Leopardi morì da cristiano? Pare proprio di sì
Posté par atempodiblog le 14 avril 2013
Leopardi morì da cristiano?
Napoli, giugno 1837. Un’indigestione porta in poche ore alla tomba il grande poeta. Le ultime ore di Leopardi sono avvolte dal mistero: c’era un sacerdote al suo capezzale? Secondo i documenti trovati da Il Timone, pare proprio di sì.
di Marcello D’Orta – Il Timone
E’ il 14 giugno 1837, e a Napoli infuria il colera. Antonio Ranieri, l’amico di Giacomo Leopardi, che lo ospita a vico Pero, sulla strada di Capodimonte, ha finalmente convinto il poeta a trasferirsi a Torre del Greco.
La morte di Leopardi
Le ultime ore di Giacomo sono raccontate da Antonio Ranieri. Le sue parole non possono essere confermate o smentite, non esistendo altre testimonianze scritte su quel tragico momento: «S’era oramai ai primi di giugno, e Leopardi mi mercanteggiava i giorni e l’ore. S’andrà domani, s’andrà doman l’altro (…) Si fermò, finalmente, pe’ dodici di giugno (…) lasciami passare qui il tuo nome mi disse (…) Condiscesi (…) Sopraggiunse il dì tredici (…) Si preparò ogni cosa; e Paolina ed io ne andammo un momento dal vecchio padre (…) Egli non vedeva mai la suora di carità [Paolina, la sorella di Ranieri, che fungeva da infermiera del poeta. N.d.A.], che non la empisse di dolci. Quella sera le diede, tra l’altro, due cartocci di confetti cannellini, di Sulmona.
Questi cartocci (…) pesavano una libbra e mezzo ciascuno. La suora li recò difilato al suo infermo, che n’era ghiottissimo. Il dì seguente che fu quello della grande sventura, erano stati già del tutto, in poche ore, consumati».
Paolina, dunque, “smista” i cartocci di confetti ricevuti dal padre a Giacomo, pur sapendo che non può mangiarne. I medici, infatti, glielo avevano proibito in più occasioni. E c’è di più, perché la “suora di carità”, il giorno seguente, non rifiuta al conte una doppia limonata fredda, che segue di poco «un’abbondante colazione di cioccolate» e alcuni sorsi di un brodo caldo. Giacomo comincia a sentirsi male: ha sullo stomaco un chilo e più di confetti, una tazza di cioccolata, una limonata ghiacciata e mezza scodella di brodo caldo.
Affannato chiede a Ranieri di un dottore. Il sodale corre dal dottor Mannella. In poco tempo raggiungono vico Pero, entrano in casa. Mannella, come vede il poeta, sussurra a Ranieri di andare per un prete.
Il monaco misterioso
Ranieri manda qualcuno a cercare un sacerdote.
Nell’attesa si siede al capezzale dell’amico ormai morente. Le ultime parole di Giacomo sono rivolte a lui: «Io non ti veggo più». Quindi chiude gli occhi per sempre. Sono le cinque del pomeriggio. Muore il più grande poeta lirico del mondo.
Ma torniamo al racconto di Ranieri.
Il sodale di Leopardi sostiene che il monaco arrivò a vico Pero quando ormai era troppo tardi, e questo perché non s’era trovato un prete libero. È pur vero che si era in tempo di colera e la presenza di un sacerdote era – per così dire – molto richiesta, ma è altrettanto vero che l’abitazione del Leopardi era nelle immediate vicinanze di chiese o conventi. È dunque possibile che un sacerdote sia arrivato prima che il Poeta spirasse, e forse abbia ascoltato le sue ultime parole di pentimento. Allora perché Ranieri avrebbe mentito? La risposta la diede (se dobbiamo credere alla poetessa Alinda Ripamonti, che riferisce l’accaduto) lo stesso Ranieri al giudice Alessandro Stefanucci Ala: «In confidenza e in segreto ti dirò che Giacomo mi aveva fatto giurare di chiamargli il prete, se lo vedessi in pericolo. E così fu fatto. Ed ebbe il prete e il viatico e tutti i sacramenti». Ma allora perché Ranieri non pubblicò la verità? Lo spiega sempre al magistrato: «Fossi stato un minchione! Avrei rovinato presso i liberi pensatori il Leopardi, la cui fama presso di loro era tutta nell’incredulità».
