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Novena a San Giuseppe Moscati (da recitarsi dal 7 al 15 novembre).

Posté par atempodiblog le 7 novembre 2012

Preghiera a San Giuseppe Moscati utilizzabile sia come novena sia come triduo. Può essere recitata in preparazione della festa del santo, il 16 novembre, dal 7 al 15 novembre, o in qualsiasi momento per le proprie necessità:

Novena a San Giuseppe Moscati (da recitarsi dal 7 al 15 novembre). dans Preghiere san-Giuseppe-Moscati

O San Giuseppe Moscati, medico e scienziato insigne, che nell’esercizio della professione curavi il corpo e lo spirito dei tuoi pazienti, guarda anche noi che ora ricorriamo con fede alla tua intercessione.

Donaci sanità fisica e spirituale, intercedendo per noi presso il Signore.
Allevia le pene di chi soffre, dai conforto ai malati, consolazione agli afflitti, speranza agli sfiduciati.
I giovani trovino in te un modello, i lavoratori un esempio, gli anziani un conforto, i moribondi la speranza del premio eterno.

Sii per tutti noi guida sicura di laboriosità, onestà e carità, affinché adempiamo cristianamente i nostri doveri, e diamo gloria a Dio nostro Padre. Amen.

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Fede, nutrimento della vita

Posté par atempodiblog le 7 novembre 2012

Fede, nutrimento della vita dans Fede, morale e teologia madreelvirapetrozzi

La fede non è un qualcosa che si può maneggiare e farne quello che vogliamo noi; la fede è Qualcuno dentro di noi che opera e cambia la nostra vita: è dentro di noi lo Spirito Santo, il Signore che è la vita, che dà la vita! Dobbiamo vivere questa certezza perché noi non saremmo qui e nulla esisterebbe senza la fede. Impariamo poco alla volta, parlando, ascoltando, lavorando, studiando… in tutto ciò che viviamo ogni giorno, a concretizzare la nostra fede. In ogni situazione che accade ripetiamo nel cuore: io credo in Dio! Se impariamo ad appoggiarci a Lui, se ci affidiamo a Lui, saremo tanto più buoni, tanto più sorridenti, tanto più capaci di volerci bene. Dobbiamo saper vivere la forza della fede, la luce della fede, la gioia della fede. La fede è la bussola che ci guida in tutta la giornata, la fede ci trasforma, ci cambia. Spesso mi domando: come mai abbiamo ancora tante paure? A che punto è la nostra fede? Se crediamo, la Parola ci dice che l’Amore e la Luce di Dio scacciano la paura: «Nell’ Amore non c’è timore». Ma Gesù per me esiste? Gesù è risorto? Gesù è vivo? Lo vedete voi con i vostri occhi? No! Però con gli occhi del cuore, con la vita di dentro sappiamo che sì, è vivo, esiste, è risorto, lo vedo.
“Credo in un solo Dio”: questa verità deve entrarci dentro, ognuno deve sentirsela dentro perché è un fatto, una realtà. Noi abbiamo contemplato, conosciuto e visto tutto quello che si professa nel Credo: un Dio che scende, si incarna, si fa vicino, il Crocifisso Risorto, il Figlio, lo Spirito Santo, il Padre… sono Persone che ci danno la vita, quella vera. Dobbiamo far passare queste parole della fede dalla bocca al cuore ripetendo: “Credo, credo, credo”. La fede diventa così il nutrimento della vita: ci nutriamo di qualcosa di prezioso che vive dentro di noi e che ci sazia l’anima. E poi pian piano quando il “Credo” sarà sceso nel cuore, quando sarà il respiro del nostro cuore, sentiremo il desiderio di testimoniare a tutti che se “Credo in Dio” la vita è più bella, più vera, più luminosa, più serena! La fede è la vera ricchezza della vita!

di Suor Elvira Petrozzi – Comunità Cenacolo

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Pazienti in stato vegetativo sorridono, si muovono e sono coscienti

Posté par atempodiblog le 7 novembre 2012

«Che ne sanno le gemelle Kessler dello stato vegetativo? I miei pazienti sanno essere felici»
Dopo la rivelazione delle due famose soubrette del loro mortifero patto d’amore, il primario del Centro don Orione di Bergamo, Giovanbattista Guizzetti, ci racconta cosa significhi curare e stare accanto ogni giorno a delle persone in stato vegetativo. «Non sono soprammobili. Occorre reimparare a relazionarsi con loro».
di Elisabetta Longo – Tempi.it
Tratto da: La Bussola Quotidiana

Pazienti in stato vegetativo sorridono, si muovono e sono coscienti dans Articoli di Giornali e News giovanbattistaguizzetti

Le gemelle Kessler, le famose ballerine della tv spensierata degli anni Sessanta, nel numero di Chi in edicola [nel febbraio 2012], raccontano di un patto tra loro, “un patto d’amore”, che consisterebbe nello “staccare le macchine” qualora una delle due si trovasse a cadere in stato vegetativo. «Se una di noi si ridurrà allo stato vegetativo, l’altra l’aiuterà a uscire di scena». Ma L’amore fraterno e familiare, quello di sangue che non si riesce mai a dimenticare, a detta del primario del centro Don Orione di Bergamo, Giovanbattista Guizzetti, è un altro.

Guizzetti lavora ogni giorno a stretto contatto con una trentina di persone in stato vegetativo: «Il più delle volte, quando si fa riferimento allo stato vegetativo, non si sa di cosa si stia parlando. Si pensa a persone trasformate in soprammobili inermi, e invece si tratta di imparare a capire il loro linguaggio, di avere un nuovo vocabolario per parlare con loro». Quando un nuovo malato arriva nella struttura bergamasca, non si tratta solo di dover accogliere lui, di prestare cure e assistenza sanitaria a lui, ma a tutta la famiglia. «Ci prendiamo carico di tutti e quindi ci sentiamo anche noi parte di quella famiglia che sta prendendo parte a un grande dolore. E con i parenti impariamo a riconoscere il loro nuovo modo di comunicare, che passa da un movimento impercettibile di una mano o di una palpebra. Una smorfia, che qualcuno taccerebbe come un tic, può essere invece una risposta a una domanda che si è fatta, a uno sguardo di affetto, un modo per manifestare uno stato d’animo, perché sì, mettiamocelo in testa, una persona in stato vegetativo prova sentimenti e emozioni esattamente come noi sani».

Qualsiasi fosse il tipo di relazione che si aveva con la persona caduta in stato vegetativo non vale più. Bisogna ricominciare da capo, bisogna costruire un nuovo tipo di relazione, e non c’è tempo per stare a pensare a un elenco di cose che non si potranno più fare, perché il malato è lì, nel letto, e ha bisogno di tutto. «C’è Antonio, uno dei nostri ricoverati, che in questi giorni non sta bene. L’ho visto un mattino con un’espressione del tutto diversa sul volto, l’abbiamo notato sia io che gli infermieri. Allora ho chiamato in ospedale, per prenotare una radiografia all’addome, perché presumevo avesse un’occlusione intestinale. Dall’altra parte del telefono mi è stato chiesto, come avessi fatto ad accorgermi del suo malessere, visto che Antonio non è in condizione di parlare. L’ho semplicemente guardato in faccia, ho risposto».

