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L’arte sacra è ancora capace di bellezza

Posté par atempodiblog le 29 juin 2013

L’arte sacra è ancora capace di bellezza
del Card. Christoph Schönborn arcivescovo di Vienna
Tratto da: Abbazia Santa Maria di Finalpia

L'arte sacra è ancora capace di bellezza dans Cardinale Christoph Schönborn 2llv
La più antica icona di Gesù, Sinai, VI sec.

La tradizione orientale dell’icona, raffigurazione pittorica del Cristo e della sua spiritualità, è diventata un elemento di unione, un punto di incontro per molti cristiani. L’icona è quasi onnipresente nella Chiesa d’Oriente come in quella d’Occidente. Il suo linguaggio, il suo simbolismo, e tutto ciò che emana da essa sembrano davvero toccare il cuore di molti dei nostri contemporanei. Ci si è spesso interrogati sul perché, recentemente, l’arte dell’icona sia diventata l’espressione privilegiata della fede  cristiana.
Potrebbe esserci una componente di ‘moda’ (che alcuni ortodossi rimproverano ai cristiani d’Occidente, poiché hanno l’impressione che la tradizione orientale venga abusivamente ‘utilizzata’ dagli occidentali). Io credo che alla base vi sia qualcosa di più profondo. Il sensus fidei riconosce nella tradizione iconica dell’Oriente una sorta di espressione «canonica» della nostra fede, un’espressione che va al di là delle mode e delle fluttuazioni culturali del linguaggio artistico cristiano.
L’icona non è atemporale, è soggetta a variazioni stilistiche, alle varie scuole, a «sfumature culturali»; non è affatto statica e immobile come le è stato spesso rimproverato.
Qual è allora il segreto del suo fascino, la chiave di lettura per la comprensione del suo mistero, e la ragione della sua grande stabilità d’espressione? Penso che la ragione ultima di questo sia il Mistero di Cristo stesso, Verbo Incarnato, Dio fattosi uomo, divenuto «circoscrivibile», come amano dire i santi difensori delle immagini, san Teodoro Studita e san Niceforo di Costantinopoli.
Al di là delle influenze culturali, dei legami con le tradizioni iconografiche precristiane, delle variazioni artistiche, l’arte dell’icona ha un fondamento comune, un’unica origine: è il mistero del Santo Volto di Cristo  Gesù.
C’è quel volto unico, quel Gesù che gli apostoli hanno conosciuto, con il quale hanno mangiato e bevuto, che hanno visto trasfigurato e schernito, raggiante della gloria divina del Tabor, e flagellato e coronato di spine. È il viso unico di Gesù, figlio di Maria, Figlio di Dio, che si è impresso nellamemoria di Pietro.
È lo sguardo di Colui che Pietro aveva appena rinnegato, e che lo guardava in un modo che più niente al mondo ha potuto cancellare dalla sua memoria e dal suo cuore.
Quel Gesù è il fondamento dell’Icona, della sua fedeltà (caratteristica che non è, come alcuni pensano, caricaturandola, immobilismo), del suo immutato potere d’attrazione. Essa ci attira in quanto icona del Cristo. È perché vogliamo vedere il Cristo che l’icona ci parla. È perché i fedeli (e spesso anche i non credenti) possano dire, guardando un’icona di Cristo: «È Gesù!» che l’icona parla loro. Quello che conta nell’icona non è tanto la qualità artistica, la grandezza dell’opera d’arte – seppur importante e tutt’altro che trascurabile, poiché essa è una vera mediazione per l’incontro con Cristo – ma la forza della presenza, in essa, di Cristo  stesso.
Qui non entrerò nel dibattito sull’estetica. Gli iconoclasti, così come l’Islam, ammettevano l’arte, ma essa doveva limitarsi strettamente all’ambito del profano. L’iconoclastia era, in un certo senso, una secolarizzazione radicale dell’arte, una desacralizzazione dell’attività artistica. Vi è una certa concezione di ciò che è «cristiano» e quindi di ciò che è il Mistero del Cristo. A questo riguardo, è significativo constatare che tutto il dibattito per giustificare l’arte cristiana, le immagini sacre di Cristo e dei suoi Santi, si è sviluppato intorno al Mistero di Cristo.
Studiando la controversia iconoclasta, sono stato colpito dalla chiarezza con cui i difensori delle immagini hanno visto in questo dibattito non una questione di estetica, ma innanzitutto una questione cristologica. I padri del secondo Concilio di Nicea (787) ne erano ben coscienti. Per loro l’affermazione della legittimità dell’icona di Cristo era come il sigillo apposto alla confessione della sua divinità stabilita dal primo Concilio di Nicea (325) e della sua divino-umanità affermata dal Concilio di Calcedonia (451). La Chiesa ortodossa festeggia la vittoria definitiva dei difensori delle
immagini nell’843 come il ‘trionfo dell’Ortodossia’, celebrato liturgicamente ogni anno la prima domenica di Quaresima.

