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Leo Pettinari: “sono un mediano fortunato”

Posté par atempodiblog le 31 octobre 2013

Leo Pettinari
Sono un mediano fortunato”
Sognava la Serie A, poi i dolori al petto e lo stop dei medici: carriera finita. Un verdetto duro, che però gli salva la vita. «Non mi sento miracolato». Eppure…
di Stefania Grimoldi – Credere

Leo Pettinari: “sono un mediano fortunato” dans Medjugorje wjdm

Medjugorje, Malattia, Miracolo. La formula delle 3M, giornalisticamente parlando, è troppo ghiotta per rinunciare a un titolo a effetto. Un po’ come chiedere a un toscano di rinunciare alla battuta dissacrante.

Leonardo Pettinari, pratese di nascita, calciatore di professione fino allo scorso gennaio, dribbla entrambe le tentazioni per raccontare e dare un senso alla sua storia. «Io mi definisco fortunato, miracolato proprio no. Anzi mi dà quasi fastidio quando lo vedo scritto, perché in fondo non è successo nulla». Se nulla si può definire la brusca interruzione di un traguardo professionale come quello di giocare in Serie A per una cardiomiopatia aritmogena, la patologia fatale al bergamasco Piermario Morosini. Ed è qui che il sarcasmo toscano può aiutare, anche di sponda, a rimettere le cose a posto e spiegare senza enfasi. «Qualche amico che non crede me l’ha detto: sei stato a Medjugorje e sei tornato malato. Io sono convinto invece che la prospettiva giusta sia quella opposta: dopo quel pellegrinaggio, il primo della vita in assoluto, la malattia si è rivelata. Sono stato fortunato, punto e basta».

Fortuna, fede, famiglia, un’altra bella formula per spiegare la nuova vita di Leonardo Pettinari. Ma nessuna semplificazione è lecita se a neanche 27 anni scopri di doverti reinventare le giornate, che la routine fatta di allenamenti e partite all’improvviso non c’è più, che la Serie A – annusata per la prima volta nel novembre 2011 con la maglia dell’Atalanta –, resterà per sempre un traguardo messo alle spalle in tutta fretta. «Per fortuna ho avuto più di un anno per abituarmi all’idea e nello stesso periodo mi stavo preparando al Matrimonio con Giusy. La mattina della sospensione, quando l’ho chiamata, lei stava provando l’abito da sposa… Certo, magari all’esterno sembravo sereno, sorridente, poi in casa soffrivo davanti alle partite in televisione».

L’ex centrocampista ha iniziato a percepire che qualcosa non andava nel giugno 2011, pochi giorni dopo la vittoria del campionato di B con l’Atalanta. Dopo una serie di accertamenti, da cui non è emerso nulla di preoccupante, Leonardo è passato al Varese. Quella biancorossa è stata la sua ultima maglia. Ripetuti attacchi di tachicardia l’hanno infatti costretto a un nuovo stop e solo allora la risonanza magnetica ha evidenziato la cicatrice sul ventricolo sinistro per cui gli è stata sospesa l’idoneità. Che non gli è stata restituita nemmeno dopo un ricorso, respinto a gennaio di quest’anno. «Che cosa mi ha aiutato? La mia famiglia mi ha cresciuto con valori solidi, mia mamma mi ha educato alla fede. Senza fanatismi. Sono un credente. Un peccatore, anzi. Perché non sono poi così assiduo nella pratica. Ma mi capita di rifugiarmi nella preghiera e questo mi consola e mi fa stare bene. Non prego solo per chiedere. Per questo riesco a dare un senso positivo alla mia vicenda. La diagnosi del problema al cuore è arrivata pochi mesi dopo il viaggio a Medjugorje che ho fatto nell’ottobre 2011, insieme a Giusy – mia moglie dal giugno 2012 –, i nostri genitori e Simone Tiribocchi, mio compagno all’Atalanta, con la moglie. È stato molto coinvolgente, non solo sotto il profilo religioso. In Bosnia, anche se sono passati vent’anni, si percepiscono ancora forti i segni del conflitto, non si può restare indifferenti».

La storia di Leonardo Pettinari è disseminata di segni, ma lui preferisce leggere solo quelli che gli è possibile comprendere. «No, non mi sono mai chiesto perché Morosini e non io. Sarebbe inutile, una domanda priva di senso. Quando nell’aprile del 2012 lui è morto in campo, con il Livorno, è stato tremendo. Avevamo la stessa età, la sua storia mi assomigliava e io sapevo già dei miei problemi. La sua morte ha costretto tutti a dei controlli più attenti. Non trovo giusto chiedersi di più». Tracciando il disegno del suo futuro, Pettinari lo colora ancora del verde di un campo di calcio. «Ho il patentino Uefa, mi iscriverò al corso allenatori. Amo il mio mondo, vorrei ricominciare con i bambini».

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Tra terra e cielo il senso della vita

Posté par atempodiblog le 31 octobre 2013

TUTTI I SANTI/DEFUNTI
Tra terra e cielo il senso della vita
Queste due giornate aiutano a comprendere quando un’esistenza umana può dirsi realizzata; i parametri umani di ricchezza, carriera, successo appaiono totalmente insufficienti. La realizzazione sta altrove, perché la persona umana è fatta per dare concretezza a Dio: mani, cuore, intelligenza tutto può servire per permettere a Dio di incarnarsi ancora e servire i suoi figli
di Marco Doldi – Agenzia SIR

Tra terra e cielo il senso della vita dans Festa dei Santi e commemorazione dei fedeli defunti o73jLa festa di Tutti I Santi e quella della Commemorazione dei Fedeli Defunti conducono a riflettere sul duplice orizzonte dell’umanità, che viene espresso con le semplici parole “terra” e “cielo”. La prima rappresenta il cammino storico dell’uomo e della creazione, la seconda, il cielo, l’eternità e la pienezza della vita in Dio. La Chiesa è in cammino nel tempo, ma nello stesso tempo, celebra già la festa senza fine nella Gerusalemme celeste, dove vivono in eterno coloro che sono salvi. Di molti di questi si conosce il nome, perché la Chiesa stessa li propone come modelli ed amici; accanto a loro sono posti, nella speranza, quei fedeli che sono morti in pace con Dio e per i quali si prega in modo particolare nelle chiese o nei cimiteri.

La fede nella vita eterna deve essere, però, completata dalla verità della risurrezione dei corpi. Su questo punto oggi è venuta meno in molti la convinzione. L’uso, ad esempio, di cremare i corpi e di disperdere le ceneri, quasi come un congiungimento con la madre natura non esprime forse il contrario? La fede cristiana ha sempre invitato a conservare con rispetto il corpo, che pure va disfacendosi, esprimendo con questo gesto la convinzione che un giorno Dio, il Creatore, donerà nuovamente la vita. Anche se divenuto cenere, un corpo umano ha pur sempre un’altissima dignità, superiore a quella degli animali o delle piante, perché è stato abitato dall’anima immortale, perché attraverso esso la persona si è manifestata e realizzata, perché un giorno parteciperà della resurrezione di Cristo. Sì come Cristo è risorto dai morti nel suo vero corpo, così ogni uomo e ogni donna lo faranno per la grazia di Dio.

Le due giornate – la prima addirittura è solennità – conducono a pensare con insistenza alla condizione storica dell’uomo, tante volte descritta come quella di un pellegrino in cammino verso la Citta dalle solida fondamenta. In questo viaggio nessuno è solo, come attesta la verità della comunione dei santi. Nel battesimo ciascuno è stato inserito come membro vivo nel Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa. È unito a tanti fratelli e a tante sorelle che quaggiù vivono beatitudini del vangelo ed è unito a tutti coloro, che sono già accanto al Padre. Essere cristiani, far parte della Chiesa, significa aprirsi a questa comunione, che abbraccia terra e cielo. In questa comunione tutti ricevono e, soprattutto, danno qualcosa nell’ordine della grazia: i santi intercedono per coloro che camminano quaggiù e questi ultimi con la preghiera, la penitenza e la carità aiutano chi si sta preparando all’abbraccio definitivo con il Padre.

Ancora, queste due giornate aiutano a comprendere quando un’esistenza umana può dirsi realizzata; i parametri umani di ricchezza, carriera, successo appaiono totalmente insufficienti. La realizzazione sta altrove, perché la persona umana è fatta per dare concretezza a Dio: mani, cuore, intelligenza tutto può servire per permettere a Dio di incarnarsi ancora e servire i suoi figli. La persona diviene così uno strumento libero affinché Dio possa agire ancora nella storia. E un solo gesto di carità ha il senso di una vita realizzata. La carità è l’altro nome della santità. “Ogni cristiano – ha recentemente ricordato Papa Francesco – è chiamato alla santità e la santità non consiste anzitutto nel fare cose straordinarie, ma nel lasciare agire Dio” (Udienza, 2/10/13). La santità è l’incontro tra la debolezza dell’uomo e la forza della grazia di Dio, è avere fiducia nella sua azione, che permette di fare tutto con gioia ed umiltà per la gloria di Dio e nel servizio del prossimo.