«Nessuno si augura che un familiare si possa trovare in quella condizione, ma bisogna reimparare ad amarlo, anche avendo coscienza del fatto che bisogna passare attraverso le cinque fasi di elaborazione del dolore». Ogni sabato all’istituto Don Orione vanno in visita un gruppo di donne di Brugherio, che per un paio d’ore fanno compagnia ai malati e alle loro famiglie. L’anno scorso, durante una riunione, una di loro ha detto che pensava che la condizioni di quei malati in stato vegetativo fosse di pienezza e di felicità. «Il giorno dopo la caposala mi ha fermata per chiedermi se fossi d’accordo con quella affermazione, che le sembrava priva di un appiglio con la realtà, ne era del tutto scandalizzata. Qualche giorno dopo un’infermiera portò una malata che aveva perso l’uso della parola in seguito a un trauma cranico, a fare degli esami, dei test per provare una cura nuova. Quello stesso giorno, la malata riprese l’uso della parola e la prima frase che disse all’infermiera fu “dite a mio marito che sono felice”. A dimostrazione che dentro quei corpi stesi nei letti e non più autosufficienti c’è vita, sentimenti e tutto quello che ci rende umani».

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Meglio Nietzsche o il cristianesimo?

Posté par atempodiblog le 6 novembre 2012

Meglio Nietzsche o il cristianesimo?        
di Giacomo Samek Lodovici – Il Timone (2007)
Tratto da:
Contro la leggenda nera

Gli adolescenti sono «catturati» dalla sua carica trasgressiva e anticristiana.
Ma non conoscono la spietatezza con cui giustifica l’eugenetica. Per lui il cristianesimo è colpevole per il suo messaggio di amore per il prossimo, per i deboli, i malati, i diseredati. Un buon motivo per non congedarsene.

Meglio Nietzsche o il cristianesimo? dans Anticristo nietzscheecristianesimo

Friedrich Nietzsche è un pensatore geniale ed il suo pensiero ha trattato moltissime tematiche, riuscendo ad esprimere diverse istanze veramente importanti, in uno stile accattivante e suggestivo. Quando gli adolescenti lo incontrano, restano spesso affascinati e catturati dalla sua personalità magnetica e dalla sua dirompente carica «trasgressiva» ed anticristiana. Ovviamente, non è intento di queste brevi righe tracciare una disamina complessiva della sua speculazione; lo scopo di quanto segue è soltanto attenuare la fascinazione che Nietzsche è capace di esercitare sugli adolescenti. Senza per questo volere fare di tutta l’erba un fascio del suo pensiero: sarebbe un’operazione metodologicamente scorretta.
Vogliamo qui segnalare alcuni passi davvero spietati e crudeli delle sue opere, raramente noti agli adolescenti, per insinuare in loro almeno qualche ripensamento. Non vogliamo certo prendere posizione sulla questione storiografica del rapporto tra il pensiero di Nietzsche ed il nazismo. Ma quello che sarebbe importante che gli adolescenti sapessero è, almeno, che (come ha sottolineato in particolare Renè Girard) Nietzsche è un sostenitore dell’eugenetica e dell’uccisione dei deboli, dei malati, dei ritardati, degli infermi, in favore di una «purificazione» della razza umana. Inoltre, è bene sapere che quel cristianesimo che molti rifiutano, anche sulla scorta dei feroci attacchi nietzscheani, viene attaccato da questo filosofo anche (sebbene non solo) per la sua funzione di baluardo a protezione della dignità di ogni essere umano, per il suo messaggio di amore e solidarietà verso il prossimo. Infatti, Nietzsche sosteneva una concezione evoluzionistica applicata all’uomo, secondo la quale il genere umano deve progredire verso il superuomo attraverso la selezione dei migliori e l’eliminazione dei deboli e, pertanto, accusava il cristianesimo di essere uno pseudoumanesimo, che si opponeva alla vera (vera secondo Nietzsche) filantropia, proprio per avere sempre difeso ogni uomo, nessuno escluso: «i deboli e i malriusciti devono perire, questo è il principio del nostro amore per gli uomini […]. Che cos’è più dannoso di qualsiasi vizio? Agire pietosamente verso tutti i malriusciti e i deboli – il cristianesimo» (L’anticristo, Adelphi, 1970, p. 169). Similmente: «l’individuo fu considerato dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare, ma la specie sussiste solo grazie a sacrifici umani» (Frammenti postumi 1888-1889, vol. VIII, tomo III, 15 [110], Adelphi, 1974, pp. 257-258).
Nietzsche non può tollerare che il cristianesimo e la morale cristiana abbiano sancito che ogni uomo ha la stessa dignità di fronte a Dio e, perciò, è inviolabile: «la morale ha preservato […] i disgraziati attribuendo a ciascuno un valore infinito» (Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, Adelphi, 2006, p. 16); «Davanti a Dio tutte le “anime” diventano uguali; ma questa è proprio la più pericolosa di tutte le valutazioni possibili! Se si pongono gli individui come uguali, si mette in questione la specie, si favorisce una prassi che mette capo alla rovina della specie; il cristianesimo è il principio opposto a quello della selezione. Se il degenerato e il malato devono avere altrettanto valore del sano […] allora il corso naturale dell’evoluzione è impedito. […] questo amore universale per gli uomini è in pratica un trattamento preferenziale per tutti i sofferenti, falliti degenerati: esso ha in realtà abbassato la forza, la responsabilità, l’alto dovere di sacrificare uomini. […] la specie ha bisogno del sacrificio dei falliti, deboli, degenerati; ma proprio a questi ultimi si rivolse il cristianesimo […] che cos’è la virtù e l’amore per gli uomini nel cristianesimo, se non appunto questa reciprocità nel sostegno, questa solidarietà dei deboli, questo ostacolo frapposto alla selezione? […] La vera filantropia vuole il sacrificio per il bene della specie. […] E questo pseudoumanesimo che si chiama cristianesimo vuole giungere appunto a far sì che nessuno venga sacrificato» (Frammenti postumi, p. 258).
E ancora: «la legge suprema della vita […] vuole che si sia senza compassione per ogni scarto e rifiuto della vita; che si distrugga ciò che per la vita ascendente sarebbe solo ostacolo, veleno […] – in una parola cristianesimo –; è immorale nel senso più profondo dire “non uccidere”» (ibidem, p. 23).
In questa maniera, in modo (per Nietzsche) imperdonabile, nel cristianesimo Dio è diventato un «bastone per gli stanchi […] un’àncora di salvezza per tutti coloro che stan-no per annegare, […] il dio-della-povera-gente, il dio-dei-peccatori, il dio-degli-infermi» (L’anticristo, p. 184). Perciò Nietzsche disprezza «quello strano mondo malato in cui in cui ci introducono i vangeli […] in cui i rifiuti della società, le malattie nervose e un’“infantile” idiozia sembrano essersi dati convegno», (ibidem, p. 204). O, ancora, la colpa del cristianesimo è quella di essere una proposta universale e non razziale: «il cristianesimo non era “nazionale”, non era condizionato alla razza – si volgeva a ogni specie di diseredati della vita, trovava ovunque i suoi alleati. Il cristianesimo ha alla sua base la rancune [il risentimento] dei malati, l’istinto diretto contro i sani, contro la salute. […] quel che per il mondo è debole, quel che per il mondo è insensato, quel che per il mondo è volgare e spregevole, Dio lo ha eletto: questa era la formula [del cristianesimo]» ed è per questo che, secondo Nietzsche «il cristianesimo è stato fino ad oggi la più grande sciagura dell’umanità» (L’anticristo, p. 237).
Non c’è da stupirsi che Nietzsche proclami il dovere di sbarazzarsi dei malati, in un modo che anticipa alcuni odierni sostenitori dell’eutanasia: «il malato è un parassita della società. In certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a vegetare in una imbelle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo». Ed ecco il compito dei medici: «I medici, dal canto loro, dovrebbero essere i mediatori di questo disprezzo – non [dovrebbero dare] ricette, ma ogni giorno [esprimere] una nuova dose di nausea di fronte ai loro pazienti». E bisogna «Creare una nuova responsabilità, quella del medico» perché «il supremo interesse della vita, della vita ascendente, esige che […] si sopprima senza riguardo la vita in via di degenerazione». E, così, conclude Nietzsche: «Non è in nostro potere impedire di essere nati: ma possiamo riparare a questo errore – giacché talora [essere nati] è un errore. Quando ci si sopprime, si fa la cosa più degna di rispetto che esista: con ciò, quasi, si merita di vivere… La società, ma che dico!, la vita stessa risulta avvantaggiata da questo più che da qualsiasi altra “vita” vissuta nella rinuncia» (Crepuscolo degli idoli, § 36).
Forse qualcuno si sforzerà di attenuare il senso dei passi nietszcheani che abbiamo ripercorso, ma, in definitiva, non se ne può cambiare il significato.
E, allora, le domande finali che insorgono sono queste: siamo proprio sicuri che il pensiero di Nietzsche sia così affascinate? E vale proprio la pena di sbarazzarsi del cristianesimo, come vuole fare Nietzsche?

