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La Chiesa di misericordia di papa Francesco non è una chiesa del relativismo

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

In un’ampia intervista alla rivista Civiltà Cattolica, papa Francesco spiega le priorità della Chiesa, l’importanza della misericordia e dell’uscire incontro alle situazioni e alle persone ferite. La Chiesa come “un ospedale da campo”. Accoglienza di divorziati, omosessuali, persone che hanno praticato l’aborto. Molti applaudono alla “rivoluzione”, ma in realtà tutto è nella più pura tradizione. L’importanza della donna nella Chiesa, della collegialità anche con gli ortodossi. “Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”.
di Bernardo Cervellera – AsiaNews

La Chiesa di misericordia di papa Francesco non è una chiesa del relativismo dans Misericordia wdko

« La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: « Gesù Cristo ti ha salvato! ». E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia ».

Secondo papa Francesco, testimoniare la misericordia è il « bisogno più grande della Chiesa di oggi »: lo afferma in vari modi nella lunga conversazione
-intervista che egli ha avuto con un suo confratello gesuita, p. Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, e diffusa in contemporanea su molte
pubblicazioni dell’ordine.

Troppo spesso – spiega il papa – la Chiesa si mostra più interessata all’organizzazione e alla morale, e va incontro al mondo presentando solo delle regole: « Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza.
L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali ».

Il pontefice ribadisce così quello che è divenuto il suo slogan fin dall’elezione (anzi, fin dal conclave): « Uscire » verso « le periferie esistenziali e geografiche ». Ancora nell’intervista, egli dice:  « Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio ».

Diversi media hanno presentato la sua intervista come una « rivoluzione », una « apertura », fino a supporre quasi una « sconfessione » del magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.

In realtà, ogni missionario e ogni cristiano sa che prima occorre l’annuncio della salvezza offerta da Gesù Cristo, poi la catechesi (e la dottrina), poi la
morale. Sottolineare sempre e solo la morale è un errore di impostazione.

La vera novità di papa Francesco, più che a livello dottrinale, è a livello di atteggiamento: « La prima riforma – egli dice – deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato ».

« Sogno – aggiunge – una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo ».

Chi volesse mettere in contrasto questo atteggiamento con il passato magistero, dovrebbe ricordare che Giovanni Paolo II ha dedicato addirittura
un’enciclica alla misericordia (« Dives in misericordia« ),  che Benedetto XVI ha messo la testimonianza del Dio di misericordia alla base della civiltà umana.

Anche quanto lui dice sull’accoglienza di divorziati, omosessuali, persone che hanno scelto l’aborto non presenta nessuna novità dottrinale: per
sincerarsene, basta una lettura del Catechismo della Chiesa cattolica. Nell’intervista, è lo stesso papa Francesco ad affermarlo: « Dobbiamo annunciare
il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono « feriti sociali » perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è
possibile ».

Ancora, una volta, il pontefice sottolinea l’atteggiamento di apertura, di accoglienza della persona, senza mettere anzitutto davanti principi e regole:
« Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione ».

« Io vedo con chiarezza – dice anche  – che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e
gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso ».

Un’altra novità interessante per una riforma della Chiesa è quanto Francesco dice a proposito della certezza di fede.

Nel « cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene… Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui ». Una simile affermazione viene vista da alcuni commentatori come la conferma che finalmente  anche il papa è dei nostri, del « partito del relativismo »; finalmente possiamo brindare al fatto che non vi è alcuna verità. Lo stesso pontefice si chiede: « È relativismo? Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui ». In realtà il papa non fa altro che sottolineare la tradizionalissima dottrina agostiniana: « se lo comprendi, non è Dio »: Dio non si può inscatolare in un’idea, in regole, in discorsi, ma lo si può incontrare. La Verità la si può incontrare nella storia, « nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio ».

Nella stessa intervista, Francesco spiega il valore dell’adorazione silenziosa serale davanti al tabernacolo, per ricordare « cosa io ho fatto per Cristo », ma soprattutto per ravvivare la coscienza « che il Signore ha memoria di me ».

