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I pastorelli di Fatima

Posté par atempodiblog le 21 février 2013

I pastorelli di Fatima dans Articoli di Giornali e News Fatima

Uno dei divertimenti preferiti da Francesco, Giacinta e Lucia era quello di gridare ad alta voce, dall’alto dei monti, seduti sulla roccia. Il nome che più echeggiava era quello della Madonna. A volte Giacinta, «quella a cui la Vergine Santissima ha comunicato maggior abbondanza di grazie e maggior conoscenza di Dio e della virtù», come scriverà Suor Lucia, recitava tutta l’Ave Maria, pronunciando la parola seguente soltanto quando l’eco riproduceva per intero quella precedente. Tale innocentissima preghiera di bambina, quasi surreale, dove il soprannaturale si sovrapponeva al naturale, doveva essere di sublime bellezza. Ebbene, la Madonna scelse proprio lei, suo fratello e la cugina per rivelare a Fatima, nel 1917, i rimedi che l’umanità e la Chiesa avrebbero dovuto prendere per combattere errori e guerre: la recita del Santo Rosario, la lotta contro il peccato, la consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria per arrestare l’ideologia comunista.

Il 12 settembre 1935 le spoglie di Giacinta furono trasportate da Vila Nova de Ourém a Fatima. Quando la bara fu aperta si attestò che il volto della piccola veggente era incorrotto. Venne scattata una fotografia e il Vescovo di Leiria, Monsignor José Alves Correia da Silva (1872-1957) ne inviò una copia a suor Lucia che, nei ringraziamenti, accennò alle virtù della cugina. Tale fatto indusse il Monsignore ad ordinare alla monaca di scrivere tutto ciò che sapeva della vita di Giacinta, ecco che nacque la Prima Memoria, che l’autrice terminò nel Natale dello stesso 1935.

Trascorsero due anni dalla Prima Memoria e il Vescovo di Leiria ordinò a Suor Lucia di scrivere, in tutta verità, la sua vita e le apparizioni mariane, così come erano avvenute. Suor Lucia obbedì, scrivendo la Seconda Memoria dal 7 al 21 novembre 1937.

In una lettera del 31 agosto 1941, indirizzata a padre Giuseppe Bernardo Gonçalves Sj, Lucia spiega come nacque la Terza Memoria: «Mons. Vescovo… mi ordinò di ricordare qualsiasi altra cosa che avesse relazione con Giacinta, per una nuova edizione che vogliono stampare. Quest’ordine mi penetrò nell’anima come un raggio di luce …». Fu proprio con questo scritto che Fatima raggiunse dimensioni internazionali. Sorpresi dai racconti della Terza Memoria, Monsignor Giuseppe Alves Correia da Silva e don Galamba conclusero che Lucia, nelle relazioni anteriori, non aveva detto tutto e che nascondeva ancora degli elementi. Dunque, il 7 ottobre 1941, la monaca riceve il nuovo ordine di scrivere qualsiasi altra cosa che avesse potuto emergere dagli accadimenti di Fatima. Fu così che l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata Concezione, dello stesso anno, l’autrice consegnò il manoscritto affermando: «Fin qui, ho fatto il possibile per nascondere quel che le apparizioni della Madonna nella Cova d’Iria avevano di più intimo. Ogni volta che mi vidi obbligata a parlare, cercai di accennarvi di sfuggita, per non  scoprire quello che tanto desideravo tener in serbo. Ma ora, che l’obbedienza mi comandò, ho detto tutto! E io rimango come lo scheletro, spogliato di tutto e perfino della vita stessa, messo nel Museo Nazionale, per ricordare ai visitatori la miseria e il niente di tutto quel che passa. Così spogliata, resterò nel Museo del Mondo ricordando a quelli che passano, non la miseria e il niente, ma la grandezza delle Misericordie Divine».

Con schiettezza e semplicità Suor Lucia narra in queste pagine le “magiche” beltà della loro infanzia. Tutti e tre i bambini nacquero ad Aljustrel, in Portogallo. Lucia dos Santos, poi suor Lucia di Gesù, il 22 marzo 1907, morirà a Coimbra il 13 febbraio 2005; Francesco Marto l’11 giugno 1908, morirà a Fatima il 4 aprile 1919 (beatificato, con la sorella il 13 maggio 2000); Giacinta Marto l’11 marzo 1910, morirà a Lisbona il 20 febbraio 1920.

