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E Marco scrisse subito

Posté par atempodiblog le 20 août 2013

Da un autore pagano del primo secolo la conferma che il vangelo di Marco fu scritto pochi anni dopo la morte di Gesù. Come attesta la tradizione cristiana primitiva.
Un punto a favore della credibilità storica del Vangelo.
di Marta Sordi – Il Timone

E Marco scrisse subito dans Commenti al Vangelo E-Marco-scrisse-subito

L’ identificazione, da parte di J. O’Callaghan nel 1972, ribadita poi da C. P. Thiede agli inizi degli anni ’90, di un frammento papiraceo in lingua greca (7Q5), trovato nella grotta 7 di Qumran, con Marco 6,52-53, ha riaperto, come è noto, nonostante le molte contestazioni, il problema della datazione dei Vangeli e di quello di Marco in particolare.
La scrittura del frammento, studiata prima dell’identificazione con il Vangelo, aveva imposto una datazione non posteriore al 50 d.C.; la grotta, inoltre,risultava chiusa dopo il 68; l’identificazione del frammento con un passo di Marco scompaginava così, se convalidata, tutte le ipotesi, date per certe dagli esegeti, della composizione tarda del Vangelo e confermava invece pienamente i dati conservati dalla tradizione cristiana primitiva: Papia di Gerapoli, vissuto tra la fine del I secolo e la prima metà del II (apud Euseb. H. E. II, 15 e III, 39,15) e Clemente di Alessandria (apud Euseb. H. E. II, 15 e VI, 14,6) affermavano infatti che Marco aveva scritto il suo Vangelo, su richiesta dei Romani, che avevano ascoltato la predicazione di Pietro, all’inizio del regno di Claudio (nel 42, secondo la traduzione di Gerolamo del Chronicon di Eusebio).
Una citazione dello stesso passo di Clemente (p. 9 Staehlin) spiegava che i Romani, da cui era partita la richiesta erano Cesariani e cavalieri, ut possent quae dicebantur memoriae commendare. Si trattava di persone della classe dirigente romana, abituate alla comunicazione scritta e la richiesta da loro rivolta a Marco è perfettamente comprensibile; specialmente se si tiene conto del fatto che, nel 42/43, mentre Claudio era assente per la spedizione in Britannia, il governo di Roma era tenuto da L. Vitellio, che nel 36/37, come legato di Siria, aveva avuto occasione di occuparsi dei cristiani a Gerusalemme. Il desiderio di avere ulteriori informazioni sulla nuova “setta” giudaica poteva rientrare nelle normali preoccupazioni per l’ordine pubblico del governo di Roma. Ciò che fu allora appurato dovette tranquillizzare i Romani che, da quel momento e fino al 62, in Giudea come nelle province, cercarono di impedire azioni persecutorie derivate da accuse giudaiche contro i Cristiani. La data del 42/43 è  innanzitutto, secondo Papia e Clemente, la data dell’arrivo di Pietro a Roma: una conferma dell’importanza di questa data per la Chiesa di Roma è che al 42/43 risale, secondo Tacito (Ann. XIII, ro 32), la conversione di Pomponia Grecina, la moglie di Aula Plauzio, il legato le che precedette in Britannia Claudio, ad re una superstizio externa che è certamente il cristianesimo. Ma ciò che ci interessa ora è la stesura del Vangelo di le Marco: si è detto che 7Q5 non fa che a, confermare, con l’autorità di un documento contemporaneo, ciò che sapevamo già da autorevoli fonti del II secolo, che solo l’ipercritica, da tempo el superata negli studi di storia antica, ma ancora presente negli studi delle origini cristiane, ha troppo a lungo e ingiustamente sottovalutato. Paradossalmente, anche se 7Q5 non fosse un frammento di Marco, le testimonianze di Papia e di Clemente dovrebbero indurci ad ammettere come probabile la venuta di Pietro a Roma nel 42 e la stesura in quell’occasione del Vangelo di Marco.
