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Il Papa con due santi in Paradiso. Intervista incrociata a due dotti figli di Francesco e Ignazio sul “francescano in talare da gesuita”

Posté par atempodiblog le 10 juillet 2013

Il Papa con due santi in Paradiso
Intervista incrociata a due dotti figli di Francesco e Ignazio sul “francescano in talare da gesuita”
La duttilità di spirito propria ai gesuiti, “scioltezza la chiamava il cardinal Martini. La povertà “baluardo di tutte le altre virtù”.
L’intreccio delle spiritualità ignaziana e francescana, il paradigma ancora attuale della dispusta sui “Riti cinesi”.
Ignazio ha voluto che i gesuiti fossero orientati a “en todo amar y servir” e rinunciassero alle dignità ecclesiastiche.
Francesco è nome impensabile per chi doveva reggere la barca di Pietro: quel nome non evocava capacità di governo e di potere.
di Andrea Monda – Il Foglio
Tratto da: sanfrancesco.org

Il Papa con due santi in Paradiso. Intervista incrociata a due dotti figli di Francesco e Ignazio sul “francescano in talare da gesuita” dans Andrea Monda c81l

“Chiàmati Adriano, sarai riformatore, anzi chiamati Clemente XV, così ti vendichi di Clemente XIV che sciolse la Compagnia di Gesù”. Non sappiamo quale cardinale avesse suggerito scherzosamente il nome di Clemente a Jorge Mario Bergoglio, ma forse non aveva in grande simpatia i francescani, visto che Clemente XIV era seguace del Poverello d’Assisi, e invece il nome scelto alla fine dal primo Papa gesuita è stato proprio quello di Francesco. Di questo Papa anfibio, metà gesuita e metà francescano, parliamo con due esponenti di rilievo dei due ordini, professori di teologia nei luoghi di maggiore livello scientifico rispettivamente dei gesuiti, la Pontificia Università Gregoriana, dove padre Sandro Barlone insegna Teologia dogmatica, e dei francescani, l’Istituto Teologico di Assisi dove fra Guglielmo Spirito è docente di Teologia spirituale.

Volto e look molto simile allo Sean Connery del “Nome della rosa”, fra Guglielmo Spirito non solo è francescano (del ramo dei Conventuali, ad Assisi), ma anche italoargentino, proprio come Bergoglio, anzi vicino di casa, come rivendica con un pizzico di orgoglio e quel dolce accento sudamericano che ormai tutto il mondo ha cominciato ad apprezzare dal 13 marzo scorso: “La casa dei suoi genitori è nel quartiere di Flores, a pochi minuti di macchina dalla casa dei miei, nel quartiere di Belgrano”. Così spiega perché nessun Papa aveva mai osato chiamarsi Francesco: “I figli di san Francesco hanno dato alla chiesa cinque papi (e perfino un antipapa, Alessandro V nel ’400) e cioè Niccolò IV (+1292), Sisto IV (+1484), Giulio II (+1513), Sisto V (+1590) e infine Clemente XIV (+1774), tutti e cinque dell’ordine dei Frati minori detti Conventuali, il ramo più antico, gemello dell’ordine dei Predicatori, o domenicani. Personalmente ritengo che il nome Francesco fosse semplicemente impensabile per chi doveva reggere la barca di Pietro: quel nome non evocava di certo le capacità di governo (lui si dimise dalla guida dell’ordine, la cui evoluzione non riusciva a gestire) e tantomeno di potere, nemmeno spirituale. Francesco non fu un organizzatore, un fondatore capace di organizzare i suoi, quanto lo furono san Benedetto, san Domenico o sant’Ignazio, tutt’altro, il suo splendido carisma è decisamente altrove. Dovette arrivare san Bonaventura a integrare quanto mancava, a riorganizzare, e così non per caso è chiamato il Secondo fondatore. Si potrebbe quasi dire che a volte più che un ‘ordine’ quello francescano è un ‘contrordine’ o un ‘disordine’… Ignazio in questo è, oso dire, quasi l’opposto: la Compagnia è ottimamente funzionante fin dall’inizio”. Padre Sandro Barlone lo incontriamo dove insegna, un luogo in cui, fa notare, le storie dei due ordini s’intrecciano: “L’Università Gregoriana, retta dai gesuiti, rientra nel territorio della parrocchia dei SS. Apostoli, retta dai francescani Conventuali, nella cui Basilica è sepolto Clemente XIV, il Papa conventuale che il 13 luglio 1773 soppresse la Compagnia di Gesù” e ci spiega perché, prima ancora del tabù del nome Francesco, il suo confratello Bergoglio ne ha distrutto un altro, quello del primo Papa gesuita della storia. “La Compagnia di Gesù si è distinta per un compito specifico: la difesa e la propagazione della fede sotto la guida del Romano Pontefice. Un servizio esplicitato dal quarto voto di obbedienza al Papa emesso dai professi, il che vuol dire andare, senza indugio, in ogni parte del mondo, al cenno del Romano Pontefice e mette i gesuiti a servizio del bene universale della chiesa di cui solo il Papa possiede la visione esatta, ma li mantiene anche costantemente in uno stato di mobilità: truppe leggere da inviare dove sorge un bisogno della chiesa, allora come ora e di fatto li taglia fuori dalla possibilità che si possa pensare ad essi per compiti diversi, ad esempio le nomine episcopali che li sedentarizzerebbero e che porterebbero a “scremare” la Compagnia dei suoi uomini migliori. Per questo sant’Ignazio ha voluto che i gesuiti professi fossero più orientati a servire “en todo amar y servir”, senza divenire servili, e rinunciassero, per voto, alle dignità ecclesiastiche sia fuori che dentro la Compagnia, a meno che non vi fosse un ordine esplicito e indubbio da  parte del Papa. Questo spiega perché attualmente vi siano vescovi e cardinali anche tra i gesuiti ma dice anche perché non vi siano stati, sino a Francesco, papi provenienti dalla Compagnia di Gesù”.