Un altro punto toccato nell’intervista è quello sul ruolo della donna nella Chiesa. Il pontefice spinge per una « teologia della donna nella Chiesa » che dia valore al suo apporto specifico, anche in luoghi di responsabilità, ma mette in guardia contro il « machismo in gonnella », le rivendicazioni di tipo femminista che vogliono rendere la donna uguale all’uomo (« in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo »). Qualche teologo in
voga ha subito applaudito alla possibilità che « finalmente » si possa avere il sacerdozio femminile. Ma lo stesso papa, nell’intervista, dice: « La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità ». Il punto perciò è ritrovare l’apporto specifico e la dignità del « genio femminile » – come diceva Giovanni Paolo II – senza voler rinchiudere questa riscoperta in una semplice equiparazione di funzioni.

Un punto piuttosto innovativo citato nella conversazione è quello della collegialità applicata al governo della Chiesa e ai rapporti ecumenici.

« Credo …che la consultazione sia molto importante. I Concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del Conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale ».

E ancora: « Si deve camminare insieme: la gente, i Vescovi e il Papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo ».

Anche in questo papa Francesco è in qualche modo debitore delle visite e degli incontri di Giovanni Paolo II con molte personalità ortodosse e del fine lavoro ecumenico di Benedetto XVI, che anni fa  ha chiesto alle Chiese ortodosse di aiutarlo a esprimere il ministero petrino in una maniera da loro accettabile e fedele alla tradizione della Chiesa indivisa.

Non è possibile riassumere tutta la ricchezza della conversazione intervista: vi sono ancora temi quali il rapporto fra Chiese giovani e antiche, fra teologia e popolo, fra laboratori pensanti ed esperienze di frontiera. Per questo rimandiamo alla lettura completa del testo.

Ma un aspetto vale ancora la pena di citare: quella dell’atteggiamento personale di papa Francesco, il suo cuore, quando cerca di definirsi: « Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato ».  E rivela lo stile di vita del beato Pietro Favre (1506-1546), uno dei primi compagni di sant’Ignazio di Loyola, così vicino al suo: « Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce… ».

« Le mie scelte – aggiunge – anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare ».

Per il testo completo della conversazione-intervista, vedi qui.

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Papa Francesco: il volto di Cristo nei bambini non nati e negli anziani, primo diritto è la vita

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

Ogni bambino condannato all’aborto “ha il volto del Signore”. Così il Papa, ricevendo oggi in Sala Clementina un centinaio di medici della Federazione Internazionale delle Associazioni Mediche Cattoliche, riunita a Roma fino al 22 settembre, per la decima Conferenza internazionale sul tema “La nuova evangelizzazione, le pratiche ostetriche e la cura delle madri”.
di Giada Aquilino – Radio Vaticana

Papa Francesco: il volto di Cristo nei bambini non nati e negli anziani, primo diritto è la vita dans Aborto eil5

Un sì “deciso e senza tentennamenti alla vita”. Lo ha lanciato Papa Francesco incontrando oggi i medici cattolici riuniti in questi giorni a Roma. “Una diffusa mentalità dell’utile”, la cosiddetta “cultura dello scarto”, che – ha detto il Pontefice – “oggi schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti, ha un altissimo costo: richiede di eliminare esseri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli”:

“Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente ad essere abortito, ha il volto di Gesù Cristo, ha il volto del Signore, che prima ancora di nascere, e poi appena nato ha sperimentato il rifiuto del mondo. E ogni anziano – ho parlato del bambino: andiamo agli anziani, altro punto – anche se infermo o alla fine dei suoi giorni porta in sé il volto di Cristo. Non si possono scartare, come ci propone la “cultura dello scarto”! Non si possono scartare!.

Va dunque ribadito – come riportato nella Dichiarazione sull’aborto procurato della Congregazione per la Dottrina della Fede – che “il primo diritto di una persona è la sua vita”. Nell’essere umano fragile, ha aggiunto il Santo Padre, “ciascuno di noi è invitato a riconoscere il volto del Signore, che nella sua carne umana ha sperimentato l’indifferenza e la solitudine a cui spesso condanniamo i più poveri, sia nei Paesi in via di sviluppo, sia nelle società benestanti”:

“Le cose hanno un prezzo e sono vendibili, ma le persone hanno una dignità, valgono più delle cose e non hanno prezzo. Tante volte ci troviamo in situazioni in cui quello che costa di meno è la vita. Per questo l’attenzione alla vita umana nella sua totalità è diventata negli ultimi tempi una vera e propria priorità del Magistero della Chiesa, particolarmente a quella maggiormente indifesa, cioè al disabile, all’ammalato, al nascituro, al bambino, all’anziano, che è la vita più indifesa”.

