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Consigli sulla lotta spirituale rivelati a Santa Faustina Kowalska

Posté par atempodiblog le 15 juillet 2013

Consigli sulla lotta spirituale rivelati a Santa Faustina Kowalska

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«Figlia Mia, voglio istruirti sulla lotta spirituale.

1. Non confidare mai in te stessa, ma affidati completamente alla Mia volontà.

2. Nell’abbandono, nelle tenebre e nei dubbi di ogni genere ricorri a Me ed al tuo direttore spirituale, che ti risponderà sempre a Mio nome.

3. Non metterti a discutere con nessuna tentazione, chiuditi subito nel Mio Cuore ed alla prima occasione rivelala al confessore.

4. Metti l’amor proprio all’ultimo posto, in modo che non contamini le tue azioni.

5. Sopporta te stessa con molta pazienza.

6. Non trascurare le mortificazioni interiori.

7. Giustifica sempre dentro di te l’opinione dei superiori e del confessore.

8. Allontanati dai mormoratori come dalla peste.

9. Lascia che gli altri si comportino come vogliono, tu comportati come voglio Io da te.

10. Osserva la regola nella maniera più fedele.

11. Dopo aver ricevuto un dispiacere, pensa a che cosa potresti fare di buono per la persona che ti ha procurato quella sofferenza.

12. Evita la dissipazione.

13. Taci quando vieni rimproverata.

14. Non domandare il parere di tutti, ma quello del tuo direttore spirituale; con lui sii sincera e semplice come una bambina.

15. Non scoraggiarti per l’ingratitudine.

16. Non indagare con curiosità sulle strade attraverso le quali ti conduco.

17. Quando la noia e lo sconforto bussano al tuo cuore, fuggi da te Stessa e nasconditi nel Mio Cuore.

18. Non aver paura della lotta; il solo coraggio spesso spaventa le tentazioni che non osano assalirci.

19. Combatti sempre con la profonda convinzione che Io sono accanto a te.

20. Non lasciarti guidare dal sentimento poiché esso non sempre è in tuo potere, ma tutto il merito sta nella volontà.

21. Sii sempre sottomessa ai superiori anche nelle più piccole cose.

22. Non t’illudo con la pace e le consolazioni; preparati a grandi battaglie.

23. Sappi che attualmente sei sulla scena dove vieni osservata dalla terra e da tutto il cielo; lotta come un valoroso combattente, in modo che Io possa concederti il premio.

24. Non aver troppa paura, poiché non sei sola».

Tratto da: Christus Veritas

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Insegnamenti di Gesù sulla vita interiore

Posté par atempodiblog le 15 juillet 2013

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Oggi durante l’ora santa ho chiesto a Gesù che si degni d’istruirmi sulla vita interiore. Gesù mi ha risposto: «Figlia Mia, metti in pratica fedelmente le parole che ti dico:

Non valutare troppo nessuna cosa esteriore, anche se ti sembra molto preziosa.
Abbandona te stessa e rimani continuamente con Me.    
Affida tutto a Me e non far nulla di tua iniziativa ed avrai sempre una grande libertà di spirito; nessuna circostanza, nessuna vicenda riuscirà a turbartela.    
Non badare molto a quello che dice la gente, lascia che ognuno ti giudichi come gli piace.
Non giustificarti, ciò non ti recherà alcun danno.
Dai tutto al primo accenno di richiesta, anche se si trattasse delle cose più necessarie; non chiedere nulla senza esserti consigliata con Me.
Lascia che ti tolgano anche ciò che ti appartiene, la stima, il buon nome; il tuo spirito sia superiore, al di sopra di tutto questo.
E così, affrancata da tutto, riposa accanto al Mio Cuore, non permettere che alcunché turbi la tua pace.
Mia discepola, medita le Mie parole, quelle che ti ho detto».

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Il buon Samaritano

Posté par atempodiblog le 14 juillet 2013

PAPA FRANCESCO

ANGELUS
Castel Gandolfo
Domenica
, 14 luglio 2013

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Il buon Samaritano dans Commenti al Vangelo 5zilft

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno!

Oggi il nostro appuntamento domenicale dell’Angelus lo viviamo qui a Castel Gandolfo. Saluto gli abitanti di questa bella cittadina! Voglio ringraziarvi soprattutto per le vostre preghiere, e lo stesso faccio con tutti voi pellegrini che siete venuti qui numerosi.

Il Vangelo di oggi – siamo al capitolo 10 di Luca – è la famosa parabola del buon samaritano. Chi era quest’uomo? Era uno qualunque, che scendeva da Gerusalemme verso Gerico sulla strada che attraversa il deserto della Giudea. Da poco, su quella strada, un uomo era stato assalito dai briganti, derubato, percosso e abbandonato mezzo morto. Prima del samaritano passano un sacerdote e un levita, cioè due persone addette al culto nel Tempio del Signore. Vedono quel poveretto, ma passano oltre senza fermarsi. Invece il samaritano, quando vide quell’uomo, «ne ebbe compassione» (Lc 10,33) dice il Vangelo. Si avvicinò, gli fasciò le ferite, versandovi sopra un po’ di olio e di vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e pagò l’alloggio per lui… Insomma, si prese cura di lui: è l’esempio dell’amore per il prossimo. Ma perché Gesù sceglie un samaritano come protagonista della parabola? Perché i samaritani erano disprezzati dai Giudei, a causa di diverse tradizioni religiose; eppure Gesù fa vedere che il cuore di quel samaritano è buono e generoso e che – a differenza del sacerdote e del levita – lui mette in pratica la volontà di Dio, che vuole la misericordia più che i sacrifici (cfr Mc 12,33). Dio sempre vuole la misericordia e non la condanna verso tutti. Vuole la misericordia del cuore, perché Lui è misericordioso e sa capire bene le nostre miserie, le nostre difficoltà e anche i nostri peccati. Dà a tutti noi questo cuore misericordioso! Il Samaritano fa proprio questo: imita proprio la misericordia di Dio, la misericordia verso chi ha bisogno.

Un uomo che ha vissuto pienamente questo Vangelo del buon samaritano è il Santo che ricordiamo oggi: san Camillo de Lellis, fondatore dei Ministri degli Infermi, patrono dei malati e degli operatori sanitari. San Camillo morì il 14 luglio 1614: proprio oggi si apre il suo quarto centenario, che culminerà tra un anno. Saluto con grande affetto tutti i figli e le figlie spirituali di san Camillo, che vivono il suo carisma di carità a contatto quotidiano con i malati. Siate come lui buoni samaritani! E anche ai medici, agli infermieri e a coloro che lavorano negli ospedali e nelle case di cura, auguro di essere animati dallo stesso spirito. Affidiamo questa intenzione all’intercessione di Maria Santissima.

E un’altra intenzione vorrei affidare alla Madonna, insieme a tutti voi. E’ ormai vicina la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro. Si vede che ci sono tanti giovani di età, ma tutti siete giovani nel cuore! Io partirò tra otto giorni, ma molti giovani partiranno per il Brasile anche prima. Preghiamo allora per questo grande pellegrinaggio che comincia, perché Nostra Signora de Aparecida, patrona del Brasile, guidi i passi dei partecipanti, e apra i loro cuori ad accogliere la missione che Cristo darà loro.

Tratto da: Vatican.va

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A chi posso farmi prossimo, ora e qui?

Posté par atempodiblog le 14 juillet 2013

A chi posso farmi prossimo, ora e qui?
Il Buon Samaritano
di Padre Raniero Cantalamessa

padre raniero cantalamessa

Ci siamo proposti, dicevo, di commentare alcuni vangeli domenicali ispirandoci al libro di papa Benedetto XVI su Gesù di Nazaret. Alla parabola del buon Samaritano sono dedicate diverse pagine del libro. La parabola non si comprende se non si tiene conto della domanda alla quale con essa Gesù intendeva rispondere: “Chi è il mio prossimo?”.

A questa domanda di un dottore della legge, Gesù risponde raccontando una parabola. Nella musica e nella letteratura mondiale, ci sono degli “attacchi” divenuti celebri. Quattro note, disposte in una certa sequenza, e ogni intenditore esclama subito, per esempio: “Quinta sinfonia di Beethoven: il destino che bussa alla porta!”. Molte parabole di Gesù condividono questa caratteristica. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…”, e tutti capiscono immediatamente: parabola del buon Samaritano!

Nell’ambiente giudaico del tempo si discuteva su chi doveva essere considerato, per un israelita, il proprio prossimo. Si arrivava in genere a comprendere, nella categoria di prossimo, tutti i connazionali e i proseliti, cioè i gentili che avevano aderito al giudaismo. Con la scelta dei personaggi (un Samaritano che soccorre un giudeo!) Gesù viene a dire che la categoria di prossimo è universale, non particolare. Ha per orizzonte l’uomo, non la cerchia familiare, etnica, o religiosa. Prossimo è anche il nemico! Si sa infatti che i giudei infatti “non mantenevano buone relazioni con i samaritani!” (cfr. Gv 4, 9).

