Le chiacchiere

Posté par atempodiblog le 30 avril 2013

Le chiacchiere dans Mormorazione chiacchieroni

In verità lo Spirito Santo non parla alle anime distratte e ciarliere, ma per mezzo delle sue tacite ispirazioni parla alle anime raccolte, alle anime silenziose. Se venisse osservato scrupolosamente il silenzio, non ci sarebbero mormorazioni, amarezze, maldicenze, chiacchiere, non verrebbe maltrattato l’amore del prossimo, in una parola molte mancanze verrebbero evitate. Una bocca silenziosa è oro puro e dà testimonianza della santità interiore.

Santa Faustina Kowalska

pettogolezzi dans Papa Francesco I

“Quando si preferisce chiacchierare, chiacchierare dell’altro, bastonare un po’ l’altro – sono cose quotidiane, che capitano a tutti, anche a me – sono tentazioni del maligno che non vuole che lo Spirito venga da noi e faccia questa pace, questa mitezza nelle comunità cristiane”, “stare zitti” e se si deve dire qualcosa, ha concluso, dirla agli interessati, a “chi può rimediare alla situazione”, ma “non a tutto il quartiere”.                                       

“La loro vita comunitaria per difendere sempre la verità, perché loro credono di difendere la verità, è sempre la calunnia, il chiacchierare… Davvero, sono comunità chiacchierone, che parlano contro, distruggono l’altro e guardano dentro, sempre dentro, coperte col muro”.                                     

“Anche noi credo che siamo questo popolo che, da una parte vuole sentire Gesù, ma dall’altra, a volte, ci piace bastonare gli altri, condannare gli altri. E il messaggio di Gesù è quello: la misericordia. Per me, lo dico umilmente, è il messaggio più forte del Signore: la misericordia”.                      

“Pensate a quella chiacchiera dopo la vocazione di Matteo: Ma questo va con i peccatori! (cfr Mc2,16). E Lui è venuto per noi, quando noi riconosciamo che siamo peccatori. Ma se noi siamo come quel fariseo, davanti all’altare: Ti ringrazio Signore, perché non sono come tutti gli altri uomini, e nemmeno come quello che è alla porta, come quel pubblicano (cfr Lc 18,11-12), non conosciamo il cuore del Signore, e non avremo mai la gioia di sentire questa misericordia!”.

Papa Francesco

Tratto da: Blog Lourdes

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Papa Francesco: vergognarsi dei propri peccati è virtù dell’umile che prepara al perdono di Dio

Posté par atempodiblog le 29 avril 2013

Vergognarsi dei propri peccati è la virtù dell’umile che prepara ad accogliere il perdono di Dio: lo ha detto Papa Francesco, stamani, durante la Messa presieduta nella Cappellina di Casa Santa Marta, alla presenza di alcuni dipendenti dell’Apsa, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica e di alcune religiose. Hanno concelebrato il cardinale Domenico Calcagno, presidente dell’Apsa, e l’arcivescovo Francesco Gioia, presidente della Peregrinatio ad Petri Sedem.
di Sergio Centofanti – Radio Vaticana

Papa Francesco: vergognarsi dei propri peccati è virtù dell'umile che prepara al perdono di Dio dans Fede, morale e teologia papafrancesco

Commentando la prima Lettera di San Giovanni, in cui si dice che “Dio è luce e in Lui non c’è tenebra alcuna”, Papa Francesco ha sottolineato che “tutti noi abbiamo delle oscurità nella nostra vita”, momenti “dove tutto, anche nella propria coscienza, è buio”, ma questo – ha precisato – non significa camminare nelle tenebre:

“Andare nelle tenebre significa essere soddisfatto di se stesso; essere convinto di non aver necessità di salvezza. Quelle sono le tenebre! Quando uno va avanti su questa strada proprio delle tenebre, non è facile tornare indietro. Perciò Giovanni continua, perché forse questo modo di pensare lo ha fatto riflettere: ‘Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi’. Guardate ai vostri peccati, ai nostri peccati: tutti siamo peccatori, tutti… Questo è il punto di partenza. Ma se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele, è giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. E ci presenta – vero? – quel Signore tanto buono, tanto fedele, tanto giusto che ci perdona”.

“Quando il Signore ci perdona fa giustizia” – prosegue il Papa – innanzitutto a se stesso, “perché Lui è venuto per salvare e perdonarci”, accogliendoci con la tenerezza di un padre verso i figli: “il Signore è tenero verso quelli che lo temono, verso quelli che vanno da Lui” e con tenerezza “ci capisce sempre”, vuole donarci “quella pace che soltanto Lui dà”. “Questo – ha affermato – è quello che succede nel Sacramento della Riconciliazione” anche se “tante volte pensiamo che andare a confessarci è come andare in tintoria” per pulire la sporcizia sui nostri vestiti:

“Ma Gesù nel confessionale non è una tintoria: è un incontro con Gesù, ma con questo Gesù che ci aspetta, ma ci aspetta come siamo. ‘Ma Signore, senti sono così…’, ma ci fa vergogna dire la verità: ‘Ho fatto questo, ho pensato questo’. Ma la vergogna è una vera virtù cristiana e anche umana… la capacità di vergognarsi: io non so se in italiano si dice così, ma nella nostra terra a quelli che non possono vergognarsi gli dicono ‘sin vergüenza’: questo è ‘un senza vergogna’, perché non ha la capacità di vergognarsi e vergognarsi è una virtù dell’umile, di quell’uomo e di quella donna che è umile”.

Occorre avere fiducia – prosegue il Papa – perché quando pecchiamo abbiamo un difensore presso il Padre: “Gesù Cristo, il giusto”. E Lui “ci sostiene davanti al Padre” e ci difende di fronte alle nostre debolezze. Ma è necessario mettersi di fronte al Signore “con la nostra verità di peccatori”, “con fiducia, anche con gioia, senza truccarci… Non dobbiamo mai truccarci davanti a Dio!”. E la vergogna è una virtù: “benedetta vergogna”. “Questa è la virtù che Gesù chiede a noi: l’umiltà e la mitezza”:

“Umiltà e mitezza sono come la cornice di una vita cristiana. Un cristiano va sempre così, nell’umiltà e nella mitezza. E Gesù ci aspetta per perdonarci. Possiamo fargli una domanda: allora andare a confessarsi non è andare a una seduta di tortura? No! E’ andare a lodare Dio, perché io peccatore sono stato salvato da Lui. E Lui mi aspetta per bastonarmi? No, con tenerezza per perdonarmi. E se domani faccio lo stesso? Vai un’altra volta, e vai e vai e vai…. Lui sempre ci aspetta. Questa tenerezza del Signore, questa umiltà, questa mitezza…”.

Questa fiducia “ci dà respiro”. “Il Signore – conclude il Papa – ci dia questa grazia, questo coraggio di andare sempre da Lui con la verità, perché la verità è luce e non con la tenebra delle mezze verità o delle bugie davanti a Dio. Che ci dia questa grazia! E così sia”.

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San Luigi Maria Grignion de Montfort

Posté par atempodiblog le 28 avril 2013

San Luigi Maria Grignion de Montfort dans San Luigi Maria Grignion de Montfort sanluigimariagrignonmon

Luigi Maria trascorre quasi tutti i primi anni e la breve infanzia a Iffendic, a pochi chilometri da Montfort, dove suo padre aveva acquistato un podere conosciuto con il nome di “Le Bois Marquer”. Secondo le persone che lo hanno conosciuto in questo primo periodo di vita, egli dà già prova di una maturità spirituale poco comune.

All’età di 12 anni entra nella scuola dei Gesuiti di S. Tommaso Becket a Rennes. Oltre a manifestarsi uno studente solerte, rafforza ora quei principi che segneranno tutta la sua vita. Un sacerdote del luogo, Julien Bellier, che racconta la propria vita di missionario itinerante, lo entusiasma alla predicazione delle missioni. Guidato da alcuni sacerdoti, incomincia a praticare una profonda devozione alla Madonna. Nello stesso tempo, sperimenta le privazioni dei poveri, manifestando un crescente affetto e una speciale attenzione per loro, in forma molto condivisa.

Durante questi anni, sente la chiamata al sacerdozio e, terminati gli studi normali, inizia la filosofia e la teologia nella stessa scuola di San Tommaso Becket a Rennes. Però, grazie a un benefattore, può completare gli studi nel celebre seminario di San Sulpizio a Parigi. Ed è per questo che sul finire del 1693, si mette in viaggio verso la capitale.