Padre Barlone è sorpreso, ma non troppo, dalla scelta del gesuita Bergoglio di chiamarsi Francesco: “Nomen omen”. Il nome di Francesco evoca immediatamente un dato rapporto con Dio, con la realtà, con il prossimo. Forse dovremmo inquadrare questo evento nella duttilità e nella libertà di spirito propria ai gesuiti, “scioltezza” la chiamava il cardinale Martini. E’ singolare, difatti, che il nome Francesco lo abbia assunto un gesuita e non uno dei cinque papi francescani che pure vi sono stati nella storia. Al di là della fantasia di chi ignora la storia della Compagnia o presume di conoscerla solo per il ricorso a stereotipi di maniera, vi è un reale influsso della figura di san Francesco nella vicenda spirituale di Ignazio sin dai suoi inizi: “E se io facessi ciò che ha fatto san Francesco?… San Francesco ha fatto quest’altro: ebbene, devo farlo anch’io”, leggiamo nella sua ‘Autobiografia’. Influsso, questo, che si registra sul posto che la povertà riveste nella vita di sant’Ignazio e, più tardi, nella stessa vita dell’ordine, che definisce nelle Costituzioni la povertà “baluardo di tutte le altre virtù”. Influsso che raggiunge la sua nota più autentica nell’amore personale a Cristo e nella conformazione alla sua persona, mete a cui mira la dinamica degli ‘Esercizi Spirituali’ e si riflette, pure, nello stesso rapporto con il creato a cui Papa Francesco fa sovente riferimento. Il Principio e Fondamento degli Esercizi che parla delle creature come doni di Dio, e, soprattutto, la Meditazione per ottenere l’amore spirituale, che parla della presenza di Dio in tutte le realtà, sono testi poi tanto distanti dal ‘Cantico delle creature’?”.

