Campioni della Fede
Posté par atempodiblog le 2 mai 2013
Campioni della Fede
Da Gino Bartali a Paolo Bettini, da felice Gimondi a Eddy Merckx, da Francesco Moser a Vincenzo Torrioni: un filo doppio lega molti protagonisti del ciclismo al cattolicesimo. Perché per muovere una bicicletta le gambe non bastano.
di Alessandro Gnocchi – Il Timone
Quando gli sono stati chiesti lumi sulla lunghezza di questo pezzo, il direttore ha detto senza indugi «Novemila battute, non una di più». Se conoscete un direttore che al numero delle battute aggiunge «non una di meno», passate parola.
Punto a capo, per dire che, di quelle novemila battute, seicentonovanta vanno cedute alla seguente perla firmata Gianni Brera: «Il Redefossi nasceva dal Naviglio. Era un canale di scarico e di protezione insieme, perché lambiva le mura. Oggi è tutto coperto e ci sferraglia sopra il tram di circonvallazione. Ritorna alla luce molti chilometri oltre Porta Romana.
Vi sbocca la fogna, impossibile sognarci. Ma quando nacqui vi si specchiava il cielo. Ed era il mio oceano.
Le donne di corso Lodi vi andavano a lavare i panni e le stoviglie, sgurandole con la sabbia quarzosa. I lavatoi erano fatti con una semplice tavola di pioppo che quattro gambe da panchetto reggevano fissandosi al fondo. Ho in mente una lunga fila di dorsi ricurvi, di sottane rimboccate e di piedi rossi. Ma le donne cantavano ed era assai bello».
Un gioiello così sta bene proprio in questo posto e non altrove per il semplice motivo che il Gioanbrerafucarlo non sta facendo il sentimentale, ma sta parlando di ciclismo. Vedere alla voce Biciletta, addio, gran libro, annata 1964.
Bicicletta, addio suona un po’ come “Addio monti” dei Promessi sposi. È pur vero che Manzoni a Brera non garbava così tanto: gli dava del coniglio perché si era rifugiato nel romanzo storico. Ma, ciò nonostante, ei due addii, si legge lo stesso sentimento di qualcosa che se ne sta andando e chissà, forse, potrebbe tornare, ma solo se lo vorrà Qualcuno che non ha da rendere conto agli uomini. Ovvio quindi che Eberardo Pavesi, classe 1883, protagonista dell’addio breriano, sia stato un ciclista naturaliter religioso cattolico, così come è naturaliter cattolica Lucia Mondella, protagonista dell’addio manzoniano. Magari un po’ malgarbato, Pavesi, ma cattolico. Solo un accidentaccio d’uomo simile, una volta detto addio alla bicicletta, avrebbe potuto fare il direttore sportivo di Gino Bartali. Del Bartali baciapile, si intende. Del Bartali che mandava fuori dai gangheri i comunisti mangiapreti per quanto amava la Madonna e per la sua predilezione per i santi del Carmelo. Vuoi mettere un santino di Santa Teresina nel portafogli incollato alla coscia sudata mentre pedali in salita contro uno di Togliatti in cabina elettorale? E i comunisti mangiapreti, là dove Dio li vedeva e Stalin no, erano costretti a riconoscerlo.
Per tornare a Pavesi, solo uno come lui poteva sopportare un Bartali inginocchiato sui gradini freddi delle chiese a dire le orazioni mandando a ramengo un’ora abbondante di massaggi e di riscaldamento. «Brutt bojon, Gino se te fet?» gli urlava. Chi non comprende il milanese vada a senso perché la traduzione laicizzerebbe irrimediabilmente l’amore per l’uomo inginocchiato e il rispetto per Colui che stava al di là del portone.
Il “brutt bojon” se ne è andato nel 2000 portando indosso il mantello bianco dei Carmelitani Scalzi. Era un terziario dell’ordine di Santa Teresa, di San Giovanni della Croce e di Santa Teresina. E qualcosa della piccola Teresa lo aveva replicato nella sua vita. Lei a girare il mondo dopo morta, testimone di Cristo con il suo corpo senza vita. Lui a girare il mondo ciclisticamente conosciuto, testimone di Cristo con ciò che un vero atleta può esibire senza vergogna, il suo corpo vivo.
Solo i santi e solo i ciclisti possono farlo. Un bacio della reliquia e una pacca sulla schiena, una giaculatoria e un “vai Gino che sei solo”, l’invocazione di una grazia e la domanda di un sorriso.
Quanto è dura la salita del Carmelo, Gino? Si vede che tocca ai toscani rispondere. Paolo Bettini, campione olimpico nel 2004, campione mondiale nel 2006 e 2007, un fratello morto a 42 anni in un incidente di macchina, dice che è dura. È dura come la vita, ma a lui lo aiuta padre Raffaele, un carmelitano che non disdegna di andargli dietro qualche volta in bicicletta. Bettini è venuto su lungo la vecchia Aurelia, dove arriva senza fatica il sale del mare. Non diresti che si possa essere cattolici in questo incrocio di anticlericalismo toscano e di sogno americano che ha per nome La California, una manciata di case buttate giù in qualche maniera poco lontano dai cipressi di Bolgheri alti e schietti. Invece lui è cattolico e dice che gli piace Papa Benedetto XVI, un regolarista come Gimondi.
