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Il Cardinal Federigo Borromeo, testimone della tenerezza della Chiesa

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

L’Innominato e il Cardinal Federigo
Proviamo ad immedesimarci con lo stato d’animo dell’Innominato; anzi entriamo nella scena sostituendoci a lui.
di Maria Vittoria Pinna. Curatore: Don Gabriele Mangiarotti – Cultura Cattolica

Il Cardinal Federigo Borromeo, testimone della tenerezza della Chiesa dans Alessandro Manzoni ynjeIl cuore è sconvolto, non capisco nulla, quell’uggia iniziale si è trasformata, dopo l’incontro con la fragile Lucia, in disperazione. Poi, quando tutto sembrava finire in una resa totale al nulla, quello strano duplice pensiero: e se l’altra vita non esiste?… e se invece esiste?
Era un’oscurità davvero insopportabile che un colpo di rivoltella non avrebbe risolto… Poi quell’immagine inspiegabilmente autorevole che sembrava schiacciarmi e ripeteva a voce non più supplichevole, ma decisa, autorevole e foriera di una strana speranza: Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia… Quindi il proposito di liberare la giovane: ma la pace all’animo tormentato non arrivava. Non ho nemmeno fatto in tempo a ripiombare nella disperazione che quello scampanio, quella folla gioiosa per le strade proprio sul far dell’alba, lungi dall’infastidirmi come un ostacolo al mio rimuginare, mi incuriosisce, nonostante il dispetto. Il bravo incaricato, mi spiega l’arcano: è in visita pastorale al paese il cardinal Federigo… un uomo… ma chissà cosa avrà quest’uomo che sembra dar tanta gioia alla gente… Ma… può darsi che abbia la capacità di dirmi qualcosa che plachi anche il mio tormento… (che strano: sono tanti piccoli fatti, ma passano in un secondo e mi resta soltanto il cuore pieno di angoscia e… di una speranza inspiegabile…)

Ebbene, ci andrò. Cammino inquieto senza la mia solita scorta e non mi importa della stranezza della cosa per chi mi vede: nessuno ha in cuore il diavolo che mi tormenta…
Son qui nell’atrio in mezzo a una brigata di tonache nere che mi guardano con sospetto. A dire il vero nemmeno me ne accorgo, meglio: non mi preoccupo affatto. Voglio vedere quest’uomo e lo vedrò (ho sempre fatto quello che volevo e nessuno me lo ha impedito!)
Ecco che il Cappellano crocifero mi introduce nella stanza in cui il Cardinale aspetta di celebrare gli uffizi divini. Non so cosa farò, non so cosa dirò, ma ora sono davanti a lui . Un attimo e lui mi viene già incontro con fare premuroso e pieno d’affetto a braccia spalancate, come con una persona desiderata.
Non ho parole, ma anche lui mi guarda e tace: ma perché sono qui? Il tormento mi dilania… ma non ho nemmeno voglia di parlare. Sollevo lo sguardo e… avverto un… sentimento di venerazione imperioso e insieme soave, che, aumentando la fiducia, mitiga il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatte, e… gli impone silenzio.
Ha anche lui uno sguardo penetrante e dopo un po’ mi dice: “Oh!(…) Che preziosa visita è questa! E quanto vi devo esser grato di questa preziosa risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!”.
“Rimprovero” ,
ma cosa mi dice… “Certo, m’è un rimprovero (…) ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io”.
Ma lo sa chi sono io? Sì, lo sa, ma come può essere così accogliente per me? Ecco, mi parla: ma cos’è questo strano sentimento che mi allarga cuore e polmoni togliendomi quella oppressione insostenibile? e come mai non mi indispettisce il sentirmi ricordare le mie malefatte?… Nella sua voce non c’è rimprovero, c’è una dolcezza, una pacatezza, una sicurezza che nemmeno la mia cattiveria possono turbare… Mi accoglie per quello che sono!!! No, non lo merito… che faccio: piango? Ma come è liberante questo pianto… mi conosco… ora, ora capisco cosa sono stato veramente… Dio mio, perdono… ma come potrò rimediare a tanto male fatto?

Ormai la conversione per l’Innominato ha avuto il sigillo del confronto con una Presenza carica di messaggio: dentro la Chiesa questo tipo di conforto avviene dentro un sacramento, segno efficace del perdono di Dio alla nostra miseria.

