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Preghiera per i sofferenti

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2013

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Signore, insegnaci a non amare noi stessi,
a non amare soltanto i nostri,
a non amare soltanto quelli che amiamo.
Insegnaci a pensare agli altri
e ad amare in primo luogo quelli che nessuno ama.
Signore,
facci soffrire delle sofferenze altrui,
facci la grazia di capire che, ad ogni istante,
mentre noi viviamo una vita troppo felice,
protetta da Te,
ci sono milioni di esseri umani,
che sono pure tuoi figli e nostri fratelli,
che muoiono di fame,
senza aver meritato di morire di fame,
che muoiono di freddo,
senza aver meritato di morire di freddo.
Signore, abbi pietà
di tutti i poveri del mondo!
Abbi pietà dei lebbrosi,
ai quali Tu così spesso hai sorriso
quand’eri su questa terra,
pietà dei milioni dei lebbrosi
che tendono verso la Tua misericordia
le mani senza vita, le braccia senza mani.
E perdona noi di averli,
per una irragionevole paura, abbandonati.
E non permettere più,
Signore,
che noi viviamo felici da soli.
Facci sentire l’angoscia della miseria universale,
e liberaci da noi stessi.
Così sia.

Raoul Follereau

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Papa: il ricordo dell’Olocausto monito a rispettare la dignità della persona

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2013

Papa: il ricordo dell’Olocausto monito a rispettare la dignità della persona
All’Angelus Benedetto XVI parla delle odierne Giornate della memoria, dei malati di lebbra e di intercessione per la pace in Terra santa. Il Vangelo di oggi « ci fa pensare al nostro modo di vivere la domenica: giorno del riposo e della famiglia, ma prima ancora giorno da dedicare al Signore ».
Tratto da: AsiaNews

Papa: il ricordo dell'Olocausto monito a rispettare la dignità della persona dans Articoli di Giornali e News santopadrepapa

Il ricordo dell’Olocausto, celebrato nella odierna Giornata della memoria, « deve rappresentare per tutti un monito costante affinché non si ripetano gli orrori del passato, si superi ogni forma di odio e di razzismo e si promuovano il rispetto e la dignità della persona umana ».

Le « vittime del nazismo » e della « immane tragedia, che colpì così duramente soprattutto il popolo ebraico » sono state evocate da Benedetto XVI in occasione di un Angelus che lo ha visto ricordare anche le odierne Giornate per i malati di lebbra e di intercessione per la pace in Terra santa.

« Si celebra oggi – le parole del Papa – la sessantesima Giornata mondiale dei malati di lebbra. Esprimo la mia vicinanza alle persone che soffrono per questo male e incoraggio i ricercatori, gli operatori sanitari e i volontari, in particolare quanti fanno parte di organizzazioni cattoliche e dell’Associazione
Amici di Raoul Follereau. Invoco per tutti il sostegno spirituale di san Damiano de Veuster e di santa Marianna Cope, che hanno dato la vita per i malati di lebbra. In questa domenica ricorre anche una speciale Giornata di intercessione per la pace in Terra Santa. Ringrazio quanti la promuovono in molte parti del mondo e saluto in particolare quelli qui presenti ».

Pace, quella « che viene da Dio », anche nelle parole dei due ragazzi dell’Azione Cattolica della diocesi di Roma che, accanto al Papa, hanno letto il messaggio della loro « Carovana della Pace », seguito dal tradizionale lancio di due colombe.

Un invito a « pensare al nostro modo di vivere la domenica » è stato invece al centro della riflessione del Papa prima della recita della  preghiera mariana. Rivolgendosi alle 30mila persone presenti in piazza san Pietro, Benedetto XVI ha commentato, come di consueto, il Vangelo del giorno,  che questa domenica ci presenta anche Gesù che in sinagoga « si alzò a leggere e trovò un passo del profeta Isaia che inizia così: «Lo Spirito del Signore Dio è su di me, / perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; / mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri» (61,1-2) ». E « Gesù, terminata la lettura, in un silenzio carico di attenzione, disse: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» ».

