Il diavolo, riflessioni teologiche su un malessere ecclesiale
Posté par atempodiblog le 25 janvier 2013
Il diavolo
Riflessioni teologiche su un malessere ecclesiale
di Gianni Colzani - La Rivista del Clero italiano n.70 (1989)
«Vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede». Queste parole riassumono bene il messaggio neotestamentario sul diavolo: anche se la Pasqua di Gesù ha distrutto il regno di Satana e ha reso operante la salvezza fra noi, questo non impedisce al maligno di continuare la sua opera di seduzione e di menzogna. Da qui l’invito pressante a non diminuire la vigilanza, a non rallentare l’impegno. Questo invito sembra oggi difficile da raccogliere dato che l’esistenza e la azione del diavolo, rimasta lungamente pacifica nel mondo credente, è oggi al centro di un ampio dibattito che investe il significato delle affermazioni bibliche e il valore delle asserzioni magisteriali, il rapporto fra la teologia e la cultura multidisciplinare del nostro tempo e l’orientamento della pastorale liturgica e catechetica. In pratica il dibattito riguarda ogni aspetto della demonologia. Inoltre il tema, uscito dal riserbo delle discussioni teologiche, ha finito per dilagare sui mass media scatenando una caccia alla notizia e un crescendo più di passionalità che di verità. In questa condizione affettare distacco come di fronte a un tema fastidioso e inutile, come di fronte a un rigurgito di oscurantismo e a un soprassalto di fantasmi dottrinali ormai superati, può forse sembrare comportamento di intellettuale superiorità ma, in realtà, lascia del tutto intatto lo spessore dei problemi. Lasciar cadere una questione non è certo avviarla a soluzione. Quindi ci proponiamo di aggredire la confusione esistente, di informare sui dibattiti attuali e di fare un minimo di chiarezza.
Demonologia e fede cristiana
La credenza nel diavolo non è un fatto esclusivamente cristiano e nemmeno esclusivamente religioso. A volte l’esperienza di una vita colpita da disgrazie, e quasi oscuramente minacciata, viene messa in rapporto con realtà metaempiriche che interferiscono nell’ordine e nella armonia della vita: si ha così un complesso intreccio di magia, superstizione e credenze religiose che giungono ad affermare l’esistenza di spiriti di vario genere e ad intaccare la stessa concezione di Dio, non sempre unico, non sempre buono. Si apre qui un campo di studi interessante e importante per la storia delle religioni e l’etnologia, per la psicologia e la filosofia, ma che non ha nulla a che vedere con la fede cristiana.
Concentrando la sua visione della vita e della storia attorno alla salvezza operata dal Dio di Gesù, la fede cristiana non conosce e non può accettare una visione autonoma del diavolo. La fede cristiana è sempre, e radicalmente, fede in Dio e nella sua sua opera di salvezza; la figura del diavolo, quale si è determinata nella storia della salvezza, va posta in rapporto con il Cristo che vince ogni forma di male ridonando speranza alla umanità e con la libertà umana che è l’ambito reale di ogni potenza di male. Posto all’interno di questo doppio rapporto, con Dio vincitore del male e con l’uomo peccatore, il diavolo non ha una sua immediata evidenza. Non è, perciò, accettabile l’idea, più manichea che cristiana, che vede il diavolo come il principio del male, come la somma di tutto il male del mondo: «satan», il tentatore che ostacola e avversa, non può venir presentato come un anti-Dio, come un rivale di Dio. Con ragione, contro ogni tentazione, il Deuteronomio ricorderà che «il Signore è il nostro Dio, il Signore è un solo».
Questa complessità della esperienza cristiana del diavolo spiega, forse, il moltiplicarsi dei dibattiti. Non si tratta di discutere delle mutate condizioni culturali o delle diverse immagini del mondo presenti nella storia cristiana di ieri e di oggi; si tratta, invece, di interpretare una esperienza di vita, comprensiva del diavolo, condotta però nella fede in Gesù Cristo, per appropriarsi, nella esistenza del credente di oggi, di quello che hanno vissuto cristiani e comunità venute prima di noi.