Partendo da Rennes e iniziando una nuova vita, Luigi Maria vuole fare un gesto clamoroso ma emblematico dello stile di vita che ormai intende intraprendere. La sua famiglia vuole offrirli un cavallo, ma egli lo rifiuta; sua madre gli dona un vestito nuovo e suo padre dieci scudi per i bisogni e le spese del viaggio; alcuni famigliari lo accompagnano fino al ponte di Cesson, dove la strada per Parigi passa sopra il fiume Vilaine e dove ci si scambiano gli ultimi addii. Fin qui nulla di strano. Ma passato il ponte, Luigi Maria approfitta della prima occasione per regalare i dieci scudi, cambiare il vestito nuovo con quello di un mendicante e continuare il cammino a piedi, deciso da questo momento, di vivere alla maniera dei poveri e di non contare, per le proprie necessità, che sulla Provvidenza.

Arrivando a Parigi, si accorge che il suo benefattore non aveva depositato la somma che gli avrebbe permesso di entrare almeno nella comunità chiamata “Piccolo San Sulpizio”, comunità unita al seminario principale, ma nelle stesso tempo separata e destinata ad accogliere gli studenti poveri. Deve perciò alloggiare in diverse pensioni familiari dirette dai Sulpiziani: il cibo è mediocre e molto scarso, può tuttavia seguire i corsi di teologia alla Sorbona. Mosso dal desiderio, forse esagerato, di penitenza, aggiunge mortificazioni proprie a quelle di una vita già austera. Ma dopo meno di due anni, cade ammalato piuttosto gravemente, e dev’essere ricoverato all’ospedale. Ne esce quasi per miracolo. Ma ciò che sembra ancor più miracoloso, è che, all’uscita dall’ospedale, trova riservato per lui un posto nel Piccolo Seminario di San Sulpizio, dove entra nel luglio del 1695.

San Sulpizio era stato fondato da Gian Giacomo Olier, uno dei maggiori rappresentanti della “Scuola francese di spiritualità”, nella quale si metteva l’accento soprattutto sul mistero dell’Incarnazione e sul posto di Maria nel piano divino della salvezza. Per Luigi Maria, questo è il posto ideale perché può approfondire i temi della sua spiritualità personale. Non gli era gradita invece la pratica invalsa nel seminario di promuovere tra gli studenti il senso della dignità sacerdotale mettendo il clero sul piedistallo, perché dava adito alla tentazione di “accomodarvisi” e di cedere all’orgoglio. A parte questo, il tempo trascorso a San Sulpizio, gli offre l’occasione di studiare la maggior parte delle opere di spiritualità conosciute, specialmente quelle riguardanti il posto di Maria nella vita cristiana; una ancor migliore opportunità di consultare libri gli viene offerta quando è nominato bibliotecario. In questo periodo trova anche il tempo di perfezionare l’insegnamento del catechismo, specialmente tra i giovani emarginati della parrocchia di San Sulpizio.

Finalmente arriva anche per lui il momento di essere ordinato sacerdote: giugno 1700, e di celebrare, alcuni giorni dopo, la prima messa all’altare della Madonna nella Chiesa di San Sulpizio. Ma, prima di lanciarsi nell’apostolato, rimane ancora qualche mese a Parigi.

Viene inviato ad esercitare il ministero nella Comunità di San Clemente a Nantes. Ma secondo la testimonianza delle sue lettere di quest’epoca, rimane frustrato perché non trova sufficienti occasioni per predicare come vorrebbe. Esamina diverse alternative, persino quella di farsi eremita, ma vince sempre la convinzione d’essere chiamato a “predicare le missioni ai poveri” e a fondare, a tale scopo, “una piccola compagnia di sacerdoti”, sotto lo stendardo della Santa Vergine. Dopo alcuni mesi, la Signora di Montespan, l’antica istitutrice convertita del re Luigi XIV, che aveva conosciuto a Parigi, lo persuade ad andare nell’Ospedale di Poitiers. Anche se a malincuore (perché non crede di essere fatto per “rinchiudersi in un ospedale”), accetta il posto di cappellano di quello che chiamavano “Ospedale Generale”, ma che in realtà era una specie di ricovero dove venivano richiusi i più miserabili tra i poveri, per sottrarli alla vista del pubblico. Luigi Maria si mette al loro servizio con tutto l’amore che riserva ordinariamente a questa gente. Ma le riforme che si sforza d’introdurre nella casa gli attirano le persecuzioni delle autorità interne, e cosi, verso la Pasqua del 1703, riparte per Parigi.

Questo periodo è particolarmente penoso per Luigi Maria. Tenta, all’inizio, di unirsi al gruppo di cappellani della Salpetrière, primo “Ospedale Generale” fondato da San Vincenzo de Paoli, ma dopo alcune settimane, per ragioni che non conosciamo, è invitato ad andarsene. Da questo momento incomincia un tempo nel quale è respinto da amici e conoscenti. Come era successo a molti altri privilegiati dalla Grazia, sembra che la sua santità straordinaria fosse una sfida troppo dura per le persone meno disposte a prendere il vangelo sul serio, per questo è accusato di orgoglio e di cecità.

Durante quasi un anno vive in una piccola stanza poverissima nella via Pot de Fer, senza amici e senza un preciso ministero. Ma non perde tempo: ha la possibilità di meditare più profondamente su Gesù Cristo, manifestazione della sapienza di Dio, e, probabilmente, è in quest’epoca che compone “L’Amore dell’Eterna Sapienza”.

I poveri di Poitiers però non l’hanno dimenticato, e ora gli scrivono pregandolo di ritornare. Con il consenso del vescovo, ritorna a Poitiers come Direttore dell’ “Ospedale Generale”, riprendendo la riforma dell’Istituto. Una giovane donna, Maria Luisa Trichet, che desiderava diventare religiosa e dedicarsi al servizio dei poveri, l’aiuta in questo compito. Un’altra giovane donna, Caterina Brunet, la raggiungerà poco dopo. Queste due donne, dopo lunghi anni di attesa, diventeranno le prime “Figlie della Sapienza”.

Luigi Maria continua a creare forti resistenze con le sue riforme. E trascorsi alcuni mesi, il vescovo e Maria Luisa Trichet lo convincono a lasciare l’ospedale per la seconda volta. Comincia a predicare le missioni a Poitiers e dintorni: sente che questo è il lavoro al quale Dio lo chiama. Predica una della sue prime missioni nei sobborghi miserabili di Montbernage, usando metodi che più tardi gli saranno caratteristici: invita a rinnovare le promesse del Battesimo e organizza processioni e paraliturgie viventi che attirano i cristiani come mai era successo prima di lui. Ma i suoi successi suscitano le gelosie di coloro che hanno la fiducia del vescovo, e all’inizio della Quaresima del 1706 gli arriva l’“interdetto” di predicare nella diocesi di Poitiers.

Che fare? Era convintissimo che la sua vocazione fosse di predicare le missioni al popolo e ora il vescovo gli proibiva di farlo. Concepisce il pensiero di partire le Missioni Estere, ma prima di decidere vuole chiedere un consiglio autorevole e spassionato a chi può darglielo: il Vicario di Cristo. Si mette in viaggio alla volta di Roma nelle vesti del pellegrino. Il papa Clemente XI, allora regnante, riconoscendo la sua vocazione specifica, gli raccomanda piuttosto la Francia, quale campo di azione, e lo rinvia in patria con il titolo di “Missionario Apostolico”. Per prima cosa si reca a Mont Saint-Michel per un ritiro spirituale, poi cerca in Bretagna il territorio dove impiegare le sue energie missionarie.

Chiede di essere accolto in un gruppo di missionari guidato da uno dei più celebri apostoli bretoni del tempo, il sacerdote Leuduger. Lo raggiunge a Dinan e ne diviene membro. Per alcuni mesi predica numerose missioni con il gruppo, nelle diocesi di Saint-Malo e Saint-Brieuc, una anche nella sua città natale, Montfort-sur-Meu, e altre a Plumieux La Chèze (dove restaura un’antichissima cappella in rovina dedicata alla Madonna della Pietà). Nelle città dove si svolgono le missioni, i più poveri sono sempre i preferiti e, per loro, anima numerose iniziative a fine di soccorrerli, come, ad esempio, il pranzo popolare a Dinan.

Non riesce tuttavia ad adattarsi pienamente alle abitudini poco dinamiche del gruppo e decide di lasciarlo per andare a Saint-Lazare, appena fuori di Montfort-sur-Meu, in compagnia di due Fratelli coadiutori che si erano uniti a lui. Vi trascorre quasi un anno, intento all’insegnamento del catechismo alle persone che visitano l’antico priorato e alla formazione dei due Fratelli alla vita comunitaria. Passato l’anno parte per lavorare nella diocesi di Nantes.

