Felice Pasqua di resurrezione a tutti!

Posté par atempodiblog le 31 mars 2013

“Cristo è risorto! Alleluja!”

Felice Pasqua di resurrezione a tutti! dans Santa Pasqua cristorisorto

Tanti auguri di pace e di gioia per una Santa Pasqua!!

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Il dolore di Maria

Posté par atempodiblog le 29 mars 2013

Il dolore di Maria dans Citazioni, frasi e pensieri 1q0kz8

“Al mio spirare, la mia diletta Madre sentì la pena della morte che intesi io, come aveva inteso nell’anima sua tutte le altre mie pene. Ed il divin Padre fece il miracolo della sua potenza nel conservarla in vita, nel tempo stesso che soffriva le pene della morte, restando l’anima sua trapassata dal coltello doloroso, nel vedere morta la sua vita.

Prima di spirare, avevo parlato al di lei amante e addolorato cuore, licenziandomi di nuovo e ringraziandola di quanto aveva sofferto e patito per me. Ma questo lo feci molto di passaggio, per non affliggerla di più, essendo al sommo afflitta ed amareggiata. E per confortarla, l’ultima parola che le dissi fu, che sostenesse il fiero colpo con la sua solita generosità, che io sarei risorto il terzo giorno, e Lei sarebbe stata la prima a godere la mia presenza, e le glorie della mia risurrezione. Restò l’afflitta Madre con questa fede certa, e si confortò uniformandosi alla divina volontà”.

Gesù alla Serva di Dio Maria Cecilia Baij O.S.B. – Vita interna di Gesù Cristo

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«Il profumo mariano dell’Eucaristia»

Posté par atempodiblog le 28 mars 2013

Celebrando il Signore lodiamo Maria
«Il profumo mariano dell’Eucaristia»
Giovedì santo: la continuità salvifica tra “il Corpo dato per noi” e “il Corpo nato dalla Vergine”.
di Sergio Gaspari, smm – Madre di Dio

La sera del Giovedì santo, nell’invitare i fedeli a sostare in adorazione (fino a mezzanotte) del Santissimo Sacramento, è bene esortarli pure a respirare «il profumo mariano dell’Eucaristia», a contemplare cioè la continuità salvifica tra «il Corpo dato per noi» e «il Corpo nato dalla Vergine». L’Eucaristia richiama l’Annunciazione a Nazaret, ripresenta il Natale di Gesù a Betlemme, ritualizza il sacrificio pasquale della nuova ed eterna alleanza.

«Il profumo mariano dell'Eucaristia» dans Fede, morale e teologia Benedetto-XVI
Roma, 15.6.2006, Basilica di San Giovanni in Laterano: Benedetto XVI celebra la Messa del Corpus Domini (foto A. GIULIANI).

1. Maria-Pasqua-Eucaristia. «L’antichità cristiana – osserva Benedetto XVI – designava con le stesse parole Corpus Christi il Corpo di Cristo nato dalla Vergine Maria, il Corpo eucaristico e il Corpo ecclesiale di Cristo» (Sacramentum caritatis, 15). Infatti sant’Ambrogio di Milano (+397), parlando del miracolo dell’Eucaristia che rende presente Cristo nella celebrazione, affermava: «Quello che noi ripresentiamo è il Corpo nato dalla Vergine » (De Mysteriis, 53). Testo così ripreso da san Tommaso d’Aquino (+1274): «Ciò che noi consacriamo è il Corpo nato dalla Vergine» (S. Th. III, q. 75, a. 4).

«Caro Christi, Caro Mariae», esclamerà Ambrogio Auperto (+781): nella Caro Christi, “Carne di Cristo”, la fede della Chiesa rivede la Caro Mariae, “Carne di Maria”. Senza dubbio il riferimento alla Vergine è garante della retta fede nella presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Quando Berengario (+1088) propose un’interpretazione simbolica dell’Eucaristia, svuotando il realismo del Corpo di Cristo, il Concilio romano del 1079 gli impose di sottoscrivere che il pane e il vino dopo la consacrazione sono «il vero Corpo di Cristo che è nato dalla Vergine» (DS 700). Ma Ratrammo di Corbie (+875) aveva già reagito alla totale identificazione tra corpo storico e corpo sacramentale, osservando la «non piccola differenza tra il corpo che esiste nel mistero e il corpo che ha patito, fu sepolto ed è risorto».

Il corpo storico «è la vera carne di Cristo», mentre il corpo del mistero «è il sacramento della sua carne»; inoltre questo «rappresenta la memoria della passione e morte del Signore» e ingloba tutti i fedeli che formano un solo corpo con lui. Riferendosi alla dimensione pasquale, Giovanni Paolo II nel 2003 precisava: «L’Eucaristia, mentre rinvia alla passione e alla risurrezione, si pone al tempo stesso in continuità con l’incarnazione » (Ecclesia de Eucharistia, 55).

Nella bolla Incarnationis mysterium (1998) il Pontefice aveva puntualizzato: «Da duemila anni, la Chiesa è la culla in cui Maria depone Gesù e lo affida all’adorazione e alla contemplazione di tutti i popoli… Nel segno del Pane e del Vino consacrati, Cristo Gesù risorto e glorificato… rivela la continuità della sua incarnazione» (n. 11).

Il 5.6.1983 Giovanni Paolo II predicava: «Quel Corpo e quel Sangue divino… conserva la sua originaria matrice da Maria… Ogni Messa ci pone in comunione intima con lei, la Madre, il cui sacrificio “ritorna presente”, come “ritorna presente” il sacrificio del Figlio». E continuava: «Pane fragrante che porta ancora in sé il sapore e il profumo della Vergine Maria». Nell’enciclica Redemptoris Mater (1987) ribadiva: la maternità divina «è particolarmente avvertita e vissuta» nell’Eucaristia, dove «si fa presente Cristo, il suo vero corpo nato da Maria Vergine» (n. 44).

Giovanni-Paolo-II dans San Giovanni Eudes
Roma, 22.2.2000: Giubileo della Curia romana. Celebrazione eucaristica in San Pietro presieduta da Giovanni Paolo II (GIULIANI).

2. Sguardo alla tradizione della Chiesa. Come in una polifonia sinfonica Padri, tradizione, riti liturgici, arte e fede popolare si intrecciano armonicamente nel rilevare il nesso Eucaristia-Maria, che ruota attorno a tre cerchi concentrici: Corpo di Cristo nato da Maria, dimensione pasquale dell’Eucaristia e corpo sacramentale.

Sant’Ireneo di Lione (ca. +202) afferma che se non si ammette che Cristo è vero uomo nato dalla Vergine, allora «neppure il calice dell’Eucaristia è la comunione con il suo sangue, né il pane che noi spezziamo è la comunione con il suo corpo».

Sant’Efrem Siro (+373) parla del «sacramento di quel corpo unico che (il Signore) prese da Maria», e aggiunge: «Maria ci ha dato il pane che conforta, al posto del pane che affatica datoci da Eva». Rivolgendosi al Cenacolo, Efrem esclama: «Benedetto il luogo, dove fu spezzato quel pane (proveniente) dal venerato covone (Maria). In te fu spremuto il grappolo (proveniente) da Maria, il calice della redenzione».

