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Prendere per maestro San Giuseppe

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

Prendere per maestro San Giuseppe dans Citazioni, frasi e pensieri sangiuseppe

Di San Giuseppe ecco che cosa dice Santa Teresa d’Avila, nella sua autobiografia: “Chi non trova maestro che gli insegni a pregare, prenda per maestro questo glorioso santo, e non sbaglierà strada”. —Il consiglio viene da un’anima esperta. Seguilo.

San Josemaría Escrivá de Balaguer

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La speranza di papa Francesco è la stessa di Giovanni e Pietro

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

La speranza di papa Francesco è la stessa di Giovanni e Pietro
di Francesco Baccanelli – Il Sussidiario

 La speranza di papa Francesco è la stessa di Giovanni e Pietro dans Articoli di Giornali e News 317h3ps

La parola “speranza”, in un periodo di crisi come quello che stiamo attraversando, ricorre quasi quotidianamente nei nostri discorsi. Aspettiamo con inquietudine spiragli di luce, prospettive inedite, opportunità incoraggianti. Ma quando si presenta l’occasione favorevole, purtroppo, non sempre siamo pronti a prenderci quei rischi necessari a trasformare i semplici desideri in qualcosa di concreto.

Sembra quasi che per noi la speranza sia diventata una “tela di Penelope” da cucire con i sogni e da disfare, codardamente, con le paure. Se da un lato ci piace cullarla tra i nostri pensieri, coprendola di costanti attenzioni, dall’altro stiamo più che mai attenti a non tradurla in atto. 

Probabilmente, cedendo un po’ all’insospettabile fascino del pessimismo dei nostri tempi, ci siamo dimenticati del suo vero significato. E dire che, per recuperarlo in pieno, basterebbe sfogliarela Bibbia, dove speranza e fede si alimentano a vicenda, illuminando anche le situazioni in apparenza più buie.

Pensiamo, ad esempio, ai sentimenti provati da Pietro e Giovanni il mattino di Pasqua: «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro» (Gv 20, 1-4).

I due apostoli si mettono a correre. Ingaggiano, involontariamente, una gara di velocità. Del resto, è impossibile per loro avvicinarsi al sepolcro a passo lento. Neanche la spossatezza accumulata nei giorni precedenti può fare da freno. A muovere le loro gambe, infatti, non è una semplice curiosità. È qualcos’altro. Qualcosa che l’artista svizzero Eugène Burnand (Moudon, 1850 – Parigi, 1921) nel più famoso dipinto dedicato all’episodio, I discepoli Pietro e Giovanni accorrono al sepolcro il mattino della Risurrezione, riesce a raffigurare a meraviglia: la speranza.

Quest’opera, eseguita nel 1898 e conservata al Musée d’Orsay di Parigi (fino al 1° maggio, tuttavia, è visibile a Roma, a Castel Sant’Angelo, nell’ambito della mostra Il cammino di Pietro), rappresenta un momento imprecisato della corsa dei due apostoli. Il cielo che li sovrasta ha tonalità insolite, che vanno dal giallo al bianco, e ospita uno sparuto drappello di nuvole grigio-viola in fuga. Pietro ha già diverse primavere sulle spalle e porta scolpite sul volto tracce di dolori recentissimi. 

Ma la speranza, testimoniata dagli occhi fiduciosi e dal passo veloce, tutto a un tratto sembra averlo ringiovanito. Giovanni, invece, ha una sensibilità fanciullesca e, correndo a mani giunte, trattiene a stento il pianto. Non sanno ancora con certezza cosa sia accaduto a Gesù, ma la loro fede non vacilla perché è sostenuta dalla speranza.

Burnand riproduce la corsa dei due apostoli con evidente partecipazione emotiva e sembra riconoscere nella risolutezza l’unico vero atteggiamento con il quale si può inseguire la speranza. Il pittore svizzero vuole spronarci a inseguirla con decisione. Le persone di mezza età e gli anziani devono mettere da parte i risultati della loro esperienza e lanciarsi verso le prospettive più inattese, mentre i giovani devono armarsi di coraggio e vincere le ansie di chi conosce ancora troppo poco della vita.

