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I Santi: uomini che non portano maschere

Posté par atempodiblog le 28 octobre 2013

I Santi: uomini che non portano maschere
Tratto da: La nuova Bussola Quotidiana

In vista della festa di Tutti i Santi e della commemorazione dei defunti, riportiamo il testo integrale della lettera scritta ai propri fedeli dai sacerdoti del Decanato di Valceresio, Arcidiocesi di Milano. La lettera, non solo spiega il senso delle festività di inizio novembre, ma mette in guardia dalla festa pagana di Halloween, il cui reale significato è la celebrazione del dio della morte. E durante la quale le sette sataniche ne approfittano per reclutare adepti.

santi

Carissimi amici,

come ogni anno la Chiesa si appresta a vivere la festa di Tutti i Santi e il giorno in cui si commemorano i nostri cari defunti che già godono della visione di Dio. L’occasione di questa grande festa ci richiama al destino che ci attende: la vita in Cristo. Gesù, infatti, con la sua morte e risurrezione, ha impedito che la parola “fine” tirasse il sipario sulla nostra vita. Il tratto di strada, più o meno lungo, che percorriamo sulla terra è un pellegrinaggio verso la vera patria che è il Cielo, popolato da coloro che la Chiesa ha posto come modelli per tutti, i Santi, e da coloro che ci hanno preceduto nel raggiungimento della méta, i nostri cari defunti.

Così, persino il momento più drammatico per la vita di un uomo, com’è la morte, viene raggiunto dalla luce della fede che ci consente di guardare con speranza al momento del nostro tornare alla casa del Padre. A questo proposito conviene riascoltare le parole che nel 2007 Papa Benedetto XVI ha scritto nell’Enciclica Spe Salvi: «Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la “vita”? E che cosa significa veramente “eternità”? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la “vita” vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo “vita”, in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – “la vita beata”, la vita che è semplicemente vita, semplicemente “felicità”. Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta… Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa “vera vita”; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti» (n. 11).

Mossi da questa grande speranza nei prossimi giorni visiteremo i cimiteri dove riposano le persone che abbiamo amato in attesa della risurrezione dell’ultimo giorno quando, al ritorno di Cristo, la morte verrà definitivamente distrutta e tutti potremo vivere della Sua stessa vita sotto “cieli nuovi” e in una “terra nuova”, travolti dallo stupore per la bellezza di tutto. Il tempo sfocerà nell’eterno e l’uomo non potrà più scegliere “per” o “contro” il Signore. Avverrà, infatti, il giudizio “dei vivi e dei morti”, cioè di tutta l’umanità. Verrà così smascherato il tentativo degli uomini di vivere “come se Dio non ci fosse” e tutto (noi, gli altri e il mondo) apparirà nella sua nuda verità. Il giudizio sarà: “particolare” al momento della morte di ciascun uomo e “universale” al momento del ritorno di Cristo alla fine dei tempi.

Paradiso e Inferno, che non sono due luoghi ma due condizioni umane, sono le possibilità che stanno davanti a noi in base a come si è giocata la nostra libertà di fronte a Dio. Poiché nel morire la decisione definitiva di una persona può essere incerta, la Chiesa afferma la possibilità del Purgatorio, come estrema occasione di purificazione e salvezza grazie alle preghiere di Gesù e Maria e all’intercessione della Chiesa mediante la celebrazione della santa Messa per i defunti, l’Indulgenza, l’offerta della sofferenza e delle opere di carità, la preghiera quotidiana.

Vista la grandezza del destino che ci attende, vista la forza che queste realtà ci danno per vivere con più intensità il reale, riteniamo veramente assurdo e pericoloso il proliferare di un modo pagano di festeggiare queste ricorrenze, a scapito del grande tesoro della fede che vogliamo custodire e trasmettere con gratitudine.

Uno dei modi più confusi e deviati è la festa di Halloween. La fede ha realtà molto più interessanti e ragionevoli da consegnarci rispetto alle zucche vuote, ai bambini (e anche adulti!) travestiti da streghe, fantasmi, vampiri e diavoli, al girovagare di casa in casa con la domanda sulle labbra: «Dolcetto o scherzetto?», che è l’ingenua traduzione di una formula dell’antico cerimoniale pagano, e al dilagare di discutibili feste serali e notturne dei ragazzi più grandi storditi dal volume della “musica” (se così si può chiamare) e ambigui divertimenti.