Ambrogio Auperto (+781) nella festa della Presentazione di Cristo al Tempio predica: il gesto della Madre che offre il Figlio profetizza misticamente l’azione sacramentale della Chiesa anch’essa offerente di Cristo.

Pascasio Radberto (ca. +865) identifica il Corpo eucaristico di Cristo con il Corpo storico avuto da Maria, quando afferma: Idem Corpus quod natum ex Virgine.

Per san Pier Damiani (+1072) il Corpo di Cristo che noi riceviamo nella Comunione eucaristica è il medesimo Corpo che Maria ha concepito, partorito, nutrito e allevato con materna sollecitudine. E conclude: «Eva ha mangiato un cibo a causa del quale ci ha condannati alla fame dell’eterno digiuno; al contrario, Maria ha confezionato un cibo che ci ha spalancato l’ingresso al convito del cielo».

Per san Bernardo di Chiaravalle (+1153) la Madre è unita al Figlio in un’unica offerta: ella sta presso la croce per presentare «la vittima santa, a Dio gradita». E in una mirabile espressione, estasiato dichiara alla Vergine: Filius tecum, qui ad condendum in te mirabile sacramentum, “Il Figlio è con te, per preparare in te il mirabile sacramento”.

Arnaldo di Bonneval o di Chartres (+ dopo il 1156), biografo di san Bernardo, afferma: «Unica è la carne di Maria e quella di Cristo, unico è lo Spirito, unica la carità». E aggiunge: fin dalla Presentazione di Gesù al Tempio, si profilano due offerenti: Unum olocaustum ambo (Christus et Maria) pariter offerebant, “Nello stesso tempo ambedue (Cristo e Maria) offrivano un unico olocausto”.

Isacco della Stella (ca. +1169), discepolo di san Bernardo, parla di novus Sacerdos, non vetus Melchisedech, neque natus caro de carne… sed novus Iesus natus de Spiritu, cioè l’Eucaristia richiama il mistero nuovo: nuovo annuncio alla Figlia di Sion, nuova maternità, nuova nascita di Cristo, nuovo ed eterno sacerdote.

Nell’Ufficio della primitiva festa del Corpus Domini, composto nel 1246, si afferma che questa vera carne che noi mangiamo è la stessa che Gesù ha preso dalla Vergine.

San Bonaventura (+1274) spiega: siccome il Corpo di Cristo nell’incarnazione ci è stato dato per mezzo di Maria, anche la nostra offerta e Comunione eucaristica devono realizzarsi tramite le mani di lei. Nel sec. XIV viene composta l’antifona Ave, verum Corpus, natum de Maria Virgine, che attraversa i secoli.

Santa Caterina da Siena (+1380) descrive la Vergine «terra fruttifera e germinatrice del fructo» e colei che nell’incarnazione del Verbo dà la «farina sua». Nel Pane eucaristico, frutto sacramentale dell’offerta pasquale di Cristo, la Chiesa riscontra la “farina”, l’offerta olocaustica della Madre.

Il francese Giovanni di Gersone (+1429) chiama Maria madre dell’Eucaristia: «Tu sei la Madre dell’Eucaristia, perché …tu più di tutti gli altri, dopo il Figlio, eri cosciente del sacramento nascosto ai secoli».

La Scuola francese di spiritualità del 1600-700 accentua la continuità tra la maternità di Maria e il ministero del sacerdote.

San Giovanni Eudes (+1680) vede nel sacerdote l’immagine della Vergine Madre, perché per mezzo di entrambi il Cristo è formato, è dato ai fedeli, è offerto in olocausto a Dio.

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (+1787) è l’autore del libretto Visite al Santissimo Sacramento e a Maria Santissima.

San Giovanni Bosco (+1888) raccomandava la devozione a Gesù sacramentato e a Maria.

Leone XIII (+1903) parlava dell’Eucaristia come il prolungamento sacramentale dell’incarnazione storica del Signore dalla Vergine.

San Pio X (+1914) chiamava Lourdes «il più glorioso Santuario eucaristico» per rafforzare l’idea che ogni santuario mariano ha il suo centro unico nell’Eucaristia.

Secondo I.A. Schuster (+1954), l’Eucaristia ci “imparenta” con la Madre del Signore. Quando facciamo la Comunione ella «riconosce in noi qualche cosa che è sua e che le appartiene».

Pio XII (+1958) affermava: Maria non ha altro desiderio che di introdurre gli uomini «nel cuore del mistero della redenzione che è l’Eucaristia».

Lo scrittore ateo J.P. Sartre (+1980) fa dire alla Vergine che contempla Gesù bambino: «Questa carne divina è la mia carne… È Dio e mi assomiglia».

Benedetto XVI, domenica 9.9.2007 all’Angelus, puntualizzava: «Come Maria portò Gesù nel suo grembo e gli diede un corpo perché potesse entrare nel mondo, anche noi accogliamo Cristo nel Pane spezzato. E rendiamo il nostro corpo lo strumento dell’amore di Dio».

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Quando si è innamorati

Posté par atempodiblog le 28 mars 2013

Quando si è innamorati dans Citazioni, frasi e pensieri chesterton

“Un uomo non si rotolerà nella neve per una concomitanza di forze che obbediscono alle leggi universali della natura. Non digiunerà in nome di un principio che vuole uniformarsi alla legge divina. Farà queste cose, o simili a queste, quando è spinto da un istinto del tutto diverso: quando è innamorato”.

-Gilbert Keith Chesterton-

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Francesco a testa in giù

Posté par atempodiblog le 28 mars 2013

Francesco a testa in giù
Passi per il Giullare di Dio, ma non era un tenero dispensatore di buoni sentimenti
Tratto da:
IL FOGLIO.it

Francesco a testa in giù dans Gilbert Keith Chesterton papafrancescoi

Pubblichiamo uno brano dal libro di Gilbert K. Chesterton, “San Francesco d’Assisi”, edito in Italia da Lindau

Se c’è un posto in cui si può trovare il vero spirito francescano al di fuori della storia francescana vera e propria, è il racconto dell’acrobata di Nostra Signora [leggenda medievale su un acrobata che, fattosi monaco, si rese conto di non saper offrire alla Madonna altro che i suoi salti e le sue capriole, ndr]. E quando san Francesco chiamò i suoi seguaci Giullari di Dio, voleva dire qualcosa come Acrobati di Nostro Signore. Da qualche parte in quel passaggio dall’ambizione del trovatore alle buffonate dell’acrobata si nasconde, come sotto una parabola, la verità su san Francesco. Dei due menestrelli o suonatori ambulanti, il giullare era probabilmente il servitore, o quantomeno la figura secondaria. San Francesco dev’essere proprio preso alla lettera quando dice di aver scoperto che il segreto dell’esistenza consiste nell’essere il servitore e la figura secondaria. Alla fin fine, quella condizione di servitù doveva quasi rasentare la spensieratezza. Era paragonabile alla condizione di giocoliere proprio in quanto rasentava la spensieratezza. Il giullare poteva essere libero, mentre il cavaliere era rigoroso; in condizione di servitù si può essere burloni, il che rappresenta la totale libertà. Questo paragone dei due poeti o menestrelli è forse il migliore preambolo alla trasformazione di Francesco, espresso attraverso un’immagine che può essere apprezzata dal mondo moderno. Naturalmente la questione era molto più complessa, e noi dobbiamo sforzarci, per quanto non sarà mai abbastanza, di arrivare al concetto andando al di là dell’immagine. E’ l’approccio dell’acrobata che, per molti, è veramente un concetto a gambe all’aria.