Chiedere a entrambi qualcosa sui rapporti a volte anche molto tesi tra gesuiti e francescani è come entrare in un libro di storia che frate Spirito e padre Barlone conoscono perfettamente. Spirito: “Non c’è mai stata una vera e propria ‘guerra’ tra francescani e gesuiti, solo alcune scaramucce: la rivalità ‘storica’ è stata piuttosto tra i domenicani e i gesuiti (come nel Medioevo tra domenicani e francescani), perché entrambi gareggiavano nelle università e poi, nel Seicento, si sono trovati anche coinvolti in dispute teologiche di scuola, quasi di scuderia. Anzi, francescani e gesuiti erano ‘alleati’ contro i domenicani, nella polemica teologica a favore dell’Immacolata Concezione di Maria nel Cinquecento, Seicento e Settecento. Perfino del terzo Generale della Compagnia, san Francesco Borgia (+1572), si diceva che fosse ‘un francescano in talare da gesuita’: quindi la scelta e lo stile di Bergoglio hanno un illustre precedente tra gli stessi santi gesuiti. La sventurata soppressione della Compagnia nel 1773 sotto Clemente XIV, un frate minore conventuale, Gian Vincenzo Ganganelli, non fu dovuta a nessuna avversione da parte del Pontefice o dei francescani, bensì agli intrighi e alle feroci pressioni dei governi massonici in Europa, che vedevano nei gesuiti una barriera ai loro disegni di egemonia incontrastata. La sparizione delle favolose Reducciones tra i guaraní ne fu un frutto amaro, che invano i francescani tentarono di addolcire. Noi siamo tutti vittime della chiacchiera, del luogo comune, per cui si dividono, con l’accetta, i gesuiti – i ‘colti’ – e i francescani – i ‘semplici’ -, ma non è così, ovviamente. Ad esempio, al Concilio di Trento c’erano più teologi francescani che domenicani, i confratelli di san Tommaso. La semplice verità è che in ogni ordine esiste la massima ‘varietà’, non tutti i frati sono come quelli di ‘Marcelino Pan y Vino’, basti pensare a Sisto V, costruttore della Roma barocca, a san Giovanni da Capestrano (+1456) condottiero della crociata contro i turchi, o al cappuccino Joseph du Tremblay (+1638), chiamato ‘l’eminenza grigia di Richelieu’ o anche a san Pio da Pietrelcina, il quale non era certo un ‘tenerone’, e nemmeno san Massimiliano Kolbe”. Padre Barlone ci tiene a ricordare che, “guerra” no, ma un contrasto tra gesuiti e francescani ci fu: tra il Seicento e il Settecento in Cina e in India: “Nel 1582 arriva in Cina il gesuita Matteo Ricci che si impegna nello studio della lingua e della cultura cinese di cui divenne tanto esperto da poter confrontarsi con successo con gli intellettuali confuciani di cui adottò anche la foggia dell’abbigliamento. La linea seguita da Ricci e poi dai suoi successori fu quella di una saggia inculturazione: i gesuiti erano d’origine straniera ma si presentavano come partecipi della cultura cinese e così il cristianesimo non veniva visto come qualcosa di straniero, di barbaro. Per un popolo come i cinesi che ritenevano di essere il ‘centro’ del mondo la cosa era fondamentale. I gesuiti speravano in tal modo di convertire la Cina nel suo insieme partendo dalla classe dirigente. Il loro atteggiamento però scatenò quello che è passato alla storia come la ‘Controversia dei riti cinesi’. Secondo Ricci i riti in onore di Confucio e degli antenati – che ogni buon cinese doveva espletare – erano solo dei ‘riti civili’ e non ‘idolatri’ e per questo potevano essere eseguiti anche dopo la conversione alla fede cristiana. Ma i francescani e con loro i domenicani– forse perché più in contatto con le religioni popolari – affermavano che tali riti erano ‘idolatri’ e perciò bisognava proibirli a tutti i convertiti sostenendo in tutti i modi la loro proibizione per chi si convertiva al cristianesimo. La questione dei ‘Riti cinesi’ fu rimessa al giudizio del Pontefice che alla fine di una vicenda tortuosa nel 1747 condannò senza appello i ‘Riti cinesi’ e prescrisse a tutti i missionari operanti in Cina un impegno esplicito a non tollerarli. Il tentativo di presentare il cristianesimo in veste cinese così fallì, la decisione ebbe la dolorosa conseguenza di allontanare l’interesse del mondo intellettuale e del potere imperiale dal cristianesimo. I missionari continuarono nella loro opera ma furono espulsi e ostacolati dalle autorità e soprattutto furono visti come estranei in una civiltà tanto orgogliosa di se stessa. Come si sa, la Santa Sede è poi ritornata sulla complicata controversia nel 1939 con Pio XII che, ribaltando le decisioni precedenti ammise la possibilità, a certe condizioni, e la liceità dei ‘Riti cinesi’. Ormai, però, la Cina aveva voltato pagina. E la stessa vicenda, mutatis mutandis, la si ebbe anche in India”.

