“Cosa cambia, prof, se Dio c’è o non c’è?”

Posté par atempodiblog le 9 novembre 2013

Il tema di uno studente in un intervento alla Scuola di comunità con Carrón.
Un’insegnante ne resta provocata. E approfondisce quel primo contraccolpo in classe. Fino a un dialogo che la porta, da Vasco, a parlare di Gesù
Tratto da: Tracce

“Cosa cambia, prof, se Dio c'è o non c'è?” dans Riflessioni scuola_alunniDurante l’ultima Scuola di comunità di Carrón sono stata molto colpita dalla lettera dell’insegnante che riporta il testo di uno dei temi svolti dai suoi alunni tredicenni. Tornando a casa pensavo che quel tema era la descrizione esatta di che cosa significhi vivere senza Dio e che mi aiutava a rispondere relativamente ad una provocazione che spesso mi viene dai miei alunni. Insegno, infatti, religione.

Non si tratta di filosofeggiare, ma i ragazzi dimostrano tutto il loro scetticismo circa l’idea che possa esserci Dio, creatore e provvidenziale. Di fronte alle ragionevoli argomentazioni sulla presenza di Dio nella storia e nella vita dell’uomo (seguo esattamente il Percorso di Don Giussani), se ne escono dicendomi che, anche se fosse vero che Dio esiste, in fondo la vita non cambia: i dolori ci sono lo stesso e la vita pare una faccenda non troppo bella, tranne che per poche parentesi felici. «Cosa cambia, prof, se Dio c’è o non c’è?». Poche domande come questa mi interpellano a fondo e mercoledì mi è parso di poter vedere il quadro di una vita senza l’ipotesi di Uno che ti fa, che ti vuole.

Ho pensato che il tema del ragazzino che ci descrive soli, sostituibili, parte di un meccanismo naturale e materiale, ci fa concepire tristi e cinici, ci sta stretto. Potremmo anche rassegnarci se non accadesse qualcosa che ci facesse sentire importanti, unici e voluti. Ho pensato che questo a me è successo e continua a succedere. Ho qualcuno per cui sono veramente importante, ho marito, figli, madre, amici. In questo forse non c’è una vera novità rispetto ai miei alunni: abbiamo tutti qualcuno, in un modo o nell’altro. Io però ho di più: ho Dio, che ho incontrato e che mi ama più di chiunque, perchè è l’unico in grado di volere me, proprio me, così come sono. Nessuno lo può fare prima di vederti, prima che tu sia. Perché non sa come sarai. Tua madre vuole un figlio, tuo marito una donna da amare, i tuoi amici vogliono un vero amico. Tutti ci troviamo di fronte qualcuno già fatto ed è meraviglioso sentirsi accolti, accettati, desiderati, ma è ancora generico. Altro è essere pensati e voluti con questa faccia, con questo modo di essere. Ed è questo che noi vogliamo, che ci soddisfa. Ma questo è possibile solo a Dio.

Appena sono stati pubblicati gli appunti, sono andata in classe armata di tablet ed ho letto quel tema e parte della lettera iniziale della Scuola di comunità. L’ho fatto nelle prime, dove si inizia con le grandi domande e più spesso viene fuori la famosa obiezione. Ogni volta che finiva una lezione avevo capito sempre di più, mi stupivo sempre di più, mi sentivo piena di ragioni, di gratitudine. Forse posso dire che facevo lezione a me stessa, ma anche i miei giovanissimi alunni tiravano fuori domande meno scettiche, anche se talvolta un po’ ingenue.

Devo dire, però, che non ero ancora del tutto soddisfatta, perchè cosa cambia sapere o non sapere che «Uno ti fa»? Forse non basta sapere per vivere.