Nel periodo in cui era rimasto rinchiuso in prigione o nella caverna buia – o all’incirca in quel periodo – Francesco aveva subito un’inversione di natura psicologica, che era stata in realtà come il contrario di un salto mortale in quanto, avendo fatto un giro completo, era tornato, o quanto meno pareva essere tornato, alla sua posizione originale. E’ necessario ricorrere alla grottesca similitudine dell’acrobata, perché nessun’altra immagine può essere altrettanto chiarificatrice. Tuttavia, introspettivamente, si trattò di una profonda rivoluzione spirituale. L’uomo uscito dalla caverna non era più quello che vi era entrato, nel senso che era diverso quasi come se fosse morto diventando uno spettro o uno spirito beato. E i risultati che questo ebbe sul suo atteggiamento verso il mondo sono effettivamente tanto straordinari quanto possono apparire da qualsiasi confronto. Guardava al mondo in modo totalmente diverso dagli altri uomini, come se fosse uscito da quella buia caverna cammi- nando sulle mani.
Se applichiamo al caso la parabola dell’acrobata di Nostra Signora, ci avvicineremo molto a quello che era il suo scopo. Ebbene, è proprio vero che a volte una scena, come ad esempio un paesaggio, possa essere vista più chiaramente e con maggiore immediatezza se la si guarda a testa in giù. Ci sono stati dei paesaggisti che hanno adottato questa straordinaria e istrionica posizione per osservare un paesaggio a quel modo anche solo per un attimo. Cosicché, questa visione capovolta, tanto più vivida, strana e accattivante, ha una certa analogia con il mondo visto ogni giorno da un mistico come san Francesco. Ma proprio in questo sta la parte significativa della parabola. L’acrobata di Nostra Signora non stava ritto sulla testa allo scopo di avere una visuale più vivida o più singolare di fiori e piante. Non era questo che faceva, e non gli sarebbe mai venuto in mente di farlo. L’acrobata di Nostra Signora stava ritto sulla testa in omaggio a Nostra Signora. Se san Francesco avesse fatto la stessa cosa, che peraltro sarebbe stato capacissimo di fare, l’avrebbe fatta per lo stesso motivo, dettato da un pensiero soprannaturale. Soltanto dopo il suo entusiasmo si sarebbe esteso e avrebbe messo una specie di aureola a tutte le cose terrene. Ecco perché non è corretto rappresentare san Francesco solo come un romantico precursore del Rinascimento e del risveglio dei piaceri naturali per sé presi. Ci dimostra che il segreto per recuperare i piaceri naturali sta nel guardarli alla luce di un piacere soprannaturale. In altri termini, ha ripetuto su di sè quel processo storico descritto nel capitolo introduttivo: la veglia ascetica che finisce con la visione di un mondo naturale rinnovato. Ma nel suo caso personale c’era di più; c’erano gli elementi che rendono ancora più appropriato il confronto con il giullare o l’acrobata.

Si può immaginare che in quella cella o caverna buia Francesco abbia trascorso le ore più oscure della sua vita. Era per natura il genere di uomo che ha quella vanità che è il contrario dell’orgoglio, quella vanità che si avvicina molto all’umiltà. Non ha mai disprezzato i suoi simili e quindi non ha mai disprezzato l’opinione dei suoi simili, compresa l’ammirazione per i suoi simili. Quella parte della sua natura umana aveva subito i colpi più duri e più pesanti. Può darsi che dopo l’umiliante ritorno dalla sua campagna militare frustrata, sia stato tacciato di vigliaccheria. E’ certo che, dopo la sua disputa con il padre riguardo alle balle di stoffa, fosse stato accusato di furto. E persino quelli che più gli avevano mostrato comprensione, come il prete cui aveva restaurato la chiesa e il vescovo che gli aveva dato la sua benedizione, lo avevano trattato con una condiscendenza quasi sarcastica che aveva lasciato chiaramente intendere quale fosse la conclusione della vicenda. Si era messo in ridicolo. Chiunque sia stato giovane, abbia cavalcato e si sia sentito pronto alla battaglia, che abbia avuto l’ambizione di diventare un trovatore e abbia accettato le regole del cameratismo, si renderà conto del peso grave e schiacciante di quella semplice accusa. La conversione di san Francesco, come quella di san Paolo, era stata in qualche modo come essere disarcionato da un cavallo, ma per certi versi era stata una caduta ancora peggiore, perchè il cavallo era un cavallo da battaglia. A ogni modo non era rimasto nulla di lui che non fosse ridicolo. Tutti sapevano che, a dir poco, si era coperto di ridicolo. Il fatto di essersi reso ridicolo era oggettivo e reale come un paracarro. Si vedeva come una cosuccia piccola ma evidente, come una mosca che cammina sul vetro di una finestra; e quella cosuccia era ridicola. E mentre fissava la parola “ridicolo” scritta davanti a lui a caratteri luminosi, la parola stessa incominciò a risplendere e a cambiare.