Con i medici cattolici, il Papa ha riflettuto sull’attuale momento storico, in cui si vive una “situazione paradossale” per la loro professione. Da una parte, ha notato, “constatiamo – e ringraziamo Dio – per i progressi della medicina, grazie al lavoro di scienziati che, con passione e senza risparmio, si dedicano alla ricerca di nuove cure”. Dall’altra, però, si riscontra “anche il pericolo che il medico smarrisca la propria identità di servitore della vita”. “Il disorientamento culturale – ha aggiunto – ha intaccato anche quello che sembrava un ambito inattaccabile”: la medicina. “Pur essendo per loro natura al servizio della vita – ha proseguito – le professioni sanitarie sono indotte a volte a non rispettare la vita stessa”. Citando l’Enciclica Caritas in veritate, il Pontefice ha ricordato invece che “l’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo”.

“La situazione paradossale si vede nel fatto che, mentre si attribuiscono alla persona nuovi diritti, a volte anche presunti diritti, non sempre si tutela la vita come valore primario e diritto primordiale di ogni uomo. Il fine ultimo dell’agire medico rimane sempre la difesa e la promozione della vita”.

In particolare per i ginecologi, il mandato è quindi quello di essere “testimoni e diffusori” della cultura della vita.

« Un tempo, alle donne che aiutavano nel parto le chiamavamo ‘comadre’: è come una madre con l’altra, con la vera madre, no? Anche voi siete ‘comadri’ e ‘compadri’: anche voi ».

L’essere cattolici, poi, “comporta una maggiore responsabilità”, in particolare verso la cultura contemporanea: “contribuire a riconoscere nella vita umana – ha spiegato – la dimensione trascendente, l’impronta dell’opera creatrice di Dio, fin dal primo istante del suo concepimento »:

“È questo un impegno di nuova evangelizzazione che richiede spesso di andare controcorrente, pagando di persona. Il Signore conta anche su di voi per diffondere il ‘vangelo della vita’”.

In questa prospettiva – ha detto il Santo Padre – i reparti ospedalieri di ginecologia “sono luoghi privilegiati di testimonianza e di evangelizzazione”, perché là dove la Chiesa si fa veicolo della presenza del Dio vivente, “diventa al tempo stesso” quello che la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione della Congregazione per la Dottrina della Fede definisce “strumento di una vera umanizzazione dell’uomo e del mondo”. In tale prospettiva, come notò Benedetto XVI nel suo discorso del 2012 all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, la struttura sanitaria diventa “luogo in cui la relazione di cura non è mestiere ma missione”.

L’auspicio finale del Papa ai medici è stato quello di ricordare “a tutti, con i fatti e con le parole”, che la vita “è sempre, in tutte le sue fasi e ad ogni età, sacra ed è sempre di qualità”. E non per un “discorso di fede – no, no – ma di ragione, per un discorso di scienza”:

“Non esiste una vita umana più sacra di un’altra, come non esiste una vita umana qualitativamente più significativa di un’altra. La credibilità di un sistema sanitario non si misura solo per l’efficienza, ma soprattutto per l’attenzione e l’amore verso le persone, la cui vita è sempre sacra e inviolabile”.

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Vuoi farti santo?

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

100° anniversario dell’ordinazione sacerdotale del Beato Giustino M. Russolillo (20/09/1913)

Vuoi farti santo? dans Citazioni, frasi e pensieri Don-Giustino-Maria-della-SS-Russolillo-Apostolo-delle-Vocazioni>

“O voi tutti che nel mondo recitate il Padre Nostro, venite, facciamo il Regno di Dio! Venite al battesimo di fuoco e di Spirito Santo! Venite alla Divina Unione!
La Divina Unione è il nostro fine!
Ognuno di noi deve diventare una vivente relazione d’amore con la Trinità!
Vuoi farti santo?

Invoca lo Spirito Santo!
Invocalo oggi, invocalo domani, invocalo sempre!
Ed Egli ti colmerà della Sua luce,
e ti riempirà dei suoi doni”.

Beato Giustino Maria della Santissima Trinità Russolillo

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Intervista al Papa: «La Chiesa, un ospedale da campo»

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

Il direttore di «Civiltà Cattolica» padre Antonio Spadaro intervista Papa Francesco: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi»
di Andrea Tornielli – Vatican Insider

Intervista al Papa: «La Chiesa, un ospedale da campo» dans Alessandro Manzoni tu6a

«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».