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Bambini non nati. La sepoltura è gesto di civiltà

Posté par atempodiblog le 31 octobre 2013

A DIFESA DELLA VITA
Bambini non nati. La sepoltura è gesto di civiltà
di Paolo Ferrario – Avvenire

Bambini non nati. La sepoltura è gesto di civiltà dans Aborto itym«Avere una tomba su cui piangere, dove portare un fiore, è fonte di grande consolazione. Senza una tomba non è possibile elaborare un lutto tanto grande, come quello della perdita di un figlio. E questo vale per tutti, anche per i genitori dei bambini mai nati».

Da quindici anni, don Maurizio Gagliardini, anima e guida dell’associazione “Difendere la vita con Maria” di Novara, si occupa di dare una segna sepoltura ai bambini non nati e plaude all’iniziativa del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, di riservare un’area cimiteriale a questo scopo. «Gli ho scritto una lettera – racconta – e lui mi ha risposto rivelando di aver preso questa decisione dopo aver incontrato la sofferenza di tanti genitori».

Non giudica e non chiede, don Maurizio, solo cerca di «onorare» queste piccole vite interrotte ancor prima di venire alla luce. Dal 1999 ad oggi, i volontari dell’associazione, presenti in 60 città di 12 regioni, hanno celebrato i funerali di 60mila bambini. Nei 47 centri dove l’associazione ha stipulato convenzioni con Ospedali, Asl e amministrazioni municipali, ogni mese avvengono cerimonie di sepoltura, con una media tra i 30 e i 50 piccoli per volta.

La sepoltura dei bambini non nati è definita dal decreto 285 del 1990, che prevede la possibilità, per i genitori, di chiedere, entro 24 ore dalla morte, il corpicino per la sepoltura. Non sempre, però, le famiglie sono a conoscenza di questa possibilità e così l’associazione di don Maurizio è impegnata anche in una capillare opera di informazione sul territorio.

«In caso di aborto spontaneo o terapeutico – dice il sacerdote padovano – succede spesso che i genitori chiedano di poter celebrare un funerale al proprio bambino. Questa richiesta, di solito, non avviene invece in caso di interruzione volontaria della gravidanza sotto le 20 settimane di gestazione. Nelle realtà dove noi siamo presenti, le famiglie provate da una perdita tanto grande e dolorosa, sono seguite e sostenute da un’equipe di psicologi volontari. Vogliamo davvero circondare d’affetto questi genitori».

Non capita di rado, infatti, che chi si trova in questa situazione sia costretto ad affrontare la lacerante realtà praticamente in solitudine. «È difficile che qualcuno porga le condoglianze a una mamma e a un papà che hanno perso un bimbo mai nato – racconta don Maurizio Gagliardini –. E invece è proprio in questi frangenti che servirebbe un di più di attenzione e di vicinanza umana. Spesso, poi, queste famiglie si chiudono in se stesse, quasi celando la tragedia che le ha colpite e non riuscendo così ad elaborare il lutto».

In tanti anni di servizio a fianco delle coppie, don Maurizio non ha incontrato soltanto uomini e donne sorrette dalla forza della fede. In non pochi casi ha affiancato coppie anche lontane dalla Chiesa, ma fermamente convinte di dare una degna sepoltura al proprio piccolo non nato.

«Seppellire questi bambini non significa soltanto onorarli come persone – sottolinea – ma vuol dire anche compiere un grande atto di civiltà, un gesto dal valore umano e civile incommensurabile. Per questo, confrontandomi con amministrazioni comunali di varia estrazione politica, non ho mai incontrato un’opposizione preconcetta, ideologica, al nostro servizio. Il cui valore è, evidentemente, condiviso molto di più di quanto si pensi».

Dare degna sepoltura al proprio bambino mai nato è anche, insiste don Maurizio, il primo passo per l’elaborazione del lutto. «In tutte le mamme che hanno perso un figlio emerge la domanda: “Dov’è ora il mio bambino?”. A queste donne, ma anche ai tanti papà che incontriamo negli ospedali, vogliamo dire che siamo loro vicini. Una tomba su cui piangere diventa un punto fermo, un ancoraggio. Un po’ come è avvenuto dopo la Grande Guerra mondiale con la costruzione dei sacrari. Sono stati realizzati per dare la possibilità a tante madri di portare un fiore al proprio figlio disperso al fronte. In attesa di ritrovarlo, questa volta per sempre, in Paradiso».

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Proviamo a dare a tutti i ragazzi un altro palcoscenico

Posté par atempodiblog le 31 octobre 2013

Proviamo a dare a tutti i ragazzi un altro palcoscenico
Anna Oliverio Ferraris, psicologa e psicoterapeuta, rilegge alcuni fatti di cronaca. In particolare l’episodio di prostituzione minorile a Roma con una mamma consenziente e l’altra che denuncia. L’analisi: “La vicenda dei Parioli è un caso-limite, che però ci deve far riflettere su come oggi molti ragazzi separano il sesso dal sentimento, e lo fanno anche le ragazze”. La prostituzione, poi, viene descritta dai media come un lavoro: ciò legittima e normalizza tale comportamento
di M. Michela Nicolais – Agenzia SIR

Proviamo a dare a tutti i ragazzi un altro palcoscenico dans Riflessioni uz20Oggi, a Crotone, i carabinieri hanno potuto effettuare 17 arresti “eccellenti” nel serbatoio della ‘ndrangheta anche grazie a Lea Garofalo, la donna che ha avuto il coraggio di denunciare la criminalità organizzata e ha pagato con la vita. Denise, la figlia, non ha potuto assistere di persona ai funerali civili, celebrati il 19 ottobre a Milano, ma grazie alla scelta coraggiosa di sua madre ora vive in una località segreta sotto protezione. A Roma, due ragazze minorenni, di 14 e 15 anni, sono state arrestate perché si prostituivano ai Parioli, quartiere-simbolo della “Roma bene”. La madre dell’una ha allertato i carabinieri, insospettita dal comportamento di sua figlia, che a 15 anni viveva già da sola per i contrasti con la mamma. La madre dell’altra era addirittura complice della figlia, con la quale si spartiva i proventi illeciti. A separare queste storie di madri e di figlie non ci sono soltanto centinaia di chilometri. I media le hanno raccontate nello stesso giorno. Noi ne abbiamo parlato con Anna Oliverio Ferraris, psicologa e psicoterapeuta, direttrice della rivista degli psicologi italiani, “Psicologia contemporanea”.

Madri e figlie: come possono coesistere, in una società come la nostra, modelli così opposti?
“In Italia c’è una stratificazione notevole, a livello educativo: c’è chi cresce con principi e valori, e chi cresce senza principi e valori, senza una linea-guida. Per i genitori non è facile tenere la barra dritta, soprattutto per i tanti messaggi che arrivano agli adolescenti da tutte le direzioni. Pensiamo alla prostituzione: spesso i media la descrivono nei termini di un lavoro come un altro, e ciò legittima e normalizza tale comportamento. Il linguaggio non è secondario: se non ci sono attorno a loro adulti educanti, i ragazzi possono essere frastornati. Sono abituati a vedere immagini di sesso e pornografiche: per quei ragazzi che crescono senza una scala dei valori, la prostituzione può sembrare un’attività promozionale, anzi un’attività che dà l’indipendenza, che ti permette di ‘fare soldi’ da sola, di guadagnare molto denaro in mezz’ora. La voglia d’indipendenza è un fatto fisiologico nell’adolescenza, e il desiderio di emanciparsi dal punto di vista economico può essere confuso con l’indipendenza dai genitori, non importa con quali mezzi. Senza contare che oggi gli adolescenti, per gli atteggiamenti che assumono imitando i modelli che assorbono dai media, sembrano più grandi di quelli che sono, ma in realtà sono ancora immaturi. In una società così complicata, bisogna che gli adulti intervengano, perché gli adolescenti non possono essere lasciati a se stessi”.

