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Medjugorie a Milano: diecimila fedeli davanti alla Madonna

Posté par atempodiblog le 24 avril 2013

Medjugorie a Milano: diecimila fedeli davanti alla Madonna
La giornata di preghiera con i veggenti raduna alla Fiera un popolo semplice e silenzioso. Ma ricco di amore
di Maurizio Caverzan – Il Giornale
Tratto da: Ascolta tua Madre

Non c’è il pienone previsto nell’immensa sala della Fiera Rho di Milano. La Protezione civile stima in diecimila i presenti, eppure l’elenco delle comunità chiamate dal palco una per una è infinito, da quella «di Busto Arsizio» al «gruppo della Calabria», dalla «gente di Padova» al «gruppo della Liguria».

Medjugorie a Milano: diecimila fedeli davanti alla Madonna dans Antonio Socci medjugorjegospafierarho

È un’Italia sommersa, un popolo semplice, lontano dalle mode, in prevalenza donne, ma anche anziani, giovani e bambini. «È quella che, per distinguerla dalla gente dei media, don Giussani chiamava “la gente gente”», racconta Antonio Socci, autore di «Mistero Medjugorje» (Piemme, 2005). «I giornali e le televisioni di sono pieni della manifestazione dei grillini davanti al Parlamento. Ma di queste migliaia di persone scriveranno in pochi. I riflettori sono già tutti occupati da quelli che frequentano il web e i social network, da quelli che protestano nelle piazze». Socci ha appena terminato la sua struggente testimonianza di fede provata dalla sofferenza per l’arresto cardiaco che il 12 settembre 2009 ha colpito all’improvviso la figlia Caterina. Dopo anni di dolore e tra molti sacrifici Caterina sta sorprendentemente ritornando a una vita più sostenibile. Dopo Socci è il momento di Jakov Colo, uno dei veggenti, padre di tre figli. «Non venite a Medjugorje per parlare con noi, per assistere a fenomeni strani, per provare emozioni – dice Jakov – Venite per convertirvi. Il pellegrinaggio vero comincia quando iniziate la strada del ritorno a casa. Offrite il digiuno e la penitenza per la fine delle guerre e la guarigione dei malati».
La giornata è iniziata alle nove del mattino e si prolunga con un programma fitto di canti, preghiere e testimonianze fino alle nove della sera. Dopo la messa del pomeriggio è attesa l’apparizione della «figura femminile luminosa» che fin dal 24 giugno 1981 i veggenti, allora sei ragazzi, hanno cominciato a riconoscere come la Madonna, «Regina della pace». Da allora, un tempo lunghissimo, continua ad apparire. «È il tempo in cui Dio dimostra la sua pazienza», risponde padre Ljubo Kurtovic. Sopra il palco si legge il testo del messaggio del 25 agosto 2002: «Soltanto nella fede la vostra anima troverà la pace e il mondo la gioia». Il raduno è organizzato da Mir i Dobro (Pace e bene), una Onlus che opera in Bosnia e chiede di devolvere il 5 per mille per le adozioni a distanza e l’accoglienza agli orfani di guerra. Alle 12, ecco il collegamento con Piazza San Pietro per l’Angelus di Papa Francesco. «La giovinezza bisogna metterla in gioco per i grandi ideali», esorta Bergoglio. «Domanda a Gesù che cosa vuole da te e sii coraggioso», invita parlando dei dieci sacerdoti ordinati in mattinata. Anche alla Fiera Rho di Milano scrosciano gli applausi. «Grazie tante per il saluto, ma salutate Gesù», sembra rispondere Francesco.
Qui si susseguono i canti di una devozione forse ingenua – «Gesù mi ama, Gesù ti ama, Gesù ci ama»; «Non si va in cielo in minigonna, perché in cielo c’è la Madonna» a volte accompagnati da un violino tzigano, altre volte da movimenti ritmati cui non si sottraggono anche persone di terza età. Canti che saranno magari il segno di un cristianesimo semplice e tradizionale. Che però, senza intellettualismi, sa parlare direttamente al cuore delle persone così come avviene nella testimonianza di papa Francesco.
Uno dei momenti più coinvolgenti è l’adorazione del Santissimo guidata da padre Ljubo in perfetto italiano, ma con quel tono ieratico conferito dall’accento slavo. Si snodano le ave marie in croato, inglese, francese, spagnolo, tedesco, polacco. Un canto ripete le parole del ladrone crocifisso vicino a Gesù: ricordati di me quando sarai in Paradiso.
La Chiesa non ha ancora riconosciuto le apparizioni di Medjugorje. «Ma è decisivo che non abbia condannato questi fenomeni che pure non sono vincolanti per la fede», riprende Socci. C’è una commissione voluta da Benedetto XVI nel 2010 e presieduta dal cardinal Ruini. Per sua regola la Chiesa non riconosce le apparizioni quando i fenomeni continuano ad avvenire. Ma si pronuncia dopo, quando sono terminati, magari a distanza di secoli.
Intanto la «gente gente» partecipa compunta alla meditazione. Ogni volta che viene pronunciato il nome di papa Francesco, si alza spontaneo l’applauso. Quello di Medjugorje è un popolo fatto di «persone provate dalle ferite della vita – osserva Socci – Ferite che spesso siamo portati a rimuovere e a coprire per non soffrirne troppo». È un cristianesimo dolente quello dei devoti di Medjugorje? «Come la bellezza anche il dolore ci porta alle domande fondamentali dell’esistenza. Ci fa diventare persone più autentiche, più vere. Non è facile che ci lasciamo scovare o scavare nel profondo. Perché, come diceva Rilke, Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta/ un po’ come si tace una speranza ineffabile».
Al termine della messa la veggente Marija Pavlovic intona la preghiera fino a quando s’interrompe, rapita. I diecimila sprofondano in un silenzio assoluto.

