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Ecco l’anello che potrebbe aver ispirato le opere di Tolkien

Posté par atempodiblog le 22 avril 2013

Ecco l’anello che potrebbe aver ispirato le opere di Tolkien dans John Ronald Reuel Tolkien anellosignoreanelli

Una nuova esposizione si apre in questi giorni presso la tenuta The Vyne, nella regione inglese dello Hampshire. In quello che una volta era l’ufficio del custode di un palazzo Tudor, è esposto un anello d’oro piuttosto bizzarro. Evidentemente troppo largo per essere indossato a mani nude, era forse pensato per essere portato sopra a un guanto.

Monile di origine romana, raffigura una testa con indosso un diadema – forse una raffigurazione di Venere – e reca una scritta (incisa a posteriori rispetto alla fusione originaria) lungo i suoi dieci lati: “SE | NI | CIA | NE | VI | VA | S | II | NDE”. Diverse fonti interpretano la scritta come una dichiarazione di fede monoteistica accorciata, visto come “Senicianus vivas in Deo”. Una fonte ottocentesca, tuttavia, suggerisce che sia più probabile “Senicia ne vivas iinde”, essendo iinde una forma troncata di una qualsiasi delle molte parole che iniziano con “INDEC” – la maggior parte delle quali indicano il disonore. Ciò si tradurrebbe in “Senicia non vive indecentemente”, il che spiegherebbe la presenza della testa di Venere come simbolo di castità e di onore. In entrambi i casi di traduzione sarebbe un bel contrappunto alla maledizione che grava su questo piccolo oggetto.

Rinvenuto nel 1785 da un contadino intento ad arare il suo campo nei dintorni di Silchester, il gioiello ha alle proprie spalle una maledizione vecchia di circa duemila anni. Trent’anni dopo il ritrovamento dell’anello, nella zona conosciuta come “Collina del Nano”, sito romano con antiche miniere e un tempio celtico dedicato al dio guaritore Nodens, venne alla luce una tavoletta con un’oscura iscrizione:

Deuo Nodenti Silvianus anilum perdedit demediam partem donauit Nodenti inter quibus nomen Seniciani nollis petmittas sanita tem donec perfera(t) usque templum [No] dentis.

Che, tradotto, vuol dire:

Al Dio Nodens: Silviano ha perso il suo anello e ha donato metà del suo valore a Nodens. Tra coloro che portano il nome di Seniziano, a nessuno di essi venga concessa la salute finché non avranno riportato l’anello al tempio di Nodens.

Benché i due reperti non siano stati rinvenuti in zone vicinissime, c’è da dire che Seniziano non è un nome comune. Evidentemente, il signor Seniziano se ne guardò molto bene dal riportare l’anello al tempio di Nodens, e anzi ci fece incidere il suo nome, con una frase il cui sottinteso è “non ho rubato quest’oggetto”. Insomma, diciamo che il nostro ladro aveva in qualche modo avvertito il peso della maledizione.

anelloromano dans John Ronald Reuel Tolkien

Nella mostra presso The Vyne è possibile osservare anche una copia della tavoletta contenente la maledizione e – udite udite – una prima edizione de Lo Hobbit. Come mai? Qual è il nesso con l’opera tolkeniana?

Semplice: nel 1929 Sir Mortimer Wheeler, impegnato negli scavi del tempio di Nodens, ebbe un’illuminazione e collegò l’anello alla tavola maledetta. Incaricò quindi John Ronald Reuel Tolkien, che a quei tempi era “solo” un professore di filologia anglosassone all’Università di Oxford, di effettuare ricerche sull’anello in questione e sulla leggenda a esso legata, nonché sull’etimologia della parola “Nodens”. Tolkien visitò il tempio varie volte in quel periodo e, l’anno successivo, iniziò a lavorare a quello che sarebbe diventato il suo primo successo letterario: Lo Hobbit, in cui il giovane protagonista Bilbo Baggins, come Seniziano, trova – o ruba? – un anello nel buio di una caverna. Non un anello qualsiasi, “un anello d’oro, un anello prezioso”, che reca una scritta ed è portatore di potere e di sventura al tempo stesso. E il precedente proprietario dell’anello, Gollum, lo maledice.

La mostra si sviluppa dunque attorno a quello che è, con tutta probabilità, uno degli oggetti ispiratori de Lo Hobbit e, quindi, della conseguente Trilogia dell’Anello.

Oltre alla sala espositiva, creata con l’aiuto della Tolkien Trust, la tenuta The Vyne ha oggi un sentiero “nanico” per i bambini e un nuovo parco giochi con gallerie circolari e collinette verdi che ricordano la casa di Bilbo, Bag End.

Infine, se vi state preoccupando per la leggenda, sappiate che finora The Vyne è rimasta sana e salva. Quindi, la maledizione sembra essere quantomeno in letargo…

Articolo a cura di Alessia Pelonzi
Tratto da: HobbitFilm.it

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Mirjana: Il Papa ha bisogno delle nostre preghiere per un duro cammino

Posté par atempodiblog le 22 avril 2013

Mirjana: Il Papa ha bisogno delle nostre preghiere per un duro cammino
Tratto da: Medjugorje Today
Traduzione a cura di: atempodiblog

Mirjana: Il Papa ha bisogno delle nostre preghiere per un duro cammino dans Medjugorje papafrancescoeratzinger

Francesco è il Papa di cui c’è bisogno nel momento presente e subito è entrato nei cuori di tutti. Ma la sua strada sarà molto difficile con troppo lavoro da fare, e così egli ha tanto bisogno di preghiere, dice la veggente Mirjana Dragicevic-Soldo. Lei chiama Benedetto XVI grande, le sue dimissioni una lezione.