« Questo brano – ha commentato – interpella «oggi» anche noi. Anzitutto ci fa pensare al nostro modo di vivere la domenica: giorno del riposo e della famiglia, ma prima ancora giorno da dedicare al Signore, partecipando all’Eucaristia, nella quale ci nutriamo del Corpo e Sangue di Cristo e della sua Parola di vita. In secondo luogo, nel nostro tempo dispersivo e distratto, questo Vangelo ci invita ad interrogarci sulla nostra capacità di ascolto. Prima di poter parlare di Dio e con Dio, occorre ascoltarlo, e la liturgia della Chiesa è la « scuola » di questo ascolto del Signore che ci parla. Infine, ci dice che ogni momento può diventare un «oggi» propizio per la nostra conversione.
Ogni giorno (kathēmeran) può diventare l’oggi salvifico, perché la salvezza è storia che continua per la Chiesa e per ciascun discepolo di Cristo. Questo è il senso cristiano del «carpe diem»: cogli l’oggi in cui Dio ti chiama per donarti la salvezza! ».

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«Nel mondo c’è posto per tutti»

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2013

Leandro Aletti, ginecologo che ha lavorato soprattutto in Mangiagalli a Milano, è noto alle cronache per le battaglie contro l’aborto e per le denuncie fatte e ricevute nel corso del suo impegno. Durante l’intervista il rischio di aver in mente un articolo “già fatto” in cui far rientrare le parole dell’intervistato è fortissimo: farsi raccontare tutti i fatti, le ingiustizie e spiegare tutte le sue motivazioni. Ma per fortuna la verità è più forte di tutti i pezzi già scritti in testa e Leandro Aletti racconta solo alcuni fatti che hanno segnato la sua storia, per il resto “lascia la scena” a Cristo, vero fondamento.
di Benedetta Consonni – La nuova Bussola Quotidiana

«Nel mondo c'è posto per tutti» dans Aborto neonatipostopertutti

“Il 28 dicembre 1936 il Cardinal Schuster consacrò l’altare della Chiesa di San Giuseppe in Policlinico ai Santissimi Innocenti – racconta Aletti – Sempre il 28 dicembre, ma del 1988, dalle pagine del quotidiano Avvenire, io e il collega Luigi Frigerio abbiamo denunciato la pratica di un aborto terapeutico al quinto mese di gravidanza all’interno della clinica Mangiagalli. La bambina aveva un’anomalia fetale, un cromosoma in più, che significa che rischiava di nascere sterile. La bambina era normalissima». Una denuncia a cui seguirono diverse tribolazioni per il medico Aletti, che però non si sofferma su questo, ma va dritto al punto. «Fino a quando avrò fiato non mi interessa giustificarmi perché chi mi giustifica è un Altro. Il punto è il fondamento da porre, cioè Gesù Cristo, se non avessi fatto questo, avrei passato il mio tempo a giustificarmi» dice il ginecologo, che ha potuto contare il genetista e servo di Dio Jérôme Lejeune tra i suoi difensori.

Gli scappa solo un anedotto. “Ad un processo mi è stata fatta questa domanda per inquadrare la mia personalità: lei in che cosa crede? Io ho risposto una cosa molto semplice: mettete a verbale il Credo della Chiesa Cattolica, che io dico tutte le domeniche, per intero per favore. Allora si alzò il presidente dicendo che la domanda non era pertinente, perciò agli atti del processo non figurò mai questa domanda. Fui assolto”.