È il cuore del messaggio contenuto nella lunga intervista (ben 29 pagine della rivista) che Papa Francesco ha concesso al direttore di «Civiltà Cattolica» padre Antonio Spadaro. Un colloquio di sei ore avvenuto il 19, il 23 e il 29 agosto. Jorge Mario Bergoglio traccia un identikit inedito di se stesso, che include anche le sue preferenze artistiche; analizza il ruolo della Chiesa oggi e indica le priorità dell’azione pastorale.

Non insistere solo sui valori non negoziabili
«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione».

«Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus…».

«La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia». «L’annuncio dell’amore salvifico di Dio è previo all’obbligazione morale e religiosa. Oggi a volte sembra che prevalga l’ordine inverso».

A proposito dei gay
«Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile».

«Una volta una persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi con un’altra domanda: “Dimmi: Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola?”. Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel mistero dell’uomo. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire la cosa più giusta».

«La mia certezza: Dio è nella vita di ogni persona»
«Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari – ha affermato Francesco – chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio».

Dio è più grande del peccato
«Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. I vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade».

La Chiesa è il popolo di Dio
«Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina… Quando il dialogo tra la gente e i vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi… Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del « sentire con la Chiesa » sia legata solamente al sentire con la sua parte gerarchica». E la Chiesa non va ridotta a «una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità».

«Sono un peccatore»
Il Papa definisce se stesso «un peccatore». E ricordando la straordinaria immagine caravaggesca della vocazione di Matteo afferma: «Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice».

Per fare le riforme serve tempo
«Molti pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo. È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi».
«Ecco, invece diffido delle decisioni prese in maniera improvvisa – ha spiegato il Papa a « Civiltà Cattolica » – Diffido sempre della prima decisione, cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte».

Perché uso un’auto modesta
«Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare».

Sono un indisciplinato… nato
Della Compagnia di Gesù, Francesco dice: «mi hanno colpito tre cose: la missionarietà, la comunità e la disciplina. Curioso questo, perché io sono un indisciplinato nato, nato, nato. Ma la loro disciplina, il modo di ordinare il tempo, mi ha colpito tanto».

Non vado nell’appartamento papale perché lì si entra col contagocce
«E poi – ha aggiunto – una cosa per me davvero fondamentale è la comunità. Cercavo sempre una comunità. Io non mi vedevo prete solo: ho bisogno di comunità. E lo si capisce dal fatto che sono qui a Santa Marta… Ho scelto di abitare qui, nella camera 201, perché quando ho preso possesso dell’appartamento pontificio, dentro di me ho sentito distintamente un “no”. L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è lussuoso. È antico, fatto con buon gusto e grande, non lussuoso. Ma alla fine è come un imbuto al rovescio. È grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere. Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri».

Carattere decisionista ma non sono di destra
«Nella mia esperienza di superiore in Compagnia… il mio governo all’inizio aveva molti difetti… Mi son trovato Provinciale ancora molto giovane. Avevo 36 anni: una pazzia. Bisognava affrontare situazioni difficili, e io prendevo le mie decisioni in maniera brusca e personalista. Sì, devo aggiungere però una cosa: quando affido una cosa a una persona, mi fido totalmente di quella persona. Deve fare un errore davvero grande perché io la riprenda. Ma, nonostante questo, alla fine la gente si stanca dell’autoritarismo. Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad avere seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore. Ho vissuto un tempo di grande crisi interiore quando ero a Cordova. Ecco, no, non sono stato certo come la Beata Imelda, ma non sono mai stato di destra. È stato il mio modo autoritario di prendere le decisioni a creare problemi».

Voglio consultazioni reali, non pro forma
«Col tempo ho imparato molte cose. Il Signore ha permesso questa pedagogia di governo anche attraverso i miei difetti e i miei peccati. Così da arcivescovo di Buenos Aires ogni quindici giorni facevo una riunione con i sei vescovi ausiliari, varie volte l’anno col Consiglio presbiterale. Si ponevano domande e si apriva lo spazio alla discussione. Questo mi ha molto aiutato a prendere le decisioni migliori. E adesso sento alcune persone che mi dicono: “non si consulti troppo, e decida”. Credo invece che la consultazione sia molto importante. I concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale».