Ciò detto invito tutti a leggere con attenzione queste pagine bellissime che testimoniano la tenerezza della Chiesa, incaricata da Dio di accogliere e abbracciare nel perdono tutti i suoi figli.
Con una raccomandazione. Non lasciatevi impressionare dalle espressioni del cardinale, che paiono un po’… auliche: tenete presente che siamo nel ’600 e gli ecclesiastici parlavano allora così. Quello che conta e commuove e dà speranza a chiunque è quell’atteggiamento pieno di premura, di attenzione, di accoglienza, di perdono, che solo la presenza di Cristo, vivo e presente nella Chiesa può dare.

divisore dans Medjugorje

Capitolo XXIII de I Promessi Sposi freccetta.jpg L’Innominato e il Cardinal Federigo

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Dio giudice e Misericordioso

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

Dio giudice e Misericordioso dans Alessandro Manzoni cfbw

Si parlava della celebre frase di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”. La pensava così anche il suo contemporaneo Alessandro Manzoni.

Nei “Promessi sposi”, infatti, uno dei personaggi più riusciti è utilizzato dal Manzoni proprio per rendere visibile questo concetto. Parlo dell’Innominato. Quest’uomo malvagio, indurito, ma non per sempre, dai suoi crimini, viene infatti introdotto dal poeta attraverso il paesaggio che lo circonda. L’Innominato infatti abitava “a cavaliere a una valle angusta e uggiosa” e “dall’alto del castellaccio non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto”. Questa breve descrizione, apparentemente geografica, dice già tutto quello che Manzoni pensa di Dio e della morale: l’uomo che non vede nulla “al di sopra di sé”, cioè l’uomo che si pone al di sopra del bene e del male, eliminando Dio dal suo orizzonte, vive già tutti i presupposti per divenire una creatura senza scrupoli e piena solo di se stessa. L’uomo che scarta Dio, in altre parole, siede al suo posto e rifiuta un giudizio su di sé, in nome della sua completa autonomia.

All’Innominato avviene dunque come ad un personaggio di  Dostoevskij, Sigalev: “Sono partito dalla libertà illimitata e finisco nel dispotismo assoluto”. Non vendendo mai alcuno “al di sopra di sé, né più in alto”, l’Innominato finisce inevitabilmente per porre se stesso sopra i propri simili.

Diciamolo subito. Si può finire male anche credendo in Dio. Don Abbondio ne è un esempio, così come lo è un personaggio di Chesterton che è solito passeggiare nella parte sopraelevata della sua chiesa, essendo un pastore. Di lì osserva, dall’alto al basso, tutti gli altri. Sino al punto di ritenere che la sua “bontà” gli permetta di ergersi a giudice di un suo fratello, ubriacone e peccatore; sino al punto di fulminarlo, dall’alto, lasciandogli cadere un martello in testa. 

Perché chi crede in Dio può benissimo farne una sorta di soprammobile, come fa don Abbondio, oppure può essere tentato di sentirsi buono e giusto (lui), in un mondo di peccatori (gli altri). La superbia, male per eccellenza, è dunque sempre in agguato. Per questo Dostoevskij fa dire a padre Zosima, ne “I fratelli Karamazov”: “Amate l’uomo anche con il suo peccato, perché questo riflesso dell’amore divino è il culmine dell’amore sopra la terra”. Non facile, certo.

Ma torniamo al nostro Innominato. Manzoni ne descrive in modo esemplare la conversione. Dice infatti che all’epoca del rapimento di Lucia da lui ordinato, l’Innominato è pervaso da una certa “paura”, “terrore” , “una non so qual rabbia di pentimento”. Cosa è successo di nuovo? Manzoni lo fa capire bene: ci si può credere dio, sino ad un certo punto; si può fare come se Dio non esistesse, finché si è forti, finché si ha successo, finché si calca la scena tra gli applausi del mondo.

Ma poi arriva la vecchiaia, si incomincia ad intravedere la morte, e sentirsi ancora dio si fa difficile. Come Dorian Gray: si può mettere la coscienza del peccato in soffitta per tanto tempo, ma poi ad un certo punto diventa insopprimibile la domanda: e poi?