Ma un’ulteriore e importante conferma ci viene ora da un autore pagano, quel Petronio autore del Satyricon, che scrive nel 64/65 e mostra di conoscere il testo marciano, come ha dimostrato, con ottimi argomenti, I. Ramelli in un articolo pubblicato su Aevum nel 1996. Contatti fra i Vangeli e passi del Satyricon erano stati già notati in passato, per la crocifissione, la risurrezione, l’eucaristia, ma erano stati spiegati come pure coincidenze o con interpretazioni antropologiche. Il passo studiato dalla Ramelli (Sat. 77,7-78,4) riguarda l’unzione durante la cena di Betania (Me 14,3-9), un episodio, cioè, la cui importanza non è così grande da poterne spiegare la conoscenza da parte dei pagani in base a semplici voci, come quelle che circolavano in quell’epoca a Roma sui flagitia attribuiti dal volgo ai Cristiani nel 64, come dice Tacito (Ann. XV, 44x) parlando dell’incendio. Qui i contatti sono tali che già il Preuschen, agli inizi del XX secolo, aveva pensato a una dipendenza reciproca, attribuendo però a Marco l’imitazione di Petronio: l’evidente assurdità dell’ipotesi (dato il carattere di sprezzante parodia del passo di Petronio) ne aveva determinato il rifiuto.
Il giudizio è necessariamente diverso se il Vangelo di Marco era già noto nel 64/65 e se ammettiamo che è petronio a parodiare Marco e non Marco a imitare Petronio: c’è l’ampolla di nardo, che solo Marco conosce fra gli evangelisti (i sinottici parlano di un vaso di unguento non specificato, Giovanni parla di una libbra di nardo); c’è la prefigurazione da parte di Trimalcione di un’ unzione funebre, in un contesto che parla continuamente – ma senza giustificazione apparente, visto che Trimalcione dichiara che vivrà ancora 30 anni di morte; c’è, poco prima (ib. 74, 1/3),dalla consuetudine pagana) come profeta di sventura e come index, accusatore. Se Petronio conosce il testo di Marco e intende parodiarlo (e la cosa non ci sorprende alla corte di Nerone, dove, come risulta da Paolo [FiI4,22] il cristianesimo era ben noto), anche gli altri accenni di Petronio che sembrano implicare la conoscenza del cristianesimo diventano importanti: penso in particolare al cap. 141, in cui Eumolpo chiede nel suo testamento che i suoi eredi mangino il suo corpo, e alla novella della matrona di Efeso (cap. III), con il trafugamento del corpo di un crocifisso e la sua « rianimazione » al terzo giorno: un motivo anticristiano reso attuale dal cosiddetto editto di Nazareth, se, come sembra probabile, l’editto è di Nerone e rivela l’ accettazione, da parte del governo romano, delle accuse giudaiche ai discepoli di Cristo di aver trafugato il corpo del loro Signore, come attesta Matteo (28,15).
La parodia di Petronio è dunque la miglior conferma delle notizie della tradizione cristiana del II secolo sull’antichità del Vangelo di Marco.