Vengono in mente le parole che in Cani perduti senza collare Gilbert Cesbron affida al giudice Lamy, impegnato a spingere il disincantato Marcel a una visione delle cose più ottimistica: «Se la speranza non esiste, cosa faccio io qui, questa notte? È inteso, voi avete ragione – ma ragione secondo la maniera dei medici, degli psichiatri e degli psicologi: ossia, nove volte su dieci. Ma la decima probabilità, mio caro, la decima, che si chiama Grazia, se uomini come voi e come me non la tentano, chi la tenterà? [...] Preferite essere al servizio della Speranza e della Fiducia o al servizio delle statistiche e dei “Ve lo avevo ben detto…”?».

Dobbiamo riscoprire la speranza. Dobbiamo correre senza paura come hanno fatto Pietro e Giovanni il mattino di Pasqua. E dobbiamo seguire con attenzione e affetto le parole che Papa Francesco ci ha rivolto nell’omelia della Messa di inizio del suo ministero petrino: «Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi la speranza. Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio».

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Tutte le cose in Gesù Cristo

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

Tutte le cose in Gesù Cristo dans Citazioni, frasi e pensieri roberthughbenson

La Messa, la peghiera, il Rosario. Queste sono le prime e le ultime cose. Il mondo nega la loro potenza ed è invece in tutto questo che il cristiano deve cercare appoggio e rifugio… Tutte le cose in Gesù Cristo: in Gesù Cristo ora e sempre. Nessun altro mezzo può servire. Egli deve fare tutto, perché noi non possiamo fare più nulla.

Robert Hugh Benson

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«La Chiesa guardi alle periferie»

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

«La Chiesa guardi alle periferie»
Da Bergoglio l’invito ad andare ai confini non solo geografici ma anche esistenziali. Nel suo intervento alle Congregazioni generali il futuro Pontefice metteva in guardia dal rischio dell’autoreferenzialità e della mondanità spirituale. Da una parte esiste la Chiesa evangelizzatrice, che esce da sé, dall’altra la Chiesa mondana che vive in sé, di sé e per sé. Il testo diffuso dal cardinale Ortega.
di Gianni Cardinale – Avvenire

«La Chiesa guardi alle periferie» dans Fede, morale e teologia chiesaperiferia

«Pensando al prossimo Papa: un uomo che, dalla contemplazione di Gesù Cristo e dall’adorazione di Gesù Cristo aiuti la Chiesa a uscire da sé verso le periferie esistenziali, che la aiuti ad essere madre feconda che vive della « dolce e confortante gioia d’evangelizzare »».

È questo l’ultimo, illuminante, punto di quello che con ogni probabilità è stato l’ultimo intervento da cardinale dell’arcivescovo Jorge Mario Bergoglio, oggi papa Francesco.

Da più testimonianze era noto che durante le Congregazioni generali che hanno preceduto l’ultimo Conclave l’intervento dell’allora cardinale Bergoglio aveva colpito in modo particolare l’eminentissimo uditorio che poi lo ha scelto come successore di Benedetto XVI. Ora, grazie al cardinale dell’Avana Jaime Lucas Ortega y Alamino, e con l’autorizzazione di papa Francesco, tutto il mondo può conoscere i contenuti di quell’intervento.

Il cardinale Ortega ha fatto la preziosa rivelazione durante l’omelia pronunciata nel corso della Messa crismale che all’Avana è stata celebrata sabato mattina. Alla presenza al nunzio apostolico, l’arcivescovo Bruno Musarò, dei vescovi ausiliari Alfredo Petit e Juan de Dios Hernandez, e del clero « habanero » che rinnovava le promesse sacerdotali, il porporato ha raccontato che durante le Congregazioni generali precedenti il Conclave l’allora cardinale Bergoglio aveva fatto un intervento «magistrale», che rifletteva anche il suo pensiero sulla Chiesa.