Da bambini ci dicevano che se uno avesse scavato un buco attraverso il centro della terra e avesse continuato a scendere sempre più giù, arrivato al centro sarebbe venuto il momento in cui gli sarebbe parso di salire sempre più su. Non so se sia vero. La ragione per cui non so se sia vero è che non mi è mai capitato di scavare un buco attraverso il centro della terra e tanto meno di entrarci dentro. Se non so come ci si senta in questo capovolgimento, è perchè non mi è mai successo. E anche questa è un’allegoria. Non c’è dubbio che lo scrittore, e magari anche il lettore, sia una persona normale cui non è mai successa una cosa del genere. Non ci è dato di seguire san Francesco in quel conclusivo capovolgimento spirituale in cui un’umiliazione totale diventa totale beatitudine o felicità, perché a noi non è mai successo. Io stesso non pretendo di andar oltre quel primo crollo delle barricate romantiche che sono la vanità di un ragazzo, cui ho fatto cenno nell’ultimo paragrafo. E, naturalmente, anche quel paragrafo è pura congettura; una persona può supporre come si sarebbe sentita, ma può darsi che si sarebbe sentita in un modo completamente diverso. Ma per diverso che fosse, era pur sempre una sensazione analoga a quella che prova l’uomo che scava un tunnel attraverso la terra, cioè uno che va sempre più giù fino a un misterioso momento in cui comincia ad andare sempre più su. Non siamo mai andati tanto su perchè non siamo mai andati tanto giù; è ovvio che non siamo capaci di dire che non succede; e più andiamo avanti a leggere con calma e imparzialità la storia del genere umano, e in special modo la storia degli uomini più saggi, più arriviamo alla conclusione che in realtà accade. Non ho la pretesa di scrivere riguardo all’intima essenza di quest’esperienza. Ma ai fini di questa narrazione, si può descrivere il suo aspetto esteriore dicendo che, quando Francesco venne fuori dalla sua spelonca di oscurantismo, portava la parola “ridicolo” come una piuma sul cappello, come un fregio araldico, o persino una corona. Avrebbe continuato a essere ridicolo; sa- rebbe diventato sempre più ridicolo, il buffone di corte del Signore del cielo. E’ uno stato che può essere rappresentato solo in modo simbolico, ma il simbolo del capovolgimento è reale. Se uno ha visto il mondo capovolto, con tutti gli alberi e le torri appesi all’in giù come quando si specchiano in uno stagno, un possibile risultato sarebbe di mettere l’accento sul concetto di dipendenza. La correlazione è latina e letteraria; infatti il termine “dipendente” propriamente significa “appeso”. Darebbe vita al testo delle Scritture in cui si dice che Dio ha appeso il mondo sul nulla. Se in uno dei suoi strani sogni san Francesco avesse visto la città di Assisi capovolta, sarebbe stata perfettamente uguale a se stessa, tranne che per il fatto di essere capovolta. Ma il punto è questo: mentre a un occhio normale la possanza delle sue mura, le massicce fondamenta delle sue torri d’osservazione e la sua alta fortezza l’avrebbero fatta sembrare ancora più sicura e più stabile, nel momento in cui la si capovolge il suo peso stesso la farebbe sembrare più indifesa e più esposta al pericolo. Non è altro che un simbolo; ma si dà il caso che si adatti alla realtà psicologica. San Francesco avrebbe potuto amare la sua cittadina quanto l’amava prima, o forse anche di più; ma pur amandola di più, l’essenza del suo amore sarebbe stata diversa.

Avrebbe potuto vedere e amare ogni tegola dei tetti spioventi e ogni uccello posato sui bastioni, ma li avrebbe visti in una prospettiva nuova e soprannaturale di costante pericolo e dipendenza. Invece di essere semplicemente fiero della sua città perché forte e salda, avrebbe ringraziato Dio onnipotente perché non l’aveva lasciata cadere, avrebbe ringraziato Dio perché non lasciava cadere l’intero cosmo come un vaso di cristallo che si infrangesse in una miriade di stelle cadenti. Forse è così che san Pietro aveva visto il mondo quando fu crocifisso a testa in giù.

di Gilbert K. Chesterton

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Prendere per maestro San Giuseppe

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

Prendere per maestro San Giuseppe dans Citazioni, frasi e pensieri sangiuseppe

Di San Giuseppe ecco che cosa dice Santa Teresa d’Avila, nella sua autobiografia: “Chi non trova maestro che gli insegni a pregare, prenda per maestro questo glorioso santo, e non sbaglierà strada”. —Il consiglio viene da un’anima esperta. Seguilo.

San Josemaría Escrivá de Balaguer

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La speranza di papa Francesco è la stessa di Giovanni e Pietro

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

La speranza di papa Francesco è la stessa di Giovanni e Pietro
di Francesco Baccanelli – Il Sussidiario

 La speranza di papa Francesco è la stessa di Giovanni e Pietro dans Articoli di Giornali e News 317h3ps

La parola “speranza”, in un periodo di crisi come quello che stiamo attraversando, ricorre quasi quotidianamente nei nostri discorsi. Aspettiamo con inquietudine spiragli di luce, prospettive inedite, opportunità incoraggianti. Ma quando si presenta l’occasione favorevole, purtroppo, non sempre siamo pronti a prenderci quei rischi necessari a trasformare i semplici desideri in qualcosa di concreto.

Sembra quasi che per noi la speranza sia diventata una “tela di Penelope” da cucire con i sogni e da disfare, codardamente, con le paure. Se da un lato ci piace cullarla tra i nostri pensieri, coprendola di costanti attenzioni, dall’altro stiamo più che mai attenti a non tradurla in atto. 

Probabilmente, cedendo un po’ all’insospettabile fascino del pessimismo dei nostri tempi, ci siamo dimenticati del suo vero significato. E dire che, per recuperarlo in pieno, basterebbe sfogliarela Bibbia, dove speranza e fede si alimentano a vicenda, illuminando anche le situazioni in apparenza più buie.

Pensiamo, ad esempio, ai sentimenti provati da Pietro e Giovanni il mattino di Pasqua: «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro» (Gv 20, 1-4).

I due apostoli si mettono a correre. Ingaggiano, involontariamente, una gara di velocità. Del resto, è impossibile per loro avvicinarsi al sepolcro a passo lento. Neanche la spossatezza accumulata nei giorni precedenti può fare da freno. A muovere le loro gambe, infatti, non è una semplice curiosità. È qualcos’altro. Qualcosa che l’artista svizzero Eugène Burnand (Moudon, 1850 – Parigi, 1921) nel più famoso dipinto dedicato all’episodio, I discepoli Pietro e Giovanni accorrono al sepolcro il mattino della Risurrezione, riesce a raffigurare a meraviglia: la speranza.

Quest’opera, eseguita nel 1898 e conservata al Musée d’Orsay di Parigi (fino al 1° maggio, tuttavia, è visibile a Roma, a Castel Sant’Angelo, nell’ambito della mostra Il cammino di Pietro), rappresenta un momento imprecisato della corsa dei due apostoli. Il cielo che li sovrasta ha tonalità insolite, che vanno dal giallo al bianco, e ospita uno sparuto drappello di nuvole grigio-viola in fuga. Pietro ha già diverse primavere sulle spalle e porta scolpite sul volto tracce di dolori recentissimi. 

Ma la speranza, testimoniata dagli occhi fiduciosi e dal passo veloce, tutto a un tratto sembra averlo ringiovanito. Giovanni, invece, ha una sensibilità fanciullesca e, correndo a mani giunte, trattiene a stento il pianto. Non sanno ancora con certezza cosa sia accaduto a Gesù, ma la loro fede non vacilla perché è sostenuta dalla speranza.

Burnand riproduce la corsa dei due apostoli con evidente partecipazione emotiva e sembra riconoscere nella risolutezza l’unico vero atteggiamento con il quale si può inseguire la speranza. Il pittore svizzero vuole spronarci a inseguirla con decisione. Le persone di mezza età e gli anziani devono mettere da parte i risultati della loro esperienza e lanciarsi verso le prospettive più inattese, mentre i giovani devono armarsi di coraggio e vincere le ansie di chi conosce ancora troppo poco della vita.

Vengono in mente le parole che in Cani perduti senza collare Gilbert Cesbron affida al giudice Lamy, impegnato a spingere il disincantato Marcel a una visione delle cose più ottimistica: «Se la speranza non esiste, cosa faccio io qui, questa notte? È inteso, voi avete ragione – ma ragione secondo la maniera dei medici, degli psichiatri e degli psicologi: ossia, nove volte su dieci. Ma la decima probabilità, mio caro, la decima, che si chiama Grazia, se uomini come voi e come me non la tentano, chi la tenterà? [...] Preferite essere al servizio della Speranza e della Fiducia o al servizio delle statistiche e dei “Ve lo avevo ben detto…”?».