3fp dans Riflessioni
La Madonna dei pellegrini nella chiesa di Sant’Agostino a Roma

L’icona di Cristo: riassunto della fede cristiana!
Tale affermazione potrebbe  sembrare esagerata. A considerare attentamente la cosa, però, ci si rende conto che non è affatto così. Esiste una possibilità di verifica di questa tesi, che è sempre più di attualità: il rapporto dell’Islam con l’arte sacra. Non sono assolutamente uno specialista in materia, ma mi affido a degli studi competenti. Se l’Islam rifiuta, in generale, l’immagine antropomorfica e lascia spazio solo all’ornamento e alla scrittura, ciò non è semplicemente il risultato di una teoria artistica ed estetica, ma la conseguenza diretta della sua visione di un Dio unico che, in questo mondo, non ha nessuna corrispondenza e niente può rappresentare, evocare e, in un certo senso, nemmeno simbolizzare.
In occasione del mio viaggio in Iran, nel 2001, sono stato colpito dalla frequenza con la quale mi è stato spiegato che non dovevo parlare dell’uomo-immagine di Dio. Quello che, per la fede giudeo-cristiana, è un assunto profondamente radicato nel mistero dell’Incarnazione, cioè che l’uomo sia veramente ad imaginem et similitudinem del suo creatore, viene fermamente respinto dall’Islam. Dio è unico e non ha eguali: la sura Al-Ikhlâs («Il puro  monoteismo», Corano CXII) che ogni musulmano recita ogni giorno, dice quanto segue: «Dì: ‘Egli Allah è Unico, Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è uguale a Lui’».
Non vi è quindi nessuna rappresentazione di Dio nel mondo. Il fatto che l’Islam sia un culto aniconico non deriva da una teoria estetica. È una
conseguenza della fede islamica in un Dio che niente può rappresentare.
Solo la luce, nella moschea, sarebbe, secondo alcuni, un’evocazione metaforica del divino. E la luce è infatti senza forma né figura.
Per quanto riguarda la fede cristiana, le cose sono diverse. Poiché il Creatore parla tramite la sua creatura, le tracce del divino sono «leggibili», non senza difficoltà, certo, ma in maniera reale. È soprattutto l’uomo, vero e proprio luogotenente di Dio nella creazione, a essere immagine di Dio. Tutta la sua opera parla di Lui, soprattutto l’uomo. La proibizione dell’immagine nell’Antica Alleanza ha un senso più pedagogico che
ontologico. Poiché il cuore dell’uomo è una fabbrica di idoli, bisognava estirparne qualsiasi tentazione di idolatria. Ma fondamentalmente Dio si fa conoscere attraverso le sue opere. È questa la chiave d’accesso all’arte sacra.