Predica missioni in città e dintorni per due anni, e quasi tutte hanno un grande successo e numerose conversioni. La fama del missionario si propaga ovunque e la gente semplice comincia a chiamarlo “il buon Padre di Montfort”. Per prolungare i frutti spirituali del suo lavoro e incoraggiare le persone a rimanere fedeli alla rinnovazione delle promesse battesimali, fonda confraternite e associazioni, e costruisce memorie tangibili delle missioni stesse: grandi crocifissi o, come a Pontchâteau, un calvario gigante, monumento all’amore di Dio, al quale hanno collaborato migliaia di persone.

Ma proprio questo Calvario doveva causargli molta sofferenza. La vigilia del giorno dell’inaugurazione, il vescovo ne proibisce la benedizione perché gli avevano detto che il re ne aveva ordinato la demolizione. In realtà, questa triste storia della demolizione per ordine del re era il risultato della gelosia e di una meschina vendetta; sembra che il vescovo non potesse fare altro che frenare gli “eccessi” di questo prete straordinario. Giorni dopo gli proibirà anche di predicare nella sua diocesi. Benché non sia l’unico, questo avvenimento è forse il più incomprensibile e duro per Luigi Maria, che però scorge anche qui un invito a condividere la Croce di Cristo. Non si lascia scoraggiare da questa prova, al contrario, si sente stimolato alla riflessione e alla meditazione, e consegna i suoi sentimenti a un piccolo scritto: La “Lettera agli Amici della Croce”.

Non gli era stato proibito ogni ministero nella Diocesi di Nantes, tuttavia era evidente che se voleva continuare a predicare doveva rivolgersi altrove. Invitato dal vescovo di La Rochelle, lascia Nantes nel 1711 e inizia l’ultimo periodo della sua vita, in cui predicherà missioni nelle diocesi di La Rochelle e Luçon nella regione chiamata “Vandea Militare”.

I cinque anni prima della morte, avvenuta nel 1716, sono molto intensi per Luigi Maria. Costantemente occupato a predicare missioni, si sposta a piedi da un luogo all’altro. Nonostante ciò, trova il tempo per scrivere: il “Trattato della vera devozione alla Santissima Vergine”, il “Segreto di Maria”, le “Regole della Compagnia di Maria” e delle “Figlie della Sapienza” e numerosi “Cantici” , che usava nelle missioni facendoli cantare al popolo su melodie dell’epoca. Intraprende due lunghi viaggi, uno a Parigi e l’altro a Rouen, tentando di trovare dei candidati per la sua “Compagnia di Maria”, che, mentre la sua vita volge al termine, sogna sempre più spesso. Ogni tanto si ritira in luoghi tranquilli e isolati, o nella Foresta di Mervent o nel piccolo “eremo” di Sant’Elia vicino a La Rochelle.

Le sue missioni hanno una grande influenza, soprattutto in Vandea. Si è detto che una delle ragioni, che hanno mantenuto gli abitanti di questa regione fortemente opposti alle tendenze antireligiose e anticattoliche della Rivoluzione Francese, 80 anni più tardi, è stata la loro fede illuminata dalla predicazione di san Luigi Maria. Trova però molte difficoltà a persuadere altri sacerdoti a unirsi a lui per lavorare con lui come membri della Compagnia di Maria. Finalmente, durante l’ultimo anno, due sacerdoti, René Mulot e Adrien Vatel, si uniscono a lui, più tardi anche alcuni Fratelli, che l’aiuteranno durante la missione, faranno parte del gruppo.

Il vescovo di La Rochelle, Mons. Etienne de Champflour, rimarrà sempre un grande amico per il Montfort anche quando molte persone continueranno ad opporsi o, peggio, attenteranno alla sua stessa vita. Con l’appoggio del vescovo fonda le scuole di carità per i bambini poveri di La Rochelle e invita Maria Luisa Trichet e Caterina Brunet, che da dieci anni aspettavano pazientemente a Poitiers, a venirgli in aiuto. Finalmente anche loro fanno la professione religiosa e cosi nasce la congregazione delle “Figlie della Sapienza”. Ben presto molte altre sorelle si uniranno a loro.

Nell’aprile 1716, sfinito dal lavoro e dagli stenti, Luigi Maria, arriva a Saint-Laurent-sur-Sèvre per iniziare la predicazione di una missione: sarà l’ultima. Cade ammalato durante la missione e muore il 28 aprile. Le sue ultime parole furono: “Invano mi tenti! Sono tra Gesù e Maria. Deo gratias et Mariae! Non peccherò più”. Migliaia di persone accorrono ai suoi funerali nella chiesa parrocchiale e poco dopo si sparge la voce che sulla sua tomba accadono miracoli. I due sacerdoti della Compagnia di Maria, i padri Mulot e Vatel, si ritirano a Sain-Pompain insieme con alcuni Fratelli e solo due anni più tardi riprenderanno l’opera tanto cara a Luigi Maria: la predicazione delle missioni.

Nel 1888 Luigi Maria viene beatificato da Leone XIII, e nel 1947 è canonizzato dal papa Pio XII. Le Congregazioni che ha dato alla Chiesa, la Compagnia di Maria, le Figlie della Sapienza e i Fratelli di San Gabriele (congregazione che si è sviluppata dal gruppo di Fratelli riuniti da San Luigi Maria), crescono e si propagano prima in Francia e poi in tutto il mondo. Esse continuano a testimoniare il carisma di San Luigi Maria, prolungando la sua missione, che è di stabilire il Regno di Dio, il Regno di Gesù per mezzo di Maria.

Tratto da: Enrosadira

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Persone nuove in un mondo vecchio: Gianna Beretta Molla

Posté par atempodiblog le 28 avril 2013

Persone nuove in un mondo vecchio: Gianna Beretta Molla dans Santa Gianna Beretta Molla giannaberettamolla

Monsignor Antonio Rimoldi, che a dieci anni dalla morte di Gianna Beretta Molla fu incaricato di accertarne la fama di santità, la definisce una ragazza “birichina”, con qualche problema di troppo a scuola. Nata il 4 ottobre del 1922 a Magenta (Milano), Gianna era davvero una bambina e poi un’adolescente come tante. Serena, amante della natura, del teatro e della moda, visse un’autentica conversione nel 1938 quando, dopo un corso di esercizi spirituali, decise di “fare tutto per Gesù”. La sua vita cambiò: si fece impegnata a scuola e attiva nell’apostolato. Nel frattempo aveva aderito all’Azione Cattolica e alle Conferenze di San Vincenzo.

Nonostante qualche serio problema di salute e la morte prematura di entrambi i genitori, Gianna maturò la sua vocazione professionale: dopo il
liceo, decise di iscriversi a medicina e di specializzarsi in pediatria. Nella sua scelta Gianna vedeva l’opportunità non di fare carriera, ma di
mettersi a servizio del prossimo.
Nel frattempo Gianna si interrogava sul suo stato di vita. Mentre pregava e chiedeva consiglio ai suoi direttori spirituali, si preparava a partire come missionaria laica in Brasile, dove due fratelli operavano come sacerdoti. Ma il Signore sconvolse i suoi piani:  nel 1954 Gianna strinse amicizia con l’ingegner Pietro Molla e l’anno successivo i due si fidanzarono e si sposarono.

Gianna scoprì la gioia dell’amore coniugale, la bellezza di donarsi ad un altro gareggiando con lui nelle lodi reciproche, nel servizio vicendevole, nella tenerezza. Non più giovanissimi, i due sposi cercarono subito la prima gravidanza: nacque così Pierluigi, seguito da Mariolina e Laura. Nonostante due aborti spontanei, Gianna e Pietro non si rassegnavano e continuavano ad aprirsi alla vita. Nell’agosto del 1961 Gianna scoprì di essere nuovamente incinta ma il mese successivo dovette essere operata per un fibroma all’utero. Da buon medico, la donna sapeva bene che il parto sarebbe stato particolarmente rischioso. Tuttavia portò a termine la gravidanza con la lieta operosità di sempre, affidandosi alla preghiera. Pochi giorni prima della fine della gravidanza chiese esplicitamente al marito: “Se dovete decidere fra me e il bimbo, nessuna esitazione; scegliete, e lo esigo, il bimbo. Salvate lui”. Il 20 aprile 1962, sabato santo, Gianna diede alla luce Gianna Emanuela con parto cesareo. In quelle condizioni fu impossibile evitare una pericolosa infezione che, degenerando in peritonite, condannò la mamma alla fine. Gianna non volle morfina per rimanere lucida sino alla fine e si spense tra atroci dolori il 28 aprile.