La parabola insegna che l’amore del prossimo deve essere non solo universale, ma anche concreto e fattivo. Come si comporta il samaritano della parabola? Se il Samaritano si fosse accontentato di accostarsi e di dire a quel disgraziato che giaceva nel suo sangue: “Poveretto, quanto mi dispiace! Come è successo? Fatti coraggio!”, o parole simili, e poi se ne fosse andato, non sarebbe stato tutto ciò un’ironia e un insulto? Lui fece dell’altro: “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.

La cosa però veramente nuova, nella parabola del buon samaritano, non è che in essa Gesù esige un amore universale e concreto. La vera novità, fa notare il papa nel suo libro, è altrove. Terminato di narrare la parabola Gesù domanda al dottore della legge che lo aveva interrogato: “Chi di questi tre [il levita, il sacerdote, il samaritano] ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”.

Gesù opera un capovolgimento inatteso rispetto al concetto tradizionale di prossimo. Prossimo è il Samaritano, non il ferito, come ci saremmo aspettati. Questo significa che non bisogna attendere passivamente che il prossimo spunti sulla propria strada, magari con tanto di segnalazione luminosa e a sirene spiegate. Tocca a noi essere pronti ad accorgerci che c’è, a scoprirlo. Prossimo è quello che ognuno di noi è chiamato a diventare! Il problema del dottore della Legge appare rovesciato; da problema astratto e accademico, si fa problema concreto e operativo. La domanda da porsi non è: “Chi è il mio prossimo?”, ma: “A chi posso farmi prossimo, ora e qui?”

Nel suo libro, il papa fa un’applicazione attuale della parabola del buon samaritano. Vede l’intero continente africano simboleggiato dallo sventurato che è stato spogliato, ferito e lasciato mezzo morto ai margini della strada e vede in noi, membri dei paesi ricchi dell’emisfero nord, i due personaggi che passano e tirano diritto, se non addirittura i briganti che lo hanno ridotto così.

Io vorrei accennare a un’altra possibile attualizzazione della parabola. Sono convinto che se Gesù vivesse oggi in Israele e un dottore della Legge gli chiedesse di nuovo: “Chi è il mio prossimo?” cambierebbe leggermente la parabola e al posto di un samaritano metterebbe un palestinese! Se poi a interrogarlo fosse un palestinese, al posto del samaritano troveremmo un ebreo!

Ma è troppo comodo limitare il discorso all’Africa o al Medio Oriente. Se fosse uno di noi a porre a Gesù la domanda: “Chi è il mio prossimo?”, cosa risponderebbe? Ci ricorderebbe certamente che il nostro prossimo non è solo il connazionale, ma anche l’extracomunitario, non solo il cristiano, ma anche il musulmano, non solo il cattolico, ma anche il protestante. Ma aggiungerebbe subito che non è questa la cosa più importante; la cosa più importante non è sapere chi è il mio prossimo, ma vedere a chi posso io farmi prossimo, ora e qui; per chi posso essere io il buon samaritano.

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Le aspettative

Posté par atempodiblog le 13 juillet 2013

Le aspettative dans Diego Manetti yenj

Le aspettative su Gesù
Tratto da una catechesi audio di Diego Manetti ad Assisi

Il primo impedimento alla fede è il pensare che quello che noi già conosciamo, gli schemi, cui sovente ci appoggiamo, siano sufficienti per preparare la venuta di Gesù. Se Gesù non rientra in questi schemi, non è Lui, non Lo riconosco. Abbiamo delle attese. E’ legittimo avere delle aspettative? Certo… ma bisogna essere liberi, amare la Verità più delle proprie idee.

Un caso su tutti… nel collegio apostolico rientra uno che aveva grandi aspettative su Gesù: Giuda.

Pensava che da Gesù sarebbe venuta la liberazione di Israele. Aveva già le sue attese, non guardava e non ascoltava quello che gli accadeva davanti agli occhi. E’ stato tre anni con Gesù, non lo ha voluto riconoscere.

Diciamo che Giuda prima di tradire, si è sentito tradito! In che senso? Aveva le sue aspettative! Aveva la sua idea di Gesù. Se Gesù non rispondeva a quella che era la sua attesa… e allora tanto valeva consegnarLo nelle mani dei sommi sacerdoti.

E vedete che fine ha fatto Giuda. Un traditore incapace di pentirsi. Incapace fino all’ultimo di riconoscere in Gesù il Figlio di Dio.

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Le aspettative sugli altri
di Chiara Amirante

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Quando le relazioni sono inquinate dalle nostre pretese ed attese su come gli altri dovrebbero comportarsi nei nostri confronti ci sentiamo continuamente feriti perché le nostre aspettative vengono per lo più disilluse; diventiamo incapaci di vedere e apprezzare altri gesti di amore nei nostri confronti. Quando non ci aspettiamo più niente dagli altri impariamo finalmente a dare valore a tutto quanto le persone ci donano e sappiamo gioirne sinceramente.

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«Sarebbe sciocco rinunciare al consiglio di Benedetto»

Posté par atempodiblog le 13 juillet 2013

«Sarebbe sciocco rinunciare al consiglio di Benedetto»
In una telefonata all’amico ex alunno Jorge Milia, Papa Francesco parla dell’affetto per il predecessore

Andrea Tornielli – Vatican Insider

«Sarebbe sciocco rinunciare al consiglio di Benedetto» dans Andrea Tornielli ckx0

«Non ti immagini l’umiltà e la saggezza di quest’uomo… Non ci penso nemmeno a rinunciare al consiglio di una persona del genere, sarebbe sciocco da parte mia!». Sono parole di Papa Bergoglio riferite al suo predecessore, Benedetto XVI. Parole dette per telefono a Jorge Milia, giornalista, scrittore ed ex alunno di Bergoglio. Le riporta lo stesso Milia in un articolo pubblicato sul blog di Alver Metalli Terre d’America.

Lo scrittore inizia col dire che il Papa con lui si è lamentato per aver ricevuto una sua lettera di ben dodici pagine. «Ma non puoi negare che ti ho fatto ridere…» gli ha risposto Milia. «Ha riso. Per quelle ragioni che nessuno può spiegare, tanto meno io, tollera ancora la mia prosa come tanti anni fa, quando eravamo professore e alunno. Gli ho detto che avevo iniziato a leggere l’enciclica Lumen Fidei e lui ha declinato ogni merito personale.

Ha commentato che Benedetto XVI aveva fatto la maggior parte del lavoro, che era un pensatore sublime, non conosciuto o capito dalla maggior parte delle persone». Poi lo scrittore riferisce altre parole del Pontefice: «Oggi ero con el viejo, il vecchio … – l’ha chiamato così, all’argentina, con quel carattere affettuoso che diamo alla parola – abbiamo chiacchierato molto; per me è un piacere scambiare idee con lui»  «E davvero quando parla di Ratzinger – rimarca Milia – lo fa con riconoscenza e tenerezza. A me fa un po’ l’effetto di uno che ha ritrovato un vecchio amico, un ex compagno di classe, di quelli che si fanno vedere di tanto in tanto, che a scuola frequentavano uno o due corsi dopo il nostro e che in qualche modo ammiravamo, magari con le differenze che il tempo aveva levigato, ammorbidito».   Francesco per telefono ha aggiunto all’amico ex alunno: «Non ti immagini l’umiltà e la saggezza di quest’uomo».

Milia ha ribattuto: «Allora tienilo vicino…». «Non ci penso nemmeno – ha replicato il Papa – a rinunciare al consiglio di una persona del genere, sarebbe sciocco da parte mia!». A proposito dell’accessibilità nel rapporto con le persone, Francesco ha confidato all’amico: «Non è stato facile, Jorge, qui ci sono molti “padroni” del Papa e con molta anzianità di servizio». «Poi ha commentato – scrive Milia – che ogni cambiamento che ha introdotto gli è costato degli sforzi (e, suppongo, dei nemici …) Tra questi sforzi la cosa più difficile è stata di non accettare che gli gestissero l’agenda. Per questo non ha voluto vivere nel palazzo, perché molti Papi hanno finito con il diventare “prigionieri” dei loro segretari».

«Sono io che decido chi vedere – ha detto Francesco all’ex alunno – non i miei segretari…  A volte non posso vedere chi vorrei, perché devo vedere chi chiede di me». «Questa frase mi ha molto colpito – osserva lo scrittore -. Io, che non sono Papa e non ho il suo potere, sento il cuore che si accelera quando aspetto un caro amico e non so proprio se darei la precedenza ad un altro al suo posto. Lui, invece, si priva dell’incontro che vorrebbe per stare con chi lo richiede. Mi ha detto che i Papi sono stati isolati per secoli e che questo non va bene, il posto del Pastore è con le sue pecore…».