Ricorda

«Nietzsche non perde mai l’occasione di fustigare ogni senso di pietà per i deboli e per i malati. Vero Don Chisciotte della morte, il filosofo condanna qualunque misura in favore dei diseredati, e denuncia nella preoccupazione per le vittime la causa di ciò che egli interpreta come invecchiamento precoce della nostra civiltà. […] non vi è dubbio che la difesa evangelica delle vittime sia più umana del nietzscheanesimo […]. È il cristianesimo a detenere la verità contro la follia nietzscheana».
(Renè Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, p. 228).

Bibliografia

Renè Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, 2001, pp. 223-236. Renè Girard, Giuseppe Fornari, Il caso Nietzsche. La ribellione fallita dell’anticristo, Marietti, 2002.

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Il principe della risata e Padre Pio

Posté par atempodiblog le 5 novembre 2012

Il principe della risata e Padre Pio dans Mario Palmaro totpadrepioecampanini

“Un collega che ama il Padre ma, come Walter Chiari, non vuoi venire da lui perché sa che dovrebbe cambiare vita, è Totò” conti­nuò a raccontare Campanini. “Quando ci incontriamo parliamo sempre del Padre, e ogni volta Totò si entusiasma e mi dice: ‘Por­tami da lui’. Ma non si combina mai. Solo una volta avevamo fis­sato il giorno. Sia io che lui avevamo del tempo libero e si poteva fare il viaggio. Quando gli domandai a che ora saremmo partiti, rimase in silenzio e poi mi disse con molta franchezza: ‘Carlo, io non posso venire dal Padre. Non sono ancora preparato. Ho certi appetiti che non riesco a scacciare. Quando finiranno, andrò da Padre Pio’. Ingenuamente gli risposi: ‘Attento: alla radio hanno detto che nel mondo muoiono 250.000 persone al giorno, e che il 30 per cento muore di morte improvvisa, quindi è pericoloso per la tua anima fare certi calcoli…’. Totò, da buon napoletano, è molto superstizioso e cominciò a danzare per la stanza facendo le corna. ‘Ho capito’ gli dissi. ‘Non toccherò più questo argomento’”.

Tratto da: preghiereagesuemaria.it – Padre Pio, la vita e i miracoli, il mistero

tombatot dans Padre Pio

“E quindi di Padre Pio non volle più parlare. Poi però la storia cosa ci dice? Che, purtroppo, Totò morì a Roma nella notte del 15 aprile 1967 a causa di un infarto. La salma fu portata nella Chiesa di Sant’Eligio e ricevette una semplice benedizione perché essendo in una condizione di disordine matrimoniale non gli fu permesso di celebrare un vero e proprio funerale. Ecco, l’unica nota lieta in questa storia che sembra finire male è che però forse Padre Pio riuscì, noi questo ce lo auguriamo di cuore (noi preghiamo anche per questo), a intercedere in qualche modo per questo Totò, che lo voleva incontrare ma quando lo avrebbe detto lui. Infatti, secondo la figlia di Totò (Liliana De Curtis), sembra che le ultime parole di Totò, prima di morire, siano state queste ‘ricordatevi che sono cattolico, apostolico e romano’. Quindi forse alla fine, riacciuffandolo per i capelli, Padre Pio riuscì ad aiutare pure Totò che non era andato a trovarlo.
Questo piccolo quadretto ci fa capire che la cosa essenziale della vita è salvezza delle anime, la salvezza della nostra anima. E Padre Pio questo lo aveva ben presente”.

Mario Palmaro – Radio Maria

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Il sacerdote deve essere riconoscibile

Posté par atempodiblog le 5 novembre 2012

Stralcio di una conversazione sulla figura del sacerdote, ai microfoni di Radio Maria, tra il Prof. Palmaro e il dott. Gnocchi

Il sacerdote deve essere riconoscibile dans Alessandro Gnocchi Prete-sempre-riconoscibile

Prof. Mario Palmaro: «Eravamo a un convengo insieme [con il dott. Gnocchi] e si discorreva con un sacerdote che era vestito con la sua bella talare, come si conviene a un sacerdote cattolico, e mentre si parlava… a un certo punto si è avvicinata una persona e ha detto: “scusi padre ha 10 minuti per confessarmi?”. Ecco queste sono le scene che fotografano meglio di tante parole che cos’è un prete; un prete è uno che si rende innanzitutto riconoscibile da tutti e che quindi in qualsiasi momento è al servizio dei fratelli perché non ha un momento in cui agisce privatamente e nello stesso momento può fare questa cosa grande che è assolvere i peccati».

