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Per san Martino, oca, castagne e vino

Posté par atempodiblog le 11 novembre 2013

Per san Martino, oca, castagne e vino
di Marina Cepeda Fuentes – Il Timone

Per san Martino, oca, castagne e vino dans Cucina e dintorni San_Martino_Oche_Castagne_e_Vino

“Oca, castagne e vino, tieni tutto per San Martino”, afferma un proverbio padano.

Una volta, infatti, la festa del Santo, che cade l’11 novembre e alla quale sono connessi in gran parte dell’Europa detti, proverbi, riti e tradizioni gastronomiche, si celebrava con ricche libagioni e grandi banchetti in cui si mangiava soprattutto l’oca fatta ingrassare con cura. Ma nei primi giorni di novembre il mosto già fermentato diventa vino novello e si spilla quello vecchio dalle botti: “per San Martino si lascia l’acqua e si beve il vino”, assicura un proverbio, mentre un altro ci svela che “per San Martino s’ubriaca il grande e il piccinino”. Ed è anche tempo di castagne: dalla fine di ottobre il profumo delle caldarroste imperversa in alcune città e molte sagre paesane sono dedicate ai frutti appena raccolti e perciò si dice “Per San Martino caldarroste e vino”. Fino al secolo scorso in Italia la festa di San Martino era una sorta di capodanno: cominciavano le attività dei tribunali, delle scuole e dei parlamenti; si tenevano elezioni e in alcune zone scadevano i contratti agricoli e di affitto. Tuttora si dice infatti “far San Martino” all’atto di traslocare o sgomberare. Il giorno dedicato al celebre vescovo di Tours trascorreva nell’ingorda letizia delle tavole colme di ogni ben di Dio, sicché tuttora la figura del Santo è sinonimo di abbondanza: “Ce sta lu sante Martino”, dicono in Abruzzo quando in una casa non mancano le provviste. Ippolito di Cavalcanti, duca di Buonvicino, scriveva nel 1847: “Cheste è chella bella Jornata di San Martino c’a Napole, e me credo pe tutto lo Munno, se fa na grosa festa; e grazia de chesta sollennità, a dove echiù, a dove meno, se fa lo grande pranzo…”.

Quanto alla scelta del grasso volatile come cibo tipico della festa rammenterebbe quella raffigurata di solito ai piedi del santo. Un attributo che risale alla sua leggendaria nomina a vescovo di Tours: con le loro strida le oche svelarono il nascondiglio di Martino che non voleva accettare l’incarico! Ma dietro la popolare tradizione gastronomica si celano vestigia di antiche credenze religiose, sicché “l’oca di san Martino” sarebbe in realtà una discendente di quelle sacre ai Celti, simboli del Messaggero divino, che accompagnavano le anime dei defunti nell’aldilà. In tutti i Paesi dove la religione celtica era più radicata vi è infatti la consuetudine di mangiare l’oca.

Probabilmente dai festeggiamenti del capodanno celtico o samuin, che avveniva nei primi dieci giorni di novembre, deriverebbe la tradizione, viva tuttora in tanti luoghi dell’Europa, di cucinarla a partire dal giorno di Ognissanti: “E il giorno di Ognissanti al di nascente/ ognun parti de la campagna rasai e tornò lieto a mangiar l’oca a casa”, dicono alcuni versi del Tassoni. In Boemia, non solo la si mangia, ma se ne trae l’oroscopo per l’inverno: se le ossa sono bianche, l’inverno sarà breve e mite, se scure è segno di pioggia, neve e freddo. Gli svizzeri, l’11 novembre, la mangiano ripiena di fette finissime di mele e in Germania la si riempie invece di artemisia profumata, mele, marroni glassati col miele, uva passita e le stesse interiora dell’animale. Dicono i tedeschi che l’oca perché sia veramente buona deve provenire dalla Polonia o dall’Ungheria, fra l’altro la patria di san Martino che era nato nell’antica Pannonia. In Italia è la Padania la terra dove l’oca, insieme con il maiale, costituisce uno dei cibi più fantasiosamente cucinati. La ricetta più diffusa per San Martino è il “bottaggio”, simile alla “cassoeuola” lombarda: nell’oca così preparata la freschezza e la fragranza della verza attenua l’intensità del suo sapore un po’ dolciastro.