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India, inaugurata una sede di Radio Maria

Posté par atempodiblog le 13 juillet 2013

India, inaugurata una sede di Radio Maria
L’emittente missionaria sbarca a Cochin, nel Kerala. “La devozione alla Vergine è radicata tra i cattolici del Paese”

di Vatican Insider

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Taglio del nastro ufficiale per la sede della Web Radio Maria India nella mattinata di domenica 30 giugno. Una solenne benedizione ha dato inizio alla giornata nella città di Cochin (regione del Kerala). L’inaugurazione è avvenuta alla presenza dei membri del governo dell’India e di World Family of Radio Maria, nella persona di Padre Francisco Palacios. A fare gli onori di casa Padre Raphael Kootumghal, direttore della stazione radio indiana.

Presenti anche varie autorità ministeriali ed un centinaio di volontari, sacerdoti, laici e suore. S.E.Mons. Joseph Kariyil, Vescovo di Cochin, ha benedetto gli studi, certo che questa emittente cattolica possa essere protagonista di un progetto ambizioso: portare la  Buona Novella agli abitanti di un Paese in rapida crescita, i quali hanno bisogno di conoscere la salvezza e la misericordia di Gesù, nostro redentore.

India, inaugurata una sede di Radio Maria dans Articoli di Giornali e News tff

L’apertura di Radio Maria a Cochin rappresenta uno degli undici progetti finanziati dalla corsa di solidarietà Mariathon (www.mariathon.org), svoltasi a livello mondiale dal 10 al 12 maggio scorso.

La storia di Radio Maria in India inizia dall’ispirazione di un sacerdote indiano (Padre Raphael) che in missione in Ecuador ebbe modo di conoscere e partecipare ai programmi di Radio Maria, rendendosi conto della forza di conversione di questo dono di Maria. Al rientro in India dopo la sua esperienza missionaria, Padre Raphael informa il proprio Vescovo sulla possibilità di creare un’emittente missionaria ed evangelizzatrice: prendendo i contatti con gli uffici di World Family of Radio Maria in Italia, chiede l’opportunità di organizzare un incontro in India. Nell’ottobre 2008,con la visita nella Diocesi di Cochin, inizia lo studio di fattibilità che ha portato alla nascita della Web Radio Maria India, è accessibile all’indirizzo www.radiomaria.org.in

“Siamo convinti e fiduciosi che la nostra Madre ci aiuterà – sono state le parole del direttore P.Raphael – Grazie ai missionari che hanno dedicato la loro vita per diffondere la fede cattolica, la devozione alla Beata Vergine Maria è profondamente radicata tra le famiglie di cattolici nel nostroPaese. Un culto che si sta diffondendo anche tra gli indù, musulmani e buddisti. Non viene vista come una minaccia, ma come una madre che cura, ama i propri figli, portando grazie alle persone. Per questo Maria è una chiave importante per l’evangelizzazione dell’India”.

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La pace che il Signore dona

Posté par atempodiblog le 12 juillet 2013

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L’uomo non è fatto per la terra. Non ci si può accontentare di pensare che siamo fatti semplicemente per questa dimensione. C’è un brano di Sant’Agostino che mi ha sempre molto colpito, è l’apertura delle Confessioni, in cui dice: “Ci hai fatti per Te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”. E’ bellissimo! Dio ci ha fatti per Lui. Non ci ha messo su questa terra per vedere come andavano le cose, per divertirsi, ci ha fatti perché tornassimo a Lui. “E il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”: inquietudine e riposo.

Dite se non è la vostra esperienza! C’è stato un momento in cui potevate dire di essere lontani da Dio? Per me si! Tanti anni lontano da Dio! Cosa ti ricordi Diego? A parte tutte le sciocchezze che ho fatto, ero inquieto. Inquieto! Non trovavo pace! Se vi dicessi adesso che cos’è che caratterizza la mia vita prima di tutto, è il fatto che vivo questa dimensione del riposo. Il riposo del cuore si chiama pace.

Se la Madonna è venuta a Medjugorje chiamandosi Regina della Pace, non lo ha fatto solo perché dieci anni dopo l’inizio delle apparizioni ci sarebbe stata la guerra balcanica, che ha fatto quattrocentomila morti… si è chiamata Regina della Pace perché ha visto che su questo pianeta ben pochi uomini hanno la pace nel cuore.

Io non vengo a vedere a casa vostra, ma ognuno si interroghi: ma a casa mia c’è la pace? Ma la mattina quando ci svegliamo e ci guardiamo in faccia, “tesoro, ti ho preparato il caffè!” o ci tireremmo le tazzine dietro?

“Non capisco perché a volte sento questa inquietudine”… è perché il demonio è così! Mica va a dormire! Alla mattina presto si sveglia sempre un po’ prima di noi e ti prepara con quella rabbia, con quella tensione, quell’angoscia, che ti fa cominciare male la giornata.

Se lo so, mi preparo e sto più attento. La Madonna l’antidoto l’ha dato, si chiama preghiera.

Hai litigato con tuo marito? Ma dì il Rosario con lui… “no ma adesso mi chiarisco”, ma cosa vuoi chiarire? Una parola sopra l’altra e l’equivoco è sempre peggiore! Incomincia a pregare. Al mattino i bambini non vogliono svegliarsi, tu comincia col dire le preghiere… “ah, ma quelle le faccio la sera”, ma cosa vuol dire? Dai da mangiare a tuo figlio soltanto alla sera? O gli fai fare colazione, pranzo e cena? E’ così con la preghiera… se no l’anima muore.

di Diego Manetti – Parrocchia San Terenzo a Lerici

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La faccia di chi ci crede

Posté par atempodiblog le 12 juillet 2013

“Al momento della Messa, bisogna sentirsi trasformati. Deve scomparire ogni preoccupazione di tempo e di scuola poiché la Messa, assieme alla Comunione e alla Meditazione, costituisce l’essenza del fine!”.

Beato Giustino Maria della Santissima Trinità Russolillo

La faccia di chi ci crede dans Costanza Miriano Maria-e-Ges

La faccia di chi ci crede
di Costanza Miriano – Credere
Tratto da: Il blog di Costanza Miriano

Spesso la messa è per me l’unico momento della giornata in cui mi fermo, non posso fare niente altro che essere lì. Telefono staccato, iPad disconnesso, agenda chiusa. Ed è allora che si scatenano, gli infami.

I pensieri più remoti, assurdi, inaspettati vengono fuori di soppiatto, fanno capolino e poi si installano a un lato della mia fronte, apposta per molestarmi. Tu dimmi, ma quella zia che non vedo da almeno due anni, ma proprio adesso mi deve venire in mente?

Sì, va bene, la chiamo, e quando torno dai miei, in estate, la vado a trovare, promesso, però adesso fammi ascoltare la lettura. … No, il libretto vaccinale del figlio numero tre non so dove sia, ma è in casa, quindi per favore adesso prega, dopo lo troverai. … No, non so come stia Paola, adesso, e neanche cosa fare di contorno. Devo trovare spinaci al sapore di nutella, o una zucchina disponibile a travestirsi da cono gelato, per avere qualche speranza che Lavinia ingerisca qualcosa che un tempo ebbe un lontano contatto con una verdura. Comunque non è adesso il momento di risolvere il problema.

Adesso sono in chiesa, e fra poco Gesù Cristo si farà pane e sarà dentro di me, chiudendo un occhio, e anche tutti e due, sulla mia distrazione, poca presenza, poca comprensione (dell’indegnità non parliamo neanche).

Eppure la messa può essere un momento importante anche per fare apostolato, per essere testimoni. Qualche giorno fa, non so perché, mi è capitato di essere davvero presente a quello che stava succedendo sull’altare. Succede. Mi sembrava che tutto fosse così evidentemente vero che devo avere fatto una faccia speciale. È entrato un signore distratto, e si è girato tre o quattro volte a guardarmi (e non era per me, ero vestita orribilmente e pettinata alla mazzo di carciofi). Deve avere notato la faccia di una che crede che Dio stava entrando in quella chiesa per invadere con la sua immensità la nostra povertà. Chissà, magari ci ha riflettuto anche lui.

È così importante, per noi ma anche per i nostri fratelli, come viviamo la messa. Non serve molto, basta essere presenti in cuore, intelligenza, forza, spirito. E vi assicuro che poi il libretto vaccinale smarrito si ritrova sempre (a casa mia è sempre lì, sotto il portapenne).