Una madre che denuncia, l’altra complice di sua figlia…
“Nel caso della mamma che si spartiva il bottino, quando i genitori sono così, i figli non hanno molte possibilità. La madre è la figura che ha l’influenza più forte nella famiglia, soprattutto per una figlia: sia che la scelga come esempio, sia che si scontri con essa, la madre rimane sempre per lei la figura centrale. Se tua madre ti approva in un comportamento del genere, sei portata a pensare che le cose debbano andare così, ti senti autorizzata e legittimata in ciò che fai. Il comportamento dell’altra madre appare più virtuoso: se di mattina tua figlia va a scuola e poi non torna a casa, qualcosa che non va ci deve essere. Anche quando gli adolescenti, come nel caso della quindicenne, vanno a vivere da soli, hanno bisogno di una supervisione. Basta poco a un adolescente, per perdersi: Internet, qualche complimento o apprezzamento… Il denaro, poi, ha un altissimo valore corruttore: offre il miraggio di una falsa indipendenza, del guadagno facile che mette facilmente alla propria portata la droga, di cui entrambe le ragazze facevano uso”.

Disumanizzazione, perdita della dignità, degrado della femminilità: sono questi i termini che la vicenda delle due ragazze romane evocano. Si è perso l’alfabeto dell’umano?
“Non bisogna generalizzare. A mio avviso, la vicenda dei Parioli è un caso-limite, che però ci deve far riflettere su come oggi molti ragazzi separano il sesso dal sentimento, e lo fanno anche le ragazze: pensano di poter usare il loro corpo come oggetto, ma alla fine vengono usati. L’altra illusione di cui si nutrono è che niente lasci una traccia: pensano di poter fare alcune esperienze ‘ a tempo’, in un periodo della loro vita, e che queste non lascino il segno. Ma la persona ha bisogno di coerenza e di unità, due requisiti fondamentali dell’umano di cui spesso si smarrisce il senso”.

Cosa può funzionare come antidoto?
“Non focalizzarsi solo sui casi eclatanti: nella quotidianità, i nostri giovani sono migliori di quanto appaiano sulle cronache, ma a volte non hanno la possibilità di esprimersi. Ci siamo mai chiesti perché in Italia l’immaginario giovanile sia appannaggio quasi esclusivamente dei programmi di Maria De Filippi? Perché tutto è immagine, e si vuol far credere ai ragazzi che ci si realizza solo attraverso il mondo dello spettacolo. Non si parla mai di altri tipi di realizzazione: chi, tra i giovani, ha altro da dire, non trova il suo palcoscenico”.

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Scout d’Europa

Posté par atempodiblog le 31 octobre 2013

Scout d’Europa
Formare ragazzi e ragazze secondo la metodologia tipica dello scautismo, ma con una chiara identità cattolica. In Italia sono quasi ventimila. Una realtà in crescita. Da conoscere e promuovere
de Il Timone

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C’è chi dice che per capire chi siano gli Scout d’Europa bisogna andare almeno una volta a Vezélay, in Borgogna. Nell’imponente basilica romanica che domina un paese di 400 anime, ogni anno il 31 ottobre arrivano scout di tutte le associazioni nazionali. Arrivano dopo un pellegrinaggio a piedi di tre giorni. I vari clan partono dai quattro punti cardinali fino a confluire in una grande processione. In testa le bandiere con l’orifiamma: uno stendardo con due strisce verticali, una bianca e una nera, al centro una croce rossa a otto punte e il giglio scout dorato. Poi i canti. Il silenzio della veglia nel bagliore della candele. Una moltitudine di giovani in rigorosa uniforme, riuniti in preghiera sotto le volte di una chiesa simbolo di un’Europa cristiana che è insieme passato da custodire e sogno da realizzare.

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Nel mondo
L’origine della Federazione dello Scautismo Europeo (FSE) risale al dopoguerra. Nel clima di ricostruzione anche morale di quegli anni, l’esperienza dello scautismo cattolico – iniziato negli anni ’20 da figure come il gesuita francese Jacques Sevin, di cui è prossima la beatificazione – viene ripresa e rilanciata. Il battesimo avviene a Colonia, in Germania, nel 1956, con l’approvazione di una magna charta in dieci punti e la nascita di un consiglio federale. Ma la svolta avviene sei anni dopo, quando entrano a far parte dell’associazione francese della FSE i coniugi Perig et Lizig Géraud-Keraod. Perig, scout fin dalla giovinezza, durante la guerra aveva preso parte alla resistenza e dopo la liberazione era stato attivo, insieme con la moglie, nell’accoglienza degli emigranti che si spostavano dalla regione parigina verso la Bretagna. I due, nel giro di pochi anni, imprimono al movimento un grande dinamismo. Restano per quasi 25 anni responsabili della FSE a livello europeo e commissari generali dell’associazione francese.

In Italia
In Italia la nascita degli Scout d’Europa è legata a un periodo particolare, la crisi del ’68, che investe il mondo educativo un po’ a tutti i livelli. Attilio Grieco, romano, tra coloro che hanno importato l’esperienza della FSE, ha ricordato così il clima di allora: «All’inizio degli anni ’70 la situazione dello scoutismo cattolico in Italia era una grande baraonda: la dimensione religiosa era notevolmente affievolita e molti gruppi e unità si ponevano in lotta aperta contro parroci e vescovi. La dimensione socio-politica era entrata pesantemente nella vita associativa, con capi e unità coinvolti direttamente in azioni politiche e di partito. La vita nella natura veniva ripudiata perché era vista come evasione dai problemi della società. In questa linea, l’uniforme scout, sentita solo come ostacolo alla comunicazione con gli altri, era spesso sostituita dal solo fazzoletto portato su abbigliamenti variopinti. Venivano abbandonati capisaldi del metodo scout come la Legge, la Promessa, il sistema delle squadriglie, il metodo Giungla nei Branchi e del Bosco nei Cerchi e tante altre cose ancora. In compenso si introduceva la promiscuità fra ragazzi e ragazze nelle stesse unità e spesso nelle stesse squadriglie. In questa situazione, nonostante tutti gli sforzi fatti per riportare lo scoutismo ai suoi obiettivi originali, si arrivò inesorabilmente all’epilogo, con la chiusura dell’ASCI e dell’AGI e la nascita dell’AGESCI, nel maggio 1974. Questo creò non poco scompiglio. Molti capi e molti assistenti erano contrari al nuovo andazzo, ma non c’erano praticamente possibilità di reagire al nuovo stato di cose». Le derive non riguardarono, appunto, solo l’aspetto pedagogico: nello scoutismo cattolico il distacco fu netto nei confronti del Magistero e della Gerarchia. Emblematico il fatto che nel 1975 la FSE fu l’unica associazione scout in tutto il mondo a realizzare un pellegrinaggio a Roma in occasione dell’Anno Santo.
Così, nel 1975 un gruppo di capi che avevano fatto parte dell’ASCI e dell’AGI dichiarò di voler perseguire l’educazione di ragazzi e ragazze secondo la metodologia ideata da Baden-Powell, ma con una chiara identità cattolica. La scelta fu quella del “salmone”, un faticoso nuotare per anni controcorrente: la FSE era e resta distinta dalle due “associazioni ombrello” sotto cui si raccoglie gran parte dello scautismo mondiale, WOSM e WAGGGS; l’educazione separata di maschi e femmine fu giudicata arretrata; la linea cattolica più esplicita – e a lungo il mancato riconoscimento da parte di diverse conferenze episcopali – attirò il sospetto di integralismo; stessa cosa per la sottolineatura del principio di autorità, mal visto da molti ai tempi de “L’obbedienza non è più una virtù”. Dagli anni ’70 di acqua sotto i ponti ne è comunque passata parecchia e il tempo ha attenuato, se non proprio risolto, molte frizioni e incomprensioni. E nel 2003 è arrivato il riconoscimento della FSE come associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio.

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Uno stile
In Italia gli Scout d’Europa sono oggi circa 19.000, con una presenza forte soprattutto in Lombardia, Veneto, Lazio e Sicilia. Del loro stile fanno parte la divisione tra la sezione femminile (Coccinelle, Guide e Scolte) e quella maschile (Lupetti, Esploratori, Rover), il rispetto molto sentito delle istituzioni, il coinvolgimento delle famiglie nel processo formativo, la cura per i segni e la simbologia, in generale una metodologia strutturata che rende la vita scout uniforme e riconoscibile indifferentemente dai luoghi e dalle regioni in cui è praticata. Cruciale è anche la coerenza di vita che dev’essere propria dei Capi. In un documento diffuso in aprile – un’integrazione al direttorio religioso della Federazione dello Scautismo Europeo – si legge: «Non possono comunque proseguire il servizio attivo nelle unità i Capi e le Capo che attentano al matrimonio tramite il divorzio, l’adulterio di pubblico dominio, la convivenza extra-matrimoniale intrapresa come stato sostitutivo del matrimonio e altre forme permanenti di relazione more uxorio, o che vengano meno al rispetto della vita con l’aborto, l’abbandono dei figli, la fecondazione artificiale». Mentre sull’omosessualità si ribadisce chiaramente la posizione ufficiale della Chiesa, senza ambiguità.