Arrivo in una quinta e non avevo nessuna idea di leggere la lettera, stiamo infatti riprendendo i contenuti dello scorso anno e abbiamo lavorato sul fatto che il Cristianesimo non è una morale o uno spiritualismo, ma un avvenimento. Mentre imposto il discorso mi rendo conto che è proprio lì che c’entra la lettera. Allora la leggo e dico: «Ma perchè pensate che Dio si sia fatto carne? Perchè potessimo sperimentare davvero, nella carne, nella concretezza, che Lui ci ama proprio così, volendoci proprio come siamo. È questo che ha ribaltato completamente Zaccheo, Giovanni e Andrea, la Samaritana, l’adultera. Loro hanno incontrato un amore che è più profondo di quello di una madre e un padre, di un figlio, di un amico, di una moglie. Solo quello sguardo li ha fatti sentire davvero voluti». Lo dicevo a loro e lo dicevo a me.

Una mattina in una terza è successo qualcosa di commovente. Dall’inizio dell’anno si ferma in classe Lefi, un ragazzo tunisino, molto in gamba, che, purtroppo, non fa religione. Stiamo lavorando sul Senso religioso ed è interessatissimo. Tento di ricostruire brevemente la lezione. Parto riprendendo i discorsi fatti le lezioni precedenti in cui è venuto fuori che siamo pieni di domande e desideri profondi, ma che non riusciamo mai ad arrivare ad una soddisfazione. Che abbiamo una sproporzione strutturale. Finiamo a parlare di Vasco Rossi e della sua ultima canzone Cambiamenti. Insomma, mi piace il fatto che un tempo ha avuto il coraggio di gridare le cose che sentiva dentro di sé, ma adesso è arrabbiato perchè deve rinunciare a certe cose e non è facile. Mio padre diceva molto semplicemente che se uno non può fumare, magiare, bere e andare a donne cosa vive a fare? Lefi, allora, mi dice: «Suo padre ragionava bene». Ed io gli rispondo: «No, ragionava male, se uno pensa che la vita sia bella a certe condizioni è fregato, perché quelle condizioni le perdi sempre, diventi vecchio e non le hai più; metteteci tutte le condizioni che volete ma non cambia».

«E allora la vita è triste ed è una fregatura prof», dice Lefi: «Per tutta la vita punti su certe cose e poi non valgono». «La vita non è triste – dico io – bisogna trovare qualcosa che tiene». «Ma cosa ci può essere? Il niente prof, noi abbiamo un buco grosso dentro e niente può riempirlo». «Già – dico – o il niente o Dio, non abbiamo alternative». Allora leggo il tema della lettera e spiego che il niente è quello che dice il ragazzino: parti di un ingranaggio. E Lefi: «Preferisco il niente, in fondo si va avanti lo stesso». «Non ce la fai dopo un po’ non hai più le forze» gli dico, ma lui ribatte: «Non è vero, è questione di carattere, se sei forte ce la fai». «Sì ma bisogna mettersi addosso una corazza sempre più spessa, devi vivere barricato davanti alla realtà» gli dico. E lui: «Infatti, prof, noi siamo così, viviamo con una maschera per difenderci». «Ma a noi cristiani è capitato Gesù, Dio, e Lui ci ha tolto ogni bisogno di difenderci, non c’è bisogno di maschere e corazze». «Ma prof, se tutti hanno la maschera come fai a togliertela?». «Pensa che bello: – gli dico – ci sono quattro che si guardano senza bisogno di difendersi tra loro e guardano la vita insieme, sapendo di essere amati da Gesù. Sai questa è la nostra fede». È suonata la campanella e sono sciamati via. Lefi è rimasto un po’ così, senza parole. Poi è andato anche lui, c’era l’intervallo.

È accaduto che Gesù fosse lì quella mattina, davanti a me, poveretta e incapace. Davanti a loro, a Lefi, che è intelligente e scrive rap, a Lorenzo che soffre come un cane perchè sua madre l’ha abbandonato, a Martina che sta vedendo morire la sua famiglia, a tutti gli altri che hanno tenuto gli occhi sgranati e il cuore teso. Così straziati da un mondo cinico, che li costringe a chiudersi nella maschera della distrazione, del cinismo, che li fa sentire sostituibili. Resta il loro cuore con quell’indomabile desiderio di essere amati fino in fondo. Prego che possano incontrare quello che ho io.

Marida, Albenga

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