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La tunica di Gesù

Posté par atempodiblog le 12 juillet 2013

La tunica di Gesù
Padre Jean-Charles Leroy – Ed. Cantagalli, Siena 2011
Tratto da: Radici Cristiane

La tunica di Gesù dans Libri wzn

Tutti conoscono la Sacra Sindone. Meno nota è un’altra reliquia riguardante un capo di vestiario appartenuto a Nostro Signore: la Tunica – quella in un pezzo solo, non cucita, che i soldati si giocarono a dadi – e che è attualmente conservata nella Chiesa di Saint-Denys di Argenteuil (a dieci chilometri da Parigi).

La storia della Tunica è di grande interesse e padre Leroy la ricostruisce in questo saggio che, per l’impaginazione e le tantissime fotografie, ha l’aspetto di una vera e propria guida ad una reliquia poco nota. Esiste, va ricordato, anche un’altra Tunica, conservata a Treviri: ma non si tratta di un “falso”, bensì di una seconda tunica che Gesù indossò recandosi al Golgota: quest’ultima fu indossata sopra l’altra: infatti la Tunica di Argenteuil presenta una serie di macchie ematiche che non sono presenti su quella di Treviri. E a proposito delle macchie, una delle prove scientifiche della sua autenticità è data da due importanti fattori: la maggior parte delle tracce di sangue corrisponde a quelle trovate sulla Sindone (e non è un caso che sulla spalla sinistra, dove pesò il legno della croce durante il tragitto, siano presenti in maggior quantità) e inoltre il gruppo sanguigno è lo stesso che si riscontra sul Lino torinese.

Numerose sono le attestazioni storiche che ricordano le vicende della Tunica, che fu donata a Carlo Magno dall’Imperatrice di Bisanzio Irene; il primo Imperatore del Sacro Romano Impero a sua volta la donò al monastero di Notre Dame d’Humilité, dove sua figlia era badessa. Menzionata da vari scrittori (almeno due secoli prima che si iniziasse a parlare della Sindone), la reliquia rischiò di essere distrutta durante la Rivoluzione Francese: il parroco fu costretto a tagliarla per nasconderne i vari pezzi, i più grandi sottoterra, i più piccoli affidandoli ad alcuni parrocchiani fidati. Purtroppo, dopo i massacri della Rivoluzione, non fu possibile rintracciare tutti i pezzi e ciò spiega l’attuale precario stato di conservazione.

Gli immancabili esperimenti al carbonio 14 hanno dato i soliti risultati, contradditori e insoddisfacenti. Più seria l’analisi del tipo di tessuto, delle spore presenti sulla tela (le stesse riscontrate sulla Sindone), l’analisi del Dna (che ha accertato l’origine medio-orientale, ma non araba, del sangue, peraltro identico non solo a quello della Sindone, ma anche del Miracolo eucaristico di Lanciano). E un’ultima, toccante notazione: la Tunica, tessuta in lana con una tecnica ormai superata nel Medioevo (altro elemento che rende impossibile la datazione del reperto a quel periodo), potrebbe essere stata realizzata in casa, come era costume presso gli Ebrei, da una donna. In altre parole, i suoi fili potrebbero essere stati, con tutta probabilità, filati al fuso e quindi intrecciati al telaio dalle mani della Madonna.

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La Sainte-Chapelle di Parigi, scrigno di luce

Posté par atempodiblog le 11 juillet 2013

La Sainte-Chapelle, scrigno di luce
Situata nel cuore di Parigi, l’Île de la Cité, è un capolavoro voluto da san Luigi Re per ospitare le reliquie della vera Croce e della Corona di Spine.
di Annamaria Scavo – Radici Cristiane

La Sainte-Chapelle di Parigi, scrigno di luce dans Apparizioni mariane e santuari 11vlf06

Una radicale abolizione delle pareti, non più mura con funzione portante, un assottigliamento di tutte le strutture, vetrate leggere e diafane dai colori caleidoscopici delineate da fasci di pilastri che non lasciano trasparire la robusta ingabbiatura esterna dei contrafforti e degli archi rampanti, ecco il gotico radiante, ecco la Sainte-Chapelle.
La volle nel 1241 san Luigi IX perché contenesse le sacre reliquie che egli aveva acquistato in Oriente: la corona di spine della Passione, cedutagli dall’imperatore latino Baldovino II di Costantinopoli in cambio di una cifra esorbitante dopo due anni di contrattazione, e un pezzo della Vera Croce.
Desiderando dare una sede degna a queste e altre reliquie, fece progettare un edificio che doveva essere molto bello, una cappella palatina, collegata direttamente al palazzo reale che in seguito sarebbe andato distrutto.
Ora è circondata dal Palazzo di Giustizia, funzione peraltro che un tempo era esercitata dallo stesso re con l’istituto del “letto di giustizia” che serviva ad importanti aristocratici per perorare le proprie cause.
Nel 1246 fu pronta, nel 1248 consacrata.

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Capolavoro verticale verso il Cielo
La facciata è compresa tra due torrette a guglia ed è preceduta da un ampio portico sormontato da una loggia, al di sopra della quale è situato un grande rosone.
Si accede da un portale che conduce alla Cappella inferiore, Cappella bassa, dedicata alla Vergine. Le decorazioni all’interno e la statua della Vergine sono dell’800.
Attraverso una stretta scaletta si perviene alla parte alta dove furono esposte le Reliquie e dove l’arte delle vetrate si esprime nel modo più sublime.
Le proporzioni danno un’immediata sensazione dello slancio verticale dell’opera. Essa infatti è lunga 36 metri, larga 17 e alta 42,50. L’innovazione tecnica di inserire rinforzi in metallo nella muratura delle volte, oltre ai già detti contrafforti esterni, consente il sostegno di questa fragile struttura.
L’interno consiste di due basiliche ad aula unica, sovrapposte, quella inferiore ad uso della corte e del governo ospitato nella reggia, quella superiore, contenente le preziose reliquie, appannaggio esclusivo del Re, della sua famiglia e dei grandi ufficiali. A consacrare quest’ultima venne addirittura il Papa, mentre quella inferiore fu benedetta dall’Arcivescovo di Bourges.

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Meravigliose vetrate
Impressionante è l’impatto visivo con le immense vetrate sfolgoranti di colori mentre la parte muraria dell’interno è ridotta alle nervature essenziali, uno spettacolo unico del quale non è noto il progettista, che non viene mai nominato negli archivi; potrebbe essere quel Pierre de Montreuil che le viene a volte associato, l’architetto cui si deve anche una parte di St. Denis e della facciata di Nôtre-Dame. Oggi si fa anche con insistenza il nome di T. de Cormont.
Seicento metri quadrati di vetrate riproducono scene dell’Antico Testamento; su 1134, 720 sono originali del 1200. Si leggono da sinistra verso destra e dal basso verso l’alto. Nel ‘400 fu aggiunto il rosone con la rappresentazione dell’Apocalisse.
Durante la Rivoluzione, purtroppo, le sacre reliquie andarono disperse (ora in parte sono conservate nel tesoro di Nôtre-Dame), i banchi del coro distrutti insieme allo schermo protettivo del Crocifisso e così anche la guglia. Questa sarà ricostruita nel 1857.
Le splendide vetrate si salvarono miracolosamente da questi vandalismi perché provvidenzialmente oscurate da schedari, dato che la Chapelle era diventato un ufficio amministrativo.
La volta era arricchita di innumerevoli pietre preziose. Naturalmente, neanche queste furono risparmiate dai rivoluzionari.

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Così nell’Europa dei diritti le leggi ingabbiano la fede in Dio

Posté par atempodiblog le 11 juillet 2013

Così nell’Europa dei diritti le leggi ingabbiano la fede in Dio
Un saggio dell’americano Paul Coleman racconta “la fatale privatizzazione del cristianesimo in occidente”
di Giulio Meotti – Il Foglio

Così nell’Europa dei diritti le leggi ingabbiano la fede in Dio dans Articoli di Giornali e News qka4

Si tratta di una forma di vessazione “bianca”, legale, all’apparenza incruenta. “Ma non dovremo aspettare ancora a lungo prima che la parola per descrivere questo fenomeno diventi persecuzione”. Così si chiude il lungo saggio sulla secolarizzazione in Europa pubblicato dalla rivista americana First Things, madrina del cattolicesimo conservatore statunitense. “European faith made private”, il saggio a firma di Paul Coleman, passa in rassegna questo arcipelago europeo dell’intolleranza, volano di una rivoluzione del cristianesimo in occidente. Ovvero la sua “totale e fatale privatizzazione”.

“Si ritiene che l’Europa occidentale sia la sola parte del mondo in cui la cristianità è in declino e che i cristiani dentro a quei confini siano sottoposti a pressione perché nascondano la propria fede a livelli inusitati altrove in paesi anche solo nominalmente cristiani”, scrive Coleman. “La ragione non sta nella persecuzione, ma nella privatizzazione. In Europa è stata tracciata una linea chiara fra fede e pratica religiosa, così che ai cristiani viene costantemente ricordato che possono credere quello che vogliono o fare quel che vogliono dentro le loro chiese, ma semplicemente non lo possono fare o dire in pubblico. Ai cristiani viene detto di essere miti e di tenere la loro fede fuori dallo spazio pubblico. E il miglior modo per mantenere privato il cristianesimo è mantenere quieti i cristiani. L’Europa oggi ha dozzine di leggi per impedire ai cristiani di esprimersi su questioni controverse, non soltanto nei luoghi pubblici, ma anche nei pulpiti e nelle conversazioni private, rafforzate dal codice penale”. Coleman passa in rassegna i casi principali e le sentenze di Bruxelles.