Vocazioni
La “scelta religiosa” degli Scout d’Europa ha dato i suoi frutti, anche vocazionali. In Francia molte chiamate al sacerdozio maturano nel mondo FSE e questo ha attirato l’interesse di numerose congregazioni, che sperano di attrarre scout tra le proprie fila. Ci sono comunità monastiche, come quella di Notre Dame di Randol, nel cuore dell’Alvernia, i cui monaci provengono tutti dagli Scout d’Europa. Guardando ai Paesi di lingua tedesca, emblematica è la vicenda di padre Andreas Honisch, scomparso nel 2008. Nato in Slesia nel 1930, fattosi gesuita, con studi in Giappone nella provincia governata allora da padre Arrupe, tornato in Germania lì fondò nel 1976 gli Scout d’Europa. Espulso dalla Compagnia di Gesù per la sua impostazione non in linea con l’“aggiornamento” dell’ordine, fu accolto nella diocesi di Augusta da mons. Josef Stimpfle, vescovo che aprì le porte anche al primo nucleo della Fraternità di San Pietro, nata da fuoriusciti della famiglia lefebvriana. Nel 1988, Honisch fondò i Servi di Gesù e Maria, i cui primi membri erano tutti Scout d’Europa. La congregazione è diventata nel 1994 di diritto pontificio e ha tra gli apostolati principali la cura pastorale sempre degli Scout d’Europa. Con la propria casa madre e il proprio seminario a Blindenmarkt, in Austria, è una delle poche realtà religiose in crescita in un Paese spazzato da un sinistro vento anti-romano e segnato da una crisi drammatica della vita religiosa.

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Gli angeli si prendono alla leggera

Posté par atempodiblog le 30 octobre 2013

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Gli angeli riescono a volare perché si prendono alla leggera”.

-Gilbert Keith Chesterton-

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C’era una volta re Baldovino, il re che smise di essere re. E ci insegnò la coscienza

Posté par atempodiblog le 30 octobre 2013

C’era una volta re Baldovino, il re che smise di essere re. E ci insegnò la coscienza dans Aborto m4v1

C’era una volta un re, il re Baldovino. Ma non “una volta” sperduta nel tempo, “una volta” concreta e neppure troppo lontana. Era il 4 aprile del 1990. In Italia c’era fermento per i Mondiali quando le Camere del Belgio approvarono un disegno di legge che depenalizzava l’aborto entro le prime dodici settimane di gravidanza. Il popolo belga aveva detto sì attraverso i suoi rappresentanti, ma c’era un problema: il re.

La legge, per concludere il suo iter, aveva bisogno della sua firma di ratifica, ma la sua mano proprio non ce la faceva a firmare. Qualcosa, in lui, diceva di no a quella prassi che aveva tutti i crismi della correttezza istituzionale: democratica, moderna, evoluta. Si rischiò la crisi istituzionale. Alla fine dovette cedere, ma con uno di quegli stratagemmi che ti fanno amare gli stratagemmi. Cedette l’uomo di stato, non l’uomo. Re Baldovino abdicò per due giorni, smise di essere re per permettere l’iter legislativo in sua “assenza”. Non fermò la legge sull’aborto, ma neppure la firmò.

Ci insegnò una cosa grande, di fronte ai nuovi miti della modernità, del “c’è lo chiede l’Europa”, del “non si può fermare la storia”. Ci insegnò che esiste una coscienza, nell’ultimo suddito come nel suo re. “So che agendo così  - scrisse al Capo del Governo Wilfried Martens – non scelgo una strada facile e che rischio di non essere capito da un buon numero di concittadini. Ma è la sola via che in coscienza posso percorrere”.

C’era una volta un re di nome Baldovino. Lui e sua moglie, la spagnola Fabiola, avevano una grande fede cattolica. Avevano anche un dispiacere: non avevano potuto avere figli.

di Pino Suriano

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I nodi del pastore Bergoglio

Posté par atempodiblog le 30 octobre 2013

I nodi del pastore Bergoglio
Fu lui a importare in Argentina dalla Germania la devozione alla Madonna “che scioglie i nodi”. Agli studi preferiva la cura d’anime. E oggi fa lo stesso: lascia ad altri l’esposizione della dottrina. Come nel caso della comunione ai divorziati risposati   

di Sandro Magister – Chiesa Espresso

I nodi del pastore Bergoglio dans Angeli iqehb9

Da quando è stato eletto papa, Jorge Mario Bergoglio è costantemente sotto lo sguardo del mondo, che ne scruta ogni gesto e ogni parola. Ma la sua precedente biografia ancora attende di essere altrettanto investigata. Il libro di Nello Scavo “La lista di Bergoglio” ha sollevato il velo sul ruolo dell’allora giovane gesuita negli anni di piombo della dittatura militare:

2e2mot5 dans Diego Manetti Il gesuita che umiliò i generali

Ma ancora poco si conosce dei sei anni in cui Bergoglio fu superiore della provincia argentina della Compagnia di Gesù, tra il 1973 e il 1979, e dei reali motivi che portarono alla sua successiva emarginazione, fino all’esilio nella periferica residenza gesuita di Córdoba come semplice direttore spirituale.
Fu in uno di quei suoi anni difficili che Bergoglio si recò in Germania “per ultimare la tesi dottorale”, come dice succintamente la sua biografia ufficiale nel sito web del Vaticano.
Era il marzo del 1986. Bergoglio avrebbe compiuto 50 anni in dicembre. Per la tesi di dottorato aveva scelto come tema Romano Guardini, il grande teologo tedesco che fu maestro di due futuri papi, Paolo VI e Benedetto XVI, e di cui Bergoglio aveva letto e ammirato soprattutto due libri: “Il Signore”, sulla persona di Gesù, e “Der Gegensatz”, edito in spagnolo col titolo “Contrasteidad”, molto critico della dialettica hegeliana e marxista.
Ma da come si svolse quella sua trasferta in Germania e da come essa si interruppe dopo soli pochi mesi, con l’abbandono della tesi dottorale, si può dedurre che Bergoglio compì quel viaggio più per ordine dei suoi superiori gesuiti che di sua spontanea volontà.
Nell’intervista autobiografica “El Jesuita” Bergoglio avrebbe poi raccontato che in Germania, ogni volta che vedeva decollare un aereo, sognava di essere lui a bordo, verso l’Argentina. Tanta era la sua voglia di tornare in patria.
Gli archivi di Romano Guardini erano a Monaco, mentre la facoltà teologica nella quale Bergoglio avrebbe difeso la sua tesi dottorale era la Sankt Georgen di Francoforte.
Ma egli non si limitò a fare la spola tra queste due città. Da Monaco si arriva velocemente in treno anche ad Augsburg, Augusta.
E fu lì che la sua trasferta tedesca cambiò radicalmente di segno.

315fyfr dans Fede, morale e teologia

Ad Augsburg, nella chiesa dei gesuiti, dedicata a San Pietro, c’è una venerata immagine mariana: la Madonna “che scioglie i nodi”.
Maria vi è raffigurata mentre scioglie i nodi di un nastro che le porge un angelo, e che un altro angelo riceve da lei senza più i nodi. Il significato è trasparente. I nodi sono tutto ciò che complica la vita, le difficoltà, i peccati. E Maria è colei che aiuta a scioglierli.
Bergoglio fu molto colpito da questa immagine mariana. Quando pochi mesi dopo fece ritorno in Argentina, portò con sé un buon numero di cartoline con la Madonna “che scioglie i nodi”.
La tesi dottorale fu abbandonata sul nascere e lo stesso pensiero di Romano Guardini non lasciò su Bergoglio un’impronta duratura. Nell’intervista di papa Francesco a “La Civiltà Cattolica” in cui egli dedica ampio spazio ai suoi autori di riferimento, Guardini non c’è.
Ma in compenso, grazie a quel suo soggiorno in Germania nel 1986, Bergoglio fece inconsapevolmente nascere in Argentina una nuova devozione mariana.
Un artista al quale aveva dato la cartolina acquistata ad Augsburg riprodusse l’immagine e la offrì a una parrocchia del popolare Barrio de Agronomía, nel centro di Buenos Aires.
Ospitata nella chiesa, l’immagine di Maria “desatanudos” attrasse un numero crescente di devoti, convertì peccatori e segnò un’inattesa crescita della pratica religiosa. Al punto che dopo pochi anni si consolidò la tradizione di un pellegrinaggio all’immagine, proveniente dall’intera Buenos Aires e anche più da lontano, il giorno 8 di ogni mese.
“Mai come quella volta mi sono sentito uno strumento nelle mani di Dio”, confidò Bergoglio a un confratello gesuita che fu suo discepolo, padre Fernando Albistur, oggi professore di scienze bibliche al Colegio Máximo di San Miguel, a Buenos Aires.
Padre Albistur lo racconta in un libro fresco di stampa curato da Alejandro Bermúdez, con le interviste a dieci gesuiti e a dieci laici argentini amici di Bergoglio da lunga data.
E non è il solo. Nello stesso libro anche padre Juan Carlo Scannone, il più autorevole dei teologi argentini, già professore del giovane gesuita Bergoglio, riferisce lo stesso episodio.
A giudizio di Scannone, il caso della Madonna “che scioglie i nodi” aiuta a capire più a fondo il profilo “pastorale” di papa Francesco e la sua accentuata attenzione al “popolo”.