Con la sua morte questa madre imitò perfettamente Gesù, che “avendo amato i suoi, li amò sino alla fine”. Dopo due miracoli ottenuti per sua intercessione a favore di due gestanti e i loro bambini in Brasile, proprio dove la donna avrebbe voluto spendersi come missionaria, Gianna è stata dichiarata santa da Papa Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004.

Fonte: Radio Maria

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Preghiera a San Luigi Maria Grignion de Montfort

Posté par atempodiblog le 28 avril 2013

Preghiera a San Luigi Maria Grignion de Montfort

Preghiera a San Luigi Maria Grignion de Montfort dans Preghiere sanluigimariamontfort

O grande apostolo del regno,
tu che insegnasti come segreto di santità
la via perfetta di Maria, “a Gesù per Maria”,
la via stessa voluta da Dio per venire a noi
e ricondurci a Lui,
ottieni  anche a noi la grazia di praticare
la vera devozione alla Madonna,
affinché guidati e sorretti da Lei,
nostra Madre e Mediatrice,
possiamo crescere nella carità e nella fede
per raggiungere la salvezza.

Apostolo della Croce,
il non avere croci era per te
la croce maggiore;
intercedi per noi la perseveranza
nelle tribolazioni,
lo spirito di sacrificio e di servizio
che ci rendono simili al Cristo Crocifisso.

Evangelizzatore instancabile,
infondi anche in noi quello spirito missionario
che ti spinse a lavorare
con passione e con gioia
per costruire ovunque il Regno di Dio.

Padre dei poveri, dei malati e dei diseredati,
che vedesti negli ultimi l’immagine
di Gesù Cristo,
ottienici la vera carità affinché
possiamo soccorrere
i nostri fratelli nelle loro difficoltà.

San Luigi Grignion de Montfort,
prega per noi!

Tratta da: Comunità Cenacolo

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Papa Francesco: lo Spirito crea nella Chiesa comunità aperte e non gruppi chiusi

Posté par atempodiblog le 27 avril 2013

“Guardare Gesù che ci invia a evangelizzare, ad annunciare il suo nome con gioia”. E’ l’esortazione di Papa Francesco che, questa mattina durante l’omelia nella Domus Sanctae Marthae, in Vaticano, ha anche ribadito che non dobbiamo aver “paura della gioia dello Spirito”, via per vincere la chiusura in “noi stessi”. Hanno partecipato alla Messa con il Papa, i dipendenti del servizio Poste Vaticane e del Dispensario pediatrico Santa Marta.
di Massimiliano Manichetti – Radio Vaticana

Papa Francesco: lo Spirito crea nella Chiesa comunità aperte e non gruppi chiusi  dans Mormorazione papafrancescco

“Sembrava che questa felicità non sarebbe mai stata vinta”. Così il Papa commentando l’affidamento in Cristo della comunità dei discepoli, riuniti ad Antiochia per ascoltare la parola del Signore, ricordato oggi negli Atti degli Apostoli. Poi, la domanda di Papa Francesco sul perché la comunità dei “giudei chiusi”, “un gruppetto”, “persone buone”, furono ricolmi di gelosia nel vedere la moltitudine dei cristiani e incominciarono a perseguitare:

“Semplicemente, perché avevano il cuore chiuso, non erano aperti alla novità dello Spirito Santo. Loro credevano che tutto fosse stato detto, che tutto fosse come loro pensavano che dovesse essere e perciò si sentivano come difensori della fede e incominciarono a parlare contro gli Apostoli, a calunniare… La calunnia… E sono andati dalle pie donne della nobiltà, che avevano potere, gli hanno riempito la testa di idee, di cose, di cose, e le spingevano a parlare ai loro mariti perché andassero contro gli Apostoli. Questo è un atteggiamento di questo gruppo e anche di tutti i gruppi nella storia, i gruppi chiusi: patteggiare col potere, risolvere le difficoltà ma ‘fra noi’… Come hanno fatto quelli, la mattina della Resurrezione, quando i soldati sono andati a dir loro: ‘Abbiamo visto questo’… ‘State zitti! Prendete…’. E con i soldi hanno coperto tutto”.

“Questo è proprio l’atteggiamento di questa religiosità chiusa”, ha spiegato il Papa, “che non ha la libertà di aprirsi al Signore”:

“La loro vita comunitaria per difendere sempre la verità, perché loro credono di difendere la verità, è sempre la calunnia, il chiacchierare… Davvero, sono comunità chiacchierone, che parlano contro, distruggono l’altro e guardano dentro, sempre dentro, coperte col muro. Invece la comunità libera, con la libertà di Dio e dello Spirito Santo, andava avanti, anche nelle persecuzioni. E la parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. E’ proprio della comunità del Signore andare avanti, diffondersi, perché il bene è così: si diffonde sempre! Il bene non si corica dentro. Questo è un criterio, un criterio di Chiesa, anche per il nostro esame di coscienza: come sono le nostre comunità, le comunità religiose, le comunità parrocchiali? Sono comunità aperte allo Spirito Santo, che ci porta sempre avanti per diffondere la Parola di Dio, o sono comunità chiuse, con tutti i comandamenti precisi, che caricano sulle spalle dei fedeli tanti comandamenti, come il Signore aveva detto ai Farisei?”.

“La persecuzione incomincia proprio per motivi religiosi e per la gelosia”, ha detto Papa Francesco, ma non solo “i discepoli erano pieni di gioia di Spirito Santo”, “parlano con la bellezza, aprono strade”:

“Invece la comunità chiusa, sicura di se stessa, quella che cerca la sicurezza proprio nel patteggiare col potere, nei soldi, parla con parole ingiuriose: insultano, condannano… E’ proprio il suo atteggiamento. Forse si dimenticano delle carezze della mamma, quando erano piccoli. Queste comunità non sanno di carezze, sanno di dovere, di fare, di chiudersi in una osservanza apparente. Come Gesù gli avete detto: ‘Voi siete come una tomba, come un sepolcro, bianco, bellissimo, ma niente di più’. Pensiamo oggi alla Chiesa, tanto bella: questa Chiesa che va avanti. Pensiamo ai tanti fratelli che soffrono per questa libertà dello Spirito e soffrono persecuzioni, adesso, in tante parti. Ma questi fratelli, nella sofferenza, sono pieni di gioia e di Spirito Santo”.

“Guardiamo Gesù che ci invia a evangelizzare, ad annunciare il suo nome con gioia, pieni di gioia”, ha concluso il Papa, sottolineando che non bisogna aver “paura della gioia dello Spirito”, così da non “chiuderci in noi stessi”.

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Umiltà

Posté par atempodiblog le 27 avril 2013

Umiltà dans Citazioni, frasi e pensieri santateresaverzeri

“Chiudete possibilmente l’occhio sul difetto altrui e fissatelo sulle sue virtù. Chi è veramente umile trova in tutti qualcosa da ammirare e da imitare; e quel male che non può solo vedere, lo sa compatire senza meravigliarsene, trovando sé stessa capace di un male maggiore”.

Santa Teresa Eustochio Verzeri

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Dipingere il proprio ritratto

Posté par atempodiblog le 27 avril 2013

Dipingere il proprio ritratto dans Citazioni, frasi e pensieri pimbolipittoredipinge

Voi accusate il prossimo d’orgoglio; ma vi dimostrate voi medesimo orgoglioso;  perché se foste umile non sentenziereste degli altri… “Tizio è imprudente”, voi dite, e non vi accorgete che accusate voi medesimo, mettendo in mostra quanta sia la vostra imprudenza nell’assalirlo. “Caio è ingiusto”, voi andate dicendo, ma dov’è la vostra giustizia nel biasimarlo? Chi vi ha stabilito giudice?  “Quel tale si abbandona all’intemperanza”, voi dite; ma vi è forse cosa più intemperante o intemperanza più odiosa di quella della lingua malèdica? Voi accusate ora questo ora quello di mancanza di carità; ma nessuno ne mostra così poca come il mormoratore. Voi dipingete il vostro ritratto.