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Giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno del 1915

Posté par atempodiblog le 24 avril 2013

Giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno del 1915
di Caserta24ore

Giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno del 1915 dans Riflessioni bambiniarmeni

Atto di commemorazione nella giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno del 1915
Il genocidio degli Armeni. Da 24 anni l’Associazione Internazionale Regina Elena, in Italia ed in altri Paesi, è molto impegnata a favore del riconoscimento del primo genocidio del XX secolo, quello che colpì vigliacamente il popolo armeno dal 1915. Dietro sua richiesta, numerosi comuni e province hanno riconosciuto formalmente quella tragedia ancora negata dalla Turchia. Nel 2012 il Comune di Scafati (SA) ha votato all’unanimità la proposta sottoposta dalla delegazione campana dell’Associazione Internazionale Regina Elena Onlus, a firma del delegato Cav. Uff. Rodolfo Armenio.

Inoltre, il Sodalizio benefico internazionale ed il Gruppo Armeni di Napoli, con il patrocinio della REGIONE CAMPANIA, DELLA PROVINCIA DI NAPOLI,  COMUNE DI NAPOLI, AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA D’ARMENIA, COMUNITA’ ARMENA E L’ASSOCIAZIONE ITALIA-ARMENIA, organizzano un Atto di commemorazione nella giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno [...] mercoledi 24 aprile a Napoli: alle ore 18 S. Messa nella chiesa di S. Caterina a Chiaia. Seguirà la deposizione di una corona d’alloro al Monumento di Piazza dei Martiri. Durante il corteo sarà distribuito materiale informativo sul primo genocidio del ’900. Un mondo senza memoria non può progredire.

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La grande rimonta dei maschi, a scuola adesso leggono (quasi) come le femmine

Posté par atempodiblog le 24 avril 2013

La grande rimonta dei maschi, a scuola adesso leggono (quasi) come le femmine dans Articoli di Giornali e News scuolaoggi

Sarà merito della scuola, o forse di alcuni libri dal  successo planetario, che hanno catturato al testo scritto anche  il recalcitrante mondo dei ragazzini maschi. Sarà, pure, l’abitudine alla comprensione del linguaggio sincopato dei  videogiochi, comunque la notizia (buona) è che nella lettura per la prima volta i bambini hanno raggiunto le bambine. Polverizzando così finalmente quei “punti” che nelle  statistiche internazionali dividevano i maschi dalle femmine,  queste ultime com’ è noto assai più vicine ai libri dei  loro coetanei. E invece si scopre che c’ è un momento  fondamentale negli anni della scuola primaria, in cui tutto  è ancora possibile, anche la caduta di stereotipi tipo  femmine-brave, maschi-distratti, oppure femmine “non portate” per  la matematica, maschi capaci nelle materie scientifiche. Il paritario capitombolo in avanti è contenuto nella ricerca Progress in International Reading Literacy Study del 2011, che ogni cinque anni analizza nelle classi di quarta elementare, i livelli di comprensione dei testi scritti. E su questi dati  Stefano Molina, ricercatore della Fondazione Agnelli, ha  elaborato una indagine pubblicata sul sito Neodemos, con il  titolo “Differenze di genere sui banchi di scuola”, in cui  dimostra quanto nell’ infanzia il nostro Paese sia quello con i  divari più bassi, mentre poi, a partire dall’ adolescenza le  differenze diventino invece dei fossati.