L’Innominato vorrebbe scacciare i suoi pensieri, vorrebbe rituffarsi nell’azione, che tacita il rimorso e la paura, ma si trova “ingolfato nell’esame di tutta la sua vita”. Finché è colto da una considerazione che ci riporta all’inizio: ma se Dio esiste, quale sarà la mia sorte nell’eternità? Però, “se quella vita (nell’aldilà) non c’è, se è una invenzione dei preti; che fo io? Cos’importa quello che ho fatto? Cos’importa?”.

Se Dio non c’è, infatti, esiste solo la giustizia umana; ma sulla terra vince spesso la forza, l’ingiustizia: e l’Innominato, che lo sa, se lo chiede: “io vinco, che importa dunque il pentimento, il rimorso? Nessuno potrà mai chiedermi conto della mia vita. Neppure dopo la morte”. Ma il dubbio, la paura sono forti. E se invece Dio esiste?

Manzoni descrive sapientemente questi dilemmi, e decide di descrivere l’Innominato sul punto di suicidarsi, in preda alla disperazione. La tentazione umana, come quella di Giuda, è la mancanza di speranza; è la tentazione di fare ancora una volta come se Dio non esistesse, ergendosi a padroni della propria vita sino all’ultimo.  E’ stato il demonio a suggerirti il suicidio, dirà infatti Federigo Borromeo all’Innominato. Come avviene, allora la conversione? In due fasi. Anzitutto la disperazione di chi si riconosce finalmente malvagio, viene incrinata da una frase di Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”.

E’ una frase dolcissima, teneramente cristiana: perdono e misericordia sono possibili al Dio che è giudice, quando non sembrano neppure più possibili all’uomo che sta, per la prima volta, giudicando se stesso. La verità di Dio Giudice, non può però essere separata dalla verità di Dio Misericordioso. Pronto a perdonare chiunque, sempre, sino all’ultima ora. Se c’è pentimento.  Poi, dopo le parole di Lucia, che riaccendono la speranza, un incontro: con Federigo che lo abbraccia e rende presente quel perdono. La Fede si diffonde per contagio.  Contagiano coloro che vivono un Dio giusto e misericordioso. Contagiano talora anche coloro che per una vita si sono seduti sul trono di Dio.

Francesco Agnoli – Il Foglio

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Il “miracolo” di Francesca: una morte che genera vita

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

La forza dell’amore
Il “miracolo” di Francesca: una morte che genera vita
di Giorgio Paolucci – Avvenire

Il “miracolo” di Francesca: una morte che genera vita dans Riflessioni t728In una società in cui la morte è argomento tabù perché non si riconosce più il significato della vita, accadono fatti che si portano dentro un carico di umanità così forte che è sufficiente guardarli per “capire”. Bisogna solo lasciarsi colpire dalla testimonianza che ne sgorga. Basta guardare, basta ascoltare. È tutta da guardare, è tutta da ascoltare la storia di Francesca Pedrazzini, che ha attraversato il mare di una malattia senza scampo con la certezza che Dio continuava a starle accanto. E vivendo così fino all’ultimo respiro, ha lasciato un segno incancellabile nel cuore di tante persone che l’hanno accompagnata nel suo calvario.

Una bella famiglia, la sua. Insegnante di diritto in una scuola superiore di Milano, sposata con Vincenzo, avvocato, tre figli, grintosa e appassionata sul lavoro e con gli amici, un amore speciale per il mare della Grecia. Una vita costellata di superlativi assoluti. Tutto “issimo”: la pizza buonissima, la persona incontrata simpaticissima, e che spesso diventava amicissima. Cercava la felicità ovunque, e se in una cosa ne percepiva anche solo un barlume, quella cosa diventata “issima”.

Un giorno di febbraio del 2011, mentre si toglie il maglione, avverte un fastidio al seno. Un sospetto, poi la visita ginecologica, gli esami, la scoperta di un piccolo tumore, l’intervento chirurgico, i medici che rassicurano – «complimenti, è guarita, tutto a posto». E invece dopo qualche mese il male rispunta, i marker tumorali sono alti, «è arrivato dappertutto, ossa e fegato», si sfoga con un’amica. Francesca va col marito a confidarsi con l’amico Claudio al monastero benedettino della Cascinazza, alle porte di Milano. Un dialogo essenziale. «Noi preghiamo per la tua guarigione – le dice il monaco – ma sappi che se non ci sarà questo miracolo, ce ne sarà uno ancora più grande».