Cornelio a Lapide

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Il mio Papa gesuita

Posté par atempodiblog le 26 avril 2013

Il mio Papa gesuita
Ruini giudica l’inizio di Francesco. La burocrazia no, ma la chiesa istituzione è necessaria. Serve una curia nuova per un migliore esercizio del primato petrino
di Marco Burini – Il Foglio

Il mio Papa gesuita dans Articoli di Giornali e News papafrancesco

Quello che è successo alla chiesa in questi due mesi resterà nella storia. E se c’è qualcuno che ha fatto la storia della chiesa negli ultimi decenni è il cardinale Camillo Ruini. Per questo gli abbiamo chiesto un parere. Come possiamo leggere il passaggio tra la rinuncia di papa Benedetto e l’elezione di Papa Francesco: si tratta davvero di una transizione epocale? L’istituzione papato sta forse cambiando, e in che direzione? “Non parlerei proprio di transizione epocale. Anzitutto perché non amo le espressioni enfatiche, ma poi ci sono motivi più sostanziali. L’elezione di un papa extraeuropeo, e in particolare latinoamericano, è indubbiamente una novità di grande significato. C’è il nuovo stile di Papa Francesco così semplice e immediato, vorrei dire affettuoso, e ulteriori novità probabilmente emergeranno. Ma la sostanza del compito del successore di Pietro rimane. Anzi, con l’elezione di Bergoglio il papato ha dato una nuova conferma della sua straordinaria attualità: pensiamo solo all’impoverimento che subirebbero le capacità comunicative e missionarie della chiesa nell’odierno mondo della comunicazione se non ci fosse la figura del Papa”.

La luna di miele con i media per intanto regge, ma non potrà durare a lungo; anche perché il nuovo Papa ha già avvertito che la chiesa “non è una ong pietosa”. Mentre gli ambienti tradizionalisti sono in allarme. Roberto de Mattei sul Foglio ha scritto che con la rinuncia di Ratzinger rimane “profondamente ferita la stessa costituzione del papato”. “La rinuncia di Benedetto XVI ha colto tutti di sorpresa e ha suscitato dolore e preoccupazione – osserva Ruini – Non si può però parlare in alcun modo di ferita alla costituzione del papato. E oggi ci rendiamo meglio conto di come quella decisione sia stata feconda di bene”.

Come interpreta la prima vera mossa politica di Papa Francesco, la nomina di un gruppo di otto cardinali “per consigliarlo nel governo della chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della Costituzione apostolica ‘Pastor bonus’ sulla curia romana” (così il comunicato ufficiale)? In prospettiva cosa può comportare nell’assetto istituzionale? “Questa nomina è un passo importante per l’attuazione più concreta della collegialità dei vescovi, insieme al primato di Pietro. Un suggerimento del genere era già emerso dalle congregazioni dei cardinali prima del Conclave e Papa Francesco l’ha subito raccolto e realizzato. La riforma della ‘Pastor Bonus’ (Costituzione apostolica promulgata da Giovanni Paolo II il 28 giugno 1988, ndr) sembra anche a me molto importante e potenzialmente utile, sebbene non sia un esperto in questo campo. La linea di fondo, secondo me, dovrebbe essere questa: più collegialità non per meno primato ma per un miglior esercizio del primato”.

Come giudica l’assenza da questo gruppo di un vescovo italiano residenziale: è un altro segnale del ridimensionamento della chiesa italiana, già provata dal cosiddetto Vatileaks? E il passaggio da Ratzinger a Bergoglio non ratifica di fatto la fine della centralità della chiesa europea? “Sono chiacchiere poco significative – ribatte l’ex capo della Cei – Infatti la chiesa cattolica è per sua natura universale. E in essa per tutti i popoli e i continenti ci dev’essere pieno spazio e valorizzazione. Come ho detto anche prima del conclave nelle congregazioni generali, non ha alcuna importanza che il prossimo Papa sia italiano o non italiano, europeo e non europeo. Ciò che conta è che venga scelto il candidato migliore per il compito”. E i vescovi italiani? “Sono profondamente contenti e la questione della nazionalità non li tocca minimamente. La sorpresa ci fu con Wojtyla, che era il primo straniero dopo secoli, ma poi con Ratzinger e adesso con Bergoglio si è trattato di una cosa pacifica. Anzi, l’entusiasmo della gente è condiviso dai vescovi”.

La chiesa nelle sue strutture e nei suoi riferimenti ha avuto per secoli il baricentro in Europa, ma adesso l’asse si sta spostando. “In realtà questo è un fenomeno planetario, che certamente riguarda anche la chiesa – precisa Ruini – Oggi siamo nel mondo globalizzato, che poi corrisponde all’essenza del cattolicesimo, a sua volta universale. In questo senso, molti hanno osservato che la chiesa ha anticipato a suo modo la globalizzazione; per sua natura è mandata infatti fino agli estremi confini della terra, e in tutti i tempi”.

Nelle congregazioni generali, prima del conclave, Bergoglio aveva conquistato i cardinali con un intervento schietto: “Quando la chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diviene autoreferenziale e allora si ammala. I mali che affliggono le istituzioni ecclesiastiche hanno una radice nell’autoreferenzialità, in una sorta di narcisismo teologico”. In effetti il suo bersaglio polemico è sempre stato la “mondanità spirituale”. Ha dichiarato che il peccato più brutto è la superbia, il “credersela”. Ma al di là dell’esempio di sobrietà che lui sta dando personalmente, come è possibile combattere l’elefantiasi burocratica che paralizza la chiesa? Lei, come presidente della Cei, che esperienza ha avuto in questo senso? “Il rischio denunciato da Papa Francesco è reale ed è sempre in agguato – riconosce Ruini – Anch’io, negli anni in cui sono stato alla Cei, ho dovuto fare i conti con questo problema e cercare di contrastarlo, con esiti più o meno efficaci. Certo è un rischio che corrono tutte le istituzioni. Le istituzioni in realtà sono necessarie, ma il pericolo dell’autoreferenzialità è reale”. Oggi più di prima. E dunque è ancora più urgente l’esigenza di un’istituzione leggera, flessibile. Come mai tanti preti si riducono a fare i funzionari invece che predicare il Vangelo? “Sono d’accordo sull’esigenza di concentrare i pochi sacerdoti che abbiamo soprattutto nella pastorale”. Il fatto è che non basta la buona volontà, nemmeno quella del Papa. Ci vorrebbe una riforma istituzionale… “Direi che bisogna alleggerire, anche numericamente, le strutture diocesane, oltre che la curia romana. In queste strutture spesso resiste l’idea che la pastorale si faccia attraverso grandi progetti, convegni, e metodologie. In realtà sono questioni secondarie, che producono poco. Ci vuole dunque un serio ridimensionamento, e credo sia possibile: se in una curia invece di tenere venti preti se ne tengono cinque, come si faceva una volta, gli altri si possono mandare sul territorio. Le parrocchie italiane, bene o male, sono ancora abbastanza coperte, ma ci sono altri ambiti della pastorale, penso alla sanità o all’educazione, piuttosto scoperti. Si tratta di avere delle priorità chiare”.

Tra le priorità di Bergoglio c’è senza dubbio la politica nel senso nobile del termine, montiniano (“La forma più alta di carità”). Nel discorso tenuto in occasione del bicentenario dell’indipendenza argentina, il 16 ottobre 2010 (ora pubblicato da Jaca Book con il titolo “Noi come cittadini noi come popolo”), l’arcivescovo di Buenos Aires elabora un pensiero organico per una cittadinanza “in seno a un popolo”, una vera e propria “teologia del popolo”. Ruini dice di “aver letto con interesse il libro intervista con Papa Francesco di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti. Specialmente nell’ultima parte, commentando il poema nazionale ‘El gaucho Martín Fierro’, si vede quanto Papa Francesco sia argentino. Un amore per la patria che noi italiani spesso non abbiamo”. Le vicende di questi giorni sembrano confermarlo. Ma la chiesa italiana come deve muoversi? “La chiesa ha il compito di educare il popolo. Il patriottismo italiano è sempre stato piuttosto debole, anche perché gli italiani sono molto partigiani, a partire dai guelfi e dai ghibellini. Siamo tutti un po’ fatti così. C’è stata, poi, la Questione romana che ha scavato un fossato, ormai fortunatamente colmato, tra la chiesa e lo stato italiano. In Italia, inoltre, domina ancora, in buona misura, l’idea francese di laicità che tende a escludere qualsiasi rilevanza pubblica della religione. Oggi comunque siamo costretti a cercare un minimo di solidarietà e di fiducia e in ciò la chiesa può essere di grande aiuto, anche attraverso gli esempi concreti di solidarietà che un po’ dappertutto fornisce”.

