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«L’unico atto degno di un uomo è inginocchiarsi davanti a Dio». Il Diario di Etty Hillesum

Posté par atempodiblog le 21 novembre 2012

Pubblicato il sorprendente Diario di una giovane ebrea morta ad Auschwitz nel ’43. Tempi ve ne parlò già anni fa. Ne riportiamo alcuni stralci, convinti che  sia un’opera da riscoprire
Redazione Tempi.it

«L’unico atto degno di un uomo è inginocchiarsi davanti a Dio». Il Diario di Etty Hillesum dans Articoli di Giornali e News ettyhillesum

È in libreria per Adelphi l’edizione integrale del Diario  (1941-1943) di Etty Hillesum. Chi è questa scrittrice e intellettuale ebrea morta a 29 anni ad Auschwitz e sconosciuta ai più, ma che  meriterebbe di essere riscoperta? Tempi ne parlò già anni fa, in  occasione della pubblicazione (allora parziale) dei suoi scritti. Vi  riproponiamo quegli articoli con alcuni brani tratti dal Diario e dalle Lettere. Per chi voglia ulteriormente approfondire, oggi su Avvenire Marina Corradi ha scritto un articolo su di  lei.

«Otto quaderni fittamente ricoperti da una scrittura minuta e quasi  indecifrabile – e da allora non ho mai distolto la mente da ciò che vi ho  trovato: la vita di Etty Hillesum. Questi quaderni narrano la storia di una  donna di Amsterdam di ventisette anni. Abbracciano tutto il 1941 e il 1942.  Erano gli anni in cui in tutta l’Europa si rappresentava il dramma dello  sterminio. Etty Hillesum era ebrea, e scrisse un contro-dramma». Così  scrive J.G. Gaarlandt nella sua introduzione alla prima edizione inglese (1983)  del Diario della giovane ebrea. Diario che, per tramite  dell’amica Maria Tuinzing, la stessa Etty, poco prima della sua deportazione ad  Auschwitz (dove morirà il 30 novembre 1943, appena due mesi dopo il suo arrivo  al campo di sterminio che inghiottì l’intera famiglia Hillesum: i genitori e un  fratello di Etty vennero trucidati dai nazisti il giorno stesso del loro arrivo  in Polonia, l’altro fratello, Jaap, morì sulla strada del ritorno ad Amsterdam)  aveva affidato allo scrittore Klaas Smelik, che lo studioso olandese Gaarlandt  conobbe nel 1980 e di cui iniziò la pubblicazione in lingua originale l’anno  successivo.
Etty scrisse Diario e Lettere negli anni dell’occupazione nazista  dell’Olanda e durante il suo soggiorno al campo di concentramento di Westerbork,  dove furono internati gli ebrei olandesi. Tutti i costi per la costruzione e il  mantenimento del campo furono sostenuti con la confisca dei beni e delle  proprietà degli ebrei. Da Westerbork transitarono e da lì furono condotti ai  campi di sterminio su 102 treni di deportati, 107mila ebrei olandesi. Ne  sopravvissero 5200.