«Il salto in avanti  dei maschi nella lettura – spiega Stefano Molina – è  avvenuto negli ultimi 10 anni. Nel 2001 il loro rendimento si  distanziava di 8 punti da quello delle femmine, nel 2007 di 7,  fino al 2011 in cui il divario è diventato di 3, e dunque  minimo. Ed è un bel successo, dovuto a più fattori. Da  una parte i bambini corrono veloci quanto le bambine. Dall’ altra  forse la scuola non è stata in grado di consentire alle  femmine, che da sempre hanno un rendimento migliore, di esprimere  tutte le loro potenzialità». In un quadro dove comunque  i dati dell’ indagine “Pirls” mostrano che i baby studenti  italiani di quarta elementare si piazzano a un ottimo punto nella  classifica mondiale della “bravura” con 541 punti contro una  media di 500. E sono più d’ una infatti le motivazioni che  hanno portato a questa unificazione delle capacità di  lettura, che smentiscono in parte gli allarmi sulla disaffezione  verso il testo scritto della generazione digitale. Carmela Buffo  insegna da oltre 30 anni in una grande scuola romana, «dove  arrivano bambini di ogni ceto sociale, da quelli con migliaia di  libri nella biblioteca dei genitori, a ragazzini che non ne  possiedono nemmeno uno».

Dice Carmela Buffo: «In una  stessa classe ci sono allievi con diversi livelli di rendimento,  e tradizionalmente le femmine sono un po’ più avanti dei  maschi. Ma questo spesso si è tradotto in una sorta di  pigrizia da parte degli insegnanti, anzi delle insegnanti, che  non si sono preoccupate abbastanza di stimolare i maschi  perché ritenuti immaturi». Là dove invece la  scuola ha tenacemente promosso la lettura, e «grazie anche a  una rivoluzione nei libri dell’ infanzia, con alcuni titoli che  hanno catturato i bambini senza differenza di sesso»,  aggiunge Carmela Buffo, «i risultati si sono visti, e in  particolare sui maschi». Ecco allora Harry Potter, con la  sua capacità conquistare al di là dei generi, Geronimo  Stilton, il topo reporter dagli incassi milionari, Greg, l’amatissima “schiappa” del diario medesimo.

Benedetto Vertecchi,  pedagogista di lungo corso, è invece più scettico sui  meriti della scuola. «Se i maschi hanno scoperto la lettura,  mi fa un gran piacere, ma non dipende dalla nostra agonizzante  istruzione pubblica, bensì da una maggiore attenzione delle  famiglie alla vita dei bambini, libri compresi. Con i tagli  selvaggi, la scuola oggi sta tornando proprio ai suoi stereotipi  tradizionali, ai maschi la scienza, alle femmine la letteratura,  i ricchi vanno avanti, i poveri si fermano». Amara  riflessione, condivisa in parte da Stefano Molina, autore della  ricerca: «Viene da chiedersi come mai a 910 anni bambine e  bambini siano eguali nella lettura, e poi invece a 15 le femmine  superino i loro coetanei di ben 46 punti nella comprensione di un  testo scritto. Penso che i fattori siano due: una spinta sociale,  per cui alle bambine viene regalata la Barbie, e ai maschi il  “Piccolo chimico”, e via via quel fattore di uguaglianza si  perde. E una motivazione, poi, interna alla scuola, che purtroppo nella comunicazione del sapere tende a ricreare differenze».

di Maria Novella De Luca – La Repubblica

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Beati i perseguitati. Il racconto di un moderno martire

Posté par atempodiblog le 24 avril 2013

Beati i perseguitati. Il racconto di un moderno martire
Quindici anni nelle prigioni della Romania, tra sofferenze disumane. La testimonianza del vescovo Ioan Ploscaru, per la prima volta resa nota al grande pubblico
di Sandro Magister – chiesa.espressonline.it

Beati i perseguitati. Il racconto di un moderno martire dans Articoli di Giornali e News prigioniaincarcere

ROMA, 23 aprile 2013 – Almeno cinque volte nelle ultime due settimane papa Francesco ha richiamato l’attenzione sui “tanti nostri fratelli e sorelle che danno testimonianza del nome di Gesù anche fino al martirio”.