Ricorda
La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e costanza massima che i quattro vangeli, di cui afferma senza alcuna esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza ».
(Concilio Vaticano Il, Costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione, 19).

Divisore dans San Francesco di Sales

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La storicità dei Vangeli

Posté par atempodiblog le 20 août 2013

La storicità dei Vangeli dans Antonio Socci hsk2

Voglio prendere spunto da un paio di notizie arrivate da Israele. Le ha riportate il Jerusalem Post il 21 e il 23 dicembre (2004) e si possono trovare sintetizzate in questa pagina web: http://www.israele.net/sections.php?section_cat=13
La prima riguarda la scoperta a Gerusalemme di una parte della celebre piscina di Siloe, quella menzionata nel Vangelo di Giovanni nella quale Gesù guarì un uomo cieco dalla nascita. Ed ecco la seconda notizia: la Israel Antiquities Authority ha recentemente scoperto i resti del villaggio di Cana dove Gesù compì il suo primo miracolo cambiando l’acqua in vino durante una festa di matrimonio. In alcuni edifici sono stati trovati utensili e i resti di un mikve, un bagno rituale ebraico.

Non è qui il caso di approfondire i particolari che pure sono affascinanti. Tuttavia queste due piccole notizie – che documentano tangibilmente come siano fedeli ai fatti i resoconti del Vangelo – ci mettono ancora una volta, appassionatamente, sulle tracce di quell’Uomo di Nazaret che giganteggia nelle pagine del Vangelo. Riportano alla luce le pietre su cui lui ha camminato, i luoghi che hanno sentito risuonare la sua voce, la terra con cui ha guarito un povero cieco. Tutto esattamente come riferiscono i resoconti evangelici. E’ bene ricordare la colossale importanza che le scoperte archeologiche moderne hanno assunto dopo due secoli di tentata demolizione della credibilità storica dei fatti riportati nei Vangeli. Scoperte clamorose. A cominciare dal più antico frammento del Vangelo, il famoso 7Q5, che riporta un versetto di Marco che fu composto prima del 50 d.C. Ma anche tutti gli altri ritrovamenti archeologici.
Il padre Ignace De La Potterie sj, uno dei grandi esperti di Giovanni, faceva un lucido esempio a questo proposito:
“Fin dalla metà del secolo scorso, la Scuola di Tubinga (David Fr., Strass, Walter Bauer, Ferdinand Ch. Baur) aveva imposto l’idea che nessuno dei redattori dei Vangeli fosse un testimone oculare, tanto meno un apostolo. Quello di Giovanni veniva attribuito a un qualche filosofo ellenizzante dell’Asia Minore o dell’Egitto. Nel 1930 il modernista italiano Adolfo Omodeo, in La mistica giovannea, l’unica opera italiana citata da Rudolf Bultmann, sosteneva ancora che Giovanni era stato scritto da uno gnostico in Egitto, intorno al 120. In questa temperie mentale la precisione delle descrizioni topografiche palestinesi risultava difficile da spiegare, se non addirittura scomoda. E allora si tendeva a interpretarla in modo mitico, fittizio. Esempio: nel capitolo quinto, la guarigione del paralitico avviene nei pressi di una piscina miracolosa che Giovanni chiama Betesda, ‘che ha cinque portici’ (quinque porticus habens). Ricordo di aver studiato, da giovane, su un libro di cento anni fa in cui questo passo veniva interpretato come una simbologia pitagorica…. Dall’inizio del Novecento i numerosi scavi compiuti in Palestina hanno dato conferme archeologiche ai luoghi descritti da Giovanni. La fontana con cinque portici, che doveva essere un simbolo pitagorico, è stata trovata presso il Tempio di Gerusalemme” (Storia e mistero, Sei 1997, pp. 10-11).

Evidentemente è facile intuire che delle descrizioni così precise di Gerusalemme potevano essere fatte solo da un ebreo che viveva in quella città prima della sua distruzione da parte dei Romani, nel 70 d.C. Dunque anche le pietre confermano (gridano!) ciò che Giovanni scrive a chiare lettere, cioè di essere un testimone oculare dei fatti: “ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della Vita… lo annunziamo anche a voi” (1Giov 1,1). E Pietro conferma che essi, gli apostoli, non sono “andati dietro a favole artificiosamente inventate”, ma “siamo stati testimoni oculari della sua grandezza” (2Pt 1,16). Quando – alcuni anni fa – riportai alla luce la clamorosa scoperta di padre José O’Callaghan sul 7Q5 – la reazione di molti esegeti fu velenosa (soprattutto di quelli ecclesiastici, perché i papirologi laici accettarono tranquillamente e laicamente la scoperta). Uno di questi biblisti (rimasto famoso per un incredibile svarione scientifico) sibilò su un giornale: “Continua, in modo spesso scomposto e frenetico, l’interesse per il Gesù della storia”. Gli rispose per le rime il grande De La Potterie (vedi AAVV, Vangelo e storicità, p. 165). Io da parte mia devo confessare e lo dichiaro qui apertamente che quell’interesse “scomposto e frenetico per il Gesù della storia” è tutt’altro che sparito. Non si è mai attenuato, ma casomai si è ingigantito con gli anni. Quell’Uomo di nome Gesù, vero uomo e vero Dio, nostro Salvatore, nostro buon Pastore (che porta sulle sue spalle ognuno di noi), è la nostra passione. La sua storia, i suoi gesti, la sua presenza, il suo volto sono l’unica perla preziosa che vale la pena cercare nella vita. Null’altro. Come diceva Charles Moeller, che don Giussani ci ha fatto conoscere: “io credo che non potrei più vivere se non Lo sentissi più parlare”.

di Antonio Socci

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