Comincia un calvario fatto di radio e chemioterapia, ricoveri e periodi trascorsi a casa tra letto e divano, cortisone, gonfiori, complicazioni, le ossa che si fanno cristallo. Gli amici, tantissimi, si stringono a lei e alla famiglia. In una mail scrive a Clara: «Sono sopraffatta dalla carità di tutti verso di me e quindi dall’abbraccio di Gesù. Lo sai che si girano un file-excel con i turni mattino-pranzo-pomeriggio-sera? È incredibile, continua a chiamarmi gente che vuole venire a trovarmi». «Sopraffatta». Lo dice anche quando viene a sapere che il giro degli amici si è allargato al punto che c’è gente che prega e chiede la grazia della guarigione in America, Russia, Libano, Taiwan. Ad Anna, un’altra amica, confida che «la misericordia di Dio è grande, perché non passa giorno in cui non mi tiri fuori dalla disperazione. C’è sempre una persona, una telefonata, qualcosa che leggo che non permette alla tristezza di avere il sopravvento».

Si fa più intenso, più vero, il suo cammino nel movimento di Comunione e liberazione che aveva incontrato da ragazza e le aveva letteralmente riempito l’esistenza, aiutandola a riconoscere la presenza del Mistero in ogni circostanza. Una frase di Julián Carrón, il sacerdote spagnolo che guida Cl e al quale racconta della malattia, le resta nel cuore: «Vedi Francesca, tutti noi siamo malati cronici. Ma tu hai un’occasione in più per la tua maturazione, che non puoi perdere».

Anche quando il male si fa più aggressivo, Francesca vuole gustare la vita fino in fondo. A fine luglio 2012 l’ultima vacanza a Cefalonia, in Grecia: «Voleva guardare il mare, avere davanti una bellezza – ricorda il marito –. La notte prima di partire l’ha passata sveglia, sul terrazzo. C’era quella vista pazzesca, con la luna riflessa nell’acqua».

Pochi giorni dopo è di nuovo in ospedale, a Milano, dove rimarrà fino alla morte. Il 22 agosto niente visite, vuole dedicare tutto il giorno ai suoi bambini: Cecilia, 9 anni, Carlo 6, Sofia 3. Chiacchiere, scherzi, indovinelli, qualche lacrima. A Cecilia, che si infila nel suo letto, dice: «Vado in un posto bellissimo, sono contenta e curiosa. Mi raccomando, quando vado in Paradiso dovete fare una bella festa». Vincenzo, guardando oggi i suoi bambini, commenta: «Sono sereni, pieni di vita. La nostalgia c’è, ma non è un ostacolo. Mia moglie quel giorno ha fatto per loro più di quello che una madre può fare in cinquant’anni di amore e educazione». In ospedale sono stupiti dallo spettacolo di tanti amici attorno a quel letto, a parlare, ridere, piangere, pregare. Un medico dice alla madre di Francesca: «Una fede come quella di sua figlia non l’ho mai vista. Mi sarebbe piaciuto conoscerla un po’ di più. Le dica che quando sarà in Paradiso si ricordi dell’ultimo medico che l’ha curata». Il 23 agosto entra in coma, il tempo si fa breve. Vincenzo le dà un bacio e sussurra all’orecchio: «Non avere paura». Lei si riprende, apre gli occhi e dice a voce alta: «Io non ho paura».

Sono le sue ultime parole. E sono diventate il titolo di un libro scritto da Davide Perillo (edizioni San Paolo), che raccoglie decine di commoventi testimonianze e sta vendendo migliaia di copie. La vicenda di Francesca ha segnato il cuore di molti, ha favorito il riavvicinamento alla fede di qualcuno, ha lasciato a bocca aperta il taxista che accompagnava una delle sue amiche al funerale: «Che aria di festa, credevo fosse un matrimonio». Piccoli e grandi miracoli quotidiani che continuano ad accadere. Il monaco benedettino che Francesca aveva incontrato dopo avere saputo del tumore, le aveva detto: «Preghiamo per la tua guarigione, ma sappi che se non ci sarà questo miracolo, ce ne sarà uno ancora più grande». È andata proprio così.

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