“Alcuni anni fa il pastore svedese Ake Green fu condannato a un mese di carcere per aver predicato l’insegnamento biblico contro l’immoralità sessuale dalla sua piccola chiesa di Borgholm”. Il crimine di Green era stato quello di “mancanza di rispetto per gli omosessuali”, un nuovo reato a Stoccolma che comporta una sentenza massima di quattro anni di carcerazione. “Fortunatamente, Green ha beneficiato della pubblicità e la Corte suprema lo ha prosciolto due anni dopo aver tenuto quel sermone. Ma anziché rigettare la censura, molti paesi europei l’hanno adottata”.

L’anno scorso in Irlanda la polizia ha aperto un fascicolo sul vescovo Philip Boyce, dopo che uno dei leader del secolarismo nazionale, John Colgan, si era lamentato di una omelia “offensiva” in cui il vescovo dichiarava che la chiesa è sotto attacco “da parte di una cultura senza Dio”. Colgan disse che “questo è incitamento all’odio contro dissidenti e laici”. Anziché ignorare la denuncia, la polizia irlandese l’ha girata al procuratore generale, che a sua volta ha aperto un’inchiesta. Il vescovo avrebbe rischiato due anni di carcere se giudicato colpevole.

“In Spagna, il vescovo Juan Antonio Reig Plà è stato minacciato di azione legale dopo aver predicato contro gli effetti del comportamento peccaminoso. La lobby gay era oltraggiata dalla sua citazione dell’omosessualità. Mentre l’azione penale non è andata avanti, il comune di Madrid ha approvato una mozione in cui chiede che il vescovo venga rimosso dal suo incarico e che non venga mai più invitato a eventi pubblici della capitale”.

Silenzio in privato e nel posto di lavoro
“Anche le conversazioni private fra cittadini possono diventare oggetto di azione penale in molti paesi europei”, afferma Coleman. Due anni fa, i proprietari di un hotel inglese, Ben e Sharon Vogelenzang, sono stati denunciati da un ospite dell’albergo di fede islamica per aver usato “parole offensive”. Il caso raggiunse la Corte di giustizia. Alla fine i due coniugi vennero prosciolti da ogni accusa, ma il caso ha distrutto la loro attività commerciale.

“Il cristianesimo è tenuto fuori anche dal posto di lavoro”. Quattro casi di alto profilo nel Regno Unito stanno raggiungendo la Corte europea dei diritti dell’uomo. Gary McFarlane e Lillian Ladele sono stati licenziati per essersi rifiutati di registrare o sostenere il matrimonio omosessuale. Ladele era una funzionaria addetta alla registrazione delle nascite, dei decessi e dei matrimoni. “Quando le unioni civili omosessuali furono introdotte dal governo nel 2005, Ladele comprese che registrare quelle unioni andava contro la sua religione. C’erano molti altri addetti alle registrazioni e le unioni gay erano soltanto una piccola parte del suo lavoro, per cui un compromesso con i suoi principi sul matrimonio sarebbe stato facile da raggiungere”. Ladele invece è stata attaccata dai colleghi, che l’hanno accusata di “omofobia”, mentre il suo supervisore riferì del caso ad altri funzionari. In tribunale il suo superiore ha sintetizzato la propria posizione dicendo: “Non penso che dobbiamo assecondare i principi religiosi nel Servizio dell’anagrafe”. Alla fine, Ladele è stata costretta a dimettersi.

McFarlane lavorava come consulente delle relazioni per una organizzazione caritatevole. Aveva già sollevato dubbi sul fatto di fornire consulenze alle coppie omosessuali, pensando che questo avrebbe significato assecondare delle relazioni che lui reputava sbagliate. Tuttavia, dopo averne discusso con il proprio superiore, McFarlane decise che fornire consulenza a queste coppie non costituiva una forma di sostegno. Ma disse anche di avere difficoltà nel trattare comportamenti omosessuali secondo l’insegnamento della Bibbia. “McFarlane non mandò mai via dei clienti, ma soltanto il fatto di aver sollevato la questione con il suo supervisore portò alla sua cacciata per condotta sbagliata. Tentativi di arrivare a una mediazione, come un cambio interno all’azienda, furono rigettati dal tribunale, che stabilì che il suo supervisore ‘ha il diritto di trattare la questione come un principio, in cui il compromesso è inappropriato’”.

Gli altri due, Nadia Eweida e Shirley Chaplin, chiedevano il diritto di continuare a indossare una piccola croce sul luogo di lavoro, cosa che avevano fatto per anni. Nel caso di Eweida, la British Airways dopo uno scontro pubblico ha emendato la regola aziendale, ma si è rifiutata di rimborsare Eweida per lo stipendio perso durante il periodo di riposo coatto a casa. Il datore di lavoro di Chaplin, un ospedale statale, introdusse una nuova uniforme che rendeva l’uso della croce molto più difficile. Il datore di lavoro menzionò ragioni “di salute e di sicurezza” a giustificazione della rimozione della croce, senza però indicare mai quali fossero queste ragioni. La Corte europea si è espressa a favore di Eweida, stabilendo che la compagnia aerea non aveva il diritto di limitare la sua libertà religiosa. Ma ha rigettato gli altri tre casi, che oggi sono in attesa dell’appello.

Accade ovunque in Europa
L’analisi spietata di Coleman è confermata da un rapporto dell’Osservatorio sull’intolleranza e sulla discriminazione contro i cristiani in Europa (Oidce), membro dell’Agenzia Ue per i diritti fondamentali e che lavora in stretta collaborazione con l’Osce. Gli incidenti d’intolleranza e discriminazione contro i cristiani in Europa sono suddivisi dall’Osservatorio in diverse categorie: libertà di religione, libertà di espressione, libertà di coscienza, politiche discriminatorie, esclusione dei cristiani dalla vita politica e sociale, repressione dei simboli religiosi, insulto, diffamazione e stereotipi negativi, incidenti per odio, vandalismi e dissacrazione e, da ultimo, crimini di odio contro singoli individui. In Inghilterra, a Jersey, i postini si sono rifiutati di distribuire cd contenenti registrazioni del Vangelo di San Marco. Una farmacia di Berlino è stata invece boicottata e attaccata perché il farmacista non ha venduto la pillola del giorno dopo, a motivo delle sue convinzioni cattoliche. “Simili battaglie hanno luogo ovunque in Europa”, scrive Coleman.

La ministra francese dei Diritti delle donne, Najat Vallaud-Belkacem, ha appena presentato il suo progetto di legge per favorire “l’uguaglianza tra uomini e donne”. Tra le molte disposizioni previste ce n’è una che farà discutere: quella che obbliga i provider di Internet (i corrispettivi francesi di Fastweb o Tiscali) a denunciare tutto ciò che in rete ha un “contenuto sessista o omofobo”. La proposta è contenuta nell’articolo 17 del progetto di legge, già ridefinito “delazione per tutti”.
“I medici in Norvegia sono sottoposti a pressione perché partecipino alle procedure abortiste contro la loro coscienza”, scrive ancora Coleman. Di recente il ministro della Salute norvegese, Robin Kass, ha affermato che “se neghi a un paziente contraccezione o aborto non puoi essere un medico”. Lo stesso vale per la Svezia, che ha votato 271 a 20 contro una risoluzione del Consiglio di Europa che sostiene il diritto all’obiezione di coscienza dei medici. In Scozia, due ostetriche hanno fatto causa ai propri ospedali dopo che i manager avevano obbligato le due a supervisionare aborti contro la loro volontà. Il tribunale ha stabilito che la clausola di coscienza non si applica alle ostetriche. Oggi sono in appello. Ma in gioco, secondo Coleman, c’è molto di più del loro posto di lavoro. “E’ il futuro della libertà europea”. 

Questo doppio fenomeno di privatizzazione e repressione della fede ha una storia emblematica nella moneta da due euro che la Slovacchia (nell’Unione monetaria dal 2009) aveva approntato per festeggiare la predicazione di Cirillo e Metodio in terra slava, dai due santi convertita al cristianesimo. L’Europa ha giudicato intollerabile la croce e l’aureola attorno al capo dei due predicatori. I due santi alla fine sono rimasti senza aureola. “Una pagina totalitaria”, come l’ha definita l’episcopato slovacco, degna dei vecchi tempi del socialismo reale.