315fyfr dans Fede, morale e teologia

Bergoglio non è mai stato un teologo, tanto meno un accademico. Tra i teologi dice di prediligere Henri De Lubac e Michel de Certeau. Ma non perché ne abbia assimilato le posizioni complessive, peraltro tra loro diversissime. Di De Lubac cita quasi sempre un solo saggio: “Meditazioni sulla Chiesa”, e di esso quasi sempre un solo passaggio: quello contro la “mondanità” della Chiesa.
Anche da papa egli è dunque soprattutto uomo d’azione, d’azione pastorale. Chi l’ha conosciuto da vicino e gli è amico da anni – come i venti intervistati del libro di Alejandro Bermúdez – vede in lui eccezionali qualità di comando e notevole abilità di calcolo. Ogni suo gesto, ogni sua parola, non sono mai lasciati al caso. E la sua priorità è la cura pastorale del “popolo” che gli è affidato, che da quando è papa vede allargato a tutto il mondo.
La sua predicazione si addice volutamente a questo profilo. È primariamente rivolta alla gente comune, ai deboli di fede, ai peccatori, ai lontani. Non presi nel loro insieme, ma come se il papa voglia parlare a tu per tu con ciascuno di essi.
Come nel Vangelo Gesù è esigentissimo nei comandamenti ma si rivolge ai singoli peccatori con misericordia, così vuol fare papa Francesco.
Sulle questioni disputate, sul nascere, sul morire, sul generare, è di una ortodossia dottrinale indiscussa: “Il parere della Chiesa lo si conosce e io sono figlio della Chiesa”, ha tagliato corto nell’intervista a “La Civiltà Cattolica”.
Ma l’esposizione dottrinale la lascia ad altri e per sé riserva lo stile misericordioso del pastore d’anime.
L’esempio più lampante di questa azione congiunta è di pochi giorni fa, quando sulla questione disputata della comunione ai cattolici divorziati e risposati papa Francesco ha fatto intervenire il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller. Che in un ampio articolo su “L’Osservatore Romano” ha ribadito in tutto e per tutto le ragioni del “no” alla comunione:


2e2mot5 dans Diego Manetti Divorziati risposati. Müller scrive, Francesco detta

L’arcivescovo Müller è uno dei pochi capi di curia che Francesco ha confermato nel ruolo. Un uomo quindi di sua piena fiducia. Al quale non ha esitato di affidare anche il compito – nello stesso articolo – di dissipare gli equivoci nati da alcune formulazioni su “misericordia” e “coscienza” usate dallo stesso papa nel proprio pubblico conversare.
L’inaugurazione di questo doppio registro comunicativo – in questo caso del papa e del suo custode di dottrina – è sfuggita quasi del tutto ai media, tuttora abbagliati dalle presunte “aperture” di Francesco. Ma è prevedibile che si riprodurrà altre volte e su altri temi.
E consentirà forse di sciogliere un nodo interpretativo dell’attuale pontificato: quello dell’apparente distacco di papa Bergoglio dai suoi predecessori nell’affrontare la cosiddetta “sfida antropologica”.

315fyfr dans Fede, morale e teologia

Papa Francesco si è esplicitamente richiamato alla Madonna “che scioglie i nodi” nella prima parte della meditazione da lui pronunciata il 12 ottobre in piazza San Pietro, nella giornata mariana dell’anno della fede, alla presenza di un’ancor più celebre immagine mariana, quella di Fatima:

2e2mot5 dans Diego Manetti “La fede di Maria scioglie il nodo del peccato…”

315fyfr dans Fede, morale e teologia

Il libro 2e2mot5 dans Diego Manetti Alejandro Bermúdez (edit.), “Pope Francis. Our Brother, Our Friend”, Ignatius Press, San Francisco, 2013.

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Napoleone vinto anche da Dio

Posté par atempodiblog le 29 octobre 2013

Napoleone vinto anche da Dio
del Card. Giacomo Biffi – Avvenire

Napoleone vinto anche da Dio dans Alessandro Manzoni NapoleoneMaterialista e saccheggiatore di chiese e di conventi, miscredente e fedifrago, anticlericale e sequestratore del papa: questa è l’opinione che molti hanno di Napoleone Bonaparte, opinione tanto diffusa quanto acriticamente accolta. Se andiamo alle fonti, e in particolare a queste conversazioni, scopriamo qualcosa di strabiliante. Napoleone grida con fierezza: «Sono cattolico romano, e credo ciò che crede la Chiesa».

Durante gli anni di isolamento a Sant’Elena Napoleone si intratteneva spesso con alcuni generali, suoi compagni di esilio, a conversare sulla fede. Si tratta di discorsi improvvisati che – come rivela uno dei suoi più fidati generali, il conte de Montholon – furono trascritti fedelmente e poi dati alle stampe da Antoine de Beauterne nel 1840. Dell’autenticità e della fedeltà della trascrizione possiamo essere certi, visto che, quando de Beauterne pubblica per la prima volta le conversazioni, sono ancora in vita molti testimoni e protagonisti di quegli anni di esilio. Napoleone ammette con candida onestà che quando era al trono ha avuto troppo rispetto umano e un’eccessiva prudenza per cui «non urlava la propria fede». Ma dice anche che «allora se qualcuno me lo avesse chiesto esplicitamente, gli avrei risposto: “Sì, sono cristiano”; e se avessi dovuto testimoniare la mia fede al prezzo della vita, avrei trovato il coraggio di farlo».

Soprattutto attraverso queste conversazioni impariamo che per Napoleone la fede e la religione erano l’adesione convinta, non a una teoria o a un’ideologia, ma a una persona viva, Gesù Cristo, che ha affidato l’efficacia perenne della sua missione di salvezza a «un segno strano», alla sua morte sulla croce. Perciò non ci stupiamo se Alessandro Manzoni nell’ode Cinque Maggio dà prova di conoscere la sua fisionomia spirituale quando scrive: «Bella Immortal! Benefica/ Fede ai trïonfi avvezza!/ Scrivi ancor questo, allegrati;/ che più superba altezza/ al disonor del Golgota/ giammai non si chinò». L’imperatore si sofferma a lungo con il generale Bertrand, dichiaratamente ateo e ostile alle manifestazioni di fede del suo superiore, regalandoci un’inaudita prova dell’esistenza di Dio, fondata sulla nozione di genio, una lunga conversazione sulla divinità di Gesù Cristo. Degni della nostra ammirazione sono anche le considerazioni sull’ultima Cena di Gesù e i confronti tra la dottrina cattolica e le dottrine protestanti.

Alcune affermazioni di Napoleone mi trovano singolarmente consonante. Ad esempio, quando dice: «Tra il cristianesimo e qualsivoglia altra religione c’è la distanza dell’infinito», cogliendo così la sostanziale alterità tra l’evento cristiano e le dottrine religiose. Oppure la convinzione che l’essenza del cristianesimo è l’amore mistico che Cristo ci comunica continuamente: «Il più grande miracolo di Cristo è stato fondare il regno della carità: solo lui si è spinto ad elevare il cuore umano fino alle vette dell’inimmaginabile, all’annullamento del tempo; lui solo creando questa immolazione, ha stabilito un legame tra il cielo e la terra. Tutti coloro che credono in lui, avvertono questo amore straordinario, superiore, soprannaturale; fenomeno inspiegabile e impossibile alla ragione».

Alla luce di queste pagine non possiamo non ammettere che Napoleone non solo è credente, ma ha meditato sul contenuto della sua fede maturandone una profonda e sapienziale intelligenza. Questa a sua volta si è tradotta in fatti molto concreti: ha domandato con insistenza al governo inglese di ottenere la celebrazione della Messa domenicale a Sant’Elena; ha espresso gratitudine verso sua madre e de Voisins, vescovo di Nantes, perché da loro è stato «aiutato a raggiungere la piena adesione al cattolicesimo»; ha concesso il suo perdono a tutte le persone che lo hanno tradito. Infine, le conversazioni riferiscono le convinzioni di Napoleone sul sacramento della confessione e i suoi rapporti con il papa Pio VII, rivelando che «quando il papa era in Francia (…) era esausto per le calunnie in base alle quali si pretendeva che io lo avessi maltrattato, calunnie che smentì pubblicamente». Queste conversazioni non solo hanno lasciato un segno indelebile nella memoria dei generali compagni di esilio, ma hanno anche concorso alla loro conversione.