Parla con passione padre Barlone, ci si rende conto che in gioco non è solo il prestigio del passato, tranquillamente riconosciuto anche da frate Spirito, ma è la situazione presente della chiesa nel suo dialogo con il mondo e l’obiettivo della sua riflessione è la critica che ancora oggi si fa a certi atteggiamenti della Compagnia di Gesù colpevole per alcuni di annacquare il cristianesimo nell’adeguarsi ai “riti” del mondo, con il rischio però, magari da riconoscere con il senno del poi, di perderlo del tutto, come allora fu per la Cina e l’India. La questione aperta è l’immediato futuro, da vivere nella luce di questo neonato pontificato. Per padre Barlone in Papa Francesco si coglie la spiritualità della Compagnia, nella quale confluiscono anche altre spiritualità, come la povertà francescana, l’obbedienza di Cassiano, di san Benedetto ma anche francescana. Cita la famosa locuzione “perinde ac cadaver” con la quale si suole sintetizzare lo stile dell’obbedienza del gesuita alla volontà dei superiori, che però, dice, prima che dei gesuiti è anch’essa di san Francesco e, prima ancora, tipica della sequela cristiana, dell’essere compagni di Gesù (cum panis = mangiare lo stesso pane), così come esplicitato negli Esercizi nella cosiddetta “chiamata del re”. Non c’è in Bergoglio, secondo padre Barlone, quel vago buonismo o il populismo di cui alcuni parlano magari preoccupati o al contrario entusiasti, c’è invece il linguaggio della kenosi, della missione alle periferie (il Figlio dell’Uomo è venuto a cercare…), c’è in fondo la semplice logica dell’Incarnazione. E’ davvero sorprendente sentire giornalisti, che ignorano la teologia e fondamentalmente il cristianesimo, stupirsi che il Papa parli in modo semplice e alludere a una certa debolezza teologica delle sue omelie quando invece il Papa è prima di tutto un pastore: un discepolo di Cristo fatto pastore e modello del gregge, chiamato a guidare la chiesa confermando i suoi fratelli nella fede, non necessariamente facendo lezioni in stile accademico. Bene inteso, può anche farle, conclude Barlone, ma per questioni più formali o di dottrina ha già i suoi organi: la curia, le congregazioni romane, il teologo della casa pontificia e le sue università, che sono, per l’appunto, università pontificie.

Frate Spirito per dipingere il futuro fa riferimento a un episodio del 2010, l’ultimo incontro personale con l’allora vescovo di Buenos Aires: “In un grande raduno internazionale dei francescani conventuali a Pilar lo invitammo a presiedere l’Eucaristia. Bergoglio guidò 60 km circa per raggiungerci e io, come segretario dell’Assemblea, lo accolsi e lo accompagnai in una cappella, dedicata a san Giuseppe, con una grande statua del santo che porta per mano il Figlio. Eravamo da soli e il cardinale si inchinò davanti alla statua, come fece sul balcone, il giorno dell’elezione, e posò la sua mano su quella di Giuseppe, che serra quella di Gesù. Per un paio di minuti rimase in preghiera, e io vedevo le tre mani intrecciate, formando un tutt’uno. Rimasi sorpreso e deliziato, per la spontaneità e la estrema confidenza e fiducia che il gesto svelava. Poi mi disse, ‘sono pronto, andiamo’, e andò a rivestirsi. La stessa croce pettorale che porta ancora, gli stessi modi miti, dimessi, familiari. Durante l’omelia sono rimasto sorpreso di come parlasse di san Francesco, presentandolo come ‘paradigma della vita cristiana’ tout-court, e pensai ‘quanto è gentile nell’adattarsi all’udienza, parlando ai frati come se fosse uno di loro’… adesso mi accorgo che parlava piuttosto ex abundantia cordis, parlava davvero come un ‘francescano’! E così sarà, lui rimarrà uguale a se stesso, non a caso ha scelto il 19 marzo, festa di san Giuseppe, per cominciare il suo pontificato; forse sarà un secondo san Francesco Borgia, ‘un francescano in talare da gesuita’, con in più la freschezza tipica della fede iberoamericana; quel buon senso della fede che dà l’istinto delle cose di Dio, in accordo con il discernimento degli spiriti, che è uno dei grandi doni che la chiesa ricevette tramite gli ‘Esercizi Spirituali’ di sant’Ignazio. Così il continente sudamericano è stato evangelizzato da francescani, gesuiti e domenicani e così credo che adesso il genio latino americano, ancora giovane di ‘soli’ 500 anni, confluirà nel ministero fresco e spontaneo del Papa. Tutta la mite e profonda sapienza di Benedetto XVI, nella cui scia Bergoglio s’inserisce con il suo modo personale, credo che adesso sarà resa ancora più accessibile a chiunque. Forse un piccolo cambiamento da quando era arcivescovo di Buenos Aires: lo vedo più radioso, più espansivo, più solare di prima, insomma, ancora più gesuiticamente francescano!”.