Era la primavera del 1916 quando l’Angelo del Portogallo (così si identificò) comparve loro, anticipando l’arrivo di Nostra Signora di Fatima. Lucia e Giacinta (come accadrà anche con la Madonna), potevano vedere e sentire; la prima poteva anche colloquiare, mentre Francesco vedeva soltanto. L’Angelo, che portò l’Eucaristia e li comunicò, per tre volte pregò: «Mio Dio! Io credo, adoro, spero e Vi amo. Vi chiedo perdono per quelli che non credono, non adorano, non sperano e non Vi amano». Poi disse: «Pregate così. I Cuori di Gesù e di Maria stanno attenti alla voce delle vostre suppliche».

Francesco aveva un carattere mite, umile, paziente. Nel gioco accettava la sconfitta benevolmente e tendeva ad isolarsi, non si dava cura e pensiero se veniva emarginato. Era sempre sorridente, gentile, condiscendente. Quando qualcuno si ostinava a negargli i suoi diritti di vincitore, si piegava senza resistere: «Credi di aver vinto tu?! E va bene! A me non me n’importa!» e se qualcuno degli altri bambini insisteva nel togliergli qualcosa che gli apparteneva, diceva: “Fa’ pure… a me che me n’importa?!”». E davvero nulla gli importava, se non le realtà celesti. Amava il silenzio e non mancava occasione per mortificarsi con atti di eroismo.

Dopo il pascolo, la sera, Francesco e Giacinta andavano nell’aia della famiglia di Lucia per giocare e, insieme, aspettavano che la Madonna e gli Angeli accendessero le loro «lucerne», così definivano la luna e le stelle, e allora Francesco si animava nel contarle, ma nulla lo entusiasmava di più che l’osservare il sorgere e il tramontare del sole, che identificava come la lucerna del Signore, mentre Giacinta amava maggiormente quella della Madonna.

La sensibilità di animo di Francesco e di Giacinta, che traspariva dalla naturalezza dei loro gesti, con le apparizioni, raggiunse un livello di straordinario misticismo: la grazia corrisposta diede vita ad altezze di virtù. Quella di Francesco fu anima di profonda preghiera. Quando prese ad andare a scuola a volte diceva a Lucia: «Senti, tu va’ a scuola. Io resto qui, in chiesa, vicino a Gesù nascosto. Per me non vale la pena di imparare a leggere; fra poco vado in Cielo. Quando torni, vieni a chiamarmi». Allora si metteva vicino al Tabernacolo e, interrogato su cosa facesse tutte quelle ore, egli affermava: «Io guardo Lui e Lui guarda me».

Mentre Giacinta faceva penitenze per salvare anime peccatrici dall’Inferno, Francesco pensava a consolare il Signore e la Madonna. Ricordando la promessa di Maria Vergine, della quale aveva sempre un’immensa nostalgia, di portarlo presto in Cielo con Giacinta, gioiva dicendo: «lassù almeno potrò meglio consolare il Cuore di Gesù e di Nostra Signora».

Sapeva accettare e sopportare la sofferenza con esemplare rassegnazione e accolse la «Spagnola», che lo portò via, come un dono immenso per consolare Cristo, per riscattare i peccati delle anime e per raggiungere il Paradiso.

La breve vita di Giacinta trascorse in maniera parallela a quella del fratello, legata da un’identica serenità spirituale grazie al clima di profonda Fede che si respirava in casa. Il suo temperamento era però forte e volitivo e aveva una predisposizione per il ballo e la poesia. Era il numero uno dell’entusiasmo e della spensieratezza. Saranno gli accadimenti del 1917 a mutare i suoi interessi e più non ballerà, assumendo un aspetto serio, modesto, amabile. Il profilo che Lucia tratteggia della cuginetta è straordinario: è il ritratto dei puri di cuore, i cui occhi parlano di Dio.

Giacinta era insaziabile nella pratica del sacrificio e delle mortificazioni. Le penitenze più aspre per Lucia erano invece dettate dalle ostilità familiari e in particolare di sua madre, che la considerava una bugiarda e un’impostora. Lucia, essendo la più grande, fu la veggente più vessata e più interrogata (fino allo sfinimento) sia dalle autorità religiose che civili. A coronare questo clima intriso di tensioni e diffide c’era pure la situazione economica precaria dei dos Santos, provocata anche dal fatto che nel luogo delle apparizioni mariane, di proprietà della famiglia, non era più possibile coltivare nulla: la gente andava con asini e cavalli, calpestando tutto.

