«L’unico atto degno di un uomo è inginocchiarsi davanti a Dio». Il Diario di Etty Hillesum

Posté par atempodiblog le 21 novembre 2012

Pubblicato il sorprendente Diario di una giovane ebrea morta ad Auschwitz nel ’43. Tempi ve ne parlò già anni fa. Ne riportiamo alcuni stralci, convinti che  sia un’opera da riscoprire
Redazione Tempi.it

«L’unico atto degno di un uomo è inginocchiarsi davanti a Dio». Il Diario di Etty Hillesum dans Articoli di Giornali e News ettyhillesum

È in libreria per Adelphi l’edizione integrale del Diario  (1941-1943) di Etty Hillesum. Chi è questa scrittrice e intellettuale ebrea morta a 29 anni ad Auschwitz e sconosciuta ai più, ma che  meriterebbe di essere riscoperta? Tempi ne parlò già anni fa, in  occasione della pubblicazione (allora parziale) dei suoi scritti. Vi  riproponiamo quegli articoli con alcuni brani tratti dal Diario e dalle Lettere. Per chi voglia ulteriormente approfondire, oggi su Avvenire Marina Corradi ha scritto un articolo su di  lei.

«Otto quaderni fittamente ricoperti da una scrittura minuta e quasi  indecifrabile – e da allora non ho mai distolto la mente da ciò che vi ho  trovato: la vita di Etty Hillesum. Questi quaderni narrano la storia di una  donna di Amsterdam di ventisette anni. Abbracciano tutto il 1941 e il 1942.  Erano gli anni in cui in tutta l’Europa si rappresentava il dramma dello  sterminio. Etty Hillesum era ebrea, e scrisse un contro-dramma». Così  scrive J.G. Gaarlandt nella sua introduzione alla prima edizione inglese (1983)  del Diario della giovane ebrea. Diario che, per tramite  dell’amica Maria Tuinzing, la stessa Etty, poco prima della sua deportazione ad  Auschwitz (dove morirà il 30 novembre 1943, appena due mesi dopo il suo arrivo  al campo di sterminio che inghiottì l’intera famiglia Hillesum: i genitori e un  fratello di Etty vennero trucidati dai nazisti il giorno stesso del loro arrivo  in Polonia, l’altro fratello, Jaap, morì sulla strada del ritorno ad Amsterdam)  aveva affidato allo scrittore Klaas Smelik, che lo studioso olandese Gaarlandt  conobbe nel 1980 e di cui iniziò la pubblicazione in lingua originale l’anno  successivo.
Etty scrisse Diario e Lettere negli anni dell’occupazione nazista  dell’Olanda e durante il suo soggiorno al campo di concentramento di Westerbork,  dove furono internati gli ebrei olandesi. Tutti i costi per la costruzione e il  mantenimento del campo furono sostenuti con la confisca dei beni e delle  proprietà degli ebrei. Da Westerbork transitarono e da lì furono condotti ai  campi di sterminio su 102 treni di deportati, 107mila ebrei olandesi. Ne  sopravvissero 5200.

27 febbraio, venerdì mattina, le dieci…
Mercoledì mattina  presto, quando con un gruppo numeroso ci siamo trovati in quel locale della  Gestapo, i fatti delle nostre vite erano tutti eguali: eravamo tutti nello  stesso ambiente, gli uomini dietro la scrivania, come quelli che venivano  interrogati. Ciò che qualificava la vita di ciascuno era l’atteggiamento  interiore verso quei fatti. Si notava subito un giovane che camminava su e giù  con un’espressione palesemente scontenta, assillato e tormentato. Cercava in  continuazione pretesti per urlare a quei disgraziati ebrei: «Mani fuori dalle  tasche per favore…», ecc. Per me era da compiangere più di coloro a cui stava  urlando; e questi, a loro volta, facevano pena nella misura in cui erano  impauriti. Quando mi sono presentata davanti alla scrivania, mi ha urlato  improvvisamente: «Che ci trova di ridicolo?». Avrei risposto volentieri: «Niente, tranne lei», ma per diplomazia m’è parso meglio lasciar stare. «Lei  ride tutto il tempo», continuava a urlare lui. E io in tutta innocenza: «Non me  ne accorgo proprio, è la mia faccia normale». E lui: «Per favore non dica  scemenze, vada fffuori», con una faccia che voleva dire: tra poco mi sentirai.  Credo che questo fosse il momento psicologico in cui avrei dovuto spaventarmi a  morte, ma quel trucco l’ho capito troppo in fretta. In fondo, io non ho paura.  Non per una forma di temerarietà, ma perché sono cosciente del fatto che ho  sempre a che fare con esseri umani, e che cercherò di capire ogni espressione,  di chiunque sia e fin dove mi sarà possibile. E il fatto storico di quella  mattina non era che un infelice ragazzo della Gestapo si mettesse a urlare  contro di me, ma che francamente io non ne provassi sdegno – anzi, che mi  facesse pena, tanto che avrei voluto chiedergli: hai avuto una giovinezza così  triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza? (…)