Divisore dans San Francesco di Sales

Freccia dans Viaggi & Vacanze Alcune considerazioni di Napoleone nei suoi giorni d’esilio a Sant’Elena

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Savona, niente tv e dieci figli. “Ma siamo più felici di altri”

Posté par atempodiblog le 29 octobre 2013

Savona, niente tv e dieci figli. “Ma siamo più felici di altri”
Lui bancario, lei casalinga: a casa Bruzzone arriva Davide, l’ultimo nato
di Alessandra Pieracci – La Stampa

Savona, niente tv e dieci figli. “Ma siamo più felici di altri” dans Articoli di Giornali e News zknu«Abbiamo due cani e due gatti perché mamma si sentiva sola». Ride Immacolata, e con lei tutta la famiglia. Una famiglia che si stringe nella camera del reparto di ginecologia e fa sembrare impresa da poco il parto della vicina di letto, una giovane sudamericana al terzo figlio. Perché mamma Cristina, 48 anni, genovese di Sestri Ponente felicemente trasferita da qualche anno nella tranquillità di Sassello, neanche 2 mila abitanti in provincia di Savona, ieri mattina alle 4 ha dato alla luce Davide, il decimo figlio. Quattro chili di paciosa serenità, venuto alla luce in acqua, come prima di lui Sofia, che ha sei anni e ha cominciato la prima elementare.  

Intorno alla culla ci sono tutti: il papà Andrea Bruzzone, 53 anni, direttore dell’agenzia Carige di Varazze, e gli altri figli nati tra il 1995, nove mesi dopo il matrimonio, e appunto il 2007.  

E se la giovane vicina di letto dice che dopo tre bambini basta, Cristina e Andrea non pongono limiti. «Non abbiamo mai programmato nulla, fin da quando ci siamo sposati. Avremmo accettato quello che il buon Dio ci avrebbe dato». «Ne manca uno per fare una squadra di calcio da 11 – dice Guglielmo, 18 anni, ultimo anno del liceo classico e l’intenzione di iscriversi alla facoltà di Medicina per diventare non ginecologo ma forse pediatra -. Ma se giochiamo a 5 possiamo già contare su parecchie riserve».  

Ludovico, classe 1996, è al penultimo anno anche lui del liceo classico di Savona; Immacolata ha 16 anni ed è in terza al liceo delle scienze umane; Maddalena, 15 anni, nello stesso istituto frequenta però la seconda liceo linguistico ed è appassionata di cucina, tanto da aiutare il papà, la mattina, a preparare la teglia di focaccia per la colazione e la merenda a scuola; Sebastiano, quattordicenne, è in terza media. Poi ci sono Angelica, in seconda media, Emanuele in quinta elementare, Stella in terza e Sofia, che per venire a trovare la mamma in ospedale (per lei è la prima volta, gli altri sono abituati) si è messa la maglietta gialla con scritto «Grazie madre con tutto il cuore» e il volto della Madonna. 

«Siamo molto devoti alla madre di Gesù», dice il papà, che sotto la polo lilla porta al collo il rosario. «Siamo andati cinque o sei volte tutti insieme a Medjugorje ed eravamo al santuario della Madonna della Guardia in occasione della visita di Papa Benedetto XVI». 

Gelosie tra fratelli? «Non hanno fatto in tempo, perché ognuno è diventato subito il fratello maggiore di qualcun altro», spiega la mamma. 

La famiglia Bruzzone vive in una casetta indipendente, con giardino e orto coltivato dal papà. «L’estate scorsa non abbiamo fatto altro che mangiare pomodori» protestano i figli. «L’orto ci fa comunque risparmiare un po’», spiega la mamma, che non ha aiuti né per i lavori domestici né per i bambini. «Ognuno pensa alla sua camera e io chiudo gli occhi per non vedere». Comunque non si perde d’animo: «Sono stata contenta di trasferirmi a Sassello, dove passavo le vacanze da bambina e ci siamo sposati, perché finalmente abbiamo una casa grande e i ragazzi possono portare i loro amici». 

Sette camere da letto, i figli più grandi da soli e gli altri in due per stanza, una grande sala da pranzo-salotto con due tavoli uniti ad angolo per ritrovarsi tutti la sera. «A mezzogiorno i più piccoli restano a scuola, grazie al tempo pieno». 

C’è un enorme divano per stare insieme, ma niente tv. «Quando si è rotta quella vecchia, abbiamo pensato di risparmiare quella cifra per altro», dice la mamma. «Tanto litigavamo sui programmi da vedere», aggiunge il primogenito. Però da un paio d’anni è entrato il computer per motivi di studio: «Ma i più piccoli spesso ce lo rubano per guardare i cartoni animati». E se nascono baruffe ci sono punizioni? La mamma assicura di no: «Cerchiamo sempre di farli ragionare, perché le punizioni portano sempre a reazioni di ribellione». 

La spesa tocca al papà, ogni quindici giorni al discount con la lista fatta dalla moglie. «Compriamo la carne all’agriturismo e poi la teniamo nel congelatore», racconta mamma Cristina. Ogni giorno si consumano tre litri di latte per colazione, un chilo di carne per la cena, due chili di pane. Per non parlare di pasta, olio, zucchero. 

«Ci aiuta la Provvidenza. Sacrifici? No, qualche rinuncia. I ragazzi sanno che non possono avere regali costosi». «Certamente non ci sogniamo di chiedere l’iPhone 5», interviene Maddalena.  

Una vecchia auto da nove posti «che ora non basterà più», prende atto il padre un po’ preoccupato, niente scooter per i ragazzi, «tanto qui a Sassello si va in bicicletta. Per i più piccoli c’è lo scuolabus, gli altri prendono la corriera fino a Savona». 

«Confesso, io quando vado a lavorare in banca tutto sommato mi riposo», scherza il papà orgogliosissimo dei suoi bellissimi figli. Nel fine settimana gli tocca anche cucinare. E ora deve tornare a casa senza Cristina per qualche giorno. «Sono stanco solo al pensiero».  

«Questa è la dimostrazione che si può anche avere una famiglia numerosa con qualche sacrificio», commenta il primario del reparto, professor Salvatore Garzarelli. «Purtroppo ormai nascono più figli a Stoccolma che a Napoli, siamo nell’inverno demografico: -10% di nascite qui a Savona, -25% a Milano, -20% a Torino. C’era un piano nazionale per la famiglia, varato nel giugno del 2012, che si sarebbe potuto rivelare uno strumento vincente per incrementare la natalità. Purtroppo la legge di stabilità lo ha ammazzato».

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Le nostre lacrime e la Beata Chiara Luce Badano

Posté par atempodiblog le 29 octobre 2013

Le nostre lacrime e la Beata Chiara Luce Badano dans Beata Chiara Luce Badano w6ik

«Perché sono immerso nel dolore? Perché proprio a me queste sofferenze? Fino a quando riuscirò a sopportare queste pene?». Sono gli interrogativi che l’uomo nell’angoscia e nello sconforto rivolge a se stesso, agli altri, al mondo intero. Se crede nell’esistenza di Dio, la domanda non è meno impellente, pur avendo imparato a chiamarlo Padre e a pensarlo ricco di misericordia.

L’Antico Testamento è ricco di personaggi che interpellano l’Altissimo sulle loro disgrazie e sulla presunta ingiustizia subìta e immeritata; Giobbe, in questa schiera, rappresenta il simbolo più popolare e più vicino a molte persone che vivono nel disagio fisico e spirituale.

Quanti ‘Perché’? scaturiscono dalla sua bocca, nel travaglio quotidiano! Quanti ‘Fino a quando’? emergono dalle tenebre della sua anima angosciata! E poi le richieste di aiuto, di cessazione del dolore, di eliminazione della stessa vita: lamenti presenti in diversi salmi, implorazioni che lacerano l’anima. Ma alla fine, nella supplica salmica come nella vicenda drammatica di Giobbe, il dolore viene affidato a Dio, che risponde, talvolta donando gioia e liberazione, a volte offrendo la visione rasserenante del suo “progetto” sulle sofferenze umane.

E allora si apre uno spiraglio di luce: credere significa riconoscere che dolore e Dio sono coerenti e che è lecito “cantare” nel deserto della prova. «Io a te, Signore, grido aiuto, al mattino giunge sino a te la mia preghiera»: questa l’ultima invocazione nel Salmo 88, che rivela non solo la disperazione, ma la certezza che le lacrime non si asciugano nell’aridità del deserto. «Il mio vagabondare tu lo registri, o Signore; le mie lacrime nell’otre tuo raccogli», afferma, con straordinaria poesia spirituale, il Salmo 56: questa fiducia rende possibile anche il canto nelle tenebre del dolore.