Tornando al discorso del bicentenario argentino, Bergoglio critica con forza “l’individualismo consumistico che unicamente chiede, esige, domanda, critica, moraleggia e, incentrato su se stesso, non aggrega, non scommette, non rischia, non ‘si mette in gioco’ per gli altri”. Questo sfondo può forse aiutare a capire l’insistenza di papa Francesco sui poveri, le periferie, gli ultimi, ecc. Negli ambienti conservatori, però, si sostiene l’equivalenza di fatto fra questa teologia del popolo e la teologia della liberazione. “Negli anni Settanta – ricorda il cardinale – ho tenuto dei corsi monografici, a Reggio Emilia e Bologna, sulla teologia della liberazione, che allora era di moda anche da noi. Così ho studiato un poco anche la teologia argentina, ad esempio del gesuita Juan Carlos Scannone (che è stato insegnante di Bergoglio, ndr). Già allora questa teologia era riconosciuta come essenzialmente diversa, perché non basata sull’analisi marxista della società ma sulla religiosità popolare. Assimilare oggi l’insistenza di Papa Francesco sulla povertà e sulla vicinanza ai poveri alla teologia della liberazione è del tutto fuori luogo. Si tratta invece, semplicemente, di fedeltà a Gesù e al Vangelo”. Anche il grande teologo gesuita Bernard Lonergan era stato molto duro sulla deriva liberista. “Certamente avrebbe letto la crisi economica del 2009 con gli stessi occhi del 1929. Lonergan condannava l’egoismo collettivo. Aveva imparato da un altro suo grande maestro John Henry Newman che ‘il male più sottile non esiste nelle azioni ma sul livello di disposizione a praticarlo, come ad esempio nel caso dell’avarizia’. Molto forte in quegli anni fu la sua critica verso l’irresponsabilità dei grandi leader che hanno in mano le sorti del mondo. Una lezione attuale la sua pensando alla nostra globalizzazione selvaggia”, ha detto pochi anni fa un suo discepolo, il teologo gesuita Michael Paul Gallagher. “Lonergan l’ho avuto come professore in Gregoriana nel ’53-’54, quindi parecchi anni dopo la crisi del ’29. Ho studiato molto i suoi libri filosofici e teologici fondamentali ma non ho avuto modo di studiare i suoi scritti sulle questioni economiche”. Resta il fatto che l’insistenza sulle periferie e sugli ultimi non è una questione sociologica ma squisitamente teologica. Il che non vuol dire disincarnata. “Certamente – conviene Ruini – Non è una questione partitica o ideologica ma di riconoscimento concreto del valore di ogni persona umana”.

Anche sulla questione antropologica Bergoglio è del tutto consapevole, basta sfogliare il suo colloquio con il rabbino di Buenos Aires Abraham Skorka (“Il cielo e la terra”, Mondadori). La chiarezza sui contenuti, però, è accompagnata da un limpido metodo dialogico. In questo stile quanto conta la formazione gesuitica? “Papa Francesco appare costantemente fedele al metodo dialogico e al tempo stesso molto preciso e puntuale sui temi teologici e antropologici. Questa è la migliore tradizione dei padri gesuiti che ho conosciuto negli anni 1949-’57 in cui sono stato loro discepolo in Gregoriana. Bergoglio mi ricorda i padri che conobbi allora: persone estremamente semplici e di vita addirittura spartana, Lonergan compreso, eppure a volte di valore internazionale”. Ma non è un paradosso che proprio ora che la modernità, di cui i gesuiti sono stati i precettori, è finita, la chiesa si affidi a un gesuita e non, ad esempio, al figlio di uno dei movimenti ecclesiali nati nel dopo Concilio? “Ratzinger è, per così dire, molto benedettino, ma ciò non significa che il suo riferimento fosse l’Alto medioevo. Certo, il fatto che Francesco sia il primo Papa gesuita è una novità, ma una novità che direi ‘normale’”.
Bergoglio si è presentato come il vescovo di Roma e su questo ha invitato a concentrare lo sguardo. Come coniugare il primato petrino con la collegialità oggi, cioè non con formule astratte ma nella pratica? In questo tema si può inserire anche il suo rilancio del concilio contro coloro che lo trattano come “un monumento che non dia fastidio” o “le voci che vogliono andare indietro”. “Il Vaticano II deve ancora sprigionare molte delle sue potenzialità – ammette Ruini – Papa Francesco ha fatto molto bene a sottolineare che bisogna andare avanti e non indietro nella sua attuazione. Ciò non contrasta con l’ermeneutica della riforma nella continuità che è la grande lezione di Benedetto XVI. Quanto al modo di coniugare primato e collegialità, un passo pratico è la costituzione del gruppo di otto cardinali di cui si parlava. Per parte mia, non sono un esperto di formule giuridiche e canoniche, posso solo dire che la strada migliore mi sembra quella di cercare di fare sintesi tra l’ecclesiologia del primo millennio, quando prevaleva la collegialità, e l’ecclesiologia del secondo millennio, nel quale invece è stato posto l’accento sul primato, conservando il meglio di entrambe e cercando di adattarle alla realtà di oggi. E’ un’opera grande che richiede del tempo e procederà per tentativi e aggiustamenti. Non credo che ci si fermerà al gruppo degli otto, ma per ora non saprei dire di più”.

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Darmian miglior incontrista d’Europa

Posté par atempodiblog le 26 avril 2013

Toro, l’oro è in casa: Darmian miglior incontrista d’Europa
Il terzino, incoronato dalle statistiche, è al top nei primi cinque campionati del vecchio continente
Fonte: ToroNews

Darmian miglior incontrista d'Europa dans Sport 91m

Matteo Darmian miglior incontrista d’Europa. Questi i dati emersi da un recente studio statistico di whoscored.com.Il ventitreenne terzino in forza al Toro è risultato il migliore come tackles per partita (5.3) nei cinque principali campionati europei.

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GRANDI NUMERI - Darmian è un grande intercettatore, dato che le sue percentuali sono altissime anche in questo ambito: 2.1 (sempre a partita) in 26 presenze. Il dato curioso è che anche nel liberare l’area Darmian risulta uno dei migliori, 4.5 a partita. Il risultato finale di WhoScored è di 7.15 (tutte le statistiche si basano sulle sole gare di campionato).

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Mounier, la fede si fa esperienza

Posté par atempodiblog le 25 avril 2013

Mounier, la fede si fa esperienza
di Giovanni Fighera – La nuova Bussola Quotidiana
Mounier, la fede si fa esperienza dans Emmanuel Mounier emmanuelmounier
Emmanuel Mounier (1905-1950) è un grande intellettuale cattolico francese, cui si deve la pubblicazione della rivista Esprit e dell’opera Il personalismo (1949). È uno dei maggiori interpreti del Personalismo, che non è una filosofia, a suo dire, ma si batte contro «tutto ciò che si oppone alla realizzazione del compito personale. Si caratterizza in tal modo polemicamente come “anti-ideologia”». Così, proprio nel secolo dominato dall’individualismo e dalle ideologie, Mounier riflette sul fatto che l’uomo non è un individuo solo e irrelato, isolato e autoreferenziale, né tantomeno un ingranaggio del sistema o una marionetta gestita da un apparato ideologico, ma è persona in relazione con gli altri uomini e con Dio.

Le lettere di Mounier ci documentano la viva esperienza della presenza di Cristo nella sua vita. Pochi testi letterari sono una testimonianza così limpida della verifica del «centuplo quaggiù», di quello sguardo nuovo sulla realtà che non è l’eliminazione dei problemi o della sofferenza, ma si traduce in quella «perfetta letizia» di cui parla san Francesco. Allora anche il male può essere guardato diversamente. Il mistero del dolore, della sofferenza e della malattia trova solo in Cristo una plausibile risposta.

Il 25 maggio 1928, rivolgendosi a J. Chevalier, in seguito alla morte di un amico, scrive: «Il giorno della morte del mio amico […] ha portato in primo piano, tra i miei pensieri, tutto il dramma di una vita che aveva in sé il dramma di una famiglia, di una generazione, di un’umanità. Ne ho ricevuto un tale arricchimento che, nonostante l’irreparabile, ci sono delle ore e delle settimane che non vorrei non aver vissuto. E penso che sia proprio questo che manca soprattutto a quelle anime tronfie di professori: il sacrificio accettato spontaneamente, o la prova, […]. La nozione stessa, la nozione concreta della miseria umana (come della sua vera grandezza): non conoscono l’ospedale se non dall’interno delle loro commissioni d’igiene».

Mounier è consapevole che solo nell’esperienza si può arrivare alla verità della vita, non stando «di fuori», non nella retorica e nei bei discorsi, non nella dottrina disincarnata. Scrive, infatti: «Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne. Questa sera ho la consapevolezza che non difendo una posizione…» (dalla lettera del 3 gennaio 1933). Nel contempo, però, «non resta che una cosa: pregare, perché le tenebre non si confondano con la luce» (dalla lettera del 25 gennaio 1933).
Mounier non crea, però, una morale del «sacrificio per il sacrificio», «un’etica della sofferenza per la sofferenza»; infatti a Paulette Leclerq, che diventerà la sua futura moglie, attesta: «Accettare la volontà di Dio non significa umanizzare l’amore soprannaturale della sofferenza e della rinuncia, significa invece accettarla in qualsiasi modo essa si manifesti, anche se dovesse essere conforme ai miei desideri umani; nemmeno il sacrificio deve venire prima; bisogna essere preparati a tutto, anche alla felicità. È in questo modo che si santifica la felicità» (lettera del 12 febbraio 1933).