Di sera, le nove…
Ci è stato proibito di passeggiare sul  Wandelweg, ogni misero gruppetto di due o tre alberi è dichiarato bosco e allora  sulle piante è inchiodato un cartello con la scritta: vietato agli ebrei. Questi  cartelli diventano sempre più numerosi, dappertutto. E ciò nonostante, quanto  spazio in cui si può ancora stare e essere lieti e far musica e volersi bene.  (…)

Mercoledì mattina, le sette e mezzo
È così trascinante e  ardente, il mio Agostino-a-stomaco-vuoto. Un raffreddore di testa ora non mi fa  più perdere completamente l’equilibrio, però non è un piacere. Buon giorno,  scrivania disordinata! (…)

Sabato sera, mezzanotte e mezzo…
Certo che ogni tanto si  può esser tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che  sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo  bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di  me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è  difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro  lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio  una forma d’individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente  tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si  sarà liberato dell’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà  superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla  lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. E così  potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo  dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una  persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942,  l’ennesimo anno di guerra. (…)

3 luglio 1942…
Un po’ più tardi. E se anche non avessi  avuto niente da questa giornata – neppure, da ultimo, questo positivo e aperto  confrontarmi con la morte – non dovrei dimenticare quel soldato tedesco kasher  (persona come si deve, per bene, ndt), che si trovava al chiosco col suo sacco  di carote e cavolfiori. Prima, sul tram, le aveva messo in mano un biglietto, e  poi c’era stata quella lettera che dovrò ben leggere una volta: gli ricordava  tanto la figlia di un rabbino che lui aveva potuto ancora assistere giorno e  notte, sul suo letto di morte. E stasera è andato a farle visita. E quando Liesl  me l’ha raccontato, ho saputo all’istante che stasera avrei dovuto pregare anche  per quel soldato tedesco. Una delle tante uniformi ha ora un volto. Ci saranno  ancora altri volti su cui potremo leggere e capire qualcosa. E questo soldato  soffre anche lui. Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce  sempre da una parte e dall’altra e si deve pregare per tutti. Buona notte.  (…)

Venerdì…
Un giorno pesante, molto pesante. Un “destino di  massa” che si deve imparare a sopportare insieme con gli altri, eliminando tutti  gli infantilismi personali. Chiunque si voglia salvare deve pur sapere che se  non ci va lui, qualcun altro dovrà andare al suo posto. Come se importasse molto  se si tratti proprio di me, o piuttosto di un altro, o di un altro ancora. È  diventato ormai un “destino di massa” e si dev’essere ben chiari su questo  punto. Un giorno molto pesante. Ma ogni volta so ritrovare me stessa in una  preghiera – e pregare mi sarà sempre possibile, anche nello spazio più  ristretto. E, come fosse un fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla  schiena, e porto sempre più come una cosa mia quel pezzetto di destino che sono  in grado di sopportare: con questo fagottino già cammino per le strade. (…)

23 luglio, giovedì sera, le nove
Le mie rose rosse e  gialle si sono completamente schiuse. Mentre ero là, in quell’inferno, hanno  continuato silenziosamente a fiorire. Molti mi dicono: come puoi pensare ancora  ai fiori, di questi tempi. Ieri sera, dopo quella lunga camminata nella pioggia,  e con quella vescica sotto il piede, sono ancora andata a cercare un carretto  che vendesse fiori e così sono arrivata a casa con un gran mazzo di rose. Ed  eccole lì, reali quanto tutta la miseria vissuta in un intero giorno. Nella mia  vita c’è posto per tante cose. E ho così tanto posto, mio Dio. Oggi, mentre  passavo per quei corridoi così affollati, ho sentito improvvisamente un gran  desiderio d’inginocchiarmi sul pavimento di pietra, in mezzo a tutta quella  gente. L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello  d’inginocchiarci davanti a Dio. (…)

Mercoledì mattina, le nove (aspettando dal dottore)
Spesso, a Westerbork, quando andavo in giro con quei chiassosi, litigiosi e fin  troppo attivi membri del Consiglio Ebraico, mi veniva da pensare: su, lasciatemi  essere un pezzetto della vostra anima. Lasciatemi essere la baracca in cui si  raccoglie la parte migliore, che esiste sicuramente in ognuno di voi. Io non ho  bisogno di far così tanto, io voglio solo esserci. Lasciatemi essere l’anima in  questo corpo. E prima o poi trovavo in ognuno di loro un gesto o uno sguardo più  nobile, di cui credo fossero appena coscienti. E me ne sentivo il  custode.(…)

Domenica sera…
Il mio cuore è una chiusa che ogni volta  arresta un flusso ininterrotto di dolore. (…)
«Dopo la guerra, due correnti  attraverseranno il mondo: una corrente d’umanesimo e un’altra di odio». Allora  ho saputo di nuovo che avrei preso posizione contro quell’odio.