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«Soffrivo molto, ma l’anima cantava», ha scritto nel suo diario la beata Chiara Luce Badano, la giovane focolarina morta diciannovenne, dopo anni di grandi sofferenze. I giorni della sua esistenza terrena sono sempre stati ricchi di carità donata a piene mani, di profonda sensibilità e di continue attenzioni verso gli altri, anche quando il dolore fisico era insopportabile. «Ho rifiutato la morfina – diceva con semplicità – perché mi toglie lucidità e io posso offrire a Gesù soltanto la mia sofferenza».

Alla Madonna, che forse le è apparsa nelle vesti di una malata nell’ospedale dove era ricoverata, Chiara dice: «Tu sai quanto desideri guarire, ma se non rientra nei piani di Dio, aiutami a non mollare mai… Più di ogni altra cosa voglio stare al gioco di Dio».

È impressionante sentire parlare della volontà del Signore, che può apparire misteriosa e tremenda per la vita di questa ragazza, come di un gioco tra lei e il suo Sposo: «Gesù mi aspetta; quando viene a prendermi sono pronta».

Così “cantava” Chiara Luce, nei suoi giorni terreni, portando la sua lampada, perché tante persone, in particolare i giovani, sappiano affidarsi in ogni momento, soprattutto nelle difficoltà, al Dio buono e misericordioso in cui lei ha creduto.

«Vedi – confidava alla mamma – io non posso più correre, però vorrei passare ai giovani la fiaccola, come alle Olimpiadi».

di Madì Drello – Madre di Dio

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Pizza alla Merry e Pipino

Posté par atempodiblog le 29 octobre 2013

Pizza alla Merry e Pipino
Tratta da: A tavola con gli Hobbit. Ricette e menu della Terra di Mezzo di Cinzia Gregorutti e Luisa Vassallo, prefazione di Paolo Gulisano. Ed. Ancora

Pizza alla Merry e Pipino dans Cucina e dintorni 5df

Per 4 persone

Per la pasta:
300g di farina di grano duro
olio, sale, pepe

1 cucchiaino di zucchero
20g di lievito di birra

Per la copertura:
funghi misti freschi
4 patate medie
100 gdi pancetta (o speck)
formaggio (tipo mozzarella)
1 spicchio d’aglio
1/2 mestolo di brodo di verdura
1 pizzico di maggiorana
50 gdi noci tritate grossolanamente
olio, sale, pepe

Procedete con l’impasto e la lievitazione come nella ricetta classica. Preparate intanto gli ingredienti per la copertura. In un tegame scaldate l’olio, insaporitevi lo spicchio d’aglio e toglietelo quando è dorato. Aggiungete i funghi puliti, lavati e tagliati a fettine sottili. Aggiungete il brodo, coprite e cuocete a fuoco moderato, fino a quando i funghi saranno diventati morbidi. Regolate con sale e pepe.
Lavate le patate. Mettetele in un tegame con la buccia in abbondante acqua e lessatele a fuoco medio. Quando vedrete che potete bucarle facilmente con una forchetta, levatele dall’acqua, sbucciatele e schiacciatele fino ad ottenere una soffice purea.
Quando la pasta della pizza è circa a metà cottura, toglietela dal forno. Cospargetevi sopra la purea di patate, aggiungete la mozzarella, i funghi, la maggiorana, la pancetta e le noci. Condite il tutto con un pizzico di sale e di pepe. Rimettete in forno fino a cottura ultimata.
Prima di servire aggiungete un filo di olio crudo.

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I Santi: uomini che non portano maschere

Posté par atempodiblog le 28 octobre 2013

I Santi: uomini che non portano maschere
Tratto da: La nuova Bussola Quotidiana

In vista della festa di Tutti i Santi e della commemorazione dei defunti, riportiamo il testo integrale della lettera scritta ai propri fedeli dai sacerdoti del Decanato di Valceresio, Arcidiocesi di Milano. La lettera, non solo spiega il senso delle festività di inizio novembre, ma mette in guardia dalla festa pagana di Halloween, il cui reale significato è la celebrazione del dio della morte. E durante la quale le sette sataniche ne approfittano per reclutare adepti.

santi

Carissimi amici,

come ogni anno la Chiesa si appresta a vivere la festa di Tutti i Santi e il giorno in cui si commemorano i nostri cari defunti che già godono della visione di Dio. L’occasione di questa grande festa ci richiama al destino che ci attende: la vita in Cristo. Gesù, infatti, con la sua morte e risurrezione, ha impedito che la parola “fine” tirasse il sipario sulla nostra vita. Il tratto di strada, più o meno lungo, che percorriamo sulla terra è un pellegrinaggio verso la vera patria che è il Cielo, popolato da coloro che la Chiesa ha posto come modelli per tutti, i Santi, e da coloro che ci hanno preceduto nel raggiungimento della méta, i nostri cari defunti.

Così, persino il momento più drammatico per la vita di un uomo, com’è la morte, viene raggiunto dalla luce della fede che ci consente di guardare con speranza al momento del nostro tornare alla casa del Padre. A questo proposito conviene riascoltare le parole che nel 2007 Papa Benedetto XVI ha scritto nell’Enciclica Spe Salvi: «Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la “vita”? E che cosa significa veramente “eternità”? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la “vita” vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo “vita”, in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – “la vita beata”, la vita che è semplicemente vita, semplicemente “felicità”. Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta… Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa “vera vita”; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti» (n. 11).

Mossi da questa grande speranza nei prossimi giorni visiteremo i cimiteri dove riposano le persone che abbiamo amato in attesa della risurrezione dell’ultimo giorno quando, al ritorno di Cristo, la morte verrà definitivamente distrutta e tutti potremo vivere della Sua stessa vita sotto “cieli nuovi” e in una “terra nuova”, travolti dallo stupore per la bellezza di tutto. Il tempo sfocerà nell’eterno e l’uomo non potrà più scegliere “per” o “contro” il Signore. Avverrà, infatti, il giudizio “dei vivi e dei morti”, cioè di tutta l’umanità. Verrà così smascherato il tentativo degli uomini di vivere “come se Dio non ci fosse” e tutto (noi, gli altri e il mondo) apparirà nella sua nuda verità. Il giudizio sarà: “particolare” al momento della morte di ciascun uomo e “universale” al momento del ritorno di Cristo alla fine dei tempi.

Paradiso e Inferno, che non sono due luoghi ma due condizioni umane, sono le possibilità che stanno davanti a noi in base a come si è giocata la nostra libertà di fronte a Dio. Poiché nel morire la decisione definitiva di una persona può essere incerta, la Chiesa afferma la possibilità del Purgatorio, come estrema occasione di purificazione e salvezza grazie alle preghiere di Gesù e Maria e all’intercessione della Chiesa mediante la celebrazione della santa Messa per i defunti, l’Indulgenza, l’offerta della sofferenza e delle opere di carità, la preghiera quotidiana.

Vista la grandezza del destino che ci attende, vista la forza che queste realtà ci danno per vivere con più intensità il reale, riteniamo veramente assurdo e pericoloso il proliferare di un modo pagano di festeggiare queste ricorrenze, a scapito del grande tesoro della fede che vogliamo custodire e trasmettere con gratitudine.

Uno dei modi più confusi e deviati è la festa di Halloween. La fede ha realtà molto più interessanti e ragionevoli da consegnarci rispetto alle zucche vuote, ai bambini (e anche adulti!) travestiti da streghe, fantasmi, vampiri e diavoli, al girovagare di casa in casa con la domanda sulle labbra: «Dolcetto o scherzetto?», che è l’ingenua traduzione di una formula dell’antico cerimoniale pagano, e al dilagare di discutibili feste serali e notturne dei ragazzi più grandi storditi dal volume della “musica” (se così si può chiamare) e ambigui divertimenti.

Preoccupati per il moltiplicarsi ingenuo di feste come questa, vi proponiamo tre criteri di giudizio per educare il nostro modo di guardare la realtà a partire dalla fede:
1. Il cuore di ogni uomo è pieno di domande grandi sul senso di tutto. La vita e la morte sono, forse, i nodi più scoperti. Usiamo del tempo che abbiamo per andare a fondo delle questioni più decisive, verificando se in noi la fede regge davanti alle sfide del vivere o se, quello di Cristo, è diventato solo un nome.
2. Halloween è una festa nata in ambito pagano, che non ha nulla a che vedere con la fede cristiana. Celebra il dio della morte (Samhain) ed è intrisa di esoterismo e magia, finendo talvolta per percorrere sentieri che sanno di diabolico. C’è un’evidente contraddizione per chi è battezzato, anche se l’intenzione con cui festeggiamo non è cattiva, né tantomeno contro la fede in Cristo.
3. Secondo uno studio della comunità “Giovanni XXIII”, fondata da don Oreste Benzi, il 16% dei ragazzi che partecipano a sette occulte ed esoteriche, dove avvengono le cose più cruente come i sacrifici offerti al Diavolo e la profanazione dell’Eucaristia, viene adescato proprio in questa occasione. Occorre, dunque, essere molto vigilanti senza inoltrarsi in luoghi e compagnie che potrebbero risultare molto pericolosi.