Negli stessi giorni di questi appelli del papa, il vescovo romeno Alexandru Mesian è passato di città in città, in Italia, per presentare al pubblico la testimonianza di uno di questi martiri del nostro tempo, suo predecessore nella guida della diocesi greco-cattolica di Lugoj.

Il suo nome è Ioan Ploscaru. È morto nel 1998 a 87 anni, di cui quindici trascorsi in prigione in condizioni disumane. Per una sola colpa: quella di restare fedele alla Chiesa di Roma e quindi di rifiutare di passare alla Chiesa ortodossa, come ordinato dal governo comunista.

Era finita da poco la seconda guerra mondiale e, come in Ucraina, anche in Romania il regime voleva annientare la locale Chiesa greco-cattolica, con i suoi vescovi, i preti e i milioni di fedeli, mettendola furori legge e incorporandola a forza nella Chiesa ortodossa. Di fronte al loro rifiuto, nel 1948, tutti i vescovi furono arrestati. Moriranno in carcere. Altri vescovi, ordinati clandestinamente, presero il loro posto. Tra questi Ioan Ploscaru, cui impose le mani il nunzio vaticano a Bucarest, il 30 novembre 1948. Ma nelle catacombe resisterà solo pochi mesi. Nell’agosto del 1949 anche lui sarà arrestato.

E cominciò il suo calvario. Che egli poi raccontò in un libro di memorie. Il libro uscì in Romania nel 1993. Ma solo quest’anno ha varcato i confini del suo paese, in una edizione italiana molto ben curata, stampata dalle Edizioni Dehoniane di Bologna.

È un libro straordinario per molti motivi. Ricorda i “Racconti della Kolyma” di Salamov quando ritrae la ferocia degli aguzzini, spietata fino all’in­verosimile, tra umiliazioni che comprendevano “mangiare le proprie feci, vedersi u­rinare in bocca dai carcerieri, essere costretti a dichiarare di aver pratica­to atti sessuali aberranti con i propri genitori”. Ma ricorda anche la serenità descrittiva e l’ironia del Solzenicyn de “L’arcipelago Gulag”.

Soprattutto è il racconto di un’esperienza di fede. Che illumina anche le notti più buie. Che accende di stupore anche i più malvagi. Che arriva a provare misericordia anche per i più terribili persecutori.

Il regime comunista romeno crollò nel 1989. Nel 1990 Ioan Ploscaru poté riprendere possesso della sua cattedrale, che gli fu restituita dal metropolita ortodosso di Lugoj.

Qui di seguito c’è una piccola antologia del suo libro di memorie, con i titoli dei capitoli da cui sono ripresi i rispettivi brani.

divisore dans Medjugorje

CATENE E TERRORE
di Ioan Ploscaru

A tutti noi, sacerdoti e vescovi greco-cattolici, fu offerta la libertà in cambio del passaggio alla Chiesa ortodossa. A me personalmente proposero diverse volte questo scambio fin dal mio primo arresto. Ma non si può patteggiare con la propria coscienza. Se avessi ceduto, sarebbe stata una grande sciagura per la mia coscienza e una confusione per quelli fra cui vivevo.
Nelle memorie che ho scritto non troverete lamenti gravi e tanto meno stati d’animo disperati, perché, offrendo tutte queste sofferenze a Dio, esse diventano sopportabili. Ma non avrei potuto sopportarle da solo, se Gesù non fosse sempre stato accanto a me e a tutti noi.
Ho considerato i nostri aguzzini quali “strumenti” e a nessuno d loro muovo alcuna accusa: anzi, desidero per quegli inquisitori una vera conversione a Dio e un vero e chiaro pentimento per tutto ciò che hanno fatto.
Sono stato in prigione per 15 anni, 4 dei quali in isolamento. Liberato nel 1964, sono stato ancora sorvegliato, pedinato, perseguitato. Anche negli anni seguenti ho continuato, a volte, ad avere paura.
Per tutte le sofferenze che ho dovuto sopportare, sia lodato Dio nei secoli dei secoli.