Una curiosità: nella cucina tradizionale romana non vi sono ricette per cucinare l’oca, forse per ancestrale riconoscenza dei Romani verso questi volatili, simbolo di fedeltà e vigilanza. D’altronde le oche che sorvegliavano il tempio della dea Giunone al Campidoglio riuscirono a salvare il colle dall’invasione dei Galli nel 390 a.C. dando l’allarme con le loro strida!

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Via al processo di beatificazione per don Benzi, il prete che «giudicava tutto abbracciando tutti»

Posté par atempodiblog le 11 novembre 2013

Il successore, Giovanni Ramonda, ricorda: «Vestito con la talare entrava nelle discoteche per conoscere i giovani e andava per le strade a raccogliere prostitute e barboni. Dormiva con le scarpe ai piedi»
di Benedetta Frigerio – Tempi

Via al processo di beatificazione per don Benzi, il prete che «giudicava tutto abbracciando tutti»  dans Don Oreste Benzi don_benzi_bambino«Mia mamma faceva spesso il ricamo ed io, curioso, la osservavo. Chiedevo: “Mamma cosa fai?”. “Adesso non puoi capire, aspetta e vedrai che cosa bella viene fuori”. Poi mi mostrava il lavoro compiuto: “Visto che avevo  ragione?”. Da adulto ho rielaborato queste impressioni e mi hanno aiutato a capire che Dio ha un disegno su ognuno di noi, un progetto preciso che però non  ci rivela tutto in una volta. Ce lo rivela un passo dopo l’altro. Come faceva  mia mamma: un punto qui, un punto là e alla fine emergeva il disegno completo. Lei però il disegno l’aveva già tutto in mente fin dall’inizio. E se io mi fido  del grande disegno d’amore, allora entro da protagonista in quella storia  preparata da Dio che è padre» (don Oreste Benzi, Con questa tonaca lisa, Guaraldi).

È con questi occhi che don Oreste Benzi guardava ogni prostituta, tossico, barbone, orfano, anziano, handicappato. «Era lui ad andare cercarli, cambiando migliaia di cuori, offrendo a ciascuno una famiglia ma soprattutto un senso,  questo il significato della nostra comunità di accoglienza». Giovanni Ramonda, oggi alla guida della Comunità Papa Giovanni XXIII, sposato con 12 figli, di cui 3 naturali e 9 accolti, incontrò il sacerdote romagnolo più di trent’anni fa. Fu un colpo di fulmine: decise di lasciare ogni progetto per seguirlo.
All’indomani della notizia dell’avvio del processo di beatificazione per il  sacerdote romagnolo scomparso il 2 novembre 2007, il suo successore accetta di raccontare a tempi.it quelle virtù eroiche che la Chiesa gli ha riconosciuto. «Abbiamo chiesto l’apertura dell’iter a cinque anni dalla morte, come previsto dal diritto canonico.Vogliamo scoprire ancora di più chi era don Benzi e farlo  sapere al mondo. Crediamo che possa emergere tutta la straordinarietà di un uomo  che ha dato ogni attimo della sua esistenza a Cristo attraverso i bisognosi. Saranno i fatti giudicati dalla Chiesa a rivelarne la santità».

don_benzi_mario_rebeschini1 dans Stile di vitaDon Benzi diceva: «Quando io incontro il povero in me si rifà presente quel momento in cui ebbi quell’impressione profonda di mio papà che riteneva di non valere niente». E sosteneva che per rendere protagoniste le persone bisogna offrire loro il senso: «Bisogna offrire Cristo». Cosa significa concretamente?
Ripeteva che occorre proporre un incontro con Cristo «simpatetico», non discorsivo. Era gioioso e anche scherzoso se serviva. Era un prete fedele al Magistero, che vestito con la talare entrava nelle discoteche  per conoscere i giovani e andava per le strade a raccogliere prostitute e barboni. Così affascinava e attraeva i ragazzi, i senza tetto, i drogati. Ma  anche i personaggi famosi, i vip, i cantanti. E così conquistò anche me. Era un  veicolo potente della tenerezza di Dio che viene a prendersi cura di ogni uomo. Ricco o povero, sapeva far emergere in ognuno anche l’unica risorsa rimasta,  anche se nascosta lui riusciva ancora a vederla.