Il Mistero divino-umano di Cristo approfondisce questo ordine della creazione, conferendogli la sua statura definitiva. Vi è veramente un viso umano che è «l’icona del Dio visibile» (Col 1,15). Poiché il Verbo si è fatto carne, poiché Cristo, di condizione divina, ha scelto la condizione di schiavo e ha fatto propria la sua umanità concreta, le realtà umane, le cose di questo mondo, sono diventate luoghi della sua presenza, capaci di essere la sua espressione, la sua traccia, il suo linguaggio.
Secondo me, i quadri di Caravaggio sono una manifestazione eccezionalmente densa di tale fondamento «divino-umano» che si è sviluppato sul suolo cristiano. La Madonna dei pellegrini nella chiesa di Sant’Agostino a Roma ne è, per quanto mi riguarda, l’esempio più prodigioso. I pellegrini in ginocchio, a piedi nudi (e coperti di polvere) davanti a questa matrona con un bambino già troppo grande per essere tenuto in braccio dalla madre: dall’insieme emana un realismo «carnale», come direbbe Charles Péguy, che potrebbe scioccare (e che ha scioccato) per la mancanza di dimensioni e di senso sacri.
Ebbene, è proprio il realismo dell’incarnazione che permette di avvicinarsi alla sacralità, a Cristo e a sua Madre in un modo così vicino alla terra.
La fede cristiana nell’incarnazione è alle origini di un’arte che può chinarsi a osservare con tanta attenzione le cose della terra. Oso pensare che il grande sviluppo dell’arte, sacra e profana, in terra di cristianità innanzitutto s’ispiri (senza perciò rinnegare le altre fonti) a quell’inaudito Sì alla terra che è l’Incarnazione del Figlio di Dio. Questo Sì al concreto, alla materia, al mondo visibile è il germe dell’esplosiva creatività conosciuta dall’arte occidentale.
Mi permetto di seguire ancora per un poco questa idea. Conosciamo l’insegnamento classico sui «trascendentali», il vero, il buono, il bello. Tutti questi attributi non sono esteriori a Dio. Essi sono Dio stesso. Egli è la Verità e il Bene, egli è Amore, ed è Bellezza. Verità e Bontà, Amore e Bellezza sono, come dicono gli scolastici, convertibili, e coincidono con l’Essere stesso di Dio. Tutta la bellezza creata è una partecipazione alla bellezza infinita dell’essere di Dio. Se ciò è vero, il passo successivo consiste nel dire che il Verbo, facendosi carne, ha per così dire «incarnato» la bontà e l’amore, la verità e la bellezza infinita di Dio.
Cristo è «il più bello dei figli dell’uomo», non a causa delle sue qualità estetiche particolari, ma perché è la bellezza incarnata di Dio. Tutto il suo essere è amore e verità, bontà e bellezza. Come Cristo può dire di se stesso: «Io sono il Cammino, la Verità e la Via», così può dire altrettanto giustamente «Io sono la Bellezza». Cristo può dire di se stesso quello che solo Dio può dire: «Io sono». L’Essere, il Vero e il Bene sono, secondo il termine scolastico, convertibili. Se Cristo è la Verità e la Bontà, egli è anche quello che costituisce il loro splendore: la Bellezza: Splendor Veritatis, Splendor Boni!
Per riassumere questo passaggio della mia riflessione direi, parafrasando sant’Ireneo che affermava: «Cristo, nella sua venuta, ha portato con sé tutta la novità»: «Cristo, nella sua Incarnazione, ha portato con sé tutta la bellezza ». È lui la misura della Bellezza, è lui che porta, con la sua venuta, un nuovo sguardo sulla bellezza. Egli è, per così dire, «il canone della Bellezza». Non solo ha ristabilito la bellezza originale della creazione, perduta e profanata dal peccato e dal male, ma ha anche portato, nella sua propria persona, il principio di tutta la bellezza. Da lui si spandono sul mondo le acque sorgive della bellezza. E tutte le bellezze del mondo, siano esse bellezze della natura, della virtù o dell’arte, sono emanazioni della Sua  Bellezza.
«Tu sei il più bello degli uomini». Queste parole del salmo reale, lette come un annuncio del Cristo, non vogliono dire che Gesù sia, secondo criteri prestabiliti da un’estetica mondana, il più perfetto modello di bellezza. «Sei la fonte di ogni bellezza umana». In te ci è rivelato che cosa è la bellezza, e da te riceviamo lo sguardo per vederla, i criteri per discernerla e la forza per imitarla e trasmetterla.
È bello ciò che è di Cristo: un noto testo di sant’Agostino può essere riassunto così. È bello perché è di Cristo. Perché tutto in Lui emana giustizia, misericordia e amore. Come rendere più chiara questa affermazione? Padre Pio era forse bello? Probabilmente no, secondo i criteri del mondo; probabilmente sì, secondo quelli della bellezza di Cristo. Sorin Dumitrescu, squisito artista (e coraggioso editore), pittore di icone contemporanee, ha pubblicato un calendario con i primi piani di dodici starez rumeni ortodossi. La bellezza di questi vecchi volti solcati da profonde rughe è una prova eclatante di quello che significa la bellezza di Cristo.