ALLA “SECURITATE” DI TIMOSOARA
La mia cella si trovata nel seminterrato. Le finestre erano rotte e la cella era molto fredda. Rimasi lì per tutto il mese di dicembre fino al gennaio 1950. Il freddo mi straziava. Venivo spesso condotto di notte agli interrogatori. Mi rimandavano indietro e, dopo mezz’ora, ero svegliato nuovamente per un altro interrogatorio. Il freddo della cella ghiacciata mi consumava. Dormivo molto poco, sempre con il desiderio di risvegliarmi per potermi muovere. Dalla finestra rotta entrava il gelo, lasciando tracce di brina sulla barba e sui vestiti. In tre settimane dimagrii tantissimo. Pregavo e offrivo tutto il freddo e tutte le prove al Salvatore.

METODI DI COERCIZIONE
Gli interrogatori, come pure le bastonate, avevano luogo proprio sopra la nostra cella. Ci rendevamo conto di ciò che stava succedendo dai rumori, che ascoltavamo con terrore. Poi le urla di quelli che venivano picchiati. Bastonavano le piante dei piedi con una barra di ferro. La vittima era poi costretta a correre se non voleva che i piedi si gonfiassero. Il supplizio si ripeteva. A tanti si slogarono le ossa del metatarso.
Ma più pesante di una bastonata era l’isolamento. Ti chiudevano in una cella vuota e sul pavimento di cemento versavano l’acqua. Dopo un giorno o due i piedi si gonfiavano e il cuore non resisteva più. La vittima o cadeva nell’acqua o chiedeva di essere portata fuori per “confessare”.

JILAVA
Le perquisizioni erano un metodo di umiliazione. Ti controllavano nell’ano, agli organi genitali, in bocca, nelle orecchie. L’uomo nudo era per loro un oggetto di derisione. Simili perquisizioni si facevano più volte al mese, senza contare quelle fatte arbitrariamente dalle guardie.
Nella cella dove eravamo stati relegati il pavimento era di cemento ed era sempre umido, come umide erano le pareti, essendo la costruzione sotto il livello del suolo. Per dormire avevamo solo una striscia di 35 centimetri per persona. Nessuno poteva dormire supino, ma solo su un fianco. Quando qualcuno non poteva più sopportare la posizione ed era costretto a cambiarla, doveva svegliare tutti: si toccavano l’un l’altro sulla spalla e dovevano tutti voltarsi dall’altra parte.
La più pesante punizione che ci inflisse il comandante risale al mese di luglio 1950, quando fece inchiodare le finestre, facendoci rimanere per una settimana senz’aria e senza uscire. In piena estate, in una stanza di 18 metri quadrati, vivevano in un’aria soffocante 35 persone. Ad alcuni vennero eruzioni rosse sulla pelle, altri svenivano.

SIGHET, PRIGIONE DI STERMINIO
Il maggior supplizio del carcere di Sighet era la fame. La dieta alimentare in questa prigione era calcolata con grande cura perché il detenuto non morisse subito, ma deperisse gradualmente per la fame. Gli alimenti erano pochi e marci.

DI NUOVO ALLA “SECURITATE” DI TIMOSOARA
Le suore cattoliche erano costrette a stare d’inverno nell’acqua gelida a zappare, dapprima con il piccone e poi con le mani, a staccare pezzi di roccia, a metterli nel loro grembiule e a portarli sulla riva del fiume. Quasi tutte quelle suore, dopo la liberazione, in breve tempo morirono di tubercolosi o martoriate da reumatismi deformanti e acuti.

AL MINISTERO DEGLI INTERNI DI BUCAREST
Gli interrogatori eran molto pesanti. Ogni giorno venivo picchiato con schiaffi, con la sedia, con calci e facendomi sbattere la testa contro la parete. Come se ciò non bastasse, un giorno mi condussero nella camera di tortura. Avevano preparato due travicelli per legarmi ad essi e picchiarmi. Mentre quelli preparavano l’impalcatura io pregavo e offrivo a Dio le sofferenze e la vita.