Quando, poi, scoppiata già la guerra, si ammala la piccola e amata figlia Francoise, il suo cuore si spalanca alla rivelazione del Mistero in qualunque modo esso si manifesti sino all’attesa del miracolo della guarigione. L’1 marzo 1940 Mounier scrive all’amico J. Leclerq: «Amavamo la felicità tanto più desiderata in quanto non era solo felicità. Ci è stata chiesta una rinuncia un po’ brutale […]. È certo che ne usciremo più arricchiti. Forse con una specie di felicità, forse con la sventura (non lo possiamo prevedere), ma più ricchi. E se avremo la felicità, Francoise guarita o qualche altra cosa, ce ne serviremo con più delicatezza».

Emergono da quanto detto un senso di dipendenza dal Mistero, più grande di noi, che fa tutte le cose, una tenerezza che abbraccia tutto senza pretese di dare risposte immediate, ma con «la delicatezza» della domanda e dell’attesa, non della pretesa. Così, quando la situazione della figlia si aggrava, questa stessa pura domanda sembra già spalancarsi su un abbozzo di risposta: «Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia?» (lettera del 20 marzo 1940 alla moglie Paulette).

L’atteggiamento di domanda e di preghiera si fa offerta: «Non dobbiamo pensare al dolore come a qualcosa che ci viene strappato, ma come qualcosa che noi doniamo, per non demeritare del piccolo Cristo che si trova in mezzo a noi, per non lasciarlo solo ad agire col Cristo. Non voglio che si perdano questi giorni, dobbiamo accettarli per quello che sono: giorni pieni d’una grazia sconosciuta».

Questo è l’atteggiamento più umano, anche di fronte alla malattia e alla sofferenza: domandare che nulla vada perduto, che nessun giorno sia sciupato. Così, anche nella stanchezza, una calma pervade il cuore nella percezione e speranza di una positività ultima. L’11 aprile, dunque, rivolge alla moglie queste parole: «Sento come te una grande stanchezza e una grande calma mescolate insieme, sento che il reale, il positivo sono dati dalla calma, dall’amore della nostra bambina che si trasforma dolcemente in offerta, in una tenerezza che l’oltrepassa, che parte da lei, ritorna a lei, ci trasforma con lei, e che la stanchezza appartiene soltanto al corpo che è così fragile per questa luce e per tutto ciò che c’era in noi di abituale, di possessivo, con la nostra bambina che si consuma dolcemente per un amore più bello. Dobbiamo essere forti con la preghiera, l’amore, l’abbandono, la volontà di conservare la gioia profonda nel cuore».

Quando, poi, muore la piccola Francoise, in risposta a quanti sostengono che sia capitata loro una grande disgrazia,  Mounier attesta: «Invece non si tratta di una disgrazia: siamo stati visitati da qualcuno molto grande. Così non ci siamo fatti delle prediche. Non restava che fare silenzio dinanzi a questo nuovo mistero, che poco a poco ci ha pervaso della sua gioia […]. Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi ad un altare, a qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso un segno. Ho avvertito una tristezza che mi toccava profondamente, ma leggera e come trasfigurata. E intorno ad essa mi sono posto, non ho altra parola, in adorazione. Certamente non ho mai conosciuto così intensamente lo stato di preghiera come quando la mia mano parlava a quella fronte che non rispondeva, come quando i miei occhi hanno osato rivolgersi a quello sguardo assente […]. Mia piccola Francoise, tu sei per me l’immagine della fede. Quaggiù, la conoscerete in enigma e come in uno specchio».

Mounier conserva questo sguardo di misericordia e di tenerezza, non perché censura il male o il dolore, o smetta di desiderare la felicità, ma perché riconosce la presenza amorevole di Gesù in ciò che gli accade.

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Preghiera quotidiana alla Madonna dell’Arco

Posté par atempodiblog le 25 avril 2013

Preghiera quotidiana alla Madonna dell'Arco dans Preghiere Maria-Santissima-dell-Arco

O Maria, accoglimi
sotto il Tuo Arco potente e proteggimi!
Invocata con questo titolo da oltre cinque secoli,
Tu spieghi aperto e solenne l’affetto di Madre,
la potenza e la misericordia di Regina verso gli afflitti.
Io, pieno di fede, così Ti invoco:
amami come Madre,
proteggimi come Regina,
solleva i miei dolori,
o Misericordiosa!

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Medjugorie a Milano: diecimila fedeli davanti alla Madonna

Posté par atempodiblog le 24 avril 2013

Medjugorie a Milano: diecimila fedeli davanti alla Madonna
La giornata di preghiera con i veggenti raduna alla Fiera un popolo semplice e silenzioso. Ma ricco di amore
di Maurizio Caverzan – Il Giornale
Tratto da: Ascolta tua Madre

Non c’è il pienone previsto nell’immensa sala della Fiera Rho di Milano. La Protezione civile stima in diecimila i presenti, eppure l’elenco delle comunità chiamate dal palco una per una è infinito, da quella «di Busto Arsizio» al «gruppo della Calabria», dalla «gente di Padova» al «gruppo della Liguria».

Medjugorie a Milano: diecimila fedeli davanti alla Madonna dans Antonio Socci medjugorjegospafierarho

È un’Italia sommersa, un popolo semplice, lontano dalle mode, in prevalenza donne, ma anche anziani, giovani e bambini. «È quella che, per distinguerla dalla gente dei media, don Giussani chiamava “la gente gente”», racconta Antonio Socci, autore di «Mistero Medjugorje» (Piemme, 2005). «I giornali e le televisioni di sono pieni della manifestazione dei grillini davanti al Parlamento. Ma di queste migliaia di persone scriveranno in pochi. I riflettori sono già tutti occupati da quelli che frequentano il web e i social network, da quelli che protestano nelle piazze». Socci ha appena terminato la sua struggente testimonianza di fede provata dalla sofferenza per l’arresto cardiaco che il 12 settembre 2009 ha colpito all’improvviso la figlia Caterina. Dopo anni di dolore e tra molti sacrifici Caterina sta sorprendentemente ritornando a una vita più sostenibile. Dopo Socci è il momento di Jakov Colo, uno dei veggenti, padre di tre figli. «Non venite a Medjugorje per parlare con noi, per assistere a fenomeni strani, per provare emozioni – dice Jakov – Venite per convertirvi. Il pellegrinaggio vero comincia quando iniziate la strada del ritorno a casa. Offrite il digiuno e la penitenza per la fine delle guerre e la guarigione dei malati».
La giornata è iniziata alle nove del mattino e si prolunga con un programma fitto di canti, preghiere e testimonianze fino alle nove della sera. Dopo la messa del pomeriggio è attesa l’apparizione della «figura femminile luminosa» che fin dal 24 giugno 1981 i veggenti, allora sei ragazzi, hanno cominciato a riconoscere come la Madonna, «Regina della pace». Da allora, un tempo lunghissimo, continua ad apparire. «È il tempo in cui Dio dimostra la sua pazienza», risponde padre Ljubo Kurtovic. Sopra il palco si legge il testo del messaggio del 25 agosto 2002: «Soltanto nella fede la vostra anima troverà la pace e il mondo la gioia». Il raduno è organizzato da Mir i Dobro (Pace e bene), una Onlus che opera in Bosnia e chiede di devolvere il 5 per mille per le adozioni a distanza e l’accoglienza agli orfani di guerra. Alle 12, ecco il collegamento con Piazza San Pietro per l’Angelus di Papa Francesco. «La giovinezza bisogna metterla in gioco per i grandi ideali», esorta Bergoglio. «Domanda a Gesù che cosa vuole da te e sii coraggioso», invita parlando dei dieci sacerdoti ordinati in mattinata. Anche alla Fiera Rho di Milano scrosciano gli applausi. «Grazie tante per il saluto, ma salutate Gesù», sembra rispondere Francesco.
Qui si susseguono i canti di una devozione forse ingenua – «Gesù mi ama, Gesù ti ama, Gesù ci ama»; «Non si va in cielo in minigonna, perché in cielo c’è la Madonna» a volte accompagnati da un violino tzigano, altre volte da movimenti ritmati cui non si sottraggono anche persone di terza età. Canti che saranno magari il segno di un cristianesimo semplice e tradizionale. Che però, senza intellettualismi, sa parlare direttamente al cuore delle persone così come avviene nella testimonianza di papa Francesco.
Uno dei momenti più coinvolgenti è l’adorazione del Santissimo guidata da padre Ljubo in perfetto italiano, ma con quel tono ieratico conferito dall’accento slavo. Si snodano le ave marie in croato, inglese, francese, spagnolo, tedesco, polacco. Un canto ripete le parole del ladrone crocifisso vicino a Gesù: ricordati di me quando sarai in Paradiso.
La Chiesa non ha ancora riconosciuto le apparizioni di Medjugorje. «Ma è decisivo che non abbia condannato questi fenomeni che pure non sono vincolanti per la fede», riprende Socci. C’è una commissione voluta da Benedetto XVI nel 2010 e presieduta dal cardinal Ruini. Per sua regola la Chiesa non riconosce le apparizioni quando i fenomeni continuano ad avvenire. Ma si pronuncia dopo, quando sono terminati, magari a distanza di secoli.
Intanto la «gente gente» partecipa compunta alla meditazione. Ogni volta che viene pronunciato il nome di papa Francesco, si alza spontaneo l’applauso. Quello di Medjugorje è un popolo fatto di «persone provate dalle ferite della vita – osserva Socci – Ferite che spesso siamo portati a rimuovere e a coprire per non soffrirne troppo». È un cristianesimo dolente quello dei devoti di Medjugorje? «Come la bellezza anche il dolore ci porta alle domande fondamentali dell’esistenza. Ci fa diventare persone più autentiche, più vere. Non è facile che ci lasciamo scovare o scavare nel profondo. Perché, come diceva Rilke, Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta/ un po’ come si tace una speranza ineffabile».
Al termine della messa la veggente Marija Pavlovic intona la preghiera fino a quando s’interrompe, rapita. I diecimila sprofondano in un silenzio assoluto.