27 febbraio, venerdì mattina, le dieci…
Mercoledì mattina  presto, quando con un gruppo numeroso ci siamo trovati in quel locale della  Gestapo, i fatti delle nostre vite erano tutti eguali: eravamo tutti nello  stesso ambiente, gli uomini dietro la scrivania, come quelli che venivano  interrogati. Ciò che qualificava la vita di ciascuno era l’atteggiamento  interiore verso quei fatti. Si notava subito un giovane che camminava su e giù  con un’espressione palesemente scontenta, assillato e tormentato. Cercava in  continuazione pretesti per urlare a quei disgraziati ebrei: «Mani fuori dalle  tasche per favore…», ecc. Per me era da compiangere più di coloro a cui stava  urlando; e questi, a loro volta, facevano pena nella misura in cui erano  impauriti. Quando mi sono presentata davanti alla scrivania, mi ha urlato  improvvisamente: «Che ci trova di ridicolo?». Avrei risposto volentieri: «Niente, tranne lei», ma per diplomazia m’è parso meglio lasciar stare. «Lei  ride tutto il tempo», continuava a urlare lui. E io in tutta innocenza: «Non me  ne accorgo proprio, è la mia faccia normale». E lui: «Per favore non dica  scemenze, vada fffuori», con una faccia che voleva dire: tra poco mi sentirai.  Credo che questo fosse il momento psicologico in cui avrei dovuto spaventarmi a  morte, ma quel trucco l’ho capito troppo in fretta. In fondo, io non ho paura.  Non per una forma di temerarietà, ma perché sono cosciente del fatto che ho  sempre a che fare con esseri umani, e che cercherò di capire ogni espressione,  di chiunque sia e fin dove mi sarà possibile. E il fatto storico di quella  mattina non era che un infelice ragazzo della Gestapo si mettesse a urlare  contro di me, ma che francamente io non ne provassi sdegno – anzi, che mi  facesse pena, tanto che avrei voluto chiedergli: hai avuto una giovinezza così  triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza? (…)

Di sera, le nove…
Ci è stato proibito di passeggiare sul  Wandelweg, ogni misero gruppetto di due o tre alberi è dichiarato bosco e allora  sulle piante è inchiodato un cartello con la scritta: vietato agli ebrei. Questi  cartelli diventano sempre più numerosi, dappertutto. E ciò nonostante, quanto  spazio in cui si può ancora stare e essere lieti e far musica e volersi bene.  (…)

Mercoledì mattina, le sette e mezzo
È così trascinante e  ardente, il mio Agostino-a-stomaco-vuoto. Un raffreddore di testa ora non mi fa  più perdere completamente l’equilibrio, però non è un piacere. Buon giorno,  scrivania disordinata! (…)

Sabato sera, mezzanotte e mezzo…
Certo che ogni tanto si  può esser tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che  sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo  bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di  me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è  difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro  lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio  una forma d’individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente  tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si  sarà liberato dell’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà  superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla  lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. E così  potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo  dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una  persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942,  l’ennesimo anno di guerra. (…)

3 luglio 1942…
Un po’ più tardi. E se anche non avessi  avuto niente da questa giornata – neppure, da ultimo, questo positivo e aperto  confrontarmi con la morte – non dovrei dimenticare quel soldato tedesco kasher  (persona come si deve, per bene, ndt), che si trovava al chiosco col suo sacco  di carote e cavolfiori. Prima, sul tram, le aveva messo in mano un biglietto, e  poi c’era stata quella lettera che dovrò ben leggere una volta: gli ricordava  tanto la figlia di un rabbino che lui aveva potuto ancora assistere giorno e  notte, sul suo letto di morte. E stasera è andato a farle visita. E quando Liesl  me l’ha raccontato, ho saputo all’istante che stasera avrei dovuto pregare anche  per quel soldato tedesco. Una delle tante uniformi ha ora un volto. Ci saranno  ancora altri volti su cui potremo leggere e capire qualcosa. E questo soldato  soffre anche lui. Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce  sempre da una parte e dall’altra e si deve pregare per tutti. Buona notte.  (…)

Venerdì…
Un giorno pesante, molto pesante. Un “destino di  massa” che si deve imparare a sopportare insieme con gli altri, eliminando tutti  gli infantilismi personali. Chiunque si voglia salvare deve pur sapere che se  non ci va lui, qualcun altro dovrà andare al suo posto. Come se importasse molto  se si tratti proprio di me, o piuttosto di un altro, o di un altro ancora. È  diventato ormai un “destino di massa” e si dev’essere ben chiari su questo  punto. Un giorno molto pesante. Ma ogni volta so ritrovare me stessa in una  preghiera – e pregare mi sarà sempre possibile, anche nello spazio più  ristretto. E, come fosse un fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla  schiena, e porto sempre più come una cosa mia quel pezzetto di destino che sono  in grado di sopportare: con questo fagottino già cammino per le strade. (…)