Dobbiamo riscoprire la speranza. Dobbiamo correre senza paura come hanno fatto Pietro e Giovanni il mattino di Pasqua. E dobbiamo seguire con attenzione e affetto le parole che Papa Francesco ci ha rivolto nell’omelia della Messa di inizio del suo ministero petrino: «Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi la speranza. Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio».

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Tutte le cose in Gesù Cristo

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

Tutte le cose in Gesù Cristo dans Citazioni, frasi e pensieri roberthughbenson

La Messa, la peghiera, il Rosario. Queste sono le prime e le ultime cose. Il mondo nega la loro potenza ed è invece in tutto questo che il cristiano deve cercare appoggio e rifugio… Tutte le cose in Gesù Cristo: in Gesù Cristo ora e sempre. Nessun altro mezzo può servire. Egli deve fare tutto, perché noi non possiamo fare più nulla.

Robert Hugh Benson

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«La Chiesa guardi alle periferie»

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

«La Chiesa guardi alle periferie»
Da Bergoglio l’invito ad andare ai confini non solo geografici ma anche esistenziali. Nel suo intervento alle Congregazioni generali il futuro Pontefice metteva in guardia dal rischio dell’autoreferenzialità e della mondanità spirituale. Da una parte esiste la Chiesa evangelizzatrice, che esce da sé, dall’altra la Chiesa mondana che vive in sé, di sé e per sé. Il testo diffuso dal cardinale Ortega.
di Gianni Cardinale – Avvenire

«La Chiesa guardi alle periferie» dans Fede, morale e teologia chiesaperiferia

«Pensando al prossimo Papa: un uomo che, dalla contemplazione di Gesù Cristo e dall’adorazione di Gesù Cristo aiuti la Chiesa a uscire da sé verso le periferie esistenziali, che la aiuti ad essere madre feconda che vive della « dolce e confortante gioia d’evangelizzare »».

È questo l’ultimo, illuminante, punto di quello che con ogni probabilità è stato l’ultimo intervento da cardinale dell’arcivescovo Jorge Mario Bergoglio, oggi papa Francesco.

Da più testimonianze era noto che durante le Congregazioni generali che hanno preceduto l’ultimo Conclave l’intervento dell’allora cardinale Bergoglio aveva colpito in modo particolare l’eminentissimo uditorio che poi lo ha scelto come successore di Benedetto XVI. Ora, grazie al cardinale dell’Avana Jaime Lucas Ortega y Alamino, e con l’autorizzazione di papa Francesco, tutto il mondo può conoscere i contenuti di quell’intervento.

Il cardinale Ortega ha fatto la preziosa rivelazione durante l’omelia pronunciata nel corso della Messa crismale che all’Avana è stata celebrata sabato mattina. Alla presenza al nunzio apostolico, l’arcivescovo Bruno Musarò, dei vescovi ausiliari Alfredo Petit e Juan de Dios Hernandez, e del clero « habanero » che rinnovava le promesse sacerdotali, il porporato ha raccontato che durante le Congregazioni generali precedenti il Conclave l’allora cardinale Bergoglio aveva fatto un intervento «magistrale», che rifletteva anche il suo pensiero sulla Chiesa.

Per questo motivo Ortega chiese a Bergoglio se aveva un testo scritto da poter conservare. Bergoglio disse che non l’aveva ma il giorno dopo «con delicatezza estrema», racconta Ortega, Bergoglio gli consegnò l’«intervento scritto di suo pugno tale come lo ricordava». Ortega chiese all’allora confratello cardinale se poteva diffondere il testo e Bergoglio disse di sì.

Poi il cardinale dell’Avana rinnovò la richiesta dopo la fine del Conclave quando l’arcivescovo di Buenos Aires era stato eletto al Soglio di Pietro. E papa Francesco rinnovò la sua autorizzazione. Ieri l’immagine dell’appunto bergogliano, la trascrizione del testo e una sintesi dell’omelia del cardinale cubano sono state messe in rete dal sito di Palabra Nueva, rivista dell’arcidiocesi « habanera ».

Tutti così possono leggere quello che il cardinale Ortega, a giusto titolo, definisce «un tesoro speciale della Chiesa e un ricordo privilegiato dell’attuale Sommo Pontefice». L’appunto, scritto in spagnolo (a parte ne pubblichiamo la traduzione integrale), inizia con la considerazione che nel corso delle Congregazioni generali si era fatto riferimento alla «evangelizzazione» (sottolineato nel testo originale), che «è la ragione di essere della Chiesa» e subito si richiamava una citazione del paragrafo 80 dell’Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi promulgata da Paolo VI nel 1975, laddove papa Montini invita tutta la Chiesa a conservare «la dolce e confortante gioia d’evangelizzare».

Il testo di Bergoglio si articola poi in quattro punti. Nel primo si sottolinea che «evangelizzare implica zelo apostolico», e cioè «la parresia di uscire da se stessa» e di recarsi «verso le periferie non solo quelle geografiche ma anche le periferie esistenziali», del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, dell’ignoranza e indifferenza religiosa, del pensiero, di ogni forma di miseria.

Nel secondo si evidenzia che quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare «diventa autoreferenziale e allora si ammala» e qui Bergoglio fa un riferimento al brano del Vangelo di Luca (13, 10-17) in cui Gesù guarisce una donna «curva» che «aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma», e poi denuncia come «i mali» che affliggono «le istituzioni ecclesiali» hanno radice nell’«autoreferenzialità», definita come «una sorta di narcisismo teologico». «Nell’Apocalisse – continua Bergoglio riferendosi al verso 20 del capitolo 3 – Gesù dice che sta alla porta e bussa.
Evidentemente il testo si riferisce al fatto che bussa da fuori la porta per entrare… Però penso che a volte Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire».

Da qui il terzo punto dell’intervento che l’allora cardinale Bergoglio pronunciò alle Congregazioni generali. «La Chiesa – si legge nel testo diffusa all’Avana – quando è autoreferenziale, senza rendersene conto, crede di avere luce propria; smette di essere il mysterium lunae» e così incorre nella «mondanità spirituale» di cui parlava il teologo gesuita, e poi cardinale, Henri de Lubac, che la definiva come «il male peggiore in cui può incorrere la Chiesa», il «vivere per darsi gloria gli uni con gli altri». «Semplificando – spiega Bergoglio – ci sono due immagini di Chiesa».

Da una parte «la Chiesa evangelizzatrice che esce da sé; la Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans» come si legge nell’incipit della celebre Costituzione conciliare («che ascolta religiosamente la Parola di Dio e la proclama con ferma fiducia»). Dall’altra invece «la Chiesa mondana, che vive in sé, da sé, per sé».