La veggente di Medjugorje Mirjana Dragicevic-Soldo ha grandi speranze per Papa Francesco. Eppure il suo compito è anche molto difficile, e ha bisogno di preghiere delle persone per avere successo, la veggente racconta ai pellegrini in un sevizio su Medjugorje, mandato in onda il 25 marzo, dall’emittente televisiva italiana TG1.

“Il nostro Papa Francesco che è subito entrato nel cuore di tutti noi, è un Papa di cui noi abbiamo bisogno per il momento presente. Dobbiamo pregare molto per lui, aiutarlo con le nostre preghiere, perché la sua strada sarà molto difficile e avrà tanto da fare, e se noi non preghiamo per lui, chi lo aiuterà?” dice Mirjana.

La veggente ha commentato anche la decisione di Papa Benedetto XVI di dare le dimissioni, dicendo che c’è qualcosa da imparare dal predecessore di Francesco:

“Lui è un grande uomo che ha dato una lezione a tutti noi. Poiché egli è ormai vecchio e malato e non può dare tutto per la Chiesa, egli ha rassegnato le dimissioni come un grande uomo” dice Mirjana.

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TG1, servizio su Medjugorje. La veggente Mirjana, parla di Papa Francesco:

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Il pericolo delle buone intenzioni

Posté par atempodiblog le 22 avril 2013

Il pericolo delle buone intenzioni dans Fede, morale e teologia vitaumana

La teoria dell’evoluzione fu esposta da Charles Darwin nel volume del 1859 On the Origin of Species through Natural Selection: essa ebbe un enorme impatto in tutti i campi delle scienze naturali, ma influenzò profondamente anche quelle filosofiche e sociali. Decennio dopo decennio, diventò la base di un nuovo senso comune, alla costruzione del quale contribuì anche una vasta opera di divulgazione condotta da scienziati, sociologi, filosofi “positivi” e giornalisti di varia cultura.

La sua diffusione determinò la «morte di Adamo» (l’espressione è dello storico americano John C. Greene): non solo la messa in discussione dell’approccio letterale al racconto biblico della creazione, ma la negazione dell’origine divina dell’uomo e la diffusa accettazione della sua sostanziale animalità. Veniva meno ogni differenza fra l’essere umano e il resto della natura, fra la vita umana e quella del mondo animale e vegetale e quindi fra le leggi che le regolano. E poiché l’uomo vive in società, ne derivò un approccio naturalistico anche alla vita sociale: nacque nei decenni successivi il “darwinismo sociale”, che conobbe un particolare successo nella Germania guglielmina, ma che produsse effetti di lunga durata un po’ dovunque.

Il progresso dell’uomo veniva identificato con quello biologico, non col progresso morale. Ma la «morte di Adamo» produsse anche un altro risultato, che viene ora illustrato da Lucetta Scaraffia in un libro recente (Per una storia dell’eugenetica. Il pericolo delle buone intenzioni, con un saggio di Oddone Camerana, Brescia, Morcelliana, 2012, pagine 310, euro 25): se l’essere umano ha una natura fondamentalmente animale, perché non applicare anche a lui quelle tecniche di miglioramento della specie che si praticano verso le specie animali? Tanto più che la sopravvivenza dei più adatti non era più garantita dalle epidemie o dalle guerre, come invece era accaduto per secoli.

Fu su questi fondamenti che nacque e si sviluppò l’eugenetica. Esso è legato innanzitutto al nuovo culto della Scienza (con la s maiuscola) che si sviluppa nell’età del positivismo e all’inedito prestigio sociale che da allora circonda biologi, medici, zoologi, antropologi: si tratta di una nuova élite di potere, che promette il miglioramento biologico dell’essere umano. Facendo balenare questa possibilità — nota Lucetta Scaraffia — l’eugenetica offriva agli scienziati l’occasione di uscire dai laboratori e dalle aule universitarie e di diventare celebri presso il grande pubblico: era una figura nuova, quella dello scienziato-filantropo, del “benefattore dell’umanità”, che si veniva affermando.

L’«uomo nuovo» a cui si tendeva avrebbe progressivamente assunto anche caratteristiche biologiche inedite: non era sufficiente lottare contro le disuguaglianze sociali, si doveva governare razionalmente anche l’elemento biologico per dirigerlo, per scoprire e superare le necessità originate da «eredità» e fatalità geografiche e «razziali». L’eugenetica è un capitolo chiuso per sempre, almeno come «eugenetica delle popolazioni», come programma di miglioramento del loro livello biologico attraverso una serie di interventi preventivi (sterilizzazione) e — in casi estremi — anche di eliminazione fisica dei disabili. Ma Scaraffia non avrebbe affrontato questo studio se non fosse convinta che nel senso comune diffuso nelle società occidentali sopravvivano non pochi degli stereotipi che gli instancabili divulgatori di quella pseudo-scienza hanno diffusi per decenni: il culto della Scienza, l’aura sacrale che sempre e comunque circonda gli scienziati, il ruolo della divulgazione scientifica, la fobia dell’anormalità. Ieri era il miglioramento della stirpe pianificato e imposto dallo Stato, oggi una scelta individuale fatta in nome del benessere e della salute dei genitori e della sostenibilità della vita da parte del nascituro: sta di fatto che ai giorni nostri la nascita (o meno) di un bambino dipende — quasi sempre — dal suo bagaglio genetico. La cosa non sarebbe dispiaciuta agli apostoli dell’eugenetica.

di Roberto Pertici – PROLIFE News

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