23 luglio, giovedì sera, le nove
Le mie rose rosse e  gialle si sono completamente schiuse. Mentre ero là, in quell’inferno, hanno  continuato silenziosamente a fiorire. Molti mi dicono: come puoi pensare ancora  ai fiori, di questi tempi. Ieri sera, dopo quella lunga camminata nella pioggia,  e con quella vescica sotto il piede, sono ancora andata a cercare un carretto  che vendesse fiori e così sono arrivata a casa con un gran mazzo di rose. Ed  eccole lì, reali quanto tutta la miseria vissuta in un intero giorno. Nella mia  vita c’è posto per tante cose. E ho così tanto posto, mio Dio. Oggi, mentre  passavo per quei corridoi così affollati, ho sentito improvvisamente un gran  desiderio d’inginocchiarmi sul pavimento di pietra, in mezzo a tutta quella  gente. L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello  d’inginocchiarci davanti a Dio. (…)

Mercoledì mattina, le nove (aspettando dal dottore)
Spesso, a Westerbork, quando andavo in giro con quei chiassosi, litigiosi e fin  troppo attivi membri del Consiglio Ebraico, mi veniva da pensare: su, lasciatemi  essere un pezzetto della vostra anima. Lasciatemi essere la baracca in cui si  raccoglie la parte migliore, che esiste sicuramente in ognuno di voi. Io non ho  bisogno di far così tanto, io voglio solo esserci. Lasciatemi essere l’anima in  questo corpo. E prima o poi trovavo in ognuno di loro un gesto o uno sguardo più  nobile, di cui credo fossero appena coscienti. E me ne sentivo il  custode.(…)

Domenica sera…
Il mio cuore è una chiusa che ogni volta  arresta un flusso ininterrotto di dolore. (…)
«Dopo la guerra, due correnti  attraverseranno il mondo: una corrente d’umanesimo e un’altra di odio». Allora  ho saputo di nuovo che avrei preso posizione contro quell’odio.

23 settembre…
Vedi, Klaas: quell’uomo era pieno di odio  per quelli che potremmo chiamare i nostri carnefici, ma anche lui avrebbe potuto  essere un perfetto carnefice e persecutore di uomini indifesi. Eppure mi faceva  tanta pena. Riesci a capirci qualcosa? Non aveva mai contatti amichevoli coi  suoi compagni, e se questo succedeva agli altri lui li guardava di sottecchi con  un’espressione così affamata (potevo vederlo e osservarlo in continuazione, in  quel luogo si viveva senza muri). Più tardi, un collega che lo conosceva da anni  mi aveva raccontato alcuni particolari della sua vita. Nei primi giorni della  guerra si era buttato in strada dal terzo piano ma non era riuscito ad  ammazzarsi, come doveva pur essere sua intenzione. In seguito ci aveva  riprovato, questa volta sotto una macchina, ma anche questo tentativo era  fallito. Poi aveva trascorso qualche mese in un istituto per malattie mentali.  Era paura, tutta paura. Era un giurista così brillante e acuto e nelle  discussioni accademiche aveva sempre l’ultima e decisiva parola. Ma nel momento  decisivo era saltato giù dalla finestra. Sua moglie doveva camminare per casa in  punta di piedi e lui faceva delle scenate ai figli atterriti. Ma faceva tanta,  tanta pena. Che vita è mai questa? (…)

12-10-42…
Un’anima è fatta di fuoco e di cristalli di  roccia. È una cosa molto severa e dura in senso vetero-testamentario, ma è anche  dolce come il gesto delicato con cui la punta delle sue dita sfiorava le mie  ciglia. (…)
Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.
(Qui si  interrompe il Diario di E.H.)