Infine in quarto e ultimo punto: l’auspicio di un Papa che contemplando Gesù Cristo aiuti la Chiesa a «uscire da sé» verso le «periferie esistenziali». Ovviamente papa Francesco non aveva il problema di essere lui questo Papa. Ma i cardinali elettori, e lo Spirito Santo attraverso loro, hanno pensato proprio così.

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Il Curato d’Ars e la confessione

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

Il Curato d’Ars e la confessione  dans Fede, morale e teologia Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

«La vita di Giovanni Maria Vianney è trascorsa in confessionale». Così diceva l’abbé Alfred Monnin, che aveva frequentato il Curato per più di cinque anni, e del quale sarebbe divenuto biografo. Alcuni tratti distintivi della cura d’anime, intessuta dal santo patrono dei parroci nell’ombra discreta in cui si celebra il sacramento della penitenza, li ha ripercorsi di recente Philippe Caratgé, moderatore della società sacerdotale San Giovanni Maria Vianney, nella sua relazione al convegno internazionale svoltosi ad Ars a fine gennaio, di cui saranno prossimamente pubblicati gli atti.

Per il Curato d’Ars – lo si ricava dalle sue lezioni di catechismo – una buona confessione deve essere umile, semplice, prudente e totale. Occorre «evitare tutte quelle accuse inutili, tutti quegli scrupoli che fanno dire cento volte la stessa cosa, che fanno perdere tempo al confessore e snervano quelli che sono in attesa di confessarsi». Bisogna «confessare quello che è incerto come incerto, e quello che è certo come certo». L’essenziale è «evitare ogni simulazione: che il vostro cuore sia sulle vostre labbra. Voi potete imbrogliare il vostro confessore, ma ricordatevi che non imbroglierete mai il buon Dio, che vede e conosce i vostri peccati meglio di voi». Lui stesso passava poco tempo con chiunque andasse a inginocchiarsi al suo confessionale, affinché il tempo fosse sufficiente per tutti. Confessioni brevi, parole brevi. Eppure non c’era uno solo dei penitenti che non si sentisse fatto oggetto di una sollecitudine particolare, di una dedizione sempre pronta ad approfittare di ogni minimale apertura all’azione dello Spirito, che «come un giardiniere non finisce mai di lavorare la terra» (Caratgé), anche quella dei cuori più induriti. «Per me», ripete Jean-Marie a proposito della riparazione da richiedere ai penitenti, «vi dirò la mia ricetta. Io do loro una piccola penitenza, e io faccio il resto al posto loro». La cosa che conta, dice il Curato, è avere almeno un po’ di contrizione dei propri peccati. Con una contrizione perfetta si viene perdonati «ancor prima di ricevere l’assoluzione». Quindi «bisogna mettere più tempo a domandare la contrizione che a esaminarsi».

Per il Curato, la confessione è il dono inimmaginabile che Dio tira fuori a sorpresa per salvare i suoi figli in pericolo: «Ragazzi miei, non si può comprendere la bontà che ha avuto Dio per istituire questo grande sacramento. Se noi avessimo avuto una grazia da domandare a Nostro Signore, non avremmo mai immaginato di domandargli quella là. Ma lui ha previsto la nostra fragilità e la nostra incostanza nel bene, e il suo amore  l’ha portato a fare ciò che noi non avremmo mai osato domandargli».

Ancor di più, è un dono che rivela nel modo più intimo la natura stessa del mistero della Trinità. Recluso nel suo confessionale, il cuore semplice del Curato assapora in maniera imparagonabile il mistero del cuore stesso di Dio. I perdoni imperfetti degli uomini talvolta sembrano elargizioni concesse a caro prezzo, fatte quando vogliamo apparire buoni. Il perdono di Dio è un’altra cosa. «Come potremmo noi disperare della Sua     misericordia, dal momento che il Suo più grande piacere è di perdonarci», scrive il Curato. Per questo il tesoro della misericordia divina è inesauribile, e nessuno può pensare di mettere in conto i doni della grazia. Come se fossero debiti che prima o poi si paga, con cui ci si mette a paro con le proprie prestazioni. Perché per Dio stesso perdonare è il massimo godimento. E questo lo fa diventare mendicante del cuore dell’uomo. «La sua pazienza ci aspetta», rassicura il Curato. Di più: «Non è il peccatore che torna a Dio per chiedergli perdono, ma è Dio che corre dietro al peccatore e lo fa ritornare a Lui».

di Gianni Valente – 30Giorni

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Una via che conduce a Dio

Posté par atempodiblog le 26 mars 2013

Le scoperte scientifiche confermano che l’universo è opera di un Creatore intelligente.
Con buona pace del caso: che non ha logica e manca di buon senso.
di Eugenio Corti – Il Timone

