano, Taiwan. Ad Anna, un’altra amica, confida che «la misericordia di Dio è grande, perché non passa giorno in cui non mi tiri fuori dalla disperazione. C’è sempre una persona, una telefonata, qualcosa che leggo che non permette alla tristezza di avere il sopravvento».

Si fa più intenso, più vero, il suo cammino nel movimento di Comunione e liberazione che aveva incontrato da ragazza e le aveva letteralmente riempito l’esistenza, aiutandola a riconoscere la presenza del Mistero in ogni circostanza. Una frase di Julián Carrón, il sacerdote spagnolo che guida Cl e al quale racconta della malattia, le resta nel cuore: «Vedi Francesca, tutti noi siamo malati cronici. Ma tu hai un’occasione in più per la tua maturazione, che non puoi perdere».

Anche quando il male si fa più aggressivo, Francesca vuole gustare la vita fino in fondo. A fine luglio 2012 l’ultima vacanza a Cefalonia, in Grecia: «Voleva guardare il mare, avere davanti una bellezza – ricorda il marito –. La notte prima di partire l’ha passata sveglia, sul terrazzo. C’era quella vista pazzesca, con la luna riflessa nell’acqua».

Pochi giorni dopo è di nuovo in ospedale, a Milano, dove rimarrà fino alla morte. Il 22 agosto niente visite, vuole dedicare tutto il giorno ai suoi bambini: Cecilia, 9 anni, Carlo 6, Sofia 3. Chiacchiere, scherzi, indovinelli, qualche lacrima. A Cecilia, che si infila nel suo letto, dice: «Vado in un posto bellissimo, sono contenta e curiosa. Mi raccomando, quando vado in Paradiso dovete fare una bella festa». Vincenzo, guardando oggi i suoi bambini, commenta: «Sono sereni, pieni di vita. La nostalgia c’è, ma non è un ostacolo. Mia moglie quel giorno ha fatto per loro più di quello che una madre può fare in cinquant’anni di amore e educazione». In ospedale sono stupiti dallo spettacolo di tanti amici attorno a quel letto, a parlare, ridere, piangere, pregare. Un medico dice alla madre di Francesca: «Una fede come quella di sua figlia non l’ho mai vista. Mi sarebbe piaciuto conoscerla un po’ di più. Le dica che quando sarà in Paradiso si ricordi dell’ultimo medico che l’ha curata». Il 23 agosto entra in coma, il tempo si fa breve. Vincenzo le dà un bacio e sussurra all’orecchio: «Non avere paura». Lei si riprende, apre gli occhi e dice a voce alta: «Io non ho paura».

Sono le sue ultime parole. E sono diventate il titolo di un libro scritto da Davide Perillo (edizioni San Paolo), che raccoglie decine di commoventi testimonianze e sta vendendo migliaia di copie. La vicenda di Francesca ha segnato il cuore di molti, ha favorito il riavvicinamento alla fede di qualcuno, ha lasciato a bocca aperta il taxista che accompagnava una delle sue amiche al funerale: «Che aria di festa, credevo fosse un matrimonio». Piccoli e grandi miracoli quotidiani che continuano ad accadere. Il monaco benedettino che Francesca aveva incontrato dopo avere saputo del tumore, le aveva detto: «Preghiamo per la tua guarigione, ma sappi che se non ci sarà questo miracolo, ce ne sarà uno ancora più grande». È andata proprio così.

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