Dott. Alessandro Gnocchi: «Questo episodio me ne ricorda un altro assolutamente simile, ma che ci tengo a raccontare: qualche anno fa ero a Firenze per una conferenza ed eravamo stati a mangiare qualcosa in una trattoria con un sacerdote che aveva la sua brava talare, come si potrebbe dire, e mi ricordo che uscendo, era sera, verso le 11:00 – 11:30, si è avvicinata una donna, era una barbona, una donna che viveva sotto i ponti e ha chiesto a questo sacerdote di essere confessata… Siccome questa donna non era sicuramente in buone condizioni e poteva morire di lì a poco…. poteva anche capitarle qualcosa… se non avesse riconosciuto un sacerdote non avrebbe potuto confessarsi».

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Gino il pio

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2012

Campione della bicicletta, Bartali fu anche un simbolo dell’Italia cattolica del dopoguerra. Un fratello morto a vent’anni correndo in bicicletta. I Tour de France e i Giri d’Italia, l’ingresso nell’ordine carmelitano come terziario, la famiglia, la guerra e la ricostruzione. La sua vita sembra un racconto omerico, all’ombra della fede.
di Alessandro Gnocchi – Il Timone

Gino il pio dans Alessandro Gnocchi Gino-il-Pio-Bartali

Nel 1935, per chi amava il ciclismo, dire Olmo o Guerra era come evocare gli eroi di Omero. Eppure, nella Milano-Sanremo di quell’anno, un pivello di ventun’anni li aveva mollati sul Berta e viaggiava da solo in testa con due minuti di vantaggio. Allora, Emilio Colombo, della “Gazzetta dello Sport”, fece accelerare la sua macchina, raggiunse il ragazzino e lo intervistò in corsa. In realtà, non gli importava un fico secco di Gino Bartali, che stava andando a vincere il mondiale di primavera. Quel gran marpione voleva solo che il giovanotto toscano perdesse tempo, concentrazione e, con quelli, la Milano-Sanremo: altrimenti, addio tiratura per la “Gazzetta”. Al traguardo, Bartali arrivò quarto dietro Olmo, Guerra e Cipriani. Anche troppo per un gregario.
Nel 1997, sessantadue anni dopo, Gino Bartali ne aveva fatte tante da non essere semplicemente Gino Bartali. Da tempo era divenuto “Bartali” tra virgolette, quello della canzone di Paolo Conte: polaroid di un’Italia in bianco e nero che molti cominciano a rimpiangere. Era il “Bartali” di un Italia in cui, alla morosa che faceva i capricci per andare al cinema, un uomo era nel suo buon diritto spiegandole il senso della vita come recita la ballata contiana: «E tramonta questo giorno in arancione/ e si gonfia di ricordi che non sai/ mi piace restar qui sullo stradone/ impolverato, se tu vuoi andare, vai…/ e vai che io sto qui e aspetto Bartali».
Fu proprio quel “Bartali” che, un giorno di marzo del 1997, due amici portarono a un concerto dell’avvocato cantante. L’incontro tra i due avvenne durante l’intervallo. L’eroe fece due sorrisi al suo Omero e disse: «Senti Conte, la canzone mi piace, ma la fa meglio Jannacci. Eppoi, te lo devo dire, c’è una strofa che non mi garba: cos’è questa storia del na-so triste come una salita? Io a naso non sto male, ma te ti sei visto che nappa ti ritrovi?». Poi girò i tacchi e se ne andò: «Non ho tempo da perdere io. Devo tornare a casa presto, mia moglie ha questo dannato morbo di Amsterdam e non posso lasciarla sola, ha bisogno di me».
Gino e la signora Adriana hanno vissuto insieme più di sessant’anni e, alla fine, è stato lui a mollare per primo. In attesa che glielo portassero via, lei lo ha vegliato seduta su una seggiola nella loro vecchia stanza. Sopra la testata del letto, la Madonna. Verso la finestra, inclinata, una ribaltina, con una lampada accesa e due libri. Sulla parete opposta, una tela ottocentesca. Vicino alla stanza da letto, un piccolo locale adibito a cappelletta, con la statua di Santa Teresa del Bambin Gesù e due immagini di padre Pio. Lui indossava la sua divisa vera, il saio bianco avorio da terziario carmelitano, e teneva nella mano destra un rosario di legno.
La vera storia di Gino Bartali è tutta qui dentro. Potrebbe sembrare niente, però basta agitarla un attimo e diventa una fantasmagoria di petali svolazzanti come quelle bocce di tanti anni fa, che bastava girarle sottosopra per incantarsi davanti alla neve finta intenta a cadere dal cielo.
Basta una piccola scossa, e dal cielo di Bartali viene giù di tutto. Il fratello morto a vent’anni correndo in bicicletta, i Tour de France e i Giri d’Italia, la polvere appiccicata in faccia come una maschera di bellezza, la voglia di piantar rogne un metro dopo il traguardo, la famiglia, la guerra e la ricostruzione. E poi quel Fausto Coppi che avrebbe preso volentieri a cazzotti se, alla fine, non gli avesse voluto bene come a un fratello.
L’affetto tra due rivali non si può misurare con il metro dei giorni feriali. Un’imprecazione e uno sguardo di sbieco valgono una carezza: e, forse, anche più di una borraccia passata di mano lungo una salita. Quello che divideva vera-mente Coppi da Bartali era l’appartenenza a due universi inconciliabili. In un mondo che si avviava al divismo crocefiggendo la vita di Coppi, Bartali provava la voglia struggente di essere normale.
Fausto andava sui rotocalchi per via della Dama Bianca, e lui si infilava nelle chiese a baciare le reliquie. Fausto diventava suo malgrado il simbolo di un’Italia in via di emancipazione, e lui testimoniava un cattolicesimo pacelliano alla “Bianco Padre che da Roma, ci sei meta, luce e guida”. Fausto dominava un ciclismo quasi scientifico, e lui pigiava sui pedali mischiando furore e giaculatorie.
Ma il problema non era Coppi. Il problema era il mondo che stava cambiando e non certo in meglio. Bartali non si era mai avventurato in profezie sul destino della società perché non era suo compito: ma aveva previsto dove sarebbe finito il ciclismo affamato di record e di soldi.
Era troppo pio per non arrivarci. Però non tutti, nell’ambiente, riuscivano a capire quella specie di Sant’Ignazio in groppa a un cavallo d’acciaio. Non comprendevano che i giudizi azzeccati sulle cose della vita erano frutto della devozione. «Brutt bojon» ringhiava Eberardo Pavesi mentre lui si inginocchiava sul marmo delle cattedrali. «Su de lì Ginetto, fa’ minga el bamba, che così ti freddi i muscoli».
Gianni Brera cominciò a prenderlo male. Non riusciva a mettere insieme il fatto che un uomo potesse essere così materiale e così spirituale allo stesso tempo. Poi si ricredette in una splendida “Lettera a Gino Bartali”: «Da qualche anno, conoscendoti meglio, mi sono fatta la convinzione che tu sia una specie di Bertoldo devoto. Non sei, intendo, il Tartufo ipocrita e astuto che una morale ormai fuori del tempo costringe a irritante doppiezza: quando ti chiamo frate Cipolla, pensando alle margniffate di quel personaggio boccaccesco che tu forse non sai, voglio semplicemente coprire una mia debolezza. Hai avuto molto coraggio nell’esser pio. Questo è il lato più eroico».
Per quanto gli fu dato, e senza volerlo, Bartali rappresentò l’Italia cattolica del dopoguerra. E forse non lo sarebbe stato in modo così convincente se non avesse avuto come contraltare Coppi. Perché quell’Italia era fatta di Kiryeleison, di santini, di devozione, di fede, di processioni, ma anche di dispute in tuta alla mensa della fabbrica o in maniche di camicia al bar. Gli italiani si esaltavano al cospetto di una rivalità che confinava con la guerra. Fra i tavolini dei caffé scorrevano fiumi di aperitivi. Le scommesse simboleggiavano duelli che in altre epoche avrebbero fatto correre sangue. Ma era un modo di stare uniti.
Quando, nel 1948, spararono a Togliatti fu evidente a tutti. La vittoria di Bartali a una tappa del Tour non evitò una rivoluzione che nessuno avrebbe fatto. Però servì a placare animi la cui eccitazione aveva superato la soglia di attenzione. Ancora oggi, vecchi democristiani e vecchi comunisti raccontano di essersi abbracciati improvvisamente alla notizia dell’impresa del loro campione. Forse è vero solo in parte. Ma, a maggior ragione, con quella mezza bugia testimoniano la voglia di appartenere a un’Italia cattolica che non c’è più.
Non è la più grande, ma questa, fra le imprese di Gino il Pio, è la più duratura. Di suo, lui ci aveva messo solo l’ostinazione di guardare in Cielo quando le tentazioni lo avrebbero voluto volentieri con gli occhi puntati in terra. Il resto dipendeva tutto dalla stoffa di cui lo aveva fornito il Buon Dio, un sarto che non sbaglia mai. Se il Padreterno ci avesse ritagliato un’altra forma, ne avrebbe cavato comunque qualche cosa di memorabile. Uno scrittore sul genere di Papini o di Giuliotti. O un predicatore capace di mettere spalle al muro eretici di ogni risma. O un pittore incantato davanti alle vite dei santi. Invece ne ha fatto solo un corridore: forse per rivederlo più in fretta il giorno in cui gli avrebbe detto di tornare a casa.