Agli inizi del mese di luglio del 1919 Giacinta entrò in ospedale, anche lei colpita dalla «Spagnola». Sua madre le chiese che cosa desiderasse e la piccola chiese la presenza dell’amata Lucia. La visita fu tutto un parlare delle sofferenze offerte per i peccatori al fine di allontanarli dall’Inferno – che con grande sgomento era stato loro mostrato dalla Madonna – e per il Sommo Pontefice: «Tu rimani qua per dire che Dio vuole istituire nel mondo la devozione al Cuore Immacolato di Maria. Quando ce ne sarà l’occasione, non ti nascondere. Di’ a tutti che Dio ci concede le grazie per mezzo del Cuore Immacolato di Maria; che le domandino a Lei, che il Cuore di Gesù vuole che vicino a Lui, sia venerato il Cuore Immacolato di Maria. Chiediamo la pace al Cuore Immacolato di Maria; Dio la mise nelle mani di Lei. S’io potessi mettere nel cuore di tutti, il fuoco che mi brucia qui nel petto e mi fa amare tanto il Cuore di Gesù e il Cuore di Maria!”».

Quando Lucia perse i cugini fu abissale il suo dolore, infatti, come lei stessa ebbe a dichiarare, non ebbe in terra altra più amata compagnia che quella di Francesco e di Giacinta.

Cristina Siccardi

Fonte: Il Timone, gennaio 2013
Tratto dal sito di Cristina Siccardi

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Quando Pietro depone le chiavi

Posté par atempodiblog le 21 février 2013

Dalle ore 20 e un minuto del 28 febbraio, come dovremo chiamare Benedetto XVI? Chi sarà? Non è un fatto puramente formale, quindi irrisorio. Al contrario il nome – l’appellativo – sarà gravido di sostanza e di conseguenze. E in questa circostanza il diritto canonico si rivela materia tutt’altro che arida. «Semmai è uno degli strumenti per rinnovare la Chiesa. Dirò di più: probabilmente, la separazione tra teologi e canonisti avvenuta con il Concilio ha contribuito a tagliare le gambe al Concilio stesso, impedendogli di dotarsi degli strumenti di attuazione adeguati per camminare». Carlo Fantappiè ne è convinto e pazienza se qualcuno penserà che è «di parte», in quanto ordinario di Diritto canonico alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre. In questi giorni Fantappiè ha avuto occasione di fare ricerche nella biblioteca della Pontificia Università Gregoriana, dove sta tenendo un corso da professore invitato. «E ne ho approfittato per indagare sulla rinuncia di papa Ratzinger».

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Che cosa ha scoperto? Di Celestino V è stato ormai detto tutto…
In effetti è l’unico esempio di vera rinuncia, almeno in parte analoga a quella di Benedetto XVI. E Celestino V, prima di prendere la sua decisione, si consultò con un gruppo di canonisti. Da tempo l’impegno dei canonisti era stato diretto a sempre meglio definire la liceità della rinuncia.

Erano casi tanto frequenti?
Nel XII secolo i canonisti si rifanno a dei precedenti allora ritenuti validi, ma in realtà falsi, che vanno da Clemente I a Liberio, dal I al IV secolo. L’unica « vera » rinuncia sembra quella di papa Ponziano (231-235), deportato nelle miniere sarde per ordine dell’imperatore; qui avrebbe abdicato per non lasciare la Chiesa senza pastore. Altri casi si segnalano tra VII e XI secolo, con Martino I, Benedetto V e Giovanni XVIII, ma sono parvenze di rinuncia o deposizioni. Poi ci sono le lotte per le investiture, una storia complessa. Fino alla riforma di papa Gregorio VII, l’elezione del Papa spettava al popolo romano e la competizione tra le famiglie patrizie era spietata, vere e proprie campagne elettorali con spese enormi. Dal 1059 l’elezione viene affidata al collegio dei cardinali e da quel momento l’eventuale rinuncia dev’essere comunicata a loro, come ha fatto Benedetto XVI.

Una vicenda terribilmente complessa. È possibile sintetizzarla?
Andiamo direttamente a Uguccione da Pisa, canonista. È lui, verso il 1190, a stabilire che i motivi leciti per la rinuncia sono tre: il desiderio di ritirarsi a vita monastica, la vecchiaia, la malattia. A chiunque è permesso rinunciare ma, attenzione, non senza aver valutato il bonum commune ecclesiae: il Papa, con il suo gesto, non deve danneggiare nessuno e deve tendere al bene della Chiesa universale.