Leandro Aletti ha 8 figli e 8 nipoti, forse l’obiettivo ricercato da chi ama tanto la vita, eppure racconta Aletti: “Io non volevo niente. Semplicemente quando uno si sposa, si esprime con il corpo che ha e se tu dici a una donna che la ami, lo esprimi anche con il tuo corpo. Non c’è da censurare nulla. Oggi si fa la censura con la pillola contraccettiva. La mentalità è ormai questa, poi si può sbagliare anche 120.000 volte e non sta a me giudicarlo, però non posso non dire che la strada è un’altra”. Infatti Aletti è un ginecologo obiettore di coscienza. “La storia dell’obiezione di coscienza è molto semplice, – spiega – tutti gli uomini sono nati da una donna e tutti sono passati da un organo che si chiama utero, anche quelli nati con l’embryo transfer, ovvero la fertilizzazione artificiale. Nel Te Deum si canta: Non horruisti uterum virginis, che significa: non hai avuto orrore di passare attraverso l’utero di una donna. Questo ginecologicamente è interessantissimo, perché significa che attraverso Gesù, che è vero Dio e vero uomo, l’infinito è entrato nel ventre di una donna”. Una visione che lascia trasparire tutta la sacralità, dolcezza e mistero della maternità. Continua Aletti: “Se tu guardi bene tutti in faccia, a qualsiasi latitudine e longitudine, sai che tutti hanno una mamma. Di tutti questi uomini, nessuno ha chiesto il permesso di venire al mondo, me compreso. Soltanto Uno ha chiesto il permesso di venire al mondo e che cos’è successo? Che l’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria. E quella donna di 15 anni è stata messa in cima al Duomo di Milano e io lo dico ai miei figli e a tutti quelli che incontro che quella è la mia mamma. Questo lo dico abbassando il capo, perché non sono degno di guardare quella donna e mi debbo convertire”.

La Madonna è un modello di accoglienza per tutte le mamme, anche per quelle per cui la gravidanza costituisce un momento di prova. «Il problema è che la diagnostica prenatale – spiega Aletti – tesa ad individuare embrioni malformati da sopprimere con aborto selettivo è razzismo, mentre al mondo c’è posto per tutti, sani e non sani. Tutti quelli che sono venuti al mondo hanno una mamma e quindi il punto qual è? L’accoglienza, di cui la Madonna è il paradigma». Maria, che con il suo sì ha detto sì alla vita. «Quando non accogli ti schieri con la morte e purtroppo una donna che non dice sì alla vita vivrà un tormento per tutta la vita. Le donne vanno aiutate e non lasciate sole». Continua Aletti: “In Italia con la legge 194 sono stati fatti 6 milioni di aborti: per avere questo dato basta prendere i dati della relazione annuale al Parlamento del Ministero della Salute e sommare tutti gli aborti da quando esiste la legge. Questi 6 milioni di persone che mancano hanno una notevole ripercussione economica: significa che in Italia manca una generazione e mezza e il mercato è fermo perché manca l’utenza. Madre Teresa di Calcutta, quando ritirò il premio Nobel per la pace disse: l’aborto creerà più danni della bomba atomica”.

Due incontri speciali hanno segnato la vita di Aletti, con Arturo e con Leandro, due bimbi morti subito dopo la nascita, di cui il ginecologo ci racconta la storia per far sapere a tutti che esistono anche Arturo e Leandro. “Erano le due di notte – ricorda Aletti – ed è nato un bambino alla quindicesima settimana, che sai benissimo che muore, anzi è campato 10 minuti di orologio l’Arturo. Ho chiesto alla mamma: lo vogliamo battezzare? La mamma mi ha detto di si. Signora possiamo chiamarlo Arturo? Bene, io ho battezzato l’Arturo, non lo so perché proprio Arturo. Se avessi chiamato il cappellano sarebbe morto prima del suo arrivo. Un collega, che passava di lì, mi dileggia e mi dice: Aletti non buttare l’acqua su quel bambino, cosa fai? Io gli ho risposto: l’Arturo è campato 10 minuti, ha cercato di fare un vagito appena, ma l’ho battezzato perché riconosco che l’Arturo come me (e l’ho chiesto anche alla mamma naturalmente) è chiamato allo stesso destino mio”.

Al secondo incontro speciale invece Aletti dà il suo nome, Leandro. “Leandro è nato al quinto mese ed è ricoverato in una struttura di cui io ero il direttore. Il medico che lo ha ricoverato giustamente ha scritto aborto inevitabile. La situazione purtroppo era così. Il medico ha fatto notare questo alla madre, che ha disconosciuto il figlio, cioè non lo ha voluto perché era un aborto. Non le interessava la sepoltura. Quindi questo bambino è completamente abbandonato. I medici non sapevano cosa fare e lo avevano messo in un bidoncino. Quando sono arrivato mi hanno fatto presente la situazione. Io mi sono fatto portare dell’acqua e ho detto: come potete vedere questo è un uomo. Leandro io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Leandro è campato un giorno. E’ stato messo in una piccola culletta, dove ogni tanto qualcuno andava a bagnargli le labbra. E’ morto la sera stessa”.