Per questo motivo Ortega chiese a Bergoglio se aveva un testo scritto da poter conservare. Bergoglio disse che non l’aveva ma il giorno dopo «con delicatezza estrema», racconta Ortega, Bergoglio gli consegnò l’«intervento scritto di suo pugno tale come lo ricordava». Ortega chiese all’allora confratello cardinale se poteva diffondere il testo e Bergoglio disse di sì.

Poi il cardinale dell’Avana rinnovò la richiesta dopo la fine del Conclave quando l’arcivescovo di Buenos Aires era stato eletto al Soglio di Pietro. E papa Francesco rinnovò la sua autorizzazione. Ieri l’immagine dell’appunto bergogliano, la trascrizione del testo e una sintesi dell’omelia del cardinale cubano sono state messe in rete dal sito di Palabra Nueva, rivista dell’arcidiocesi « habanera ».

Tutti così possono leggere quello che il cardinale Ortega, a giusto titolo, definisce «un tesoro speciale della Chiesa e un ricordo privilegiato dell’attuale Sommo Pontefice». L’appunto, scritto in spagnolo (a parte ne pubblichiamo la traduzione integrale), inizia con la considerazione che nel corso delle Congregazioni generali si era fatto riferimento alla «evangelizzazione» (sottolineato nel testo originale), che «è la ragione di essere della Chiesa» e subito si richiamava una citazione del paragrafo 80 dell’Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi promulgata da Paolo VI nel 1975, laddove papa Montini invita tutta la Chiesa a conservare «la dolce e confortante gioia d’evangelizzare».

Il testo di Bergoglio si articola poi in quattro punti. Nel primo si sottolinea che «evangelizzare implica zelo apostolico», e cioè «la parresia di uscire da se stessa» e di recarsi «verso le periferie non solo quelle geografiche ma anche le periferie esistenziali», del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, dell’ignoranza e indifferenza religiosa, del pensiero, di ogni forma di miseria.

Nel secondo si evidenzia che quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare «diventa autoreferenziale e allora si ammala» e qui Bergoglio fa un riferimento al brano del Vangelo di Luca (13, 10-17) in cui Gesù guarisce una donna «curva» che «aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma», e poi denuncia come «i mali» che affliggono «le istituzioni ecclesiali» hanno radice nell’«autoreferenzialità», definita come «una sorta di narcisismo teologico». «Nell’Apocalisse – continua Bergoglio riferendosi al verso 20 del capitolo 3 – Gesù dice che sta alla porta e bussa.
Evidentemente il testo si riferisce al fatto che bussa da fuori la porta per entrare… Però penso che a volte Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire».

Da qui il terzo punto dell’intervento che l’allora cardinale Bergoglio pronunciò alle Congregazioni generali. «La Chiesa – si legge nel testo diffusa all’Avana – quando è autoreferenziale, senza rendersene conto, crede di avere luce propria; smette di essere il mysterium lunae» e così incorre nella «mondanità spirituale» di cui parlava il teologo gesuita, e poi cardinale, Henri de Lubac, che la definiva come «il male peggiore in cui può incorrere la Chiesa», il «vivere per darsi gloria gli uni con gli altri». «Semplificando – spiega Bergoglio – ci sono due immagini di Chiesa».

Da una parte «la Chiesa evangelizzatrice che esce da sé; la Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans» come si legge nell’incipit della celebre Costituzione conciliare («che ascolta religiosamente la Parola di Dio e la proclama con ferma fiducia»). Dall’altra invece «la Chiesa mondana, che vive in sé, da sé, per sé».

Infine in quarto e ultimo punto: l’auspicio di un Papa che contemplando Gesù Cristo aiuti la Chiesa a «uscire da sé» verso le «periferie esistenziali». Ovviamente papa Francesco non aveva il problema di essere lui questo Papa. Ma i cardinali elettori, e lo Spirito Santo attraverso loro, hanno pensato proprio così.