Vengono in mente le parole di papa Ratzinger nel libro intervista di Seewald, del 2010…
Vengono in mente soprattutto le parole dette in latino al Concistoro: Uguccione rimanda al « foro interno », alla coscienza del Pontefice. Va evitata una rinuncia irresponsabile che metterebbe il Papa nella condizione di peccare mortalmente. Già allora si pone il problema di discernere il principio del diritto alla rinuncia dall’arbitrio della rinuncia medesima. Ciascun vescovo, consacrato a una Chiesa particolare, è come se stipulasse un « matrimonio spirituale » con la Chiesa stessa, in un legame indissolubile fino alla morte. Ma poi le cose cambiano…

Fine dell’indissolubilità del legame?
I canonisti del XIII secolo leggono la possibile rinuncia in un altro modo, legandola alle prerogative del Pontefice stesso. Se il Papa può tutto, da autentico monarca ha necessariamente anche il diritto di dimettersi, perché non ha limiti. La rinuncia va comunicata ai cardinali, ma non è necessario che sia da essi accolta. E non è finita…

Delle condizioni dovranno pur esserci…
Infatti. Per estensione, la rinuncia è valida in sei casi, che vanno dalla prostrazione fisica alla demenza fino al grave scandalum. Si escludono la codardia o la volontà di sottrarsi a una persecuzione incombente. E arriviamo a Celestino V.

A quali cause si appella?
A più d’una. È il 13 dicembre 1294. Davanti al collegio cardinalizio, Calestino V richiama queste motivazioni canoniche: inadeguatezza, debolezza fisica, defectus scientiae (scarsa cultura) e zelum melioris vitae (desiderio di vita monastica). La comunicazione della rinuncia, allora, faceva cadere hic et nunc il Papa dall’ufficio; Ratzinger invece ha separato le due cose. Il rituale è descritto da una fonte coeva, l’Historia anglicana del monaco inglese Bartolomeo de Cotton. Un rito altamente simbolico: «Discese dalla cattedra, prese la tiara dal capo e la pose per terra; e mantello anello e tutto se ne spogliò di fronte ai cardinali stupefatti, lasciò la sala, tornò in camera, si vestì dell’abito del suo ordine monastico e si sedette sull’ultimo gradino del trono papale». Come dire: ecco, mi sono retrocesso.

E oggi? Che cosa dice il diritto canonico?
Non è cambiato quasi nulla. Le formulazioni dei codici del 1917 e del 1983 sono molto semplici. La dottrina medievale e moderna aggiunge che non è possibile un co-papato, il Papa che rinuncia non può tornare cardinale se non con una nuova nomina, rinuncia a titoli e prerogative, rimane vescovo ma senza una diocesi dove esercitare la sua giurisdizione, mantiene i poteri sacri. Paradossalmente, se volesse consacrare un sacerdote, dovrebbe chiedere il permesso al vescovo della diocesi in cui si trovasse.

Quindi, come chiamarlo?
Non è semplice. Sappiamo come chiamare il vescovo che lascia a 75 anni: un tempo «iam episcopus», oggi «emerito», una formulazione né teologica né canonistica, ma mutuata dalla tradizione accademica.

Ratzinger potrebbe dunque essere «vescovo emerito di Roma»?
Se così si facesse, verrebbe accreditata in modo indiretto la teoria che anche il vescovo di Roma a 75 anni dovrebbe presentare le dimissioni. Attenzione, il titolo non è neutro! E sono convinto che non si dovrebbe smarrire la differenza sostanziale tra l’ufficio di un qualsiasi vescovo e quello del vescovo di Roma, dotato di un carisma proprio. Il pericolo è di svilire la funzione unica del ministero petrino. E di trasformare il papato in un ufficio funzionariale e burocratico.

Qualcuno ha detto: i prossimi Papi saranno come degli amministratori delegati della Spa Chiesa…
Sarebbe errato oltre che ridicolo, per questo l’appellativo da attribuirgli è così delicato.

E allora, come chiamare il Pontefice dopo il 28 febbraio?
Come si fece un tempo, forse: «Pietro del Morrone già Celestino V»… Per analogia, avremmo «Joseph Ratzinger già Romano Pontefice». O qualcosa di simile. L’importante è che la funzione non delegata di pastore universale non vada perduta.

di Umberto Folena – Avvenire

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