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Il Papa con due santi in Paradiso. Intervista incrociata a due dotti figli di Francesco e Ignazio sul “francescano in talare da gesuita”

Posté par atempodiblog le 10 juillet 2013

Il Papa con due santi in Paradiso
Intervista incrociata a due dotti figli di Francesco e Ignazio sul “francescano in talare da gesuita”
La duttilità di spirito propria ai gesuiti, “scioltezza la chiamava il cardinal Martini. La povertà “baluardo di tutte le altre virtù”.
L’intreccio delle spiritualità ignaziana e francescana, il paradigma ancora attuale della dispusta sui “Riti cinesi”.
Ignazio ha voluto che i gesuiti fossero orientati a “en todo amar y servir” e rinunciassero alle dignità ecclesiastiche.
Francesco è nome impensabile per chi doveva reggere la barca di Pietro: quel nome non evocava capacità di governo e di potere.
di Andrea Monda – Il Foglio
Tratto da: sanfrancesco.org

Il Papa con due santi in Paradiso. Intervista incrociata a due dotti figli di Francesco e Ignazio sul “francescano in talare da gesuita” dans Andrea Monda c81l

“Chiàmati Adriano, sarai riformatore, anzi chiamati Clemente XV, così ti vendichi di Clemente XIV che sciolse la Compagnia di Gesù”. Non sappiamo quale cardinale avesse suggerito scherzosamente il nome di Clemente a Jorge Mario Bergoglio, ma forse non aveva in grande simpatia i francescani, visto che Clemente XIV era seguace del Poverello d’Assisi, e invece il nome scelto alla fine dal primo Papa gesuita è stato proprio quello di Francesco. Di questo Papa anfibio, metà gesuita e metà francescano, parliamo con due esponenti di rilievo dei due ordini, professori di teologia nei luoghi di maggiore livello scientifico rispettivamente dei gesuiti, la Pontificia Università Gregoriana, dove padre Sandro Barlone insegna Teologia dogmatica, e dei francescani, l’Istituto Teologico di Assisi dove fra Guglielmo Spirito è docente di Teologia spirituale.

Volto e look molto simile allo Sean Connery del “Nome della rosa”, fra Guglielmo Spirito non solo è francescano (del ramo dei Conventuali, ad Assisi), ma anche italoargentino, proprio come Bergoglio, anzi vicino di casa, come rivendica con un pizzico di orgoglio e quel dolce accento sudamericano che ormai tutto il mondo ha cominciato ad apprezzare dal 13 marzo scorso: “La casa dei suoi genitori è nel quartiere di Flores, a pochi minuti di macchina dalla casa dei miei, nel quartiere di Belgrano”. Così spiega perché nessun Papa aveva mai osato chiamarsi Francesco: “I figli di san Francesco hanno dato alla chiesa cinque papi (e perfino un antipapa, Alessandro V nel ’400) e cioè Niccolò IV (+1292), Sisto IV (+1484), Giulio II (+1513), Sisto V (+1590) e infine Clemente XIV (+1774), tutti e cinque dell’ordine dei Frati minori detti Conventuali, il ramo più antico, gemello dell’ordine dei Predicatori, o domenicani. Personalmente ritengo che il nome Francesco fosse semplicemente impensabile per chi doveva reggere la barca di Pietro: quel nome non evocava di certo le capacità di governo (lui si dimise dalla guida dell’ordine, la cui evoluzione non riusciva a gestire) e tantomeno di potere, nemmeno spirituale. Francesco non fu un organizzatore, un fondatore capace di organizzare i suoi, quanto lo furono san Benedetto, san Domenico o sant’Ignazio, tutt’altro, il suo splendido carisma è decisamente altrove. Dovette arrivare san Bonaventura a integrare quanto mancava, a riorganizzare, e così non per caso è chiamato il Secondo fondatore. Si potrebbe quasi dire che a volte più che un ‘ordine’ quello francescano è un ‘contrordine’ o un ‘disordine’… Ignazio in questo è, oso dire, quasi l’opposto: la Compagnia è ottimamente funzionante fin dall’inizio”. Padre Sandro Barlone lo incontriamo dove insegna, un luogo in cui, fa notare, le storie dei due ordini s’intrecciano: “L’Università Gregoriana, retta dai gesuiti, rientra nel territorio della parrocchia dei SS. Apostoli, retta dai francescani Conventuali, nella cui Basilica è sepolto Clemente XIV, il Papa conventuale che il 13 luglio 1773 soppresse la Compagnia di Gesù” e ci spiega perché, prima ancora del tabù del nome Francesco, il suo confratello Bergoglio ne ha distrutto un altro, quello del primo Papa gesuita della storia. “La Compagnia di Gesù si è distinta per un compito specifico: la difesa e la propagazione della fede sotto la guida del Romano Pontefice. Un servizio esplicitato dal quarto voto di obbedienza al Papa emesso dai professi, il che vuol dire andare, senza indugio, in ogni parte del mondo, al cenno del Romano Pontefice e mette i gesuiti a servizio del bene universale della chiesa di cui solo il Papa possiede la visione esatta, ma li mantiene anche costantemente in uno stato di mobilità: truppe leggere da inviare dove sorge un bisogno della chiesa, allora come ora e di fatto li taglia fuori dalla possibilità che si possa pensare ad essi per compiti diversi, ad esempio le nomine episcopali che li sedentarizzerebbero e che porterebbero a “scremare” la Compagnia dei suoi uomini migliori. Per questo sant’Ignazio ha voluto che i gesuiti professi fossero più orientati a servire “en todo amar y servir”, senza divenire servili, e rinunciassero, per voto, alle dignità ecclesiastiche sia fuori che dentro la Compagnia, a meno che non vi fosse un ordine esplicito e indubbio da  parte del Papa. Questo spiega perché attualmente vi siano vescovi e cardinali anche tra i gesuiti ma dice anche perché non vi siano stati, sino a Francesco, papi provenienti dalla Compagnia di Gesù”.

Padre Barlone è sorpreso, ma non troppo, dalla scelta del gesuita Bergoglio di chiamarsi Francesco: “Nomen omen”. Il nome di Francesco evoca immediatamente un dato rapporto con Dio, con la realtà, con il prossimo. Forse dovremmo inquadrare questo evento nella duttilità e nella libertà di spirito propria ai gesuiti, “scioltezza” la chiamava il cardinale Martini. E’ singolare, difatti, che il nome Francesco lo abbia assunto un gesuita e non uno dei cinque papi francescani che pure vi sono stati nella storia. Al di là della fantasia di chi ignora la storia della Compagnia o presume di conoscerla solo per il ricorso a stereotipi di maniera, vi è un reale influsso della figura di san Francesco nella vicenda spirituale di Ignazio sin dai suoi inizi: “E se io facessi ciò che ha fatto san Francesco?… San Francesco ha fatto quest’altro: ebbene, devo farlo anch’io”, leggiamo nella sua ‘Autobiografia’. Influsso, questo, che si registra sul posto che la povertà riveste nella vita di sant’Ignazio e, più tardi, nella stessa vita dell’ordine, che definisce nelle Costituzioni la povertà “baluardo di tutte le altre virtù”. Influsso che raggiunge la sua nota più autentica nell’amore personale a Cristo e nella conformazione alla sua persona, mete a cui mira la dinamica degli ‘Esercizi Spirituali’ e si riflette, pure, nello stesso rapporto con il creato a cui Papa Francesco fa sovente riferimento. Il Principio e Fondamento degli Esercizi che parla delle creature come doni di Dio, e, soprattutto, la Meditazione per ottenere l’amore spirituale, che parla della presenza di Dio in tutte le realtà, sono testi poi tanto distanti dal ‘Cantico delle creature’?”.