Questa prospettiva ermeneutica esclude dal nostro orizzonte e dal nostro interesse ogni forma di occultismo e di culto a Satana. Qualunque sia il rapporto fra la rinascita del satanismo – una cultura destabilizzante che intreccia edonismo, occultismo e violenza – e l’eventuale ambiente cristiano circostante, esso rimane per il credente inaccettabile e errato: semplicemente mostra lo stato di depravazione a cui può giungere una demonologia completamente sganciata dalla fede cristiana.
All’interno della economia cristiana, invece, il diavolo non è mai una realtà a sé stante, non è mai una realtà autonoma; si colloca all’interno di quella dialettica di bene e di male che, nella storia della salvezza, si conclude con il superamento religioso del male. Il diavolo è il tentatore, è colui che sta al fianco dell’uomo per indurlo al male: non solo è un antagonista di Dio in perfetto parallelismo con lui ma, senza una qualche complicità umana, non è nemmeno capace di costringere l’uomo al male. Il principe di questo mondo è impotente, è senza forza, se la libertà umana non gli fa spazio. Questa visione, relativamente complessa, pone tutta una serie di interrogativi: quale preciso rapporto ha il male con la salvezza portata da Cristo? Come è articolabile la realtà di un male che fa riferimento al diavolo, alla libertà umana e alla realtà della storia? In questo quadro come deve essere interpretato il diavolo, il tentatore? È alla fede cristiana e alla sua storia che rivolgiamo questi interrogativi.
Redenzione, diavolo, angeli
Al centro della fede cristiana sta il Signore Gesù e la sua opera redentrice. Va detto subito che la lettura della redenzione è, oggi, prevalentemente positiva: mentre una antica tradizione teologica, risalente ad Agostino e ad Anselmo, lega strettamente la redenzione alla riparazione del peccato, molti preferiscono vedere oggi la redenzione come la realizzazione, in Cristo e nell’uomo sua immagine per il dono del suo Spirito, di quel disegno divino di alleanza che era sotteso alla creazione.
Questa visione allenta certamente il legame tra salvezza cristiana e peccato. In ogni caso, al di là dei dibattiti sul concetto di redenzione, si dovrà riconoscere che tanto nella Scrittura quanto nella Tradizione le raffigurazioni della salvezza stanno in stretto rapporto con quelle del male e della perdizione: in pratica si dovrà riconoscere che la lotta contro Satana e la vittoria su di lui è un momento decisivo dell’opera di Gesù e della vita della chiesa. Il fatto va riconosciuto al di là della sua, non pacifica, interpretazione. Basti qui pensare agli esorcismi che accompagnano la vita di Gesù e che mostrano come davanti al regno di Dio, che avanza con la sua persona, non ci sia più posto per il diavolo: nella creazione liberata, l’uomo è sottratto al suo stato di perdizione ed è restituito alla sua vera dignità e alla sua vera libertà. Basti qui pensare alla teologia patristica per la quale la lotta di Cristo con il diavolo ha il valore positivo di sottolineare la grande dignità della persona umana attraverso i temi della ricapitolazione e del prezzo a cui siamo acquistati. Tuttavia, proprio là dove l’inserimento del diavolo nella redenzione assume un tono di organicità attraverso il riconoscimento dei diritti del diavolo dal quale Cristo ci riscatta, noi assistiamo ad una negazione: questa teologia, ignota al mondo greco e scarsamente rilevante in quello latino, sarà eliminata dalle critiche di Anselmo e di Abelardo.
Intrecciato profondamente alla redenzione, anche se in posizione subordinata, il diavolo si impone alla attenzione credente. Che cosa si intende per diavolo, un simbolo del male o una realtà? ed, eventualmente, che tipo di realtà: una potenza di male o, addirittura, un essere personale?