La fede di Giacomo
Fino a qualche anno fa, pendente dalla spalliera del letto di Leopardi a Villa delle Ginestre, si poteva osservare un rosario, posto lì dalla sorella di Ranieri, Paolina, nella speranza che il Poeta potesse acquistare la fede, perduta nella prima giovinezza. I Leopardi frequentavano la Chiesa, come si evince anche dai posti riservati loro (“gens leoparda”) nella chiesa di San Vito (prospiciente il palazzo Leopardi) dove fu battezzato il poeta. Giacomo aveva iniziato i suoi studi con due religiosi, il gesuita messicano don Giuseppe Torres e l’abate don Sebastiano Sanchini. Educatore fu don Vincenzo Diotallevi. Da bambino – scriveva Monaldo a Ranieri – «voleva sempre ascoltare molte messe, e chiamava felice quel giorno in cui aveva potuto udirne di più»; all’età di circa 14 anni «temeva di camminare per non mettere il piede sopra la croce nella congiunzione dei mattoni».
Indossò la veste di abatino e portò la tonsura dall’età di 12 anni a quella di 21. Nella prima giovinezza aveva una forte devozione per san Francesco di Sales, le cui sembianze aveva riprodotto in un disegno. Aveva composto anche poesie e prose di carattere sacro, e tenuto alcuni discorsi religiosi nella chiesa di San Vito (Oratorio dei nobili). Tra questi: La flagellazione, Condanna e viaggio del Redentore al Calvario, Crocifissione e morte di Cristo, “trionfo della croce”.
Questo è uno dei tanti segni che hanno fatto credere in una conversione di Giacomo Leopardi. Gli altri sono soprattutto le sue lettere (in specie quelle indirizzate al padre) nelle quali il nome di Dio compare più volte.
«Munito dei Santissimi Sacramenti»
Nell’archivio della SS. Annunziata a Fonseca (alle spalle di vico Pero) si conserva un vecchio libro dei defunti, dove sono elencati i deceduti della parrocchia dall’anno 1834 al 1835. Questo libro mi è stato mostrato dal parroco don Raffaele Pescicolo, che qui voglio ringraziare. A pago 194, tra i morti del mese di giugno compare il nome di Giacomo Leopardi. E vi si legge: «a 15 d. D. Giacomo Leopardi Conte, figlio di D. Monaldo e Adelaide Andici, di anni 38. munito de’ SS. Sag.ti, morto a 14 d. Sepolto idem, dom.to Vico Pero n°. 2». Chi sostiene la tesi che il Poeta abbia abbracciato la fede negli ultimi istanti della vita, trova conferma nella dicitura «munito dei SS. Sag.ti» (Santissimi Sacramenti). Altri sostengono che la formula «munito dei SS. Sag.ti», nell’Ottocento, era più che altro una frase convenzionale.
Fra i testimoni oculari della morte di Leopardi pare ci fosse anche il notaio Leonardo Anselmi, che dichiarò: «Mi trovai in casa Ranieri il giorno della morte del conte. Verso le 4 pomeridiane il Leopardi chiamò la sorella di Antonio Ranieri, la quale vestitasi in fretta uscì di casa e ritornò col Parroco, il quale verso le 6 pomeridiane gli portò il Viatico. La morte avvenne alle 8 o alle 9 di sera. A tutto questo mi trovai presente e mi ritirai verso mezzanotte». Ma le dichiarazioni più clamorose, perché palesemente contraddittorie, sono proprio quelle di Ranieri, che nel Supplemento alla notizia intorno alla vita ed agli scritti di Giacomo Leopardi afferma che padre Felice era entrato in casa nel momento stesso in cui spirava il poeta, e in due lettere a Monaldo (17 e 26 giugno 1837) scrive che «l’angelo, il quale Iddio ha chiamato alla sua eterna pace, ha fatta la più dolce, la più santa, la più serena e tranquilla morte» e «non senza essere stato munito e antecedentemente e allora stesso, dei più dolci conforti della nostra santa religione».
Se il cantore di Silvia abbia aperto gli occhi a Dio pochi momenti prima di chiuderli al mondo, con ogni probabilità non sapremo mai, ma è indubbio che tutta la sua produzione poetica sia intrisa di religiosità. Il nome di Dio non compare nei suoi canti, mentre i concetti di nulla, di solitudine, di smarrimento, di noia esistenziale, li impregnano. Eppure, si può affermare che Dio è presente anche in quegli stessi componimenti che lo negano. L’aspirazione a una realtà trascendente, l’ansia dell’infinito, lo sbigottimento degli spazi infiniti, l’amore per la natura, gli interrogativi cosmici, la consapevolezza che l’uomo è niente e tutto è vanità, fanno dell’opera poetica di Giacomo Leopardi una delle più alte e commoventi testimonianze religiose del nostro tempo. Questo lo sapeva bene don Giussani, che ripeteva poesie di Leopardi tutti i giorni, che accostava l’autore dell’Infinito a Pascal, che (addirittura) recitava “brani delle sue poesie come ringraziamento alla Santa Comunione”. All’indomani della morte di Giacomo Leopardi, la sorella Paolina scrisse nel suo diario: «Addio caro Giacomo, quando ci rivedremo in Paradiso?».
Possa Iddio aver esaudito il suo desiderio.
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