Scheda biografica

Figlio di Torello e Giulia Sizzi, Gino Bartali nasce a Ponte a Ema, in provincia di Firenze, il 18 luglio del 1914. Ha due sorelle più anziane di lui, Anita e Natalina,e un fratello, Giulio.
A 10 anni, Prima Comunione e iscrizione all’Azione Cattolica: «Dio, famiglia, amici sono stati i cardini della mia vita» dirà sempre. Sposa Adriana Bani il 14 novembre del 1940, da cui avrà tre figli: Andrea, Luigi e Biancamaria.
È morto il 5 maggio del 2000 nella sua casa di Ponte a Ema.

Queste le sue vittorie più importanti:

2 Tour de France (1938, 1948);
3 Giri d’Italia (1936, 1937, 1946);
4 Milano-Sanremo (1939, 1940, 1947, 1950);
3 Giri di Lombardia (1936, 1939, 1940);
2 Giri di Svizzera (1946, 1947);
4 maglie di campione d’Italia (1935, 1937, 1940, 1952);
1 Coppa Bernocchi (1935);
1 Tre Valli Varesine (1938);
1 Giro di Romandia (1949);
1 Giro dei Paesi Baschi (1935).
Tra il 1931 e il 1954 corse 988 gare, ne vinse 184, 45 per distacco.

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La grazia di essere cattolici

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2012

La grazia di essere cattolici dans Beato Pier Giorgio Frassati piergiorgiofrassati

“Ogni giorno di più comprendo quale grazia sia l’essere cattolici. Vivere senza una fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere in una lotta continua la verità non è vivere, ma vivacchiare… anche attraverso ogni disillusione dobbiamo comprendere che siamo gli unici che possediamo la Verità”.

Beato Pier Giorgio Frassati

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Dio non esclude nessuno

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2012

Dio non esclude nessuno dans Citazioni, frasi e pensieri dolcecristopapa

Dio non esclude nessuno, né poveri né ricchi. Dio non si lascia condizionare dai nostri pregiudizi umani, ma vede in ognuno un’anima da salvare ed è attratto specialmente da quelle che sono giudicate perdute e che si considerano esse stesse tali. Gesù Cristo, incarnazione di Dio, ha dimostrato questa immensa misericordia, che non toglie nulla alla gravità del peccato, ma mira sempre a salvare il peccatore, ad offrirgli la possibilità di riscattarsi, di ricominciare da capo, di convertirsi”.

Benedetto XVI – Angelus 31 ottobre 2010

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Non temere di amare troppo Maria

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2012

Non temere di amare troppo Maria dans Citazioni, frasi e pensieri Kolbe-e-l-Immacolata

“Non temere di amare troppo la Madonna, perché non arriverai mai ad amarLa come L’ha amata Gesù”.

San Massimiliano Maria Kolbe

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Come Gianni Di Marzio scoprì Maradona

Posté par atempodiblog le 3 novembre 2012

«Era arrabbiato, ma fece tre gol in 10 minuti. Così Maradona mi convinse»
di Emmanuele Michela -Tempi

L’ex-tecnico del Napoli Gianni Di Marzio racconta di quanto nel 1978 scoprì il Pibe de Oro in Argentina: «Lo vidi, andai negli spogliatoi e lo feci firmare subito»

Come Gianni Di Marzio scoprì Maradona dans Sport maradonaegiannidimarzio

«Lo vidi giocare 10 minuti. E mi bastarono a convincermi che sarebbe diventato un campione». La voce di Gianni Di Marzio è ancora carica di entusiasmo nel raccontare di quanto accadde nell’estate del ’78. Poco tempo gli bastò per capire che chi aveva davanti era un ragazzo di soli 18 anni destinato a diventare il più forte di sempre, Diego Armando Maradona. Di campioni poi Di Marzio ne ha visti tanti, ma quelle giornate argentine sono ancora nette nella sua testa: all’epoca era tecnico del Napoli, e fece di tutto per portare il ragazzo in Italia già nel 1978. Ma la storia andrà diversamente, e Maradona riuscirà ad arrivare in Campania solo 6 anni dopo. Ora Di Marzio fa consulente di mercato per il Qpr, e a Tempi.it racconta che cosa lo stupì di quel ragazzo «coi capelli lunghi e bassino», di cui [il 30 ottobre] ricorreva il 52esimo compleanno.