Va riconosciuto che la Scrittura non offre una immagine unitaria e sistematica del diavolo; si serve, anzi, di strumenti culturali diversi per affrontare il problema del male: parla di Satana e dei demoni, conosce l’apocalittica che demonizza i regni oppressori e richiama il principe di questo mondo, menziona la potenza de «il peccato» e ricorda i principati e le potestà. Nonostante questa varietà, un autore competente come Schlier non esita a dire che siamo qui di fronte a un dato costante e fondamentale della fede. Altri autori, del pari competenti, non condividono il suo giudizio e chiedono una più accurata interpretazione delle diverse tradizioni bibliche e una ermeneutica più attenta del linguaggio dinamico e funzionale della Scrittura. Il dibattito rimane, al riguardo, aperto.
Tuttavia non è senza punti fermi. Mi pare importante ricordare che la Scrittura rifiuta la concezione mesopotamica che colloca il male nel mondo divino così come rifiuta la concezione greca della mitologia tragica dove il male coincide con l’esistenza, con il destino crudele che accompagna la vita umana; per la Scrittura il male è un avvenimento, un atto, un salto qualitativo della libertà che passa dalla innocenza al peccato. In nessun modo il diavolo può pregiudicare questa scelta antropologica della Scrittura: nella sua libertà, e nella responsabilità che ne consegue, l’uomo non ha a che fare con angeli o demoni ma, innanzitutto, con Dio. Questo fondamentale rapporto con Dio, ordinato alla gloria e strutturato dalla alleanza, è l’ambito in cui la persona sperimenta, oltre che la fede, anche la resistenza e la ribellione, il rifiuto e la tentazione.
Questa concentrazione del male attorno alla libertà permette alla Scrittura anche una seconda osservazione: cioè che il male, che coincida con la libertà umana, è però già esistente per la libertà. Il male è già là, già pronto ad insidiare la libertà umana. L’ambiguo serpente di Gen 3, il ruolo tentatore di Satana in Gb 1-2; lCr 21,1; Zac 3,1-5 e gli spiriti celesti di IRe 22,19-22 sono come il cammino che condurrà al Nuovo Testamento dove la presenza e l’azione di Satana sarà presentata come un dato specifico e incontrovertibile. Sempre al cuore della libertà umana, per la Scrittura il male non si riduce ad essa: la libertà stessa conosce questa, misteriosa, figura di tentatore e di corruttore. Va aggiunto però che il dibattito sulla interpretazione di questa figura non conosce, a tutt’oggi, convergenze e consensi, a volte nemmeno sui criteri ermeneutici da applicare.
Anche per la tradizione, e in particolare per i Padri, si ripropongono le medesime difficoltà. La loro adesione alla verità della creazione buona e della redenzione universale li porterà ad evitare di demonizzare il mondo, l’uomo o la sua storia: la tentazione più forte non può nulla contro l’amore e la grazia di quel Cristo crocifisso che ha vinto il maligno. Per essi la fedeltà alla Parola e la libertà spirituale, radicata nella grazia, rendono impotente e ridicolo il diavolo. Abbiamo così una drammatizzazione etica che prende sul serio il diavolo solo in quanto rappresenta la tentazione di non aderire alla vittoria di Gesù, solo in quanto va vinto per vivere con il Signore. L’occasione e lo stimolo per un coerente sviluppo della demonologia sarà offerto dal dualismo gnostico e manicheo che, partendo dalla sensazione umana di vivere in un mondo ostile del quale aver paura, elaborerà una dottrina che oppone un principio buono a un principio del male o, almeno, incolpa il dio creatore. Contro le diramazioni cristiane di questi sistemi, come i priscillianisti, i padri si interrogheranno