Chiedere a entrambi qualcosa sui rapporti a volte anche molto tesi tra gesuiti e francescani è come entrare in un libro di storia che frate Spirito e padre Barlone conoscono perfettamente. Spirito: “Non c’è mai stata una vera e propria ‘guerra’ tra francescani e gesuiti, solo alcune scaramucce: la rivalità ‘storica’ è stata piuttosto tra i domenicani e i gesuiti (come nel Medioevo tra domenicani e francescani), perché entrambi gareggiavano nelle università e poi, nel Seicento, si sono trovati anche coinvolti in dispute teologiche di scuola, quasi di scuderia. Anzi, francescani e gesuiti erano ‘alleati’ contro i domenicani, nella polemica teologica a favore dell’Immacolata Concezione di Maria nel Cinquecento, Seicento e Settecento. Perfino del terzo Generale della Compagnia, san Francesco Borgia (+1572), si diceva che fosse ‘un francescano in talare da gesuita’: quindi la scelta e lo stile di Bergoglio hanno un illustre precedente tra gli stessi santi gesuiti. La sventurata soppressione della Compagnia nel 1773 sotto Clemente XIV, un frate minore conventuale, Gian Vincenzo Ganganelli, non fu dovuta a nessuna avversione da parte del Pontefice o dei francescani, bensì agli intrighi e alle feroci pressioni dei governi massonici in Europa, che vedevano nei gesuiti una barriera ai loro disegni di egemonia incontrastata. La sparizione delle favolose Reducciones tra i guaraní ne fu un frutto amaro, che invano i francescani tentarono di addolcire. Noi siamo tutti vittime della chiacchiera, del luogo comune, per cui si dividono, con l’accetta, i gesuiti – i ‘colti’ – e i francescani – i ‘semplici’ -, ma non è così, ovviamente. Ad esempio, al Concilio di Trento c’erano più teologi francescani che domenicani, i confratelli di san Tommaso. La semplice verità è che in ogni ordine esiste la massima ‘varietà’, non tutti i frati sono come quelli di ‘Marcelino Pan y Vino’, basti pensare a Sisto V, costruttore della Roma barocca, a san Giovanni da Capestrano (+1456) condottiero della crociata contro i turchi, o al cappuccino Joseph du Tremblay (+1638), chiamato ‘l’eminenza grigia di Richelieu’ o anche a san Pio da Pietrelcina, il quale non era certo un ‘tenerone’, e nemmeno san Massimiliano Kolbe”. Padre Barlone ci tiene a ricordare che, “guerra” no, ma un contrasto tra gesuiti e francescani ci fu: tra il Seicento e il Settecento in Cina e in India: “Nel 1582 arriva in Cina il gesuita Matteo Ricci che si impegna nello studio della lingua e della cultura cinese di cui divenne tanto esperto da poter confrontarsi con successo con gli intellettuali confuciani di cui adottò anche la foggia dell’abbigliamento. La linea seguita da Ricci e poi dai suoi successori fu quella di una saggia inculturazione: i gesuiti erano d’origine straniera ma si presentavano come partecipi della cultura cinese e così il cristianesimo non veniva visto come qualcosa di straniero, di barbaro. Per un popolo come i cinesi che ritenevano di essere il ‘centro’ del mondo la cosa era fondamentale. I gesuiti speravano in tal modo di convertire la Cina nel suo insieme partendo dalla classe dirigente. Il loro atteggiamento però scatenò quello che è passato alla storia come la ‘Controversia dei riti cinesi’. Secondo Ricci i riti in onore di Confucio e degli antenati – che ogni buon cinese doveva espletare – erano solo dei ‘riti civili’ e non ‘idolatri’ e per questo potevano essere eseguiti anche dopo la conversione alla fede cristiana. Ma i francescani e con loro i domenicani– forse perché più in contatto con le religioni popolari – affermavano che tali riti erano ‘idolatri’ e perciò bisognava proibirli a tutti i convertiti sostenendo in tutti i modi la loro proibizione per chi si convertiva al cristianesimo. La questione dei ‘Riti cinesi’ fu rimessa al giudizio del Pontefice che alla fine di una vicenda tortuosa nel 1747 condannò senza appello i ‘Riti cinesi’ e prescrisse a tutti i missionari operanti in Cina un impegno esplicito a non tollerarli. Il tentativo di presentare il cristianesimo in veste cinese così fallì, la decisione ebbe la dolorosa conseguenza di allontanare l’interesse del mondo intellettuale e del potere imperiale dal cristianesimo. I missionari continuarono nella loro opera ma furono espulsi e ostacolati dalle autorità e soprattutto furono visti come estranei in una civiltà tanto orgogliosa di se stessa. Come si sa, la Santa Sede è poi ritornata sulla complicata controversia nel 1939 con Pio XII che, ribaltando le decisioni precedenti ammise la possibilità, a certe condizioni, e la liceità dei ‘Riti cinesi’. Ormai, però, la Cina aveva voltato pagina. E la stessa vicenda, mutatis mutandis, la si ebbe anche in India”.

Parla con passione padre Barlone, ci si rende conto che in gioco non è solo il prestigio del passato, tranquillamente riconosciuto anche da frate Spirito, ma è la situazione presente della chiesa nel suo dialogo con il mondo e l’obiettivo della sua riflessione è la critica che ancora oggi si fa a certi atteggiamenti della Compagnia di Gesù colpevole per alcuni di annacquare il cristianesimo nell’adeguarsi ai “riti” del mondo, con il rischio però, magari da riconoscere con il senno del poi, di perderlo del tutto, come allora fu per la Cina e l’India. La questione aperta è l’immediato futuro, da vivere nella luce di questo neonato pontificato. Per padre Barlone in Papa Francesco si coglie la spiritualità della Compagnia, nella quale confluiscono anche altre spiritualità, come la povertà francescana, l’obbedienza di Cassiano, di san Benedetto ma anche francescana. Cita la famosa locuzione “perinde ac cadaver” con la quale si suole sintetizzare lo stile dell’obbedienza del gesuita alla volontà dei superiori, che però, dice, prima che dei gesuiti è anch’essa di san Francesco e, prima ancora, tipica della sequela cristiana, dell’essere compagni di Gesù (cum panis = mangiare lo stesso pane), così come esplicitato negli Esercizi nella cosiddetta “chiamata del re”. Non c’è in Bergoglio, secondo padre Barlone, quel vago buonismo o il populismo di cui alcuni parlano magari preoccupati o al contrario entusiasti, c’è invece il linguaggio della kenosi, della missione alle periferie (il Figlio dell’Uomo è venuto a cercare…), c’è in fondo la semplice logica dell’Incarnazione. E’ davvero sorprendente sentire giornalisti, che ignorano la teologia e fondamentalmente il cristianesimo, stupirsi che il Papa parli in modo semplice e alludere a una certa debolezza teologica delle sue omelie quando invece il Papa è prima di tutto un pastore: un discepolo di Cristo fatto pastore e modello del gregge, chiamato a guidare la chiesa confermando i suoi fratelli nella fede, non necessariamente facendo lezioni in stile accademico. Bene inteso, può anche farle, conclude Barlone, ma per questioni più formali o di dottrina ha già i suoi organi: la curia, le congregazioni romane, il teologo della casa pontificia e le sue università, che sono, per l’appunto, università pontificie.

Frate Spirito per dipingere il futuro fa riferimento a un episodio del 2010, l’ultimo incontro personale con l’allora vescovo di Buenos Aires: “In un grande raduno internazionale dei francescani conventuali a Pilar lo invitammo a presiedere l’Eucaristia. Bergoglio guidò 60 km circa per raggiungerci e io, come segretario dell’Assemblea, lo accolsi e lo accompagnai in una cappella, dedicata a san Giuseppe, con una grande statua del santo che porta per mano il Figlio. Eravamo da soli e il cardinale si inchinò davanti alla statua, come fece sul balcone, il giorno dell’elezione, e posò la sua mano su quella di Giuseppe, che serra quella di Gesù. Per un paio di minuti rimase in preghiera, e io vedevo le tre mani intrecciate, formando un tutt’uno. Rimasi sorpreso e deliziato, per la spontaneità e la estrema confidenza e fiducia che il gesto svelava. Poi mi disse, ‘sono pronto, andiamo’, e andò a rivestirsi. La stessa croce pettorale che porta ancora, gli stessi modi miti, dimessi, familiari. Durante l’omelia sono rimasto sorpreso di come parlasse di san Francesco, presentandolo come ‘paradigma della vita cristiana’ tout-court, e pensai ‘quanto è gentile nell’adattarsi all’udienza, parlando ai frati come se fosse uno di loro’… adesso mi accorgo che parlava piuttosto ex abundantia cordis, parlava davvero come un ‘francescano’! E così sarà, lui rimarrà uguale a se stesso, non a caso ha scelto il 19 marzo, festa di san Giuseppe, per cominciare il suo pontificato; forse sarà un secondo san Francesco Borgia, ‘un francescano in talare da gesuita’, con in più la freschezza tipica della fede iberoamericana; quel buon senso della fede che dà l’istinto delle cose di Dio, in accordo con il discernimento degli spiriti, che è uno dei grandi doni che la chiesa ricevette tramite gli ‘Esercizi Spirituali’ di sant’Ignazio. Così il continente sudamericano è stato evangelizzato da francescani, gesuiti e domenicani e così credo che adesso il genio latino americano, ancora giovane di ‘soli’ 500 anni, confluirà nel ministero fresco e spontaneo del Papa. Tutta la mite e profonda sapienza di Benedetto XVI, nella cui scia Bergoglio s’inserisce con il suo modo personale, credo che adesso sarà resa ancora più accessibile a chiunque. Forse un piccolo cambiamento da quando era arcivescovo di Buenos Aires: lo vedo più radioso, più espansivo, più solare di prima, insomma, ancora più gesuiticamente francescano!”.