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Biffi: catechismo secondo Pinocchio

Posté par atempodiblog le 10 juillet 2013

Biffi: catechismo secondo Pinocchio dans Articoli di Giornali e News Cardinale-Biffi

Quest’anno ricorre un  importante anniversario, dall’alto valore simbolico per la biografia del cardinale Giacomo Biffi: i 130 anni (era il febbraio del 1883) dalla prima edizione de Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, alias Carlo Lorenzini. Un anniversario che tocca nel profondo le corde più intime della sua memoria di «pinocchiologo», come ama definirsi il cardinale. Lo spunto di questi 130 anni (1883-2013) rappresenta l’occasione per l’arcivescovo emerito di Bologna (che da poco, il 13 giugno scorso, ha compiuto 85 anni) di riprendere in mano e di rileggere il suo saggio, pubblicato dal 1977 dalla Jaca Book e ristampato ininterrottamente in varie edizioni fino ad oggi, Contro Maestro Ciliegia. L’ammirazione per Le avventure di Pinocchio è nata in Biffi nel 1935 e non si è mai sopita, tanto che il cardinale è sempre tornato a parlarne e discuterne in dibattiti pubblici, molto dei quali dedicati al nostro Risorgimento, negli anni del suo lungo ministero di arcivescovo di Bologna (1984-2003) e non solo. «Del mio primo incontro con il libro di Pinocchio conosco con esattezza la data: 7 dicembre 1935. Me lo comprò mio padre alla fiera di Sant’Ambrogio, quando avevo sette anni – rammenta dalla sua abitazione sulle colline bolognesi il porporato di origini milanesi –. Ricordo che era un’edizione economica. Fu così che il fatale burattino entrò nella mia vita, e vi rimase». Una passione maturata negli anni successivi, tanto da rileggere il testo di Collodi come un vero «capolavoro teologico e di introspezione» già tra i banchi di scuola: «Una prima illuminazione la ebbi in terza liceo dalla lettura di un saggio di Piero Bargellini: Pinocchio ovvero la parabola del figliol prodigo. Poi vennero gli studi di teologia. La mia tesi di dottorato su “Colpa e libertà nella condizione umana” fu tutta debitrice al libro di Collodi. Solo che dovetti scriverla in un linguaggio accademico, col risultato che fu apprezzata da tutti e letta da nessuno…».

Come nacque, sul finire degli anni Settanta, l’idea di un libro proprio su Pinocchio?
«Rammento che ne parlai con il cardinale Giovanni Colombo, di cui in quegli anni ero vescovo ausiliare a Milano, e la sua risposta alle mie esitazioni: “Dipende da quello che scriverà”. Tutto ciò mi spinse a compiere l’impresa di un commento teologico. L’idea mi solleticava da tempo. E infatti in quel racconto riscontrai da subito non solo il carattere giocoso di intrattenimento e pura evasione: conteneva un messaggio che svelava il mistero centrale dell’universo. Ai piccoli lettori non diceva tanto come dovessero comportarsi, bensì narrava la storia dell’uomo e presentava il senso dell’esistenza. Ed era in fondo la storia che ci è insegnata dalla Rivelazione cristiana. Il successo di Pinocchio è ancora, a 130 anni dalla sua pubblicazione, un enigma straordinario. Nacque per caso, scritto di malavoglia da Collodi per un giornale di bambini, a puntate irregolari e interrotto due volte, la prima con la convinzione di concluderlo per sempre. E invece è l’unico libro uscito in Italia dopo l’Unità che abbia avuto un successo mondiale. La spiegazione è una sola. Contiene un messaggio eterno, che tocca le fibre del cuore di tutti gli uomini di ogni tempo e cultura».

Un libro, eminenza, che insomma suggerirebbe di leggere anche ai ragazzi di oggi presi da ben altre distrazioni: videogiochi, internet…
«Certamente, anche perché si tratta di un magnifico catechismo adatto ai bambini come agli adulti. Pinocchio è la verità cattolica che erompe travestita da fiaba. E soprattutto facciamo bene a darlo in mano ai ragazzini, in una società come la nostra così distratta, affascinata dalla civiltà dell’immagine e catturata più dalle cose superficiali che da quelle sostanziali. In quelle pagine vi è in fondo, a mio giudizio, la sintesi dell’avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Ma c’è anche molto di più. C’è, ad esempio, Lucignolo che rappresenta la perdizione: dove il destino dell’uomo non sempre è a lieto fine. C’è la figura di Maestro Ciliegia, vero maestro dell’antifede: un personaggio che non vuole andare al di là di ciò che vede e tocca. Quello che mi ha sempre colpito è l’oggettiva concordanza di struttura tra la fiaba e l’ortodossia cattolica».