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Una clamorosa e sconosciuta serie di miracoli eucaristici a Buenos Aires con Bergoglio vescovo

Posté par atempodiblog le 29 juin 2013

Una clamorosa e sconosciuta serie di miracoli eucaristici a Buenos Aires con Bergoglio vescovo
di Antonio Socci – Libero
Tratto da: Ascolta tua Madre

Una clamorosa e sconosciuta serie di miracoli eucaristici a Buenos Aires con Bergoglio vescovo dans Antonio Socci b5a

C’è un “segno” miracoloso rimasto finora sconosciuto che ha toccato la storia personale del cardinale Bergoglio.

E’ accaduto – prima e durante gli anni del suo episcopato – nella chiesa parrocchiale di Santa Maria che si trova al centro di Buenos Aires, fra i quartieri Almagro e Caballito e – per decisione del parroco e dei suoi fedeli – non si voluto è fare del clamore mediatico.

Tuttavia adesso la “notizia” si sta diffondendo. A rompere il silenzio con una prima rivelazione è stato, poco tempo fa, un religioso, Fr. M. Piotrowski SChr, sul sito “Love one another”. Riassumo ciò che ha scritto.

Era il 18 agosto 1996, alle ore 19. Alla fine della messa padre Alejandro Pezet vide arrivare un fedele che aveva trovato un’ostia (evidentemente profanata) in un angolo della chiesa.

Il sacerdote si comportò secondo la prassi, mise la particola in un contenitore di acqua e ripose tutto nel tabernacolo. Tuttavia pochi giorni dopo, il 26 agosto, dovette constatare, stupefatto, che la particola anziché dissolversi si era trasformata in una frammento di carne sanguinosa.

Così il parroco – secondo la cronaca di Piotrowski – avrebbe informato Bergoglio che era vescovo ausiliare del cardinale Antonio Quarracino, ordinario di Buenos Aires. Ricevendo da lui il mandato di fotografare ciò che era accaduto e conservare tutto nel tabernacolo.

Qualche tempo dopo il prelato – diventato intanto arcivescovo di Buenos Aires – vedendo che non vi era traccia di decomposizione decise di far analizzare quella misteriosa particola.

Il 5 ottobre 1999 si procede. Sono presenti emissari del vescovo e il  dottor Castanon che prelevò un campione del frammento di carne e lo inviò a un laboratorio americano ignaro della sua origine.

Lì il dottor Frederic Zugiba, cardiologo e medico legale, rilevò che si trattava di tessuto umano. Secondo quanto scrive Piotrowski, egli fece questa sconvolgente analisi:

“Il materiale analizzato è un frammento del muscolo cardiaco tratto dalla parete del ventricolo sinistro in prossimità delle valvole. Questo muscolo è responsabile della contrazione del cuore. Va ricordato che il ventricolo cardiaco sinistro pompa sangue a tutte le parti del corpo. Il muscolo cardiaco in esame è in una condizione infiammatoria e contiene un gran numero di globuli bianchi. Ciò indica che il cuore era vivo al momento del prelievo… dal momento che i globuli bianchi, al di fuori di un organismo vivente, muoiono… Per di più, questi globuli bianchi sono penetrati nel tessuto, ciò indica che il cuore aveva subito un grave stress, come se il proprietario fosse stato picchiato duramente sul petto”.

Testimoni di queste analisi furono due australiani, il giornalista Mike Willesee e l’avvocato Ron Tesoriero , i quali chiesero quanto potevano vivere i globuli bianchi se fossero appartenuti a un frammento di carne umana tenuto in acqua.

La risposta fu: “pochi minuti”. Quanto il dottor Zugiba seppe dai due che quel materiale era stato tenuto per un mese in acqua e per tre anni in acqua distillata, restò esterrefatto.

Ancor più sconvolto però quando scoprì, dal dottor Castanon, che quel frammento di cuore umano “vivente” era in origine un’Ostia, ossia un pezzetto di pane consacrato.

Si chiesero con sgomento com’era possibile che un frammento di pane diventasse un pezzetto di cuore umano e ancor più come, un tale reperto, prelevato nel 1996, evidentemente da un uomo morto, fosse ancora vivo tre anni dopo?

L’articolo di Piotrowski prosegue riferendo il clamore che questa notizia ha fatto in Australia, dove è stata diffusa e spiegata dalle persone citate.

Questo articolo nei giorni scorsi ha cominciato a circolare in rete, tradotto, fra i siti cattolici, e a fare molta impressione. Così ho fatto delle verifiche sul posto, a Buenos Aires, e ho scoperto che la storia è ancora più clamorosa (però con alcuni importanti dettagli diversi).

