Odiare distrugge

Posté par atempodiblog le 17 octobre 2013

Il caso Priebke ce lo dimostra
Odiare distrugge
di Marina Corradi – Avvenire

Odiare distrugge dans Articoli di Giornali e News ezfo

Le immagini da Albano di una folla che sputa sul feretro del centenario Priebke, e prende a calci il carro funebre che lo trasporta, lasciano addosso un malessere, un’ombra di sgomento a chi le guarda nei telegiornali. Viviamo in un Paese generato da un tessuto antico, e uno dei fili di questa trama è il virgiliano parce sepulto, pietà per chi è morto. E ben sapendo chi era il capitano delle SS Erich Priebke, e che cosa orribilmente ha fatto, e che 335 furono le vittime innocenti alle Fosse Ardeatine, colpisce che settant’anni dopo la rabbia sia tanto viva e cocente da non fermarsi, incontrollabile, davanti a una bara.

Ma per capire i tafferugli di Albano occorre pensare che Erich Priebke, sì, è morto, ma gli ambienti neonazisti a lui vicini volevano usare il suo funerale per far rumore tra i vivi; e che lo stesso capitano delle SS e primo responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, si è lasciato dietro una intervista-testamento in cui in sostanza nega l’Olocausto e afferma di volere restare fedele a ciò che è stato. Allora si intuisce come la richiesta di un pubblico funerale in chiesa cercasse non pietà, ma un palcoscenico per una rivendicazione politica, e perché la Chiesa di Roma non abbia acconsentito a questa richiesta.

Saggiamente, si può dire, guardando la gazzarra attorno a un morto, e i saluti fascisti da una parte, e dall’altra la furia della piazza che gridava: «Fatelo benedire a noi». E tra quelli che alzavano una mano nel saluto romano c’erano facce di ragazzi, così fieri, così certi di aver capito la storia; e tra quelli che sputavano sul carro funebre c’erano uomini con i capelli grigi, da cui ti aspetteresti, davanti alla morte, una frazione di istante almeno di silenzio. Chiunque sia il morto, e qualunque cosa abbia fatto, silenzio. Non tanto per lui, quanto per il mistero che ha varcato; e l’arrestarsi delle parole e delle ingiurie, nella certezza che ora chi è morto è davanti a ben altro giudizio.

Invece, quella piazza di Albano è sembrata il teatro di una parallela amnesia.

Proprio alla vigilia dell’anniversario della deportazione degli ebrei romani, oltre mille dei quali non fecero ritorno, una indecente amnesia del vertiginoso male che è stato il nazismo e dell’immane crimine che è stata la Shoah. Ma, dall’altra parte della piazza, pure smemoratezza: dell’anima cristiana, del parce sepulto, dell’antico imperativo di smettere di ingiuriare, quando il nemico è morto.

Che Erich Priebke, classe 1913, nazista a vent’anni, non fosse pentito e anzi rivendicasse con orgoglio la sua storia, lo dimostra il « testamento » con cui sembra volere vivere, e provocare, anche da morto. Accettabile allora che nell’ultimo viaggio al suo feretro abbiano sputato addosso? No, e forse anche quelli che l’hanno fatto, ripensandoci, ne provano una confusa vergogna. In fondo, è un mondo come se Dio non esistesse, quello che ad Albano è stato rappresentato nell’ora di un funerale.

Con uomini che senza timore di Dio inneggiano al male, e altri che si scagliano contro un morto. Il mondo come sarebbe senza Dio e senza più umanità, proprio secondo il disegno di Hitler, dentro a una storia definita solo da uomini testardi nella ferocia e implacabili nell’odio. Ci è venuta in mente, guardando quella scena, una frase di Etty Hillesum, ebrea olandese morta ad Auschwitz a 29 anni, ricordata da Benedetto XVI in una delle sue ultime udienze.

Per le strade di Amsterdam, mentre già le deportazioni erano iniziate, Etty discuteva appassionatamente con un amico, vecchio militante comunista: «Vedi Klaas – dice Etty – non si combina niente con l’odio. Ognuno deve distruggere in se stesso ciò che vorrebbe distruggere negli altri. (…) Ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende più inospitale». Quei calci, quegli sputi su una bara, di che capacità di violenza raccontano, in una folla di onesti cittadini. E gli altri, con la mano lugubremente alzata nel saluto romano, settant’anni dopo. In una piazza italiana, il dramma di una smemoratezza parallela.

Laisser un commentaire