Così vedo la Curia
«I dicasteri romani sono al servizio del Papa e dei vescovi: devono aiutare sia le Chiese particolari sia le Conferenze episcopali. Sono meccanismi di aiuto. In alcuni casi, quando non sono bene intesi, invece, corrono il rischio di diventare organismi di censura. È impressionante vedere le denunce di mancanza di ortodossia che arrivano a Roma. Credo che i casi debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma. I casi, infatti, si trattano meglio sul posto. I dicasteri romani sono mediatori, non intermediari o gestori».

Collegialità e primato di Pietro
«Si deve camminare insieme: la gente, i vescovi e il Papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo».

La donna nella Chiesa e il «machismo in gonnella»
«È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del “machismo in gonnella”, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti».

Il Concilio e la messa antica
«Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile. Poi ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione».

Se uno ha una risposta per tutto, Dio non è con lui
«Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale».

La dottrina non è un monolite da difendere
«Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata… Le forme di espressione della verità possono essere multiformi, e questo anzi è necessario per la trasmissione del messaggio evangelico nel suo significato immutabile».

Il pericolo della fede-laboratorio
«C’è sempre in agguato il pericolo di vivere in un laboratorio. La nostra non è una fede-laboratorio, ma una fede-cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia, non come un compendio di verità astratte. Io temo i laboratori perché nel laboratorio si prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci».
«Quando si parla di problemi sociali, una cosa è riunirsi per studiare il problema della droga in una villa miseria, e un’altra cosa è andare lì, viverci e capire il problema dall’interno e studiarlo».

«Sono vivo grazie a una suora»
«Le frontiere sono tante. Pensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro vivono nelle frontiere. Io sono vivo grazie a una di loro. Quando ho avuto il problema al polmone in ospedale, il medico mi diede penicillina e streptomicina in certe dosi. La suora che stava in corsia le triplicò perché aveva fiuto, sapeva cosa fare, perché stava con i malati tutto il giorno. Il medico, che era davvero bravo, viveva nel suo laboratorio, la suora viveva nella frontiera e dialogava con la frontiera tutti i giorni. Addomesticare le frontiere significa limitarsi a parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili, ma la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza».

I Promessi Sposi sul comodino
«Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo Dostoevskij e Hölderlin. Di Hölderlin voglio ricordare quella lirica per il compleanno di sua nonna che è di grande bellezza, e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. È quella che si chiude con il verso « Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso ». Mi ha colpito anche perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lì Hölderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno. Ho letto il libro « I Promessi Sposi » tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi ha dato tanto. Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria l’inizio di questo libro»

Il film di Fellini
«La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi quando avevo tra i 10 e 12 anni. Un altro film che ho molto amato è Roma città aperta. Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori che ci portavano spesso al cinema».

LINK
http://www.laciviltacattolica.it

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Dona un paio di scarpine a una donna che voleva abortire: condannato a 10 mila euro di multa

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

L’84enne francese Xavier Dor si è macchiato di «reato di intralcio all’aborto». Associazioni femministe: «Siamo arrabbiate, la somma è risibile»

Dona un paio di scarpine a una donna che voleva abortire: condannato a 10 mila euro di multa dans Aborto 9mfc

Xavier Dor (di cui vi avevamo già parlato qui) è stato condannato al pagamento di 10 mila euro di ammenda per «aver ostacolato in modo delittuoso una interruzione volontaria di gravidanza» il 25 e 26 luglio 2012, entrando in un centro di pianificazione familiare a Parigi. È stato invece assolto per aver recitato il rosario, come atto di riparazione e intercessione per i medici abortisti, davanti all’ospedale Saint-Vincent-de-Paul di Parigi il 2 aprile 2011.

SCARPINE GALEOTTE. Ma che cosa ha fatto il presidente dell’associazione cattolica “SOS Tout Petits”, che da oltre 20 anni si batte in Francia per la vita contro l’aborto, per macchiarsi del «reato di intralcio all’aborto», con tanto di «pressioni morali e psicologiche di una violenza inaudita»? Ha donato un paio di scarpine da neonato a una mamma che stava entrando negli uffici di un’associazione femminista per richiedere un’interruzione di gravidanza.