Preoccupati per il moltiplicarsi ingenuo di feste come questa, vi proponiamo tre criteri di giudizio per educare il nostro modo di guardare la realtà a partire dalla fede:
1. Il cuore di ogni uomo è pieno di domande grandi sul senso di tutto. La vita e la morte sono, forse, i nodi più scoperti. Usiamo del tempo che abbiamo per andare a fondo delle questioni più decisive, verificando se in noi la fede regge davanti alle sfide del vivere o se, quello di Cristo, è diventato solo un nome.
2. Halloween è una festa nata in ambito pagano, che non ha nulla a che vedere con la fede cristiana. Celebra il dio della morte (Samhain) ed è intrisa di esoterismo e magia, finendo talvolta per percorrere sentieri che sanno di diabolico. C’è un’evidente contraddizione per chi è battezzato, anche se l’intenzione con cui festeggiamo non è cattiva, né tantomeno contro la fede in Cristo.
3. Secondo uno studio della comunità “Giovanni XXIII”, fondata da don Oreste Benzi, il 16% dei ragazzi che partecipano a sette occulte ed esoteriche, dove avvengono le cose più cruente come i sacrifici offerti al Diavolo e la profanazione dell’Eucaristia, viene adescato proprio in questa occasione. Occorre, dunque, essere molto vigilanti senza inoltrarsi in luoghi e compagnie che potrebbero risultare molto pericolosi.

Il cardinale Scola, nella sua Lettera pastorale Il campo è il mondo. Vie da percorrere incontro all’umano, ci invita, tra le altre cose, a ritrovare il vero senso della festa che troppo spesso finisce per “esaurire l’io anziché ricaricarlo” (pag. 33). Custodiamo il gusto per le cose belle, vere, buone e giuste. I Santi che festeggiamo sono uomini e donne che hanno vissuto senza maschere, pieni di passione per Cristo e per il fratello, perché erano certi che «la fede non abita nel buio, ed è luce per le nostre tenebre» (Papa Francesco, Lumen Fidei, 4).

Con grande affetto, in Cristo!
I sacerdoti del Decanato

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San Giuda Taddeo

Posté par atempodiblog le 28 octobre 2013

San Giuda Taddeo dans Rino Cammilleri San-Giuda-Taddeo

È l’Apostolo meno noto per via del nome (infatti, chi darebbe a suo figlio il nome ‘Giuda’?) ma, proprio per questo, patrono dei casi disperati. È sempre raffigurato con un ritratto di Cristo in mano perché pare che gli somigliasse fisicamente moltissimo. Erano anche, almeno giuridicamente, primi cugini, perché Giuda Taddeo era figlio di Maria di Cleofe (una delle ‘tre Marie’ sotto la croce) e di Alfeo, fratello di s. Giuseppe. Dunque, era anch’egli della stirpe di David. Coetaneo di Gesù e nato a Nazareth, era detto Taddeo dal siriaco ‘thad’, che vuol dire ‘amabile’. Quest’ultimo nome è ancora oggi diffusissimo in Polonia (Tadeusz). Giuda Taddeo evangelizzò la Mesopotamia e la Persia, dove fu raggiunto da un altro Apostolo, Simeone. Verso l’anno 70, nella città persiana di Suamyr, i due subirono il martirio per mano della popolazione aizzata loro contro dai sacerdoti pagani Arfexat e Zaroes. Il corpo di s. Giuda Taddeo si trova nella basilica di San Pietro, a Roma.
Leggo sulla rivista Radici Cristiane dell’aprile 2005 che s. Bernardo di Chiaravalle portava sempre con sé una reliquia di questo santo. Carlo Magno ne era così devoto che ottenne dal papa il permesso di portarne temporaneamente il corpo a Tolosa.
Infine, s. Brigida: mentre pregava per ottenere una grazia le apparve Cristo in persona e le disse di rivolgersi a suo cugino Giuda; Brigida eseguì e immediatamente fu esaudita. Purtroppo, come abbiamo detto, il culto di questo potentissimo santo da noi non è molto sentito. E sono davvero rare le chiese a lui dedicate (ma una la so: a Roma, in via Rovereto).

di Rino Cammilleri
Tratto da: Il Giornale

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Lo zelo amaro

Posté par atempodiblog le 28 octobre 2013

“[…] se avete nel vostro cuore gelosia amara [= zelo amaro] e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità” (Gc 3,14).

Lo zelo amaro  dans Correzione fraterna fbgu

Che cosa è lo zelo amaro [zêlos pikrós] (Gc 3,14)? È uno zelo per il bene, ma non animato (addolcito) dalla carità e quindi dannoso. È tipico dei principianti: all’inizio è segno di volontà seria di bene, ma con il passare del tempo rivela la sua forza distruttiva.