sull’origine del diavolo e concluderanno che il diavolo è creatura di Dio, creata buona ma diventata diavolo per sua colpa. Il diavolo è un angelo decaduto. Questa prospettiva innova indubbiamente rispetto al dato biblico: mentre questo, nella sua prospettiva storico-salvifica, oppone il diavolo a Cristo e tiene quasi del tutto distinte le tradizioni sugli angeli e sul diavolo, i padri riconducono il diavolo, angelo decaduto, nel quadro del gesto creatore di Dio, dando vita così ad un inizio di quella metafisica dei «puri spiriti» che avrà pieno sviluppo nel Medioevo. Lì il diavolo, che ha una comune origine con gli angeli, è un essere spirituale e potente che opera il male perché vuole il male. Questa metafisica del diavolo ha con la verità cristiana della redenzione una rapporto certo meno immediato e diretto di quanto non sia nella Scrittura: in pratica è uno sviluppo della dottrina biblica sotto la spinta del rifiuto deldualismo. Ora, se l’intento patristico trova pieno consenso fra gli studiosi cattolici, l’accordo sfuma quando si tratta di valutare il peso dogmatico di queste verità. Il debito di una eliminazione della figura del diavolo e di una utilizzazione dissociata del materiale credente per sostenere, volta a volta, che il male è integrato in una economia storica sostanzialmente positiva ed è anzi al suo servizio o che l’uomo può lottare contro il male e vincerlo. È appena il caso di dire che questo abbandono del diavolo non ha risolto nessun problema: ha soltanto lasciato un vuoto che questo ottimismo di maniera ha cercato di nascondere squalificando come irrazionale o antiscientifico tutto ciò che non rientra nelle forme moderne del sapere.
Il dibattito teologico recente sul diavolo si pone il problema di come conciliare la razionalità dell’uomo moderno con il suo insegnamento sul diavolo: il diavolo è persona spirituale indipendente da noi e responsabile del male o è figura simbolica delle possibilità perverse inerenti alla nostra personalità? Il dibattito investe i dati biblici tanto in ordine alla loro origine quanto in ordine al loro significato e alla loro connessione con i dati fondamentali della fede; investe pure lo sviluppo storico della credenza sul diavolo, stante il profondo legame di questa verità con la devozione popolare e il relativamente scarso impegno della teologia e del magistero dall’altra. Trattandosi di un problema teologico-dogmatico e non di un problema storico, trattandosi cioè di un problema il cui criterio di soluzione non è né la ragione illuministica né la razionalità storica ma la singolarità personale di Gesù, il dibattito mette necessariamente in gioco questioni di fondo: qual è il rapporto fra rivelazione e dato culturale e, ad ogni modo, come si accerta la intenzione rivelata di Dio? Quale legame esiste fra la Scrittura e la fede della chiesa e, in particolare, quando si ha un legittimo sviluppo del dogma e una normativa tradizione dogmatica? Quale ruolo ha il magistero nella fede storica della chiesa e quale valore hanno le diverse modalità dei suoi interventi? Come si vede, non sono questioni da poco e nemmeno facilmente risolvibili. Più pretestuose mi sembrano le affermazioni di chi pretende che l’eliminazione del diavolo porterebbe ad una fede più evangelica e meno angosciosa, eviterebbe la demonizzazione dei nemici favorendo un approccio più razionale ai problemi, condurrebbe ad una crescita di responsabilità lasciando all’uomo il compito di lottare contro il male e togliendogli ogni alibi. Una società laica e secolarizzata come la nostra, che da un pezzo ha abolito il diavolo, non ha visto nessun risultato simile.