LA PRIGIONE DI GHERLA
Arrivammo in un momento critico. I prigionieri avevano protestato contro l’oscuramento delle finestre con imposte di legno e la direzione aveva scatenato una violenta repressione. I poliziotti spararono dai tetti, usarono gli idranti, affamarono i prigionieri e alla fine li trascinarono fuori dalle celle e li bastonarono con spranghe di ferro. Nei corridoi il sangue era corso a fiumi. Si parlava di più di una trentina di morti. Anche il medico della prigione aveva impugnato una spranga e colpito a casaccio.
Con noi c’era un gruppo di contadini della Moldavia. Raccontavano le atrocità che erano state commesse in occasione della collettivizzazione. Alcuni avevano accettato, altri si erano opposti. Questi ultimi furono fatti entrare in una stanza del municipio dove li attendevano i cosiddetti “procuratori”, che erano operai delle fabbriche. Chi aveva rifiutato doveva passare tra di loro. I “procuratori” avevano cacciaviti e punteruoli di ferro che piantavano senza esitazione nel corpo dei “reazionari”. Quelli i cui organi vitali – fegato, reni, polmoni, vescica – erano stati lesionati, presto morirono. Gli altri sopravvissero con ferite gravi.
Nella cella eravamo ammucchiati quasi in 60. Erano contadini, legati con pesanti catene infisse con dei chiodi, cosicché non si potevano svestire né lavare. Dove stringeva la catena si era formata una crosta di sangue coagulato.

AL PENITENZIARIO DI PITESTI
A Pitesti, quelli che erano incatenati li lasciarono così da settembre fin quasi a Natale. Anzi, poiché si lamentavano di essere pieni di pidocchi, strinsero le loro catene. Quelli condannati a meno di 15 anni non vennero incatenati. Io avevo, appunto, 15 anni – la pena maggiore, a cui si sommavano le altre tre di 8 anni ciascuna – cosicché a volte mi mettevano le catene, altre mi lasciavano senza. Non mi rattristavo per le catene, anzi, le baciavo offrendole a Gesù: “Signore, se tu fossi adesso con noi, saresti sicuramente imprigionato e forse anche giustiziato!”. Baciavo il mio vestito grezzo e sporco, considerandolo come il più caro paramento liturgico e consideravo le sbarre quali sante testimonianze del martirio: le baciavo in segno di accettazione affettuosa e piena di riconoscenza. Questo accadeva ogni volta che entravo in una nuova cella.
La prigione di Pitesti era disastrosa. Il tetto di lamiera, in quell’inverno del 1960, fu divelto dal vento. Le celle erano molto insalubri. Il soffitto freddo condensava i vapori, cosicché gocciolava permanentemente sui nostri vestiti, tenendoci in uno stato continuo di umidità. Quasi tutti i letti erano disposti su tre livelli e su ognuno c’erano due detenuti. In celle come la mia si trovavano più di 70 persone.

DEJ, CARCERE DI STERMINIO
Il regolamento della prigione di Dej era più severo che in ogni altro penitenziario. Quest’asprezza inumana era la prova che non c’era soltanto l’intenzione di isolarci, ma di sterminarci fisicamente.
Di giorno era vietato sdraiarsi sui letti. Ci obbligavano a sedere su una panca senza spalliera; in tal modo la sera eravamo sfiniti. Si parlava sottovoce, ogni conversazione era vietata. Alla sera dovevamo piegare i vestiti e metterli sulla panca, perché non li usassimo per coprirci. Era severamente proibito l’uso di lenzuola.
D’inverno le finestre dovevano rimanere aperte: perché ci fosse “aria fresca”, dicevano i carcerieri. E d’estate venivano chiuse. Si puniva anche chi avesse osato fare esercizi di ginnastica.
Nonostante il divieto della direzione, non rinunziammo però alla preghiera, anzi pregavamo con maggior zelo, convinti che Dio fosse dalla nostra parte e noi dalla sua. Ogni giorno – dal momento della sveglia, che era alle 5 del mattino, fino alle 10 di sera – tutti mantenevamo il silenzio, recitando le nostre preghiere e meditando a lungo.