«POCHI» DIECIMILA EURO DI MULTA. L’accusa aveva chiesto per il medico ottomila euro di multa e un mese di carcere, ma i giudici hanno cancellato il periodo di prigionia e gli hanno inflitto 10 mila euro di ammenda. Le associazioni in difesa del diritto all’aborto, che hanno denunciato l’uomo, non sono però soddisfatte: «È davvero difficile far riconoscere giuridicamente il reato d’intralcio all’aborto attraverso azioni dimostrative di fronte ai centri [abortivi] – commentano al Le Monde – Siamo arrabbiati dalla risibile somma della multa viste le ingenti risorse di cui dispongono i network contro l’aborto».

«LEGGE CRIMINALE». Soprattutto, insiste Isabelle Thieuleux, avvocato del Coordinamento delle associazioni per il diritto all’aborto e alla contraccezione, «è inaccettabile che il signor Dor abbia annunciato, prima del processo, che organizzerà altre azioni, anticipando già il calendario». Xavier Dor, ormai 84enne, ha infatti dichiarato che continuerà a battersi contro una «legge criminale che permette l’uccisione dei bambini»: «Andremo davanti all’ospedale Tenon e a Port-Royal».

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato da Tempi

di Leone Grotti – PROLIFE News

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I nostri figli non nati. Cinque milioni di pensieri

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

I nostri figli non nati
Cinque milioni di pensieri
di Marina Corradi – Avvenire
Tratto da: PiùVoce

“I bambini uccisi nel seno materno sono ora come piccoli angeli attorno al trono di Dio” (Messaggio di Medjugorje, 1992)

I nostri figli non nati. Cinque milioni di pensieri dans Aborto dn1h

In questa Italia dove ogni giorno si tumultua e ci si affanna e si grida, e reciprocamente ci si rinfaccia ciò che si è fatto e ciò che si è sba­gliato, può sembrare strano parlare di ciò che “non” è stato.

Ciò che non è stato mai, perché non è nato. Scor­rendo le statistiche ministeriali, vedi che dal 1978 a oggi ci sono stati in Italia cinque milioni di aborti. Perfettamente legali, certo. Ma anche chi sostie­ne il diritto all’aborto potrebbe fermarsi un mo­mento, in questa domenica di quasi acerba pri­mavera, di fronte a un pensiero: cinque milioni di figli che mancano, cinque milioni, che non sono nati.

Legale l’aborto, ma quasi clandestino il pensiero di quei bambini negati. Non se ne parla, ed è giu­dicato sconveniente ricordarlo, dalle tribune me­diatiche che contano. Come fossero cinque mi­lioni di storie private, che nessun altro riguarda­no se non quelle singole donne; e al massimo le loro malinconie, tanti anni dopo; malinconie di cui però non si usa parlare. E invece per una vol­ta, oggi che i cattolici italiani celebrano la Giornata per la vita, tra tanti pubblici rumori e clamori, vor­remmo immaginare un lungo condiviso attimo di silenzio; e che si possa per un momento resta­re zitti, nel rimpianto di quei figli che avremmo, e non abbiamo.

Chi erano, e che facce avrebbero avuto? Erano i compagni che i no­stri bambini non hanno cono­sciuto; quelli con cui non hanno giocato a pallone; quelli che man­cavano, nei banchi vuoti delle au­le di paesi spopolati. Erano quel­lo di cui nostra figlia si sarebbe in­namorata; o la ragazza che un giorno ci avrebbe resi nonni. Era­no, sarebbero stati. Il principio scoccato, il tessuto in fieri,e ogni cellula programmata. Ma non previsti, o attesi, o desiderati. Tan­tissime ragioni, e spesso umana­mente comprensibili. Eppure quante di quelle madri hanno an­cora addosso quel giorno, ta­gliente come uno strappo alla propria intima natura. Non sono stati; sospinti indietro, clandesti­ni, invisibili ombre cancellate. Si può almeno averne memoria, e dare voce a un rimpianto che molte conservano gelosamente per sé? Quante, vedendo una fol­la di ragazzi all’uscita da scuola u­na mattina, sono attraversate da un sottile doloroso pensiero: a­vrebbe la stessa età, “lui”.