La storia del dibattito recente è semplice: si apre con un numero della rivista «Lumière et Vie» nel 1966 e, in pochissimo tempo, si estende all’area olandese, nordamericana e tedesca. Sul dibattito interverranno molte riviste teologiche anche se, a volte, la preoccupazione sembra più quella di fare il punto sul dibattito che di contribuirvi in maniera originale. Infine pure il magistero pontificio sceglierà di intervenire anche se la scelta delle udienze o delle omelie liturgiche dice con chiarezza l’intento pastorale di chi, lungi dal definire dottrine irrevocabili, intende però contribuire
con chiarezza alla ricerca della verità. Paolo VI, che già aveva toccato il problema nel Credo del Popolo di Dio, interverrà sul nostro tema con l’omelia del 29 giugno 1972 e con i discorsi del 15 novembre 1972 e del 23 febbraio 1977. Quasi ad amplificarne il pensiero, l’«Osservatore Romano» del 17 dicembre 1972 ospiterà alcuni articoli teologici di risposta ai commenti, tutti negativi, della stampa laica: tra questi articoli spiccano quelli di P. Rossano e di S. Zedda, due biblisti. La Congregazione per la Dottrina della fede interverrà il 26 giugno 1975 con un documento Fede cristiana e demonologia30 frutto del lavoro di un teologo francese di cui è taciuto il nome ma ufficialmente incaricato dalla Congregazione: il testo è raccomandato come base sicura della dottrina magisteriale sull’argomento. Infine Giovanni Paolo II ritornerà altre volte sull’argomento, rimanendo nei medesimi termini del predecessore: il suo intervento più importante è il discorso del 13 agosto 1986.
Probabilmente l’intervento più puntuale e quasi riassuntivo dell’intento del magistero papale è il discorso di Paolo VI, il 15 novembre 1972. Nel contesto dell’udienza generale del mercoledì, cioè in un contesto pastorale e catechistico, il papa rivolge il suo pensiero al male del mondo ed osserva in esso l’intervento del demonio. «Il male – dirà – non è più soltanto una deficienza ma un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa». Stante il carattere pastorale del discorso, pare condividibile l’opinione che siano da escludere speculazioni ontologiche e si debba rimanere invece a un livello soteriologico ed etico, tipico della Scrittura e di questo genere di interventi magisteriali.
Il dibattito entrerà poi in una fase di stanca: registrerà le diversità ma non realizzerà un consenso.
Chiariti i valori e i limiti degli apporti storici, le difficoltà rimangono teologiche, rimangono quelle di chiarire il valore dogmatico della credenza nell’esistenza e nell’opera del diavolo, per secoli pacifica e ovvia.
Il diavolo e la concezione cristiana del male morale
Il discorso fatto finora ci riporta qui, al problema cristiano del male, come alla questione decisiva. Anche l’eventuale abbandono del diavolo non può illudersi di cancellare, con questo, il problema del male. Chi ha coscienza della decisività e della drammaticità del problema del male non può che insorgere contro una sua banalizzazione. Nessun ottimismo di comodo può cancellare questa angosciosa esperienza. Per questo un certo modo, superficiale, di affrontare la questione del diavolo e di lasciarla cadere rischia solo di lasciare un gran vuoto, un silenzio adatto per tutti gli usi e tutte le speculazioni.
Per questo vale la pena di ricominciare il nostro discorso da qui, dal problema del male. Non si tratta di ridar fiato comunque a un diavolo in declino ma di riflettere seriamente su questa insopprimibile esperienza del male. La Scrittura e, in genere, la tradizione cristiana hanno collegato strettamente il male e il diavolo, a tal punto che qualche teologo ha visto in questo legame il rischio di un alibi per l’uomo e la sua libertà, il rischio di un comodo umano discolparsi. Haag, da parte sua, vede questo legame come culturale, come espressione di una determinata immagine del mondo
propria di una precisa cultura. Male e diavolo sono, a suo dire, termini totalmente intercambiabili fra di loro; nella nostra cultura scientifica possiamo tranquillamente sopprimere il diavolo senza intaccare la fede e guadagnando, anzi, una migliore comprensione del male.
Questi atteggiamenti non convincono. Il rapporto fra il male e il diavolo va costruito a partire dalla Scrittura e non già dalla cultura. Assumere correttamente la Rivelazione come fondamento della nostra fede non vuol dire solo chiedersi come dobbiamo tradurre il dato biblico nel linguaggio di oggi ma, anche, interrogarsi se non vi sia qualcosa che da quel dato la nostra cultura può imparare.