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Il Curato d’Ars e la confessione

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

Il Curato d’Ars e la confessione  dans Fede, morale e teologia Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

«La vita di Giovanni Maria Vianney è trascorsa in confessionale». Così diceva l’abbé Alfred Monnin, che aveva frequentato il Curato per più di cinque anni, e del quale sarebbe divenuto biografo. Alcuni tratti distintivi della cura d’anime, intessuta dal santo patrono dei parroci nell’ombra discreta in cui si celebra il sacramento della penitenza, li ha ripercorsi di recente Philippe Caratgé, moderatore della società sacerdotale San Giovanni Maria Vianney, nella sua relazione al convegno internazionale svoltosi ad Ars a fine gennaio, di cui saranno prossimamente pubblicati gli atti.

Per il Curato d’Ars – lo si ricava dalle sue lezioni di catechismo – una buona confessione deve essere umile, semplice, prudente e totale. Occorre «evitare tutte quelle accuse inutili, tutti quegli scrupoli che fanno dire cento volte la stessa cosa, che fanno perdere tempo al confessore e snervano quelli che sono in attesa di confessarsi». Bisogna «confessare quello che è incerto come incerto, e quello che è certo come certo». L’essenziale è «evitare ogni simulazione: che il vostro cuore sia sulle vostre labbra. Voi potete imbrogliare il vostro confessore, ma ricordatevi che non imbroglierete mai il buon Dio, che vede e conosce i vostri peccati meglio di voi». Lui stesso passava poco tempo con chiunque andasse a inginocchiarsi al suo confessionale, affinché il tempo fosse sufficiente per tutti. Confessioni brevi, parole brevi. Eppure non c’era uno solo dei penitenti che non si sentisse fatto oggetto di una sollecitudine particolare, di una dedizione sempre pronta ad approfittare di ogni minimale apertura all’azione dello Spirito, che «come un giardiniere non finisce mai di lavorare la terra» (Caratgé), anche quella dei cuori più induriti. «Per me», ripete Jean-Marie a proposito della riparazione da richiedere ai penitenti, «vi dirò la mia ricetta. Io do loro una piccola penitenza, e io faccio il resto al posto loro». La cosa che conta, dice il Curato, è avere almeno un po’ di contrizione dei propri peccati. Con una contrizione perfetta si viene perdonati «ancor prima di ricevere l’assoluzione». Quindi «bisogna mettere più tempo a domandare la contrizione che a esaminarsi».

Per il Curato, la confessione è il dono inimmaginabile che Dio tira fuori a sorpresa per salvare i suoi figli in pericolo: «Ragazzi miei, non si può comprendere la bontà che ha avuto Dio per istituire questo grande sacramento. Se noi avessimo avuto una grazia da domandare a Nostro Signore, non avremmo mai immaginato di domandargli quella là. Ma lui ha previsto la nostra fragilità e la nostra incostanza nel bene, e il suo amore  l’ha portato a fare ciò che noi non avremmo mai osato domandargli».

Ancor di più, è un dono che rivela nel modo più intimo la natura stessa del mistero della Trinità. Recluso nel suo confessionale, il cuore semplice del Curato assapora in maniera imparagonabile il mistero del cuore stesso di Dio. I perdoni imperfetti degli uomini talvolta sembrano elargizioni concesse a caro prezzo, fatte quando vogliamo apparire buoni. Il perdono di Dio è un’altra cosa. «Come potremmo noi disperare della Sua     misericordia, dal momento che il Suo più grande piacere è di perdonarci», scrive il Curato. Per questo il tesoro della misericordia divina è inesauribile, e nessuno può pensare di mettere in conto i doni della grazia. Come se fossero debiti che prima o poi si paga, con cui ci si mette a paro con le proprie prestazioni. Perché per Dio stesso perdonare è il massimo godimento. E questo lo fa diventare mendicante del cuore dell’uomo. «La sua pazienza ci aspetta», rassicura il Curato. Di più: «Non è il peccatore che torna a Dio per chiedergli perdono, ma è Dio che corre dietro al peccatore e lo fa ritornare a Lui».

di Gianni Valente – 30Giorni

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