23 settembre…
Vedi, Klaas: quell’uomo era pieno di odio  per quelli che potremmo chiamare i nostri carnefici, ma anche lui avrebbe potuto  essere un perfetto carnefice e persecutore di uomini indifesi. Eppure mi faceva  tanta pena. Riesci a capirci qualcosa? Non aveva mai contatti amichevoli coi  suoi compagni, e se questo succedeva agli altri lui li guardava di sottecchi con  un’espressione così affamata (potevo vederlo e osservarlo in continuazione, in  quel luogo si viveva senza muri). Più tardi, un collega che lo conosceva da anni  mi aveva raccontato alcuni particolari della sua vita. Nei primi giorni della  guerra si era buttato in strada dal terzo piano ma non era riuscito ad  ammazzarsi, come doveva pur essere sua intenzione. In seguito ci aveva  riprovato, questa volta sotto una macchina, ma anche questo tentativo era  fallito. Poi aveva trascorso qualche mese in un istituto per malattie mentali.  Era paura, tutta paura. Era un giurista così brillante e acuto e nelle  discussioni accademiche aveva sempre l’ultima e decisiva parola. Ma nel momento  decisivo era saltato giù dalla finestra. Sua moglie doveva camminare per casa in  punta di piedi e lui faceva delle scenate ai figli atterriti. Ma faceva tanta,  tanta pena. Che vita è mai questa? (…)

12-10-42…
Un’anima è fatta di fuoco e di cristalli di  roccia. È una cosa molto severa e dura in senso vetero-testamentario, ma è anche  dolce come il gesto delicato con cui la punta delle sue dita sfiorava le mie  ciglia. (…)
Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.
(Qui si  interrompe il Diario di E.H.)

Dalle Lettere di E.H.
A Maria Tuinzing, 2 settembre  1943
…Io scrivo di nuovo un po’ di tutto alla rinfusa e poche cose buone.  Ogni tanto qui si è terribilmente stanchi ed è proprio così che mi sento  stamattina, ma questa lettera deve partire tra poco, quindi scarabocchio ancora  qualcosetta. Potete spedire o recapitare le lettere di Mechanicus che accludo? È  grazie a lui che posso far partire questa mia. Tutta la famiglia di Jopie è ora  in ospedale, si fatica a tenere in vita il bimbetto più piccolo.
Come eravamo  giovani solo un anno fa su questa brughiera, Maria, ora siamo un tantino più  vecchi. Noi stessi non ce ne rendiamo veramente conto: siamo stati marchiati dal  dolore, per sempre. Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua  inesplicabile profondità, Maria – devo ritornare sempre su questo punto. E se  solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani,  Maria. Qui non sono affatto all’altezza della situazione, non riesco a “far  fronte” a tutte le persone che vogliono coinvolgermi nei fatti loro, spesso sono  troppo, troppo stanca. Per favore, guarda una volta Käthe con occhi amichevoli  da parte mia, e accosta la tua guancia a quella di papà Han, anche da parte mia.  E state ancora bene insieme? E mi saluti la mia cara scrivania, il più bel posto  di questa terra? E Swiep e Wiep e Hesje e Frans e gli altri? Ti guardo un  momento in faccia, mia cara, e non dico più molto.
Etty

A Christine van Nooten, 7 settembre 1943
Christien, apro a caso la Bibbia  e trovo questo: «Il Signore è il mio alto ricetto». Sono seduta sul mio zaino  nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni  vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto.  Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il  campo cantando, mamma e papà molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per  tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure.
Alcuni amici rimasti a  Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia  ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro.
Etty

(Questa è l’ultima lettera che si conosca di Etty. Segue la deportazione ad  Auschwitz dell’intera famiglia Hillesum. Papà, mamma e il fratello Mischa  vengono trucidati lo stesso giorno del loro arrivo in Polonia. Secondo  un’informativa della Croce Rossa Internazionale Etty è morta ad Auschwitz il 30  novembre 1943).

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