Una via che conduce a Dio dans Articoli di Giornali e News eugeniocorti

Leggo che secondo il filosofo Gianni Vattimo (uno dei capifila del “pensiero debole”, che va ora per la maggiore in Italia e in Occidente) la scienza sarebbe nel nostro tempo il luogo in cui risulta più evidente il naufragio del pensiero metafisico, tanto che proprio essa darebbe oggi senso e compimento al programma nietzscheano della morte di Dio.
L’affermazione mi sorprende, anche se da tre secoli ormai – in pratica dal tempo delle prime scoperte astronomiche moderne – sentiamo parlare d’incompatibilità tra scienza e fede. Nella Bibbia tali scoperte non sono contemplate, e ciò inficiava, a giudizio di più d’uno, l’intero testo sacro, anzi inficiava la stessa esistenza di Dio, almeno del Dio della Bibbia.
Purtroppo tale discorso ha turbato in passato la fede di diversi credenti, i quali convenivano che in effetti la Bibbia avrebbe dovuto tener conto delle scoperte fatte dalla scienza nei secoli successivi alla sua stesura, in particolare nel Milleseicento e nel Millesettecento. Ma – ci chiediamo noi – perché non anche delle scoperte fatte nel nostro secolo allora (il big bang, le galassie, le macrocelle, le nane bianche, le supernove, i “buchi neri” al cui margine il tempo si arresta, nonché i quasar, i neutrini, i muoni, i pulsar, gli spin,  e tante altre ancora)? E perché non avrebbe dovuto tener  conto,  la Bibbia, anche delle  scoperte che verranno fatte nei secoli e millenni a venire, finché l’uomo abiterà la terra? In questo caso però le parole del sacro testo non sarebbero state comprese dai lettori cui erano rivolte: sia da quelli contemporanei alla sua stesura, sia da quelli venuti dopo mille, o duemila anni, e neanche da noi: per millenni tali parole avrebbero semplicemente costituito una cabala incomprensibile.
Oggi sappiamo che l’universo al suo inizio, cioè al momento del big bang (da 10 a 20 miliardi di anni fa) era composto di materia oscura ultracompressa, che mentre si espandeva divenne luminosissima. Fu quella la prima luce, e raggiunse una tale intensità, quale non si sarebbe più avuta in seguito. Quanto al nostro sole, sappiamo che – essendo una stella di seconda o terza generazione, si è formato diversi miliardi di anni più tardi. Affascinante oltre ogni immaginazione è in realtà la storia dell’universo che la scienza ci propone oggi. Gli scienziati – com’è giusto – hanno effettuato il loro lavoro di ricerca senza farsi condizionare dal presupposto dell’esistenza o no di Dio. Ed ecco: nei credenti di oggi, incluso l’estensore delle presenti note, l’impressione è che il procedere scientifico (forse perché consiste in continue individuazioni di frammenti della verità) riporti di continuo a Dio. Certo – come i cristiani sanno – le cose sono organizzate in modo che l’uomo non sia costretto, quasi obbligato fisicamente, a dichiarare che crede (la libertà, infatti – che nella sua fase più alta è libertà di aderire a Dio, o di respingerlo – fa parte costitutiva della natura umana: senza tale libertà l’uomo sarebbe snaturato). Comunque oggi non meno di un tempo, mano a mano scopre nuovi aspetti della realtà che lo circonda, l’uomo si trova puntualmente davanti all’evidenza di un’azione pregressa di Dio creatore. La vita è comparsa sulla terra circa 3,7 miliardi di anni fa; per tre miliardi di anni dopo la sua comparsa gli unici esseri viventi sul nostro pianeta sono stati i batteri e le alghe azzurre. Come si è formata la vita? Per creazione diretta di Dio, oppure per una “legge” che Dio aveva iscritta nel cuore della materia fin dal momento in cui l’aveva creata? La Bibbia, mentre è chiara ed esplicita in merito alla creazione diretta ad opera di Dio tanto della materia, che dell’anima dell’uomo (rispettivamente all’inizio e al termine del suo processo creativo), circa la comparsa della vita non è altrettanto univoca. Riporta infatti alcuni comandi del Creatore: “La terra produca esseri viventi… Le acque brulichino di esseri viventi…”, ecc, ma dice anche: “Dio creò i grandi mostri marini…” ecc. Tuttavia, che la comparsa della vita non sia stata lasciata unicamente al caso ci sembra risulti evidente da diverse constatazioni scientifiche. Per esempio da quanto scrive Grichka Bogdanov: “Una cellula vivente è composta di una ventina di aminoacidi che formano una ‘catena’ compatta. La funzione di questi aminoacidi dipende a sua volta da circa duemila enzimi specifici… I biologi giungono a calcolare che la probabilità che un migliaio di enzimi differenti si raggruppi per caso in modo ordinato fino a formare una cellula vivente (nel corso di una evoluzione di diversi miliardi di anni) è dell’ordine di 1 seguito mille zeri contro 1”.
Bogdanov ci mette anche davanti al tempo necessario perché si verifichi uno solo dei diversi passaggi necessari per arrivare alla prima cellula vivente: “Affinchè la formazione dei nucleotidi porti ‘per caso’ all’elaborazione di una molecola di RNA (acido ribonucleico) utilizzabile, sarebbe stato necessario che la natura moltiplicasse i tentativi a caso per un tempo di almeno anni 1 seguito da 15 zeri (cioè un milione di miliardi di anni), il che è un tempo centomila volte più esteso dell’età complessiva del nostro universo” (Grichka Bogdanov, Igor Bogdanov, Jean Guitton, Dio e la scienza, Bompiani, Milano 1992, p. 44). Non meno illuminante è quanto ha detto il prof. Bucci del campus biomedico universitario di Roma, nel corso di un congresso internazionale avente per tema “La probabilità nelle scienze”: “Supponiamo che io vada in una grotta preistorica, e vi trovi incisa, su una parete, una scritta, per esempio: ‘Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la dritta via era smarrita’, e che io dica ai miei colleghi: in quella grotta, a causa dell’erosione dell’acqua, della solidificazione dei carbonati e dell’azione del vento, si è prodotta, per caso, la prima frase della Divina Commedia. Non mi prenderebbero per matto? Eppure non avrebbero nulla da ridire se dicessi loro che si è formata per caso la prima cellula vivente, che ha un contenuto d’informazioni equivalente a 5000 volte l’intera Divina Commedia”.
Nonostante constatazioni come queste, c’è chi non vuol riconoscere che a monte di ogni cosa ci sia un’Intelligenza e un’azione creatrice, e propone che il tutto provenga dal caso. Francamente non possiamo dire che sia una proposta costruita sulla logica, né sul buon senso.

RICORDA
Obiettivamente è difficile accettare che questo nostro stupefacente ordine cosmico, capace di ospitare e dar forma alla straordinaria complessità della vita e dell’intelligenza, sia frutto di un fortunato lancio dei famosi dadi di Einstein. Anzi, a ben vedere, la similitudine del gioco dei dadi appare perfino sottodimensionata rispetto all’altissima improbabilità che si verifichino spontaneamente tutte le coincidenze indispensabili per la formazione dell’attuale universo. Come dice Trinh Xuan Thuan: «Si potrebbe paragonare la precisione di questa regolazione all’abilità di un arciere che riuscisse a ficcare la sua freccia al centro di un bersaglio di un centimetro quadrato da una distanza di 15 miliardi di anni-luce, l’età del cosmo».
(Roberto Timossi, Dio e la scienza moderna. Il dilemma della prima mossa, Mondadori, Milano 1999, p. 328).

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Sento che si avvicinano i tempi…

Posté par atempodiblog le 26 mars 2013

Sento che si avvicinano i tempi... dans Citazioni, frasi e pensieri Soloviev

“Sento che si avvicinano i tempi in cui cristiani dovranno radunarsi in preghiera nelle catacombe. La fede sarà perseguitata dappertutto, forse meno brutalmente che ai giorni di Nerone, ma più sottilmente e crudelmente: per mezzo della menzogna, dell’inganno, della falsificazione”.

Vladimir Solov’ëv

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25 marzo del 1958: Maria rivelò di essere l’“Immacolata Concezione”

Posté par atempodiblog le 25 mars 2013

25 marzo del 1958: Maria rivelò di essere l'“Immacolata Concezione” dans Fede, morale e teologia Maria-della-Piccola-Lourdes

Non coglieremmo però tutto il valore dottrinale dell’affermazione di Maria di essere l’“Immacolata Concezione” se non tenessimo nella giusta considerazione il giorno scelto per tale rivelazione. Si tratta del 25 marzo, festa dell’Annunciazione del Signore. La Madonna spesso ci istruisce con un linguaggio simbolico. La scelta delle date non va considerata superficialmente, perché in alcuni casi può assumere il significato di un messaggio particolare. Mi ha molto colpito ad esempio la constatazione che la Madonna a Fatima abbia scelto di apparire il giorno 13, che è quello in cui, secondo il libro di Ester (cfr. Est 3,7), il popolo ebraico doveva essere sterminato, ma fu poi salvato dalla regina Ester, considerata dai Padri della Chiesa una figura profetica di Maria.
La festa dell’Annunciazione, in cui la Santa Vergine a Lourdes rivela di essere l’ Immacolata Concezione, ci richiama il mistero della divina maternità di Maria, la quale, accogliendo l’annuncio dell’angelo e pronunciando il suo “si” incondizionato, diviene la Madre di Dio. Con la semplice scelta del 25 marzo per rivelare il nome alla piccola veggente, la Madonna non solo conferma di essere l’Immacolata, ma ci dà anche la motivazione profonda per cui la Sapienza divina ha deciso di preservarla, fin dal primo istante del suo concepimento, dalla macchia del peccato originale. Maria è l’Immacolata, perché Madre di Dio. Non poteva essere sfiorata, neppure per un solo istante, dall’ombra del male colei che avrebbe dovuto ospitare nel suo cuore e nel suo grembo la stessa Santità divina, nella persona del Verbo Incarnato.
Quel giovedì 25 marzo, l’oscura grotta di Massabielle, simbolo di questo mondo immerso nelle tenebre del male, si è rischiarata della luce divina dell’Immacolata Concezione e della Madre di Dio. Lo splendore incontaminato di Maria è quello dell’Arca dell’alleanza che accoglie il Signore e lo porta fino a noi, donandocelo come nostro Salvatore.