Già, Felice Gimondi da Sedrina, terra bergamasca all’imbocco della Val Brembana. Terra dura che si sfalda a contatto con il Brembo, là dove il fiume si inserpentisce in giravolte che paiono tornanti del Passo San Marco e liscia i sassi e i rami di castagno che porta verso valle, e li tira bianchi come la veste di un domenicano.
Terra cattolica e, fino a due o tre decenni fa, bastava nascerci per venir su con la vera fede nei polmoni.
Felice ne aveva negli Anni Sessanta e Settanta, quando andava in bicicletta e Brera scriveva che, di profilo, pareva un capo indiano. E ne ha ancora oggi, in un mondo matto dove anche il ciclismo sembra fatto per far perdere la pazienza a un santo.
Dicono che pare ostrogoto, ma, a parlarlo in fretta, il bergamasco sembra quasi latino. Lingua liturgica alla portata di tutti, una giaculatoria un soldo, per dire la fatica lungo la strada, nei campi, in fabbrica. Lingua liturgica buona nei giorni feriali, fin sul sagrato, perché, ai tempi in cui Felice correva per le salite di Sedrina ad aiutare la mamma a portare la posta, in chiesa usava il latino.
Il bergamasco introduceva al mistero e il latino lo celebrava. E il mistero entrava fin nelle ossa. Non si spiega diversamente che Felice, sul palchetto di un Giro d’Italia dei primi Anni Settanta, invece che salutare la mamma e gli amici del Bar Sport, dicesse senza neanche riprendere fiato che per lui, anche quando si arriva primi, in realtà si è sempre secondi perché davanti a tutti c’è Qualcuno di più grande. E all’intervistatore deciso ad avere lumi perché non aveva capito che nel parlato latino-bergamasco di Gimondi Qualcuno aveva la “Q” maiuscola, lui rispose semplicemente «Non so, è un mistero».
Forse, il povero intervistatore, avrà pensato a Eddy Merckx, il fiammingo con gli occhi a mandorla, il Cannibale, l’incubo di un Gimondi che, pure, riuscì a vincere tutto, mondiale compreso. Non ci fosse stato Merckx, chissà quanto sarebbe lungo il suo albo d’oro. Ma Merckx c’era, e anche lui andava ad Ave Maria. Muscoli, testa, cuore e fegato, certo. Ma anche Ave Maria. E ogni vittoria dedicata alla Madonna. 525 corse vinte di cui 426 da professionista. Fate il conto di quanti Rosari ci ha cavato il Cannibale, e tutti fatti con rose di prima scelta, tappe del Giro, del Tour, della Vuelta, Mondiali, Lombardia, Sanremo, Rubaix. Questi sì, che sono Rosari.
Quando cominciava a menare pedate sui pedali, incurvava la schiena, abbassava la testa ed era talmente prostrato che pareva una vecchia inginocchiata all’ultimo banco in chiesa per chiedere una grazia. E lui chi era per non chiedere nulla? Non bastava essere Eddy Merckx per farcela sempre.
Nel 1969, venne squalificato dal Giro per un sospetto di doping dopo la tappa di Savona. Ma aveva bisogno di doping uno così? La tv andò a pescarlo in albergo. Il Cannibale piangeva, steso sul letto, con addosso ancora i pantaloncini da ciclista marchiati Faema e la canottiera. «Mi sono ripreso solo perché ho fede» disse dopo essere tornato il Cannibale.
«Perché ho fede e perché i fiamminghi non cedono».
Non cedono i fiamminghi, non cedono i bergamaschi, non cedono i toscani.
Nessuno cede, quando sa di portare la bandiera della sua terra. Ma è chiaro che non tutti i ciclisti sono fatti così. Quelli che lasciano il segno, però, sono quelli che parlano la lingua della loro terra. Per questo, difficilmente dicono stupidaggini davanti a un microfono spianato.
Francesco Moser, razza trentina e cattolica, ne diede dimostrazione durante uno dei tanti Giri d’Italia in cui battagliava con Giuseppe Saronni. A cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta, la Rai mandò un paraintellettuale, nel senso di intellettuale di apparato, a democratizzare una bestia rustica come la carovana capitanata dal cattolico Vincenzo Torriani. E lui, il paraintellettuale, si diede da fare smontando un linguaggio formato in decenni di fatica, di gioia, di dolore: di sapienza, insomma. Si inventò una neolingua e la propose agli interessati. Perché, chiedeva, continuare a usare il termine “gregario”, così discriminatorio, così razzista? Proviamo ad usare “aiutatore”, che è molto più democratico. Si stenta a credere, ma giuro che è tutto vero.
Per farla corta, Saronni il cittadino quasi milanese e progressista disse che, sì, si poteva fare. Il contadino Moser disse che, no, meglio lasciar perdere, perché si è sempre detto gregario e il gregario deve chiamarsi gregario, altrimenti diventa un’altra cosa. E senza citare Orwell.
I ciclisti, quelli veri, hanno sempre qualcosa di cattolico. Grazie a Dio.
Novemila battute. Fine.
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