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Giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno del 1915

Posté par atempodiblog le 24 avril 2013

Giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno del 1915
di Caserta24ore

Giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno del 1915 dans Riflessioni bambiniarmeni

Atto di commemorazione nella giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno del 1915
Il genocidio degli Armeni. Da 24 anni l’Associazione Internazionale Regina Elena, in Italia ed in altri Paesi, è molto impegnata a favore del riconoscimento del primo genocidio del XX secolo, quello che colpì vigliacamente il popolo armeno dal 1915. Dietro sua richiesta, numerosi comuni e province hanno riconosciuto formalmente quella tragedia ancora negata dalla Turchia. Nel 2012 il Comune di Scafati (SA) ha votato all’unanimità la proposta sottoposta dalla delegazione campana dell’Associazione Internazionale Regina Elena Onlus, a firma del delegato Cav. Uff. Rodolfo Armenio.

Inoltre, il Sodalizio benefico internazionale ed il Gruppo Armeni di Napoli, con il patrocinio della REGIONE CAMPANIA, DELLA PROVINCIA DI NAPOLI,  COMUNE DI NAPOLI, AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA D’ARMENIA, COMUNITA’ ARMENA E L’ASSOCIAZIONE ITALIA-ARMENIA, organizzano un Atto di commemorazione nella giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno [...] mercoledi 24 aprile a Napoli: alle ore 18 S. Messa nella chiesa di S. Caterina a Chiaia. Seguirà la deposizione di una corona d’alloro al Monumento di Piazza dei Martiri. Durante il corteo sarà distribuito materiale informativo sul primo genocidio del ’900. Un mondo senza memoria non può progredire.

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La grande rimonta dei maschi, a scuola adesso leggono (quasi) come le femmine

Posté par atempodiblog le 24 avril 2013

La grande rimonta dei maschi, a scuola adesso leggono (quasi) come le femmine dans Articoli di Giornali e News scuolaoggi

Sarà merito della scuola, o forse di alcuni libri dal  successo planetario, che hanno catturato al testo scritto anche  il recalcitrante mondo dei ragazzini maschi. Sarà, pure, l’abitudine alla comprensione del linguaggio sincopato dei  videogiochi, comunque la notizia (buona) è che nella lettura per la prima volta i bambini hanno raggiunto le bambine. Polverizzando così finalmente quei “punti” che nelle  statistiche internazionali dividevano i maschi dalle femmine,  queste ultime com’ è noto assai più vicine ai libri dei  loro coetanei. E invece si scopre che c’ è un momento  fondamentale negli anni della scuola primaria, in cui tutto  è ancora possibile, anche la caduta di stereotipi tipo  femmine-brave, maschi-distratti, oppure femmine “non portate” per  la matematica, maschi capaci nelle materie scientifiche. Il paritario capitombolo in avanti è contenuto nella ricerca Progress in International Reading Literacy Study del 2011, che ogni cinque anni analizza nelle classi di quarta elementare, i livelli di comprensione dei testi scritti. E su questi dati  Stefano Molina, ricercatore della Fondazione Agnelli, ha  elaborato una indagine pubblicata sul sito Neodemos, con il  titolo “Differenze di genere sui banchi di scuola”, in cui  dimostra quanto nell’ infanzia il nostro Paese sia quello con i  divari più bassi, mentre poi, a partire dall’ adolescenza le  differenze diventino invece dei fossati.

«Il salto in avanti  dei maschi nella lettura – spiega Stefano Molina – è  avvenuto negli ultimi 10 anni. Nel 2001 il loro rendimento si  distanziava di 8 punti da quello delle femmine, nel 2007 di 7,  fino al 2011 in cui il divario è diventato di 3, e dunque  minimo. Ed è un bel successo, dovuto a più fattori. Da  una parte i bambini corrono veloci quanto le bambine. Dall’ altra  forse la scuola non è stata in grado di consentire alle  femmine, che da sempre hanno un rendimento migliore, di esprimere  tutte le loro potenzialità». In un quadro dove comunque  i dati dell’ indagine “Pirls” mostrano che i baby studenti  italiani di quarta elementare si piazzano a un ottimo punto nella  classifica mondiale della “bravura” con 541 punti contro una  media di 500. E sono più d’ una infatti le motivazioni che  hanno portato a questa unificazione delle capacità di  lettura, che smentiscono in parte gli allarmi sulla disaffezione  verso il testo scritto della generazione digitale. Carmela Buffo  insegna da oltre 30 anni in una grande scuola romana, «dove  arrivano bambini di ogni ceto sociale, da quelli con migliaia di  libri nella biblioteca dei genitori, a ragazzini che non ne  possiedono nemmeno uno».

Dice Carmela Buffo: «In una  stessa classe ci sono allievi con diversi livelli di rendimento,  e tradizionalmente le femmine sono un po’ più avanti dei  maschi. Ma questo spesso si è tradotto in una sorta di  pigrizia da parte degli insegnanti, anzi delle insegnanti, che  non si sono preoccupate abbastanza di stimolare i maschi  perché ritenuti immaturi». Là dove invece la  scuola ha tenacemente promosso la lettura, e «grazie anche a  una rivoluzione nei libri dell’ infanzia, con alcuni titoli che  hanno catturato i bambini senza differenza di sesso»,  aggiunge Carmela Buffo, «i risultati si sono visti, e in  particolare sui maschi». Ecco allora Harry Potter, con la  sua capacità conquistare al di là dei generi, Geronimo  Stilton, il topo reporter dagli incassi milionari, Greg, l’amatissima “schiappa” del diario medesimo.

Benedetto Vertecchi,  pedagogista di lungo corso, è invece più scettico sui  meriti della scuola. «Se i maschi hanno scoperto la lettura,  mi fa un gran piacere, ma non dipende dalla nostra agonizzante  istruzione pubblica, bensì da una maggiore attenzione delle  famiglie alla vita dei bambini, libri compresi. Con i tagli  selvaggi, la scuola oggi sta tornando proprio ai suoi stereotipi  tradizionali, ai maschi la scienza, alle femmine la letteratura,  i ricchi vanno avanti, i poveri si fermano». Amara  riflessione, condivisa in parte da Stefano Molina, autore della  ricerca: «Viene da chiedersi come mai a 910 anni bambine e  bambini siano eguali nella lettura, e poi invece a 15 le femmine  superino i loro coetanei di ben 46 punti nella comprensione di un  testo scritto. Penso che i fattori siano due: una spinta sociale,  per cui alle bambine viene regalata la Barbie, e ai maschi il  “Piccolo chimico”, e via via quel fattore di uguaglianza si  perde. E una motivazione, poi, interna alla scuola, che purtroppo nella comunicazione del sapere tende a ricreare differenze».

di Maria Novella De Luca – La Repubblica

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