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Biffi: catechismo secondo Pinocchio

Posté par atempodiblog le 10 juillet 2013

Biffi: catechismo secondo Pinocchio dans Articoli di Giornali e News Cardinale-Biffi

Quest’anno ricorre un  importante anniversario, dall’alto valore simbolico per la biografia del cardinale Giacomo Biffi: i 130 anni (era il febbraio del 1883) dalla prima edizione de Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, alias Carlo Lorenzini. Un anniversario che tocca nel profondo le corde più intime della sua memoria di «pinocchiologo», come ama definirsi il cardinale. Lo spunto di questi 130 anni (1883-2013) rappresenta l’occasione per l’arcivescovo emerito di Bologna (che da poco, il 13 giugno scorso, ha compiuto 85 anni) di riprendere in mano e di rileggere il suo saggio, pubblicato dal 1977 dalla Jaca Book e ristampato ininterrottamente in varie edizioni fino ad oggi, Contro Maestro Ciliegia. L’ammirazione per Le avventure di Pinocchio è nata in Biffi nel 1935 e non si è mai sopita, tanto che il cardinale è sempre tornato a parlarne e discuterne in dibattiti pubblici, molto dei quali dedicati al nostro Risorgimento, negli anni del suo lungo ministero di arcivescovo di Bologna (1984-2003) e non solo. «Del mio primo incontro con il libro di Pinocchio conosco con esattezza la data: 7 dicembre 1935. Me lo comprò mio padre alla fiera di Sant’Ambrogio, quando avevo sette anni – rammenta dalla sua abitazione sulle colline bolognesi il porporato di origini milanesi –. Ricordo che era un’edizione economica. Fu così che il fatale burattino entrò nella mia vita, e vi rimase». Una passione maturata negli anni successivi, tanto da rileggere il testo di Collodi come un vero «capolavoro teologico e di introspezione» già tra i banchi di scuola: «Una prima illuminazione la ebbi in terza liceo dalla lettura di un saggio di Piero Bargellini: Pinocchio ovvero la parabola del figliol prodigo. Poi vennero gli studi di teologia. La mia tesi di dottorato su “Colpa e libertà nella condizione umana” fu tutta debitrice al libro di Collodi. Solo che dovetti scriverla in un linguaggio accademico, col risultato che fu apprezzata da tutti e letta da nessuno…».

Come nacque, sul finire degli anni Settanta, l’idea di un libro proprio su Pinocchio?
«Rammento che ne parlai con il cardinale Giovanni Colombo, di cui in quegli anni ero vescovo ausiliare a Milano, e la sua risposta alle mie esitazioni: “Dipende da quello che scriverà”. Tutto ciò mi spinse a compiere l’impresa di un commento teologico. L’idea mi solleticava da tempo. E infatti in quel racconto riscontrai da subito non solo il carattere giocoso di intrattenimento e pura evasione: conteneva un messaggio che svelava il mistero centrale dell’universo. Ai piccoli lettori non diceva tanto come dovessero comportarsi, bensì narrava la storia dell’uomo e presentava il senso dell’esistenza. Ed era in fondo la storia che ci è insegnata dalla Rivelazione cristiana. Il successo di Pinocchio è ancora, a 130 anni dalla sua pubblicazione, un enigma straordinario. Nacque per caso, scritto di malavoglia da Collodi per un giornale di bambini, a puntate irregolari e interrotto due volte, la prima con la convinzione di concluderlo per sempre. E invece è l’unico libro uscito in Italia dopo l’Unità che abbia avuto un successo mondiale. La spiegazione è una sola. Contiene un messaggio eterno, che tocca le fibre del cuore di tutti gli uomini di ogni tempo e cultura».

Un libro, eminenza, che insomma suggerirebbe di leggere anche ai ragazzi di oggi presi da ben altre distrazioni: videogiochi, internet…
«Certamente, anche perché si tratta di un magnifico catechismo adatto ai bambini come agli adulti. Pinocchio è la verità cattolica che erompe travestita da fiaba. E soprattutto facciamo bene a darlo in mano ai ragazzini, in una società come la nostra così distratta, affascinata dalla civiltà dell’immagine e catturata più dalle cose superficiali che da quelle sostanziali. In quelle pagine vi è in fondo, a mio giudizio, la sintesi dell’avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Ma c’è anche molto di più. C’è, ad esempio, Lucignolo che rappresenta la perdizione: dove il destino dell’uomo non sempre è a lieto fine. C’è la figura di Maestro Ciliegia, vero maestro dell’antifede: un personaggio che non vuole andare al di là di ciò che vede e tocca. Quello che mi ha sempre colpito è l’oggettiva concordanza di struttura tra la fiaba e l’ortodossia cattolica».

Un testo che per buona parte del Risorgimento ha rappresentato una specie di «Bibbia mazziniana» e in cui lei ha invece scovato una profonda e sotterranea «anima cattolica»…
«La tesi del mio saggio è stata quella di uscire da una certa retorica risorgimentale e sfatare qualche luogo comune. Già nel 1860 Collodi appare deluso dagli esiti dell’avventura unitaria (alla quale aveva dato il suo apporto partecipando alle due prime guerre di indipendenza). Successivamente, a poco a poco, dimostra di non aver più fiducia negli uomini che contano; pare addirittura essersi convinto che gli adulti sono “irredimibili” e perciò decide di rivolgersi nei suoi scritti soltanto ai ragazzi. Chi sono i suoi lettori? Sono i ragazzi del 1881, l’anno in cui Collodi scrive Pinocchio; non sono né sabaudi né repubblicani né anticlericali né clericali: nessuna ideologia li aveva ancora raggiunti. Ma non sono dei barattoli vuoti. Sono i ragazzi del catechismo, delle prediche del parroco, delle preghiere delle mamme, dei dipinti delle chiese. Non conoscono le ideologie, conoscono la verità cattolica. L’autore vuole così entrare in comunione di spirito con loro. Collodi ha voluto dunque scrivere una storia che, per parlare alla mente e al cuore dei piccoli, li andasse a trovare dove di fatto stavano, nel loro mondo spirituale con le loro persuasioni».

Una figura chiave della fiaba è la Fata turchina. Cosa rappresenta nella  vicenda di Pinocchio questo personaggio?
«Ne Le avventure di Pinocchio compare con la Fata turchina l’idea della redenzione e il “principio femminile della salvezza”; in lei vi è la salvezza donata dall’alto: e quindi Cristo, la Chiesa, la Madonna. Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini è posto appunto a indicare l’esistenza di questa salvezza che è donata dall’alto e può guidare al lieto fine la tragedia della creatura ribelle. Il protagonista raggiunge così il suo riscatto, e in tal modo scampa alla sorte di Lucignolo che non si è ravveduto; tutto si conclude con il ritorno al padre».

Un libro che ci aiuta anche a riflettere sul mistero del male e sul tema della libertà. Quale è la sua considerazione a riguardo?
«Nella favola le forze malefiche sono rappresentate vivacemente nelle figure del Gatto e della Volpe. Ma più di tutti l’Omino, corruttore mellifluo, insonne. Memorabili sono le sue parole: “Tutti la notte dormono, io non dormo mai”. E poi c’è il tema della libertà. Basti pensare alla scelta di un burattino legnoso come protagonista della narrazione, anch’essa una cifra: è in fondo il simbolo dell’uomo, che da ogni parte viene condizionato, è schiavo degli oppressori e dei persuasori occulti. E rimane legato a fili invisibili che determinano le sue decisioni e rendono illusoria la sua libertà. Se Pinocchio non resta prigioniero del teatrino di Mangiafuoco è perché a differenza dei suoi fratelli di legno riconosce e proclama di avere un padre. È questo il segreto della vera libertà, che nessun tiranno può portar via».

Eminenza, si può parlare di un Collodi credente e «cattolico a modo suo»?
«Collodi aveva una sua fede. “Non sono miscredente. Stia tranquilla che ci credo”, disse una volta alla madre Angiolina Orzali. A questa figura il Lorenzini rimase sempre legato. Un po’ tutti questi uomini del nostro “laico” Ottocento dovevano vedersela con una madre dalla fede limpida e viva. E poi nella sua formazione cattolica ha sicuramente contato, negli anni giovanili, la frequentazione del seminario di Colle Val d’Elsa e lo studio di retorica e filosofia resso i padri scolopi a Firenze. L’ipotesi più semplice è che proprio nei mesi della stesura finale del libro, magari con l’affettuosa e illuminante assistenza della mamma che in quel tempo gli è sempre stata vicina, il Collodi abbia riscoperto la visione e le certezze della sua prima età. E il successo e la diffusione universale di Pinocchio forse  trovano qui la “ragione sufficiente”. In questa favola, fantasiosamente immaginata e scritta splendidamente, tutte le genti intuiscono che c’è qualcosa di eterno e di cosmicamente vero».

di Filippo Rizzi – Avvenire

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