Lei è passato alla storia come il tecnico che scoprì Maradona. Ci vuole raccontare di quell’incontro col Pibe de Oro?
Era il 1978, e andai in Argentina a seguire i Mondiali insieme a Trapattoni e Radice. Ero all’albergo Don Carlos di Buenos Aires, dove continuava a tempestarmi di telefonate in albergo un certo Settimio Aloisio: era un signore calabrese, di Aiello Jonico, diventato presidente della sezione calcio della polisportiva Argentinos Junior. Era tifosissimo del Catanzaro, squadra che due anni prima avevo portato in Serie A da tecnico. Cercava di rintracciarmi per sottoporre alla mia attenzione questo giovane giocatore che, secondo lui, era un fenomeno. Io all’inizio ero un po’ restio, poi però cedetti e andai a vedere questo ragazzo. Mi feci accompagnare da Angelo Pesciaroli, giornalista del Corriere dello Sport, e andammo a questo campo. Maradona però non si presentò: era ancora arrabbiato con Menotti, ct della nazionale argentina, che lo aveva inserito nella lista dei 40 per il Mondiale ma non dei definitivi 22. Già allora mi colpì perché aveva grande personalità. Con Aloisio lasciammo quindi Pesciaroli al campo, e andammo direttamente a Villa Fiorito, la casa del ragazzo, per convincerlo a venire: non mi fece una buona impressione con quei capelli lunghi, un po’ bassino, vestito così. Però alla fine Maradona arrivò al campo, e iniziò la partita. Mi colpì subito, così già dopo dieci minuti di gioco mi alzai e andai negli spogliatoi, d’accordo con Aloisio. Dovevo stare attento a Pesciaroli, il giornalista: all’epoca collaborava con la Lazio, quindi avevo paura me lo potessero rubare. A lui dissi che dovevo andare alla toilette. Maradona uscì dal campo, e Aloisio si impegnò a dare al Napoli questo giocatore per una cifra di 300mila dollari, 270 milioni di lire. Fu l’inizio: alla sera andammo a cena insieme, e nei giorni successivi che rimasi in Argentina Maradona era in giro con me. Però non voglio prendermi alcuna paternità di aver scoperto questo giocatore: mi sono sempre ritenuto un tecnico più di uno scout. Non avevo da acquisire alcun merito su questa vicenda.

maradonacalcionapoli dans Sport

Cosa la colpì di quel ragazzino? Maradona aveva solo 18 anni.
In 10 minuti aveva fatto tre gol. Uno palla al centro, dribbling su 3-4 giocatori e staffilata perfetta nel sette. Il secondo una sforbiciata perfetta di sinistro su corner, il terzo una punizione precisa dal limite. Che cosa c’era da vedere di più?

Perché Maradona arrivò solo 6 anni più tardi al Napoli?
Quando tornai in Italia tentai di convincere il presidente Ferlaino a prenderlo. Ma lui non volle, non si fidava. Anche qualche giornalista era diffidente: Domenico Carratelli scrisse che avevo avuto la “presunzione” di aver scoperto un “Mariconda”. Quell’articolo lo tenni per anni, e quando poi Maradona divenne un grande giocatore inviai a Carratelli quella pagina di giornale. Lui continuava a rifiutarmi la raccomandata, e solo dopo che gliela feci avere a mano dichiarò pubblicamente di aver sbagliato e di vergognarsi per aver detto quelle cose su Maradona. Qualche mese dopo ci fu poi la rivincita della finale Mondiale tra Argentina e Olanda, a Berna. Anche il giocatore fu convocato, e io andai a trovarlo: gli portai la maglia del Napoli in regalo, ma non c’era nulla da fare. Ferlaino non si convinceva. Alla fine Maradona arrivò sei anni dopo, grazie anche ad Antonio Juliano, che era mio giocatore al Napoli del ’78. Si ricordava di quanto gli avevo detto su Diego, e di me si fidava ciecamente. Così andò a Barcellona ad acquistare il giocatore, che nel frattempo era arrivato in Europa. Ricordo ancora l’intervista che Maradona fece alla Rai sull’aereo per Napoli: diceva di aver scelto gli Azzurri perché glieli aveva consigliati Di Marzio, e che lui voleva già arrivare nel ’78.

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Che rapporto avevate voi due? Vi sentite ancora?
Più di una volta ci siamo incontrati durante gli anni successivi. A gennaio vado in Argentina a vedere il Sudamericano Under 20, quindi spero di incontrarlo lì. Non siamo in contatto, però lo rintraccio di sicuro. Non mi è mai piaciuto durante questi anni rompergli le scatole: Maradona ha sempre avuto intorno la “corte dei miracoli”, gente che gli procurava donne, droga, lo vendevano ai ristoranti… Io non volevo che lui pensasse che io fossi parte di questa compagnia, così non l’ho mai disturbato.

Maradona è stato un campione unico, quasi di sicuro il più grande di sempre. Qualcuno vede in Messi il suo erede. È d’accordo?
Messi è un fuoriclasse, Maradona è un dio. Non c’è sfida. Se Maradona avesse avuto intorno dei buoni consiglieri e non la “corte dei miracoli” probabilmente sarebbe stato in grado di giocare ancora oggi. Glielo dico con molto dispiacere e rabbia.

Ultima domanda. Ieri circolava la voce che il Blackburn volesse offrire la panchina a Maradona. Lei conosce bene il mercato inglese. C’è da credere a queste voci o meno?
Onestamente credo proprio di no. Maradona ormai ha un prezzo, e mi lascia un po’ perplesso una trattativa simile. Certo, mi farebbe grande piacere se tornasse in Europa. Ma non credo vada ad allenare il Blackburn.

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La trappola dell’occulto: Halloween, Capodanno di tutto il mondo esoterico

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2012

La ricorrenza nasce come culto al principe della morte. Data importante per gli occultisti, un cristiano non dovrebbe definirla una festa, sebbene si presenti come momento di divertimento
di Aldo Buonaiuto – RomaSette.it

La trappola dell'occulto: Halloween, Capodanno di tutto il mondo esoterico dans Don Aldo Buonaiuto Halloween

Da diversi anni Halloween si è diffuso ovunque in Italia e in buona parte dell’Europa attraverso un processo apparentemente legato solo al business e alla moda, silenzioso e inarrestabile. Genitori e nonni si prodigano a comprare la famigerata zucca, gli addobbi e le maschere spaventose ai propri bambini, con lo stesso impegno profuso per la festa di carnevale. Ma Halloween non è un carnevale, e un cristiano non dovrebbe definirla una festa, sebbene si presenti soltanto come un innocente momento di spensierato divertimento.