LA “NERA”
Nel febbraio del 1963, passai accanto a un maresciallo e non me ne accorsi. Per non averlo salutato fui punito con cinque giorni di isolamento, nelle celle chiamate le “nere”. Era un inverno rigido. Quando fui condotto là, gli altri si spaventarono. Spesso quelli che uscivano dalla cella d’isolamento venivano portati sulle barelle, irrigiditi dal freddo.
Rimasto solo nella cella, al buio e al freddo, come sempre baciai il chiavistello offrendo le sofferenze a Gesù. Era quaresima e pensai che potevo fare gli esercizi spirituali. Sarebbe stato un periodo di penitenza. Ogni giorno ricevevo 250 grammi di pane e una gavetta d’acqua: il pane del dolore e l’acqua della tribolazione, pensai. Il sonno sul duro non mi sembrava così difficile. Vi ero allenato. Più difficile era sopportare il freddo, perché non avevo nulla per coprirmi.
A prescindere da tutte le privazioni cui fui sottoposto nella “nera”, quei cinque giorni furono per la mia anima di grande consolazione. Rievocando la passione e la morte del nostro salvatore Gesù Cristo, le mie sofferenze erano infime. Rimasi sempre in meditazione e in preghiera. “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?”, domandava il santo apostolo Paolo.
Alla fine di quei cinque giorni, provavo dispiacere a lasciare la “nera”, dove mi ero trovato da solo con Gesù. Quando il guardiano venne ad annunciarmi che potevo uscire, mi sembrò quasi che mi separasse da un luogo amato.

divisore dans Medjugorje

Il libro:

Ioan Ploscaru, “Catene e terrore. Un vescovo clandestino greco-cattolico nella persecuzione comunista in Romania”, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2013, pp. 478, euro 30,00.

divisore dans Medjugorje

La testimonianza, ancor più impressionante, letta in Vaticano il 23 marzo 2004 da un altro esponente della Chiesa greco-cattolica di Romania, il sacerdote Tertulian Ioan Langa:

 iconarrowti7 Arcipelago Gulag in Romania: ciò che nessuno aveva mai raccontato

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Si può dare la comunione in mano ai fedeli? Sì, a condizione che…

Posté par atempodiblog le 24 avril 2013

Si può dare la comunione in mano ai fedeli? Sì, a condizione che... dans Diego Manetti Ostia-santa

Non intendo fare alcuna “crociata” contro la pratica di dare la comunione in mano ai fedeli che la richiedano, perché quello che dice la Chiesa, nostra madre, vale. Però non bisogna dimenticare che la Chiesa dice che tu puoi prendere la comunione con la mano e poi devi metterla in bocca, subito lì, davanti al sacerdote. Quindi i sacerdoti devono essere molto vigilanti in questo senso, richiamando eventuali fedeli che non dovessero consumare immediatamente la particola. E’ questo il momento in cui ci deve essere l’osservazione: se si applica la norma liturgica correttamente, il pericolo che un’ostia sia trafugata si riduce sensibilmente, sconfessando con ciò la tesi per cui dare la comunione in mano favorirebbe di per sé i furti di ostie.

Tratto da: L’ora di Satana (L’attacco del Male al mondo contemporaneo) di Padre Livio Fanzaga con Diego Manetti, Ed. Piemme

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Un pastore allarmato di fronte a posizioni e politiche che affermano che “l’uomo è Dio”…

Posté par atempodiblog le 24 avril 2013

DAL REVIVAL DI IDEE DEL PRIMO HITLERISMO ALLE LEGGI SULLE UNIONI GAY, “NON È GIUSTO CONTINUARE IN UN’EQUIVOCA TOLLERANZA”. NÉ PER I CATTOLICI, NÉ PER LE PERSONE RAGIONEVOLI
Tratto da: Corrispondenza Romana

Un pastore allarmato di fronte a posizioni e politiche che affermano che “l’uomo è Dio”… dans Fede, morale e teologia monsluiginegri

(Il Foglio del 19/04/2013) Carissimo direttore, poiché mi trovo quasi sempre d’accordo con le tue posizioni dal punto di vista cultural-politico, mi permetto di farti avere delle osservazioni che sento assolutamente necessario, in coscienza, formulare e pubblicare. Mi hanno indotto a questo anche due bellissimi articoli che ho letto recentemente sulla questione dell’assetto cultural- social-politico in questo momento tragicomico della nostra storia nazionale.

Uno è un articolo del professor Francesco Alberoni sul fanatismo devastante di certe posizioni politiche, che mi ha ricordato i tempi indimenticabili dei miei studi universitari, in cui l’allora giovane professor Alberoni ci insegnava i rudimenti della sociologia. E poi l’articolo molto acuto del professor Aldo Grasso con cui ho condiviso tanti anni di insegnamento in Cattolica.