La Scrittura non è surrettiziamente riducibile, attraverso il metodo storico-critico, al primato della ricerca scientifica ma va accolta nella lettura credente della chiesa, quella lettura che include e valorizza l’esegesi scientifica ma non si appiattisce su di essa.
Applicando questi criteri al nostro tema, dobbiamo rifarci al Vangelo, quel Vangelo che proclama la lotta e la vittoria di Dio sul male in tutte le sue forme: è in questo Vangelo che la coscienza credente si riconosce pienamente. Non ci si può certo accontentare di raccogliere e di ordinare testi e tradizioni fra loro indipendenti: infatti «sia nella Bibbia che nella Tradizione successiva, [l’esistenza del diavolo o demoni] fu più presupposta che formalmente insegnata». Nel Vangelo, comunque, il male non è una astrazione, un concetto, ma è una realtà precisa apostrofata negli esorcismi e vinta nell’ora decisiva della croce. E il diavolo. Per quanto sia difficile precisare totalmente cosa si intende con questo appellativo, andrà almeno riconosciuto che l’opera del diavolo è inseparabile dal peccato dell’uomo e, tuttavia, non si identifica totalmente con esso. Nel quadro della ribellione del mondo a Dio, il diavolo non pregiudica il diretto rapporto fra l’amore di Dio e la libertà umana, non pregiudica quindi la responsabilità del peccatore e, tuttavia, non si esaurisce nella storia umana di peccato. Il diavolo è, in realtà, una minaccia perenne per l’uomo perché interferisce nel suo rapporto con Dio sprigionando le possibilità negative della creazione, quelle non contemplate e non voluto nell’atto creatore: in quanto svelamento del costante pericolo che incombe sull’uomo e sulla sua storia di libertà, il diavolo non può essere dominato dall’uomo, ma è superato solo dall’atto escatologico del Signore Gesù che ci è appropriato per grazia. Anche sconfitto in Cristo, il diavolo mantiene una sua capacità di azione: in forza del già e del non-ancora, il mondo vecchio mantiene la sua capacità di tentazione per l’uomo e la libertà umana quella di scandalizzarsi della Pasqua di Cristo. In questo modo il diavolo, pur vinto, mantiene la sua importanza: la mantiene per noi. Per questo, perché cioè permane il mistero di iniquità, perché la gloria del Risorto è tuttora velata, il superamento del male è dono di grazia e mai conquista, è fiducioso abbandono a quel Padre da cui speriamo ogni gioia e mai autosufficiente confidare in sé.
E possibile risalire dal diavolo, inteso come potenza di male all’opera all’interno della creazione e della storia della alleanza, al diavolo inteso come individuo e persona? La domanda è certo legittima. A me pare che il discorso teologico non possa fare a meno di usare determinazioni di tipo personalistico. Ve lo sospinge non solo la convinzione che il linguaggio evangelico rimanda ad una reale dimensione della storia dai tratti etico-spirituali ma anche la abituale convinzione della fede della chiesa che il diavolo non si salverà; la vittoria sul male, propria della Pasqua, non ha trascinato con sé l’annientamento del diavolo e ha rifiutato positivamente la tesi della sua eventuale conversione e salvezza. Questo permanere del diavolo all’interno di una creazione redenta che canta la gloria di Dio non può essere troppo facilmente sottovalutato: se non si vuole riproporre una qualche larvata forma di dualismo, il diavolo andrà pensato in termini creaturali ed etici, cioè in termini personalistici. Naturalmente la nozione di persona è usata qui in termini ancora formali; là, infatti, dove la struttura di questa persona è colta attorno alla capacità di far emergere dalla creazione, incamminata verso la pienezza della alleanza, il negativo possibile anche se non voluto da Dio, allora si dovrà dire che il diavolo è persona al modo della non-persona, al modo diconnotazioni che contrastano totalmente ciò che costituisce la pienezza della persona. Le connotazioni personali del diavolo, cioè, svaniscono a tal punto dietro la menzogna e la deformazione, dietro la distruzione e il caos, da non poterne offrire una precisa determinazione. Egli è il senza volto, è la menzogna che, in quanto tale, non permette di accedere alla propria verità. Le immagini che abitualmente lo descrivono o lo raffigurano indicano più il nostro modo di pensarlo che la sua realtà: non hanno credibilità.