Purtroppo molti ignorano il reale significato di questa deleteria ricorrenza che nasce dal “Samhain”, un rito in onore di divinità pagane celebrato nelle isole britanniche dalle popolazioni celtiche. Si trattava, quindi, di un culto al principe della morte attraverso riti orgiastici, durante i quali le bevande alcoliche scorrevano a fiumi, e l’offerta di sacrifici anche umani era considerata necessaria per ingraziarsi gli spiriti maligni. I Druidi, che rappresentavano la casta sacerdotale dei Celti, celebravano la notte di “Samhain” come la solenne cerimonia di passaggio dalla stagione estiva a quella invernale.

Era questo il momento in cui le tenebre avrebbe domato il dio del Sole facendo tornare sulla terra le anime defunte che si sarebbero introdotte nei viventi. Per allontanare questi spiriti si compivano dei rituali dove era necessario mascherarsi con le pelli di animali uccisi in precedenza. I Druidi portavano delle lanterne create con delle rape svuotate e incise a forma di volto umano al cui interno era posta una candela accesa realizzata con il grasso dei sacrifici. Il mattino seguente si accendeva il fuoco nuovo e si compiva il giro delle famiglie portando in ogni abitazione le braci ardenti: chi rifiutava l’offerta veniva maledetto. Papa Gregorio IV nell’834 decideva di posticipare la festa di Ognissanti dal 13 maggio al 1° novembre, al fine di scalzare le credenze popolari relative al culto del “Samhain”.

Gli irlandesi credevano che il 31 ottobre i defunti potessero avere un accesso nel mondo dei vivi. Per questo motivo tradizionalmente in casa lasciavano il fuoco acceso, il cibo sulla tavola e la porta d’ingresso socchiusa. I bambini, invece, chiedevano leccornie, mele e nocciole che rappresentavano le offerte ai defunti. Anche oggi, i ragazzini, soprattutto nei Paesi di cultura anglosassone, vanno in giro a bussare alle porte delle case ripetendo la formula “trick or treat”, che dietro all’innocente significato di “dolcetto o scherzetto” e alla traduzione letterale di “trucco o divertimento”, nasconde quello originario di “maledizione o sacrificio”. Secondo una leggenda la tradizionale zucca, somigliante ad una testa di morto, rappresenta l’irlandese errante Jack O’Lantern, che avrebbe cercato di ingannare il diavolo che a sua volta si sarebbe vendicato condannandolo a vagare in eterno tra terra e cielo.

Oggi attorno ad Halloween c’è un mercato di maschere, teschi, zucche, mantelli, cappellacci, fantasmi, streghe e zombie…balli in maschera, notti trasgressive… Ma è anche un periodo in cui si denota un netto incremento di affari per i maghi dell’occulto. È proprio questo l’aspetto ancora più inquietante di tutta la vicenda: il 31 ottobre viene riscoperto con grande fascino dagli esoteristi che addirittura definiscono questa notte come «il Capodanno di tutto il mondo esoterico, la festa più importante dell’anno per i seguaci di satana».

Altro che semplice evasione e gioco! Halloween si rivela il “giorno più magico dell’anno” e l’occasione per consultare maghi, oroscopi e tarocchi fino a giungere alle iniziazioni esoteriche. Per gli occultisti è una delle quattro ricorrenze più importanti del loro calendario, dove la profanazione dei cimiteri, le messe nere, i sacrifici e ogni sorta di dissacrazione e sacrilegio vengono esaltati ed auspicati. Halloween rappresenta così l’ennesimo tentativo di promuovere il macabro, l’orrore, l’occultismo e l’esoterismo, la stregoneria e la magia.

La santità, la purezza, la carità, la bellezza, sono costrette a lasciare il posto ad immagini di morte e di sangue, a messaggi distorti e lugubri, costringendo la nostra cultura ad accogliere le attività del male come se fossero un bene e rifiutando il cristianesimo come superato e fuori moda. Le nuove generazioni ricevono un ulteriore bombardamento di orrore e violenza, pensando forse che la paura della morte si possa vincere facendo amicizia con fantasmi e vampiri, streghe e demoni.

Dinanzi a questa realtà è importante reagire e non subire passivamente una ricorrenza lontana dalla nostra cultura e antitetica alle nostre radici religiose. Vorrei concludere rivolgendomi a tutti quei cattolici impegnati nel mondo dell’educazione che, insieme ai genitori, hanno la responsabilità di trasferire alle nuove generazioni il vero senso della vita con i suoi valori. Lo esprimo con le parole di un testimone della bellezza, innamorato di Gesù e dell’uomo, don Oreste Benzi, nel suo ultimo articolo scritto proprio su Halloween alla vigilia della sua morte: «Vogliamo che i nostri figli festeggino il giorno di Ognissanti con i demoni, il mondo di satana e della morte oppure con gioia e pace vivendo nella luce? Esortate i vostri figli dicendo loro: vuoi giocare e divertirti con i demoni e gli spiriti del male o invece scegli di gioire e far festa con i Santi che sono gli amici simpatici e meravigliosi di Gesù?».

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L’origine della festa dei defunti

Posté par atempodiblog le 1 novembre 2012

RICORRENZE: dell’origine della festa dei defunti – tratto da “Catechismo di perseveranza” – di mons. G. Gaume

L’origine della festa dei defunti dans Festa dei Santi e commemorazione dei fedeli defunti fedelidefuntiognissanti

Festa dei morti. — Nel giorno dell’Ognissanti la Chiesa è tutta intenta a scuotere le fibre del nostro cuore; e ben si scorge che mira a compiere un importante disegno e ad ottenere un grand’effetto, vale a dire il disgusto della terra, la brama del cielo, la compassione reciproca, la carità universale fra i suoi figli. Se nel mattino di quella giornata memorabile la magnificenza delle sue cerimonie, l’allegrezza de suoi inni presentano l’espressione di una gioia senza amarezze, la sera, ai suoi cantici si mescolano lunghi sospiri ed un palese colore di mestizia. Ed infatti ecco la scena; già in parte cambiata, prendere tutt’altro aspetto. Ai canti della gioia, ai sospiri dell’esilio succedono lugubri suoni; neri ornamenti, quali simboli di gramaglia e duolo surrogansi ai piviali arabescati d’oro; noi più non vediamo nel santo tempio fuorché un monumento funebre dipinto con imagini di scheletri, di teschi, di ossa.