Due storie apparentemente tristi, ma che sono storie di vita, anche se dura soltanto dieci minuti. “Siamo rimasti in tre gatti a dire queste cose, ma non importa, io sono felice. Non è questione di coraggio, io non ho nessun coraggio e non sono un eroe, lo scriva, anzi davanti a queste questioni è meglio mettersi in ginocchio e farci aiutare dalla Madonna” conclude Aletti. E così mi capita di terminare un’intervista coma mai avevo fatto prima. Aletti mi dice: preghiamo. Fa il segno della croce e diciamo insieme un’Ave Maria alla Madonna, nelle cui mani ricolme di grazie affido l’intervista che ho appena raccolto.

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Entrare in rapporto con Qualcuno che ci ascolta

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2013

Entrare in rapporto con Qualcuno che ci ascolta dans Citazioni, frasi e pensieri jeanguitton

“Credere in Dio significa credere in un essere inintelligibile ma di cui si conosce la capacità di ascolto. Ecco cosa significa inginocchiarsi. Quando, la sera, non ci s’inginocchia più per recitare le preghiere, non si crede più in Dio. In altre parole, credere in Dio è entrare in rapporto con Qualcuno che ci ascolta”.

Jean Guitton

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Quel Primato riconosciuto

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2013

Nell’antichità, il vescovo della Chiesa di Roma era riconosciuto capo della Chiesa anche dalle autorità politiche dell’impero romano. Una ulteriore conferma del ruolo unico ricoperto dal successore di Pietro.
di Marta Sordi- Il Timone