Ne parla anche san Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, cap. 28: “L’anima facendo un confronto, giudica gli altri cattivi e imperfetti, sembrandole che essi non agiscano e operino bene come lei, stimandoli di meno in cuor suo e spesso anche a parole” (ma si veda tutto il capitolo!). Esso nasce da un confronto tra sé e gli altri, in cui lo stupore tra quanto il Signore sta operando in noi, per esempio la conversione, lascia il posto ad un segreto orgoglio, per cui si dimentica Chi è all’origine di questo miracolo. Ho visto tanti sbagliare, perché irretiti in questa mentalità, avvelenati da questa amarezza che acceca.

Dice san Francesco d’Assisi nella Regula bullata: “[…] tutti i fratelli si vestano di abiti vili e possano rattopparli con sacco e altre pezze con la benedizione di Dio. Li ammonisco, però, a non giudicar gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate. Ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso”.


Dobbiamo stare attenti cioè a non giudicare. “Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,1-2). Il nostro giudizio può – e per tanti versi deve – portare sui comportamenti buoni e cattivi che troviamo davanti a noi e intorno a noi: il bene e il male esistono, saremmo sciocchi se non volessimo vederli. Saremmo addirittura malvagi se li volessimo confondere fino al punto di negare la differenza. Il relativismo ambientale in cui siamo immersi ci invita in modo suasivo e falsamente pacificante a cadere in queste sabbie mobili, in cui fatalmente sprofonda senza possibilità di trovare un punto fermo chi vi si avventura imprudentemente. “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Is 5,20).


Prima di tutto il nostro giudizio è sempre un giudizio limitato, perché – esclusa una speciale ispirazione divina – ci sfugge l’essenziale: il cuore dell’uomo (cfr. Ger 17,9-10). Noi vediamo solo l’esteriorità e quello che sta dentro lo comprendiamo solo per congettura (1 Sam 16,7). I nostri giudizi sulle persone, anche quando sono necessari e doverosi, sono sempre penultimi e mai definitivi.


Ma anche in questi giudizi ‘penultimi’, dobbiamo stare attenti ad essere corretti e quindi a tener conto di ciò che è principale e di ciò che è secondario. Normalmente, le persone non sono totalmente coerenti nei loro atteggiamenti: c’è sempre qualcosa che non torna: “[…] il giusto cade sette volte” (Pr 24,16).

D’altronde, se ci esaminiamo attentamente davanti a Dio scopriamo facilmente tante incoerenze nei nostri stessi comportamenti: siamo per esempio proprio sicuri di non aver mai giudicato male il nostro prossimo e di non aver proferito a suo riguardo parole cattive, non provate e ingiuriose? Il saggio è colui che sa discernere negli atteggiamenti di una persona quello che veramente conta da quello che è accessorio. Si tratta di qualcosa di difficilissimo: se non ci si riesce è meglio astenersi. Così insegna sant’Ignazio negli Esercizi Spirituali: “[…] occorre presupporre che ogni buon cristiano debba essere più disposto a interpretare una affermazione oscura del prossimo in senso buono che a condannarla. Se non può giustificarla in nessun modo, si faccia spiegare come egli la intende, e se il senso non è proprio corretto lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi convenienti perché la sua comprensione sia sana e sia liberato dall’errore” (n. 22). Non si corre così il rischio di non difendersi dal male? Di cadere nei lacci del nemico astuto?

Ci vuole discernimento, che è un dono di Dio e frutto di esperienza e di allenamento. In ciò consiste una parte essenziale di quella sapienza che Salomone ha chiesto e ottenuto da Dio (Sap 9,4; cfr. 1 Re 3,9). A volte, ci sono persone astute da cui stare in guardia. Ecco perché Gesù parlava pubblicamente male dei farisei: perché voleva mettere in guardia i suoi discepoli dalle loro macchinazioni e scuotere le loro coscienze e condurli a ravvedersi. Se però non sono sicuro debbo astenermi dal dare giudizi, altrimenti pecco gravemente e il male mi ha vinto e conquistato.

Discernere il nucleo buono delle persone e fondarsi su di esso allora non è dabbenaggine, ma saggezza cristiana. Dare fiducia alle persone è un modo sicuro per aiutarle a diventare buone e per diventare buoni noi.


Attaccarsi al particolare negativo, tralasciando il fondo positivo è il modo migliore per crescere nella cultura del sospetto che ti avvelena la vita, fa il vuoto attorno a te, ti rende odioso agli altri e cieco riguardo al bene che ti circonda. Di più: ti rende strumento diabolico del peggioramento del prossimo che tu incontri: “Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica” (Gc 3,15).

“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai al tuo fratello: ‘Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio’, mentre nel tuo occhio c’è la trave? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la paglipagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Mt 7,3-5).

di Don Pietro Cantoni – Il Timone
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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