dal libro «Sui passi di Bernadette» di Padre Livio Fanzaga

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Annunciazione: un mistero che accade nel silenzio

Posté par atempodiblog le 25 mars 2013

Annunciazione: un mistero che accade nel silenzio dans Fede, morale e teologia annunciazioneg

L’incontro tra il messaggero divino e la Vergine Immacolata passa del tutto inosservato: nessuno sa, nessuno ne parla. E’ un avvenimento che, se accadesse ai nostri tempi, non lascerebbe traccia nei giornali e nelle riviste, perché è un mistero che accade nel silenzio. Ciò che è veramente grande passa spesso inosservato e il quieto silenzio si rivela più fecondo del frenetico agitarsi che caratterizza le nostre città, ma che – con le debite proporzioni – si viveva già in città importanti come la Gerusalemme di allora. Quell’attivismo che ci rende incapaci di fermarci, di stare tranquilli, di ascoltare il silenzio in cui il Signore fa sentire la sua voce discreta. Maria, quel giorno in cui ricevette l’annuncio dell’Angelo, era tutta raccolta e al tempo stesso aperta all’ascolto di Dio. In lei non c’è ostacolo, non c’è schermo, non c’è nulla che la separi da Dio. Questo è il significato del suo essere senza peccato originale: la sua relazione con Dio è libera da qualsiasi pur minima incrinatura; non c’è separazione, non c’è ombra di egoismo, ma una perfetta sintonia: il suo piccolo cuore umano è perfettamente «centrato» nel grande cuore di Dio.

Benedetto XVI

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Rosa Margherita la nonna “teologa” di Francesco

Posté par atempodiblog le 25 mars 2013

“Lei mi ha insegnato molto nella fede”
di Andrea Tornielli – La Stampa

Rosa Margherita la nonna “teologa” di Francesco dans Andrea Tornielli famigliabergoliononna
La famiglia Mario Bergoglio (in piedi) con i suoi familiari;
seduti, da sinistra, il nonno Giovanni, la nonna Rosa e il papà Mario

Com’è ormai solito fare quasi sempre, da pastore abituato a predicare a braccio, anche ieri Papa Francesco ha sollevato gli occhi dal testo e dopo aver citato tra le «ferite» che «il male infligge all’umanità» anche la «sete di denaro» ha detto: «Mia nonna diceva sempre a noi bambini: il sudario non ha tasche!». Gli averi accumulati li dobbiamo lasciare, non ci accompagnano nell’ultimo viaggio. Così, fatto alquanto inusuale per una messa papale in piazza San Pietro, anche la nonna del Pontefice conquista una citazione nell’omelia della Domenica delle Palme.

Francesco si riferiva alla mamma di suo padre, Rosa Margherita Vasallo, nata nel 1884 in Valbormida, sposatasi a Torino con Giovanni Bergoglio. Dalla loro unione nel 1908 era nato il padre del Papa, Mario. Nel gennaio 1929 i Bergoglio, lasciato Portacomaro, erano sbarcati a Buenos Aires, per ricongiungersi agli altri familiari già emigrati in Argentina. La signora Rosa, nonostante l’aria calda e carica d’umidità – nell’emisfero Sud in gennaio è piena estate – portava un cappotto col collo di volpe, fuori luogo per quelle temperature. Nella fodera c’erano i proventi della vendita dei beni di famiglia.

Il piccolo Jorge, nato nel dicembre 1936, era cresciuto passando parte della giornata a casa dei nonni, che gli avevano trasmesso un po’ di piemontese e soprattutto la fede cristiana. In un’intervista radiofonica rilasciata lo scorso novembre alla radio della parrocchia della villa 21 di Barracas, una delle baraccopoli povere di Buenos Aires, il futuro Papa aveva detto: «Chi mi ha insegnato a pregare è stata mia nonna. Lei mi ha segnato molto nella fede e mi raccontava le storie dei santi».

Qualche anno fa, in un intervento televisivo sul canale EWTN, visibile ora nel sito web cantualeantonianum.com, il cardinale Bergoglio aveva ricordato: «Una volta, quando ero in seminario, mia nonna mi disse: “Non ti dimenticare mai che stai per diventare un sacerdote e la cosa più importante per un sacerdote è celebrare la messa” e mi raccontò di una madre che a suo figlio – il quale era un prete veramente santo – disse: “Celebra la messa, ogni messa, come se fosse la prima e l’ultima”».

Nel libro-intervista «El Jesuita», il cardinale Bergoglio aveva raccontato di tenere ripiegato all’interno del breviario, il libro di preghiere in due tomi che porta sempre con sé anche durante i viaggi, proprio uno scritto della nonna. Si tratta di un piccolo testamento lasciato ai nipoti Bergoglio, nel quale si legge: «Che questi miei nipoti, ai quali ho dato il meglio del mio cuore, abbiano una vita lunga e felice, ma se in qualche giorno il dolore, la malattia, o la perdita di una persona amata li riempia di sconforto, ricordino che un sospiro al Tabernacolo, dove c’è il martire più grande e augusto, e uno sguardo a Maria ai piedi della croce, possono far cadere una goccia di balsamo sopra le ferite più profonde e dolorose».

Nel suo primo Angelus, domenica 17 marzo, Papa Francesco aveva citato un’altra anziana signora, che non era sua nonna ma l’aveva chiamata così secondo l’usanza argentina. Era una vecchia che si era andata a confessare da lui, vescovo, e gli aveva detto: «Se il Signore non perdonasse tutti, il mondo non esisterebbe». Bergoglio all’Angelus aveva commentato: «Mi venne voglia di domandarle: mi dica signora, lei ha studiato alla Gregoriana?». Ci si dovrà abituare, dunque, a queste citazioni così vicine alla fede dei semplici, efficaci e comprensibili da tutti, che punteggiano i suoi discorsi e le sue omelie. E che caratterizzano lo stile di un Papa rimasto se stesso, anche nella regola di vita improntata alla sobrietà: Francesco si è fatto recapitare dall’Argentina un paio di vecchie scarpe nere appena fatte risuolare, come ha raccontato alla rubrica «A Sua immagine» di RaiUno Virgina Bonar, una collaboratrice dell’ormai ex arcivescovo di Buenos Aires.

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