Quel Primato riconosciuto dans Fede, morale e teologia martasordi

Nel periodo della clandestinità, quando la Chiesa, incoraggiata in un certo senso dal conquirendi non sunt di Traiano (Plinio, Ep. X, 97), dal divieto cioè dell’imperatore di cercare i Cristiani, che potevano essere incriminati e processati solo su accuse non anonime, faceva le sue riunioni al riparo della proprietà privata, lo Stato romano sembra non conoscere l’organizzazione gerarchica dei Cristiani, anche se una strana confusione fra Cristo e Pietro nell’attribuzione di una profezia citata da Flegone di Tralles, liberto e portavoce letterario dell’imperatore Adriano, mostra che il nome e l’importanza del capo degli Apostoli erano noti ai pagani.
Ma quando la Chiesa, alla fine del regno di Marco Aurelio o nei primi anni di Commodo, uscì dalla clandestinità, rivendicando la proprietà dei luoghi di culto e di sepoltura, la sua struttura gerarchica, con i vescovi, i presbiteri, i diaconi, cominciò ad essere ben nota e divenne chiara ai pagani la preminenza del vescovo di Roma. Fedele alla mentalità romana secondo cui, dove c’era una moltitudine doveva esserci chi la governava (come ricorda Livio 39,15,11), la classe dirigente della fine del II secolo e degli inizi del III, del periodo cioè della tolleranza di fatto, non sentì un pericolo nell’organizzazione gerarchica della Chiesa, che rendeva possibile allo Stato trattare con dei responsabili, ma nella clandestinità, che i Cristiani, peraltro, non avevano voluto, e che li sottraeva ad ogni controllo.
Organizzati in modo analogo ai collegia religionis causa, per i quali non era necessaria nessuna autorizzazione preventiva, i Cristiani poterono così trattare, attraverso i loro capi, direttamente con l’impero: così Ippolito (Philos. IX,12) ricorda che papa Vittore ottenne da Commodo, tramite l’intercessione di Marcia, la grazia per i Cristiani deportati in Sardegna; così Alessandro Severo attribuì alla Chiesa di Roma (Storia Augusta, Vita Alex. 49,6) un’area contesa ad essa dal collegio dei popinarii (tavernieri); così il legato d’Arabia, sotto Caracalla, per ottenere la venuta presso di sé di Origene, allora molto celebre, chiese il permesso al prefetto di Egitto e al vescovo di Alessandria.
Quando, al termine della lunga tolleranza di fatto, Decio volle riprendere l’iniziativa della persecuzione, il primo ad essere colpito fra i Cristiani fu il vescovo di Roma, Fabiano, nel gennaio del 250: Cipriano (Ep. 55), vescovo di Cartagine, ci informa che lo stesso Decio impedì la rielezione del suo successore fino al 251, perché temeva di più un vescovo a Roma che un pretendente nell’impero.
La piena conoscenza dell’organizzazione ecclesiastica emerge con chiarezza dagli editti di Valeriano nella grande persecuzione degli anni 257-260, cosicché, quando Gallieno, nel 260, volle porre fine ad essa, non si limitò più alla tolleranza di fatto, ma dette alla Chiesa come istituzione un pieno riconoscimento giuridico, restituendole i luoghi di culto e di sepoltura precedentemente confiscati: se l’editto generale di Gallieno è per noi perduto, abbiamo però il rescritto con cui egli scrisse personalmente al vescovo di Alessandria, Dionigi, nel 262, per estendere anche all’Egitto, rimasto fino ad allora sotto un usurpatore, le concessioni già fatte nel resto dell’impero (Eusebio, Storia ecclesiastica, VII, 13). Sul riconoscimento della Chiesa con la sua struttura gerarchica da parte di Gallieno è fondato l’arbitrato di Aureliano del 272 (Eusebio, ibid., VII, 30,19), che io ritengo particolarmente importante per la conoscenza del primato del vescovo di Roma da parte dei pagani prima di Costantino: nella secessione di Zenobia regina di Palmira, a cui Aureliano pose fine, la “casa della Chiesa di Antiochia” era stata occupata dal vescovo Paolo di Samosata, già condannato da un sinodo asiatico, sia per l’eresia della sua dottrina, sia perché era stato ducenarius al servizio della regina. Quando Aureliano entrò in Antiochia, i Cristiani gli chiesero, a nome del sinodo, di far sgombrare Paolo e di restituire al vescovo legittimo, Domno, la “casa della Chiesa” di Antiochia. Aureliano rispose che la “casa” doveva essere data a coloro ai quali “i vescovi di Roma e di Italia epistelloien”.
L’espressione è stata intesa in vari modi: secondo alcuni essa significa “a coloro che erano riconosciuti dai vescovi di Roma e d’Italia”; secondo altri “a coloro a cui l’avevano assegnata i vescovi di Roma e d’Italia”; secondo altri ancora “a coloro che erano designati dai vescovi di Roma e d’Italia”. Chi dà la seconda e la terza interpretazione intende che la scelta doveva essere affidata a vescovi lontani e, quindi, imparziali: ma, a parte il fatto che questa ricerca di imparzialità sembrerebbe fuori luogo da parte di Aureliano, per il quale Paolo di Samosata, partigiano di Zenobia, era un ribelle, e che doveva perciò vedere con favore la richiesta del sinodo asiatico, il significato di epistellein come “essere in comunicazione per iscritto” e, quindi, “essere in comunione”, è confermato dalla stessa lettera sinodale riportata da Eusebio, nella quale, dopo aver deposto Paolo ed eletto Domno, si invitavano il vescovo di Roma e quello di Alessandria a scrivere a lui e a ricevere da lui lettere di comunione e si aggiungeva: “in quanto a Paolo epistèlleto (“scriva”) ad Artemone (alla cui eresia egli si era avvicinato) e quelli che la pensano come Artemone siano in comunione con lui”.
Rinviando la decisione sulla Chiesa di Antiochia al vescovo di Roma, Aureliano prendeva atto dunque della struttura della Chiesa come era stata riconosciuta nel 260 da Gallieno: da buon romano preferiva attenersi al diritto riconosciuto da Roma più che alla convenienza immediata che doveva suggerirgli l’adesione senza rinvii alla richiesta del sinodo asiatico.
L’importanza preminente del vescovo di Roma, che già Cipriano definisce “primato”, appare del resto confermata da un’ironica espressione con cui Tertulliano, ormai montanista, definisce polemicamente tale vescovo: pontifex scilicet maximus, quod est episcopus episcoporum, applicando il termine pagano di “pontefice massimo” al concetto cristiano di “vescovo dei vescovi” (De Pudicizia 1,27).
La pretesa che Tertulliano coglie polemicamente nel vescovo di Roma rivela da parte di quest’ultimo la piena consapevolezza della sua funzione.

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