Ma poiché i figli non sono solo fi­gli nostri, quel rimpianto dovreb­be essere collettivo. Quei bambi­ni ci mancano. I primi di loro a­vrebbero trent’anni ormai. Li im­maginate? Oggi magari sarebbe­ro in piazza a gridare contro il go­verno, oppure a favore; oppure a immaginare un’altra Italia. Sa­rebbero energie e desideri, e voci nei nostri cortili vuoti; sarebbero nelle scuole a studiare, nelle uni­versità a far ricerca, a insegnare. Chi c’era poi, in mezzo agli altri, in quella folla di clandestini respinta? Forse il centravanti che a­vrebbe fatto impazzire gli stadi; o la splendida vo­ce che ci avrebbe incantati. E quali libri non leg­geremo mai, non scritti dai nostri figli non avuti? Fra di loro, non pochi il cui destino è stato decre­tato dalle analisi: anormali, malati. Inutili. Come Hawkings magari, il fisico in carrozzella? Che co­sa è stato buttato via per una diagnosi, e quali do­ni portavano con sé i figli scartati? Certo, come testimonia chi invece quei figli li ha avuti, la ca­pacità di insegnare ad amare. Milioni di storie diverse. Madri sole, o senza un sol­do, o padri inesistenti; o benpensanti famiglie, che non avrebbero tollerato; oppure posti di la­voro a rischio, o carriere che non potevano a­spettare. Cinque milioni di storie private si coa­gulano in questo vuoto collettivo – e anche forse in uno slancio, in un coraggio che ci mancano. Perché ha più fiato, un Paese che pensa ai suoi fi­gli; non si insterilisce nell’oggi, non trascura un fu­turo, che è il tempo di quei figli. Il silenzio che vor­remmo oggi è ammissione, oltre il ben noto e af­fermato “diritto”, di un censurato dolore: per ciò che non è stato. Un silenzio che dica a chi ha vent’anni oggi che un figlio, voluto o no, è più u­mano abbracciarlo; e non è questione di codici, ma di una legge più forte, più grande – come scrit­ta addosso.

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I cosiddetti “progressisti” vogliono abolire “padre” e “madre”. Tre passi nel ridicolo (e verso il baratro)

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

Socci: “Cancellare padre e madre è abolire la legge per natura”
In Italia dilaga la trovata di usare “genitore 1” e “genitore 2”. Ma si tratta di una insensata negazione della realtà (che crea discriminazioni)
I cosiddetti “progressisti” vogliono abolire “padre” e “madre”. Tre passi nel ridicolo (e verso il baratro)
di Antonio Socci – Libero Quotidiano.it

I cosiddetti “progressisti” vogliono abolire “padre” e “madre”. Tre passi nel ridicolo (e verso il baratro) dans Antonio Socci id5a

Quasi cent’anni fa il grande Gilbert K. Chesterton prevedeva che la deriva della moderna mentalità nichilista sarebbe stata – di lì a poco – il ridicolo. Cioè la guerra contro la realtà.
Intendeva dire che ciò che fino ad allora era stata un’affermazione di buon senso e di razionalità – per esempio che tutti nasciamo da un uomo e da una donna – in futuro sarebbe diventata una tesi da bigotti, un dogmatismo da condannare e sanzionare. Sosteneva che ci dovevamo preparare alla grande battaglia in difesa del buon senso.
Chesterton infatti scriveva:

“La grande marcia della distruzione culturale proseguirà. Tutto verrà negato. Tutto diventerà un credo… Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Sguaineremo spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Non ci resterà quindi che difendere non solo le incredibili virtù e saggezze della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile: questo immenso, impossibile universo che ci guarda dritto negli occhi. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Saremo tra coloro che hanno visto eppure hanno creduto”.

SPREZZO DEL RIDICOLO
Viene da ricordarlo con una certa tristezza in questi giorni nei quali – seguendo la bislacca trovata del governo francese – anche in Italia sta cominciando a dilagare l’idea di sostituire, nella modulistica della burocrazia scolastica, le categorie “padre” e “madre” con la formula “genitore 1” e “genitore 2”.
Tutto questo perché – secondo l’ideologia “politically correct” – si deve “desessualizzare la genitorialità”. Cioè perché la dizione “padre” e “madre” potrebbe essere sentita come discriminatoria da qualcuno.
Resistendo allo sconcerto e al ridere vorrei provare a ragionare pacatamente con chi si fa alfiere di questo tipo di trovate. Anzitutto va sottolineato che “i fatti hanno la testa dura” e – con buona pace di certi opinionisti – tutti sulla terra siamo stati generati da un uomo e da una donna. In qualunque modo sia avvenuto il concepimento.
Quindi la realtà contraddice le opinioni e soprattutto mostra che nessuno può sentirsi “discriminato” da quella formulazione perché tutti, proprio tutti, siamo stati generati da un padre e da una madre e dunque siamo loro figli.
Ma oggi purtroppo la mentalità dominante afferma che se i fatti contraddicono le opinioni, tanto peggio per i fatti. Così, non potendo “abolire” la natura per legge, si decide di abolire le parole che “dicono” la natura delle cose (domani si potrà decretare per legge che due più due fa sette e che si deve chiamare notte il giorno e giorno la notte).