Il cardinale Scola, nella sua Lettera pastorale Il campo è il mondo. Vie da percorrere incontro all’umano, ci invita, tra le altre cose, a ritrovare il vero senso della festa che troppo spesso finisce per “esaurire l’io anziché ricaricarlo” (pag. 33). Custodiamo il gusto per le cose belle, vere, buone e giuste. I Santi che festeggiamo sono uomini e donne che hanno vissuto senza maschere, pieni di passione per Cristo e per il fratello, perché erano certi che «la fede non abita nel buio, ed è luce per le nostre tenebre» (Papa Francesco, Lumen Fidei, 4).

Con grande affetto, in Cristo!
I sacerdoti del Decanato

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San Giuda Taddeo

Posté par atempodiblog le 28 octobre 2013

San Giuda Taddeo dans Rino Cammilleri San-Giuda-Taddeo

È l’Apostolo meno noto per via del nome (infatti, chi darebbe a suo figlio il nome ‘Giuda’?) ma, proprio per questo, patrono dei casi disperati. È sempre raffigurato con un ritratto di Cristo in mano perché pare che gli somigliasse fisicamente moltissimo. Erano anche, almeno giuridicamente, primi cugini, perché Giuda Taddeo era figlio di Maria di Cleofe (una delle ‘tre Marie’ sotto la croce) e di Alfeo, fratello di s. Giuseppe. Dunque, era anch’egli della stirpe di David. Coetaneo di Gesù e nato a Nazareth, era detto Taddeo dal siriaco ‘thad’, che vuol dire ‘amabile’. Quest’ultimo nome è ancora oggi diffusissimo in Polonia (Tadeusz). Giuda Taddeo evangelizzò la Mesopotamia e la Persia, dove fu raggiunto da un altro Apostolo, Simeone. Verso l’anno 70, nella città persiana di Suamyr, i due subirono il martirio per mano della popolazione aizzata loro contro dai sacerdoti pagani Arfexat e Zaroes. Il corpo di s. Giuda Taddeo si trova nella basilica di San Pietro, a Roma.
Leggo sulla rivista Radici Cristiane dell’aprile 2005 che s. Bernardo di Chiaravalle portava sempre con sé una reliquia di questo santo. Carlo Magno ne era così devoto che ottenne dal papa il permesso di portarne temporaneamente il corpo a Tolosa.
Infine, s. Brigida: mentre pregava per ottenere una grazia le apparve Cristo in persona e le disse di rivolgersi a suo cugino Giuda; Brigida eseguì e immediatamente fu esaudita. Purtroppo, come abbiamo detto, il culto di questo potentissimo santo da noi non è molto sentito. E sono davvero rare le chiese a lui dedicate (ma una la so: a Roma, in via Rovereto).

di Rino Cammilleri
Tratto da: Il Giornale

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Lo zelo amaro

Posté par atempodiblog le 28 octobre 2013

“[…] se avete nel vostro cuore gelosia amara [= zelo amaro] e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità” (Gc 3,14).

Lo zelo amaro  dans Correzione fraterna fbgu

Che cosa è lo zelo amaro [zêlos pikrós] (Gc 3,14)? È uno zelo per il bene, ma non animato (addolcito) dalla carità e quindi dannoso. È tipico dei principianti: all’inizio è segno di volontà seria di bene, ma con il passare del tempo rivela la sua forza distruttiva.

Ne parla anche san Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, cap. 28: “L’anima facendo un confronto, giudica gli altri cattivi e imperfetti, sembrandole che essi non agiscano e operino bene come lei, stimandoli di meno in cuor suo e spesso anche a parole” (ma si veda tutto il capitolo!). Esso nasce da un confronto tra sé e gli altri, in cui lo stupore tra quanto il Signore sta operando in noi, per esempio la conversione, lascia il posto ad un segreto orgoglio, per cui si dimentica Chi è all’origine di questo miracolo. Ho visto tanti sbagliare, perché irretiti in questa mentalità, avvelenati da questa amarezza che acceca.

Dice san Francesco d’Assisi nella Regula bullata: “[…] tutti i fratelli si vestano di abiti vili e possano rattopparli con sacco e altre pezze con la benedizione di Dio. Li ammonisco, però, a non giudicar gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate. Ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso”.


Dobbiamo stare attenti cioè a non giudicare. “Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,1-2). Il nostro giudizio può – e per tanti versi deve – portare sui comportamenti buoni e cattivi che troviamo davanti a noi e intorno a noi: il bene e il male esistono, saremmo sciocchi se non volessimo vederli. Saremmo addirittura malvagi se li volessimo confondere fino al punto di negare la differenza. Il relativismo ambientale in cui siamo immersi ci invita in modo suasivo e falsamente pacificante a cadere in queste sabbie mobili, in cui fatalmente sprofonda senza possibilità di trovare un punto fermo chi vi si avventura imprudentemente. “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Is 5,20).


Prima di tutto il nostro giudizio è sempre un giudizio limitato, perché – esclusa una speciale ispirazione divina – ci sfugge l’essenziale: il cuore dell’uomo (cfr. Ger 17,9-10). Noi vediamo solo l’esteriorità e quello che sta dentro lo comprendiamo solo per congettura (1 Sam 16,7). I nostri giudizi sulle persone, anche quando sono necessari e doverosi, sono sempre penultimi e mai definitivi.


Ma anche in questi giudizi ‘penultimi’, dobbiamo stare attenti ad essere corretti e quindi a tener conto di ciò che è principale e di ciò che è secondario. Normalmente, le persone non sono totalmente coerenti nei loro atteggiamenti: c’è sempre qualcosa che non torna: “[…] il giusto cade sette volte” (Pr 24,16).

D’altronde, se ci esaminiamo attentamente davanti a Dio scopriamo facilmente tante incoerenze nei nostri stessi comportamenti: siamo per esempio proprio sicuri di non aver mai giudicato male il nostro prossimo e di non aver proferito a suo riguardo parole cattive, non provate e ingiuriose? Il saggio è colui che sa discernere negli atteggiamenti di una persona quello che veramente conta da quello che è accessorio. Si tratta di qualcosa di difficilissimo: se non ci si riesce è meglio astenersi. Così insegna sant’Ignazio negli Esercizi Spirituali: “[…] occorre presupporre che ogni buon cristiano debba essere più disposto a interpretare una affermazione oscura del prossimo in senso buono che a condannarla. Se non può giustificarla in nessun modo, si faccia spiegare come egli la intende, e se il senso non è proprio corretto lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi convenienti perché la sua comprensione sia sana e sia liberato dall’errore” (n. 22). Non si corre così il rischio di non difendersi dal male? Di cadere nei lacci del nemico astuto?

Ci vuole discernimento, che è un dono di Dio e frutto di esperienza e di allenamento. In ciò consiste una parte essenziale di quella sapienza che Salomone ha chiesto e ottenuto da Dio (Sap 9,4; cfr. 1 Re 3,9). A volte, ci sono persone astute da cui stare in guardia. Ecco perché Gesù parlava pubblicamente male dei farisei: perché voleva mettere in guardia i suoi discepoli dalle loro macchinazioni e scuotere le loro coscienze e condurli a ravvedersi. Se però non sono sicuro debbo astenermi dal dare giudizi, altrimenti pecco gravemente e il male mi ha vinto e conquistato.

Discernere il nucleo buono delle persone e fondarsi su di esso allora non è dabbenaggine, ma saggezza cristiana. Dare fiducia alle persone è un modo sicuro per aiutarle a diventare buone e per diventare buoni noi.


Attaccarsi al particolare negativo, tralasciando il fondo positivo è il modo migliore per crescere nella cultura del sospetto che ti avvelena la vita, fa il vuoto attorno a te, ti rende odioso agli altri e cieco riguardo al bene che ti circonda. Di più: ti rende strumento diabolico del peggioramento del prossimo che tu incontri: “Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica” (Gc 3,15).

“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai al tuo fratello: ‘Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio’, mentre nel tuo occhio c’è la trave? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la paglipagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Mt 7,3-5).

di Don Pietro Cantoni – Il Timone
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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