Un testo che per buona parte del Risorgimento ha rappresentato una specie di «Bibbia mazziniana» e in cui lei ha invece scovato una profonda e sotterranea «anima cattolica»…
«La tesi del mio saggio è stata quella di uscire da una certa retorica risorgimentale e sfatare qualche luogo comune. Già nel 1860 Collodi appare deluso dagli esiti dell’avventura unitaria (alla quale aveva dato il suo apporto partecipando alle due prime guerre di indipendenza). Successivamente, a poco a poco, dimostra di non aver più fiducia negli uomini che contano; pare addirittura essersi convinto che gli adulti sono “irredimibili” e perciò decide di rivolgersi nei suoi scritti soltanto ai ragazzi. Chi sono i suoi lettori? Sono i ragazzi del 1881, l’anno in cui Collodi scrive Pinocchio; non sono né sabaudi né repubblicani né anticlericali né clericali: nessuna ideologia li aveva ancora raggiunti. Ma non sono dei barattoli vuoti. Sono i ragazzi del catechismo, delle prediche del parroco, delle preghiere delle mamme, dei dipinti delle chiese. Non conoscono le ideologie, conoscono la verità cattolica. L’autore vuole così entrare in comunione di spirito con loro. Collodi ha voluto dunque scrivere una storia che, per parlare alla mente e al cuore dei piccoli, li andasse a trovare dove di fatto stavano, nel loro mondo spirituale con le loro persuasioni».

Una figura chiave della fiaba è la Fata turchina. Cosa rappresenta nella  vicenda di Pinocchio questo personaggio?
«Ne Le avventure di Pinocchio compare con la Fata turchina l’idea della redenzione e il “principio femminile della salvezza”; in lei vi è la salvezza donata dall’alto: e quindi Cristo, la Chiesa, la Madonna. Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini è posto appunto a indicare l’esistenza di questa salvezza che è donata dall’alto e può guidare al lieto fine la tragedia della creatura ribelle. Il protagonista raggiunge così il suo riscatto, e in tal modo scampa alla sorte di Lucignolo che non si è ravveduto; tutto si conclude con il ritorno al padre».

Un libro che ci aiuta anche a riflettere sul mistero del male e sul tema della libertà. Quale è la sua considerazione a riguardo?
«Nella favola le forze malefiche sono rappresentate vivacemente nelle figure del Gatto e della Volpe. Ma più di tutti l’Omino, corruttore mellifluo, insonne. Memorabili sono le sue parole: “Tutti la notte dormono, io non dormo mai”. E poi c’è il tema della libertà. Basti pensare alla scelta di un burattino legnoso come protagonista della narrazione, anch’essa una cifra: è in fondo il simbolo dell’uomo, che da ogni parte viene condizionato, è schiavo degli oppressori e dei persuasori occulti. E rimane legato a fili invisibili che determinano le sue decisioni e rendono illusoria la sua libertà. Se Pinocchio non resta prigioniero del teatrino di Mangiafuoco è perché a differenza dei suoi fratelli di legno riconosce e proclama di avere un padre. È questo il segreto della vera libertà, che nessun tiranno può portar via».

Eminenza, si può parlare di un Collodi credente e «cattolico a modo suo»?
«Collodi aveva una sua fede. “Non sono miscredente. Stia tranquilla che ci credo”, disse una volta alla madre Angiolina Orzali. A questa figura il Lorenzini rimase sempre legato. Un po’ tutti questi uomini del nostro “laico” Ottocento dovevano vedersela con una madre dalla fede limpida e viva. E poi nella sua formazione cattolica ha sicuramente contato, negli anni giovanili, la frequentazione del seminario di Colle Val d’Elsa e lo studio di retorica e filosofia resso i padri scolopi a Firenze. L’ipotesi più semplice è che proprio nei mesi della stesura finale del libro, magari con l’affettuosa e illuminante assistenza della mamma che in quel tempo gli è sempre stata vicina, il Collodi abbia riscoperto la visione e le certezze della sua prima età. E il successo e la diffusione universale di Pinocchio forse  trovano qui la “ragione sufficiente”. In questa favola, fantasiosamente immaginata e scritta splendidamente, tutte le genti intuiscono che c’è qualcosa di eterno e di cosmicamente vero».

di Filippo Rizzi – Avvenire

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