Che cosa significa tal mutazione? E’ una nuova festa, la festa de’ morti. Madre affettuosa, la Chiesa vuole che oggi sia una festa di famiglia; ella si presenta ai nostri occhi nelle sue tre differenti situazioni: trionfante nel cielo, esiliata sopra la terra, gemente in mezzo alle fiamme espiatrici. E i cantici del cielo e i sospiri della terra e i gemiti del purgatorio in questo giorno si alternano, si mischiano, si rispondono a coro, ci fanno sovvenire che misteriosi vincoli legano in un sol corpo tutti i figli di Cristo; che le tre chiese, come tre sorelle, si danno la destra, s’incoraggiano, si consolano, si confortano fino al giorno in cui, abbracciate fra loro nel cielo, formeranno una sola chiesa eternamente trionfante.

Quale splendida armonia! Ma eccone un’altra che è impossibile di non osservare. Oh quanto è bene scelto quel giorno per celebrare la festa de’ morti! Quegli uccelli che emigrano, quei giorni che si raccorciano, quelle foglie che cadono a’ nostri piedi per le vie trastullo dei venti, quel cielo oramai cupo, quelle nuvole grigiastre foriere delle brezze, tutto questo spettacolo di decadenza e di morte non è egli straordinariamente acconcio a riempiere l’anima nostra de’ gravi pensieri cui la Chiesa vuole inspirarci?

Ne ciò è tutto. Al paro di tutte le altre e fors’anche più di tutte le altre, la festa dei morti ristringe i vincoli di famiglia. Si vedeva in passato e si vedono tuttora per le campagne fratelli, sorelle, parenti, vicini radunarsi nel cimitero, pregare, piangere sulle sepolture degli avi e far elemosine per implorare riposo a’ loro cari defunti. E se nel corso dell’anno è sorta fra taluno qualche ombra di discordia , in questo giorno ella si dilegua più agevolmente, poiché davvero siamo inclinati ad amarci quando preghiamo e piangiamo insieme.

Anche testè in alcuni paesi un uomo, detto della veglia, percorreva nella notte le strade della città e, fermandosi ogni venti passi e facendo sonare la sua squilla, gridava: Svegliatevi, voi che dormite, pregate per i defunti. Perché sono state dismesse queste commoventi usanze? Dacché noi abbiamo obliato i nostri morti, siamo divenuti indifferenti verso i vivi; 1’egoismo ha inaridito il cuor nostro, quell’egoismo che avvilisce l’uomo, annienta la famiglia e sconvolge la società.

II. Origine di questa festa. – Ma è tempo di parlare dell’istituzione della festa de’ morti. Fino dalla sua origine la Chiesa ha pregato per tutti i suoi figli quando morivano. Le sue preghiere erano supplicazioni per quelli che ne avevano bisogno e rendimento di grazie per i martiri. Si rinnovava il sacrificio e le supplicazioni nel giorno della loro morte. Tertulliano lo accenna chiaramente; «Noi celebriamo, ei dice, l’anniversario della natività de’ martiri». E più innanzi: «Secondo la tradizione degli antichi, noi offriamo il sacrifizio per i defunti nell’anniversario della loro morte». Gli altri padri ci offrono le medesime testimonianze.

La Chiesa inoltre, sempre buona e sempre affettuosa per i suoi figli, aveva fino dal principio due maniere di pregare e di offrire il sacrifizio per i morti. L’una per ciascuno di essi o per qualcuno in particelare, l’altra per tutti morti in generale, affinché la sua carità abbracciasse quelli che non avevano nè congiunti nè amici che potessero adempiere a quel dovere di pietà a loro riguardo. Essa praticava così anche prima di sant’Agostino. «È antichissimo, dice questo padre, e universalmente praticato in tutta la Chiesa l’uso di pregare per tutti quelli che sono morti nella comunione del corpo del sangue di Gesù Cristo».

Non vediamo per altro che vi sia stata una festa particolare per raccomandare a Dio tutti i defunti, vediamo bensì i fondamenti sui quali può essere stata instituita; perocchè se fino dalla sua origine la Chiesa, secondo la testimonianza de’padri, ha pregato e sacrificato per i morti in particolare e per tutti in generale, se in tutte le liturgie e in tutte le messe dell’anno è stato pregato per tutti i morti in comune, non è forse evidente che su questi fondamenti si poté instituire una festa speciale per adempiere con maggior cura ed applicazione questo dovere verso i defunti?

Così avvenne infatti, e sarà vanto esimio e gloria eterna della Franca-Contea, conosciuta allora col nome di Borgogna, l’aver dato nascimento a questa pia instituzione. Uscito da una delle famiglie più nobili della Borgogna, il beato Bernonc, abbate di Beaume-les-Messieurs, vicino a Lons-le-Saulnier, aveva fondato la badia di Clunì. Questa illustre congregazione, che aveva ereditato la pietà del fondatore verso i defunti, fu sollecita di adottare la commemorazione generale de` trapassati, che rese stabile e perpetua con decreto dell’anno 998. Ecco le parole del capitolo generale di Clunì:
«È stato ordinato dal nostro beato padre Odilone, di consenso e ad istanza di tutti i monaci di Clunì, che siccome in tutte le chiese si celebra la festa dell’Ognissanti nel primo giorno di novembre, così presso noi sarà celebrata solennemente in questa maniera la commemorazione di tutti i fedeli defunti. Il giorno della festa di tutti i santi, dopo il capitolo, il decano e i cellerarii faranno un’ elemosina di pane e di vino a tutti quelli che si presenteranno: dopo il vespro saranno sonate tutte le campane e sarà cantato il Notturno de’morti. La messa sarà solenne, e saranno cibati dodici poveri.
Noi vogliamo che questo decreto sia osservato a perpetuità tanto in questo luogo come in tutti quelli che ne dipendono; e chiunque osserverà come noi questa instituzione parteciperà alle nostre buone intenzioni».

La divota pratica s’introdusse ben presto in altre chiese, e quella di Besanzone fu la prima ad abbracciarla. Era, possiamo dire, in certa maniera una sua sostanza, un suo patrimonio, che le tornava, consacrato dal suffragio de’ santi amici di Dio. Indi a non molto la Commemorazione generale de’ morti, fatta  nel giorno successive all’Ognissanti, era comune a tutta la chiesa cattolica.

Tratto da “Catechismo di perseveranza” – di mons. G. Gaume – prima ed. milanese – vol. VII, pagg. 306-310 – Carlo Turati Librajo-Editore – Milano 1860.

Fonte: Luci sull’Est

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L’uragano Sandy a New York spazza tutto tranne la Madonna

Posté par atempodiblog le 1 novembre 2012

L’uragano Sandy a New York spazza tutto tranne la Madonna dans Articoli di Giornali e News madonnanewyork

Incredibile questa immagine della Vergine Maria che e’ rimasta intatta al passaggio della tempesta chiamata “Sandy” il 30 ottobre nella zona  di Breezy Poin del quartiere Qeens a New York.
Gli abitanti sono rimasti esterrefatti dell’accaduto!!

Tratto da: Filia Ecclesiae

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