DISCRIMINAZIONE PEGGIORE
Torniamo al genitore 1 e al genitore 2. Il fatto è che con questa formula i “politicamente corretti” finiscono pure per creare discriminazioni peggiori.
Anzitutto discriminano la stragrande maggioranza delle persone che continuano a sentirsi padri e madri – e non genitore 1 e genitore 2 – e continuano farsi chiamare dai figli “papà” e “mamma” (finché non verrà proibito).
In secondo luogo con la nuova formulazione si discrimina il “genitore 2” che inevitabilmente diventerà secondario.
Infatti per ovviare a questo problema al Comune di Bologna pare abbiano pensato di adottare un’altra dizione: “genitore” e “altro genitore”.
Vorrei sommessamente notare che è egualmente discriminatoria verso uno dei genitori. E che entrambe poi sono formule fortemente sessiste, perché sia la “soluzione” veneziana che quella bolognese, usano il termine genitore al maschile, mentre la madre – se vogliamo usare un linguaggio non discriminatorio – è casomai “genitrice”.
Ma, a quanto pare, in questo caso la discriminazione contro le donne viene ignorata e tenuta in non cale. Alla fine della fiera è evidente che i soli termini che non discriminano nessuno sarebbero “padre” e “madre”.
Ma ormai l’ideologia dominante ha dichiarato guerra a padri e madri, alla famiglia naturale, alla realtà. E quindi dovremo subire la loro progressiva cancellazione linguistica.
Non solo. L’epurazione del linguaggio andrà avanti (per esempio la parola “matrimonio”, che rimanda evidentemente alla mater, quindi alla generazione) e si dovrà estendere alla letteratura.

DESESSUALIZZARE TUTTO
Si dovrà censurare quasi tutto, dall’Odissea, dove Telemaco ha la sfrontatezza di aspettare il padre anziché il genitore 1, all’Amleto dove il protagonista vive anch’esso il dramma della morte del padre.
Dalla Bibbia, dove la paternità di Abramo dà inizio all’Alleanza e dove Gesù insegna a pregare col “Padre nostro”, indicando in Maria la Madre, fino alla psicoanalisi.
Anche la psicoanalisi dovrà cadere sotto i colpi del politically correct.
Sigmund Freud nella “Prefazione alla seconda edizione” di “L’interpretazione dei sogni” scrive testualmente: “Questo libro ha infatti per me anche un altro significato soggettivo, che mi è riuscito chiaro solo dopo averlo portato a termine. Esso mi è apparso come un brano della mia autobiografia, come la mia reazione alla morte di mio padre, dunque all’avvenimento più importante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo”.
Come ha notato Hermann Lang “se Freud è da considerare il padre della psicanalisi” da questa citazione “risulterebbe che questa psicanalisi la deve essenzialmente alla relazione con il padre”.
La psicoanalisi infatti ci spiega che il “padre” e la “madre” non sono soltanto l’ineludibile realtà umana da cui tutti siamo nati e nasciamo, coloro che hanno generato il nostro corpo biologico: essa ci svela che le loro diverse figure permeano pure la nostra psiche, fondano, in modo complementare, la nostra identità profonda e la nostra relazione con tutte le cose. Abolire il padre e la madre dunque rischia di portare all’abolizione (psicologica) dei figli.
Ricordo solo un pensiero di Freud: “Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre” (da “Il disagio della civiltà”, in Opere, X, Boringhieri, Torino 1978, p. 565).
Qua, come pure dove parla della madre, come si può “correggere” Freud? Non si può sostituire padre e madre con genitore 1 o genitore 2. Perché non sono intercambiabili. Padre e madre sono complementari. E ineliminabili.
Ma tutto questo sembra non importare a questo o quell’assessore o politico o ministro o opinionista. Pare che nemmeno ci si accorga dell’enormità e della delicatezza di ciò che si va a spazzar via. Cosa volete che sia la cancellazione di una civiltà millenaria e della stessa natura umana. Basta una delibera del sindaco.

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