Conclusioni pastorali
Intrecciato al dato evangelico, il diavolo non ne è certamente il centro: il centro è e rimane la salvezza a cui Gesù chiama42. In questo senso il valore della lotta contro il diavolo è quello di richiamarci la perenne tentazione di abbandonare il disegno di Dio per ripiegare su una nostra concezione della vita e della storia; il valore della lotta contro il diavolo è quello di fondare una autentica libertà cristiana, pienamente consapevole delle esigenze della propria fede. Legato a una negatività, a una potenza maligna che avversa la dinamica della creazione e la deforma/il male non si riduce alle sole dimensioni della razionalità e della operosità umana, non si limita alla sola progettualità individuale o sociale: non è allora risolvibile attraverso i soli processi di emancipazione dell’uomo ma esige l’azione escatologica del Signore Gesù e la fede in Lui. Lungi dal costituire una demonologia a sé stante, la credenza cristiana nel diavolo lo vede come un momento della cristologia e della antropologia rivelata. Ogni eccesso che si spinga fino a ridiscutere la potenza salvifica di Dio o la libertà dell’uomo nel credere o nel rifiutare di credere, deve essere abbandonato.
In forza di questo preciso rapporto con Cristo e con la libertà cristiana, la credenza nel diavolo ha dei precisi sbocchi pratici attorno a cui costruire delle linee pastorali, sbocchi che sono da una parte il richiamo alla preghiera e alla vigilanza e dall’altra la rivendicazione della responsabilità credente.
Il richiamo alla preghiera e alla vigilanza, che fa parte del Padre nostro, colloca la consapevolezza e la attenzione al male nel contesto della fiducia nel Padre e in quello della speranza della manifestazione del regno. Pur nell’invito alla vigilanza, il diavolo è qui visto insieme alle certezze di una fede che lo sa vinto: non è più fonte di angoscia o di terrore ma richiamo della serietà del male, sempre possibile e sempre incombente, nel quadro di un cammino verso il Signore. Di questo ministero orante di speranza e di consolazione sono segno anche gli esorcismi: al loro centro sta la preghiera di una comunità che confida nel Signore vincitore del male e che, in forza di questa comunione, sostiene e incoraggia il vero cammino della fede o riconduce ad esso.
La rivendicazione della responsabilità credente è l’espressione di una libertà che da Cristo ha imparato a riconoscere il male e ad impegnarsi contro di esso. E poiché il male, comunque lo si definisca, appare la capacità di sfigurare l’identità personale e sociale dell’uomo, la responsabilit della fede sarà quella di operare contro l’angoscia e la confusione, l’ingiustizia e l’oppressione, la violenza e la fame perché il regno di Dio venga. In queste ed in ogni deformazione della creazione di Dio, il credente sa di dover riconoscere il peccato dell’uomo e, insieme, la realtà di una potenza irriducibile alla sola libertà umana. Questa rivendicazione della responsabilità della fede va ribadita e predicata continuamente: in nessun modo la credenza nel diavolo può rappresentare una diminuzione di libertà e un alibi alla assegnazione fatalista che rifiuta di assumere la propria storica responsabilità. E appena il caso, poi, di ricordare che non si potrà e non si dovrà confondere il dolore o il male fisico con il male morale: è questo l’insegnamento perenne del libro di Giobbe.
La Chiesa abbandonerà così ogni ricerca del miracoloso o dello strepitoso ed ogni paura del demoniaco e del terrificante, per immettersi con decisione nel cammino della rivelazione e della fede, un cammino che considera con profonda serietà il male e, tuttavia, non solo non vi si arrende ma lo avvolge della certezza della vittoria. Di questa speranza la Chiesa vive e questa speranza essa confessa.
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