Non voglio fare nessun intervento nell’ambito specifico dell’impegno dei laici, soprattutto dei laici che hanno deciso di partecipare attivamente alla vita delle istituzioni. Non tocca ai vescovi stabilire l’identikit del presidente della Repubblica e non tocca ai vescovi indicare le priorità di carattere politico in senso stretto, ma tocca ai vescovi intervenire sulle gravi vicende di carattere culturale che sono arrivate, nel nostro paese, a un livello di crisi che mi sembra senza ritorno.

Mi sono chiesto se è giusto che noi continuiamo a tacere di fronte a posizioni culturali, sociali e politiche che affermano letteralmente che l’uomo è Dio; e che affermano una subordinazione totale e parossistica alla rete, indicata come soluzione globale di tutti i problemi dell’umanità.

Se si possa tacere di fronte a una modalità di porsi, nella vita politica, che disprezza, nel linguaggio e negli atteggiamenti, qualsiasi interlocutore che viene sbrigativamente percepito come avversario da eliminare. Se è possibile far prevalere tutta una serie di valutazioni personalistiche di carattere moralistico come ambito in cui decidere la presentabilità o meno di candidati a questa o a quella carica. A parte l’ignoranza spaventosa per cui si possono citare frasi del primo hitlerismo e di alcuni documenti delle più terribili dittature del Ventesimo secolo cercando di dargli una patente di credibilità e di autorevolezza. In questo contesto, dove una persona ragionevole, io non vorrei scomodare la fede, una persona ragionevole si trova veramente a disagio, ritengo che sia giusto che un vescovo della chiesa cattolica dica che c’è una sostanziale inconciliabilità fra la visione della realtà che nasce dalla fede e questa vita politica ridotta alla difesa accanita dei propri interessi particolari o di formazione ideologica.

Non credo che sia giusto che si possa continuare in un’equivoca tolleranza di posizioni che obiettivamente sono distruttive, non solo e non tanto della fede cattolica, ma di una vita sociale autenticamente fondata su valori sostanziali e inderogabili, quelli che Benedetto XVI aveva così genialmente sintetizzato nell’espressione “valori non negoziabili”.

Di fronte alla proposta di una vita socio- politica ridotta a posizioni teoriche demenziali, corredate da un linguaggio e relativi atteggiamenti dello stesso tipo, io mi sento di dire con tranquillità, almeno ai fedeli cattolici della mia diocesi, che non è possibile essere cristiani e contemporaneamente appoggiare a qualsiasi livello posizioni e scelte che sono evidentemente in contrasto con la concezione della vita che la chiesa, coerentemente, da duemila anni insegna. Se poi la novità è rappresentata, anche sul piano istituzionale, da disegni di legge che riguardano il riconoscimento civile delle unioni gay, il cambiamento a spese del Servizio sanitario nazionale del sesso, ci rendiamo conto da che parte va questa presunta novità.

Ma c’è un ulteriore e ultimo disagio. Mi sono chiesto in questi giorni: ma dove è finita la presenza politica dei cattolici in Italia? Si caratterizzano per le scelte politiche che fanno, destra o sinistra, ma non più per quella vera appartenenza a valori in forza dei quali diventa possibile un vero dialogo, confronto, e al limite la collaborazione.

Mi sono reso conto con amarezza che la presenza politica dei cattolici sembra non esistere più. Esistono dei cattolici che a titolo sempre più personale, quindi nel senso restrittivo della parola, militano di qua o di là ma ricevono la loro dignità dalla scelta analitica che hanno fatto. E forse qui non è in ballo soltanto la responsabilità dei laici. Forse l’azione educativa che noi dovremmo insistentemente riprendere con i nostri laici, soprattutto quelli impegnati nei campi più difficili, sembra essere venuta meno. Non so se non è più chiesta. Resta il fatto che da noi vescovi viene offerta in modo sempre più blando e sempre meno mordente. Non è un contributo ma non credo che potessi tacere ai fedeli della mia chiesa questa direttiva che ho ritenuto necessario dare.

Siccome poi il vescovo di una diocesi particolare vive e deve vivere un affetto per la chiesa universale, pongo questo mio intervento a disposizione di quanti, nelle altre chiese, possano riconoscersi e ritrovarsi in esso.

Luigi Negri
Arcivescovo di Ferrara – Comacchio

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