Come continuate senza di lui?
Era la sua vicinanza al Signore che gli permetteva di essere così. Don Benzi non ha mai attirato nessuno di noi a sé, ci indicava la strada per arrivare a Cristo, attraverso la regola della comunità: fatta di preghiera, messa quotidiana, adorazione eucaristica, vita totalmente condivisa in cui ogni cosa è decisa insieme. Siamo consapevoli che obbedendo al Suo corpo si obbedisce a Cristo. La formazione in comunità è poi legata allo studio del catechismo e agli incontri culturali. Perché, come diceva don Benzi, per stare in piedi davanti al mondo bisogna stare in ginocchio davanti a Dio: questo ci permette di continuare a costruire sulla roccia.

don_benziBenzi ha fondato case di spiritualità e di educazione per i giovani, case famiglia,  comunità terapeutiche in tutta Italia e in tutto il mondo. Intanto stava con gli  ultimi e trovava il tempo anche per lottare per i loro diritti. Come riusciva a  rispondere a tutto?
Lo faceva e basta. Ricordo che alla fine ogni giornata, passata per le strade di tutta Italia a raccogliere gente, fare  conferenze per sensibilizzare le persone o per cercare di far comprendere alle istituzioni l’importanza della sua lotta, arrivava a casa sfinito e fuori dalla  porta c’era sempre qualcuno che lo aspettava. E lui non rifiutava nessuno, non bisognava permettere che qualcuno soffrisse da solo. Per questo dormiva appena  qualche ora, seduto su una poltrona con le scarpe ai piedi. Prendendoci uno a uno in 40 anni ha costruito un’opera di migliaia di persone. È così che ha  cambiato un pezzo di mondo.

E non ha mai rinunciato nemmeno alla lotta politica, tuonando pubblicamente contro le ingiustizie.
Non gli bastava mettere il braccio sotto le spalle di chi portava la croce: quel braccio bisognava anche  toglierlo dalle spalle di chi le croci le produce. Se davvero tieni a una  persona fai di tutto! Per questo i cristiani non possono stare in sagrestia, per  questo don Benzi faceva pressione sulle istituzioni, sul Parlamento e ha voluto che la comunità si accreditasse all’Onu. Non smetteva di prendere posizione contro le leggi disumane e su ogni fatto che accadeva legato all’aborto, alla prostituzione, ai diritti dei poveri e dei malati. Così continuiamo a fare noi, giudicando e abbracciando ogni particolare del mondo.

don_benzi_bambinoBenzi diceva che vivere veramente con i poveri è possibile solo per chi sta del tutto con il Signore. Che cosa aveva da offrire agli ultimi?
Da quello che diceva e faceva si capiva che la sua non era una risposta sociologica alla  povertà. Sapeva che gli ultimi avevano bisogno prima di tutto di quello di cui  aveva bisogno lui: l’amore di Cristo. Infatti spendere tutta la vita per chi necessita di ogni cosa, non parlare genericamente della povertà o fare un po’ di volontariato, richiede la capacità di vedere Dio nel povero. Così quanti vengono accolti dalla comunità spesso vogliono conoscere il Signore, capiscono che ciò che attendevano prima di incontrarci era innanzitutto Lui.

Siete laici che lavorano nel mondo eppure vivete un’esistenza che  sembra impossibile oggi: conciliate lavoro, ospitalità e impegno pubblico. È una  vita possibile per tutti?
È una vita impossibile per chi sta da solo. Noi invece possiamo abbracciare tutto senza rinunciare a nulla perché  siamo insieme. Vivere così, nella semplicità, pregando e lavorando, ci rende felici. Lo dico dopo trent’anni. E molti vedendoci lo capiscono.

Avete 253 case famiglia solo in Italia, 20 comunità di recupero, diverse case di spiritualità, dimore per i senzatetto. Se si contano quelle all’estero si oltrepassano le 500 strutture con 41 mila persone riunite ogni giorno intorno alle vostre tavole. Come si è potuta espandere un’opera simile in così pochi anni?
Fa impressione anche a noi vedere come in quarant’anni questa esperienza abbia contagiato tanta gente che ha scelto di vivere in comunità. Significa che don Benzi aveva ragione: tutti aspettano di incontrare il senso della vita e di darla interamente per questo.

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