In realtà i “segni” sono ben più di uno e cominciano nel maggio 1992, lo stesso mese ed anno in cui Bergoglio fu nominato vescovo ausiliare di Buenos Aires.

Il 1° maggio di quell’anno, un venerdì,  due pezzi di Ostia furono trovati sul corporale del tabernacolo. Su indicazione del parroco furono messi in un recipiente d’acqua posto poi nel tabernacolo. Però passavano i giorni e le particole non si scioglievano.

Venerdì 8 maggio si notò che i due frammenti avevano assunto un colore rosso sangue.

Domenica 10 maggio – alle messe serali – furono notate delle gocce di sangue sulle patene, il piattino su cui si pone l’ostia.

Domenica 24 luglio 1994 mentre il ministro dell’Eucarestia prendeva il calice contenuto nel Tabernacolo si accorse che una goccia di sangue scorreva sulla parete interna dello stesso Tabernacolo.

Dopo questi segni si arriva ai fatti dell’agosto 1996 di cui abbiamo parlato. Ma – a quanto risulta – iniziano non il 18, ma il 15, festa dell’Assunzione di Maria al cielo. Quando poi ci si accorse della inaudita metamorfosi di quella particola, fu informato direttamente l’arcivescovo Quarracino.

Fu lui che raccomandò la massima discrezione, dette le indicazioni sulla conservazione dei frammenti e ordinò che si stilasse un resoconto dei fatti fotografando tutto e facendo studi approfonditi. Tutto fu poi spedito a Roma.

Quali studi vennero compiuti?

Nel 1992 il sangue fu fatto analizzare da un medico del posto che era una parrocchiana e da altri ematologi. Tutti rilevarono che si trattava di sangue umano.

Nel 1999 – stando a quanto risulta a me – l’arcivescovo Bergoglio (che cominciò a occuparsi del caso solo dal giugno 1997, una volta diventato coadiutore dell’arcidiocesi) autorizzò analisi approfondite negli Stati Uniti di entrambi i “casi”, quello del 1992 e quello del 1996. E tutto si svolse nel 2000.

Le analisi si svolsero in California con le procedure usate per le indagini dell’Fbi. Un dettaglio ulteriore riguarda il campione del 1992 che conteneva anche frammenti di pelle umana. Quindi c’è stata l’analisi del laboratorio di New York col risultato impressionante che sappiamo sul campione del 1996.

E’ evidente che ogni miracolo eucaristico (e ne sono avvenuti diversi, nel corso dei secoli) è per i cattolici il segno del grande miracolo che avviene ogni giorno, in tutte le chiese: la trasformazione del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo.

Adesso qualche voce tradizionalista già accusa (sulla base di informazioni imprecise) il vescovo Bergoglio di aver tenuto un troppo “basso profilo” su questo caso invece di sbandierare il miracolo.

Ma è evidente invece che egli ha mostrato già in questa vicenda le sue preziose qualità di pastore. Anzitutto è stato l’arcivescovo Quarracino a gestire il caso nei primi anni e a raccomandare discrezione e prudenza.

Quindi Bergoglio ha osservato i criteri dettati dall’ex S. Uffizio nel documento “Discernimento nelle apparizioni e rivelazioni” del 1978.

Ha poi disposto tutte le analisi scientifiche per comprendere cosa è accaduto e – ascoltando la volontà della parrocchia dove si sono svolti i fatti di vivere senza clamori spettacolari quegli eventi misteriosi – ha aiutato la comunità a comprenderli secondo la fede della Chiesa, alimentando la devozione eucaristica.

Lui stesso andava diverse volte ogni anno a fare lì l’adorazione eucaristica.  Che pian piano è diventata adorazione permanente e ora sta coinvolgendo un numero sempre crescente di parrocchie (si parla anche di fatti miracolosi che sono avvenuti).

L’ “impronta” è il segno di Qualcuno che è passato. E il desiderio del cardinale Bergoglio era che quanti andavano ad adorare il Signore lì presente si accorgessero che Egli si avvicina a ciascuno, passa dentro la vita di ciascuno e lascia in tutti la sua impronta. Quindi il cardinale esortava a non trasformare in un rito quell’adorazione, ma a commuoversi, a stupirsi di Gesù e a chiedergli che lasciasse la sua impronta indelebile nel proprio cuore.

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