Dalle Lettere di E.H.
A Maria Tuinzing, 2 settembre  1943
…Io scrivo di nuovo un po’ di tutto alla rinfusa e poche cose buone.  Ogni tanto qui si è terribilmente stanchi ed è proprio così che mi sento  stamattina, ma questa lettera deve partire tra poco, quindi scarabocchio ancora  qualcosetta. Potete spedire o recapitare le lettere di Mechanicus che accludo? È  grazie a lui che posso far partire questa mia. Tutta la famiglia di Jopie è ora  in ospedale, si fatica a tenere in vita il bimbetto più piccolo.
Come eravamo  giovani solo un anno fa su questa brughiera, Maria, ora siamo un tantino più  vecchi. Noi stessi non ce ne rendiamo veramente conto: siamo stati marchiati dal  dolore, per sempre. Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua  inesplicabile profondità, Maria – devo ritornare sempre su questo punto. E se  solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani,  Maria. Qui non sono affatto all’altezza della situazione, non riesco a “far  fronte” a tutte le persone che vogliono coinvolgermi nei fatti loro, spesso sono  troppo, troppo stanca. Per favore, guarda una volta Käthe con occhi amichevoli  da parte mia, e accosta la tua guancia a quella di papà Han, anche da parte mia.  E state ancora bene insieme? E mi saluti la mia cara scrivania, il più bel posto  di questa terra? E Swiep e Wiep e Hesje e Frans e gli altri? Ti guardo un  momento in faccia, mia cara, e non dico più molto.
Etty

A Christine van Nooten, 7 settembre 1943
Christien, apro a caso la Bibbia  e trovo questo: «Il Signore è il mio alto ricetto». Sono seduta sul mio zaino  nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni  vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto.  Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il  campo cantando, mamma e papà molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per  tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure.
Alcuni amici rimasti a  Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia  ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro.
Etty

(Questa è l’ultima lettera che si conosca di Etty. Segue la deportazione ad  Auschwitz dell’intera famiglia Hillesum. Papà, mamma e il fratello Mischa  vengono trucidati lo stesso giorno del loro arrivo in Polonia. Secondo  un’informativa della Croce Rossa Internazionale Etty è morta ad Auschwitz il 30  novembre 1943).

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Maria accolta nel Tempio

Posté par atempodiblog le 21 novembre 2012

Maria accolta nel Tempio. Ella, nella sua umiltà, non sapeva di essere la Piena di Sapienza.

Maria accolta nel Tempio dans Maria Valtorta Maria-accolta-nel-Tempio

[30 agosto 1944]
Vedo Maria fra mezzo al padre e alla madre camminare per le vie di Gerusalemme. I passanti si fermano a guardare la bella Bambina, tutta vestita di un bianco di neve e avvolta in un leggerissimo tessuto che per i suoi disegni, a rami e fiori, più opachi fra il tenue dello sfondo, mi pare sia lo stesso che aveva Anna il giorno della sua Purificazione. Soltanto che, mentre ad Anna esso non sorpassava la cintura, a Maria, piccolina, scende fin quasi a terra e l’avvolge in una nuvoletta leggera e lucida di una vaghezza rara. Il biondo dei capelli sciolti sulle spalle, meglio, sulla nuca gentile, traspare là dove non vi è damascatura nel velo, ma unicamente il fondo leggerissimo. Il velo è trattenuto sulla fronte da un nastro di un azzurro pallidissimo, su cui, certamente per opera della mamma, sono ricamati in argento dei piccoli gigli. L’abito, come ho detto, candidissimo, scende fino a terra, e i piedini appena si mostrano nel passo, coi loro sandaletti bianchi. Le manine sembrano due petali di magnolia che escano dalla lunga manica. Tolto il cerchio azzurro del nastro, non vi è altro punto di colore. Tutto è bianco. Maria pare vestita di neve. Gioacchino ed Anna sono vestiti, lui con lo stesso abito della Purificazione, e Anna invece di viola scurissimo. Anche il mantello, che le copre anche il capo, è viola scuro. Ella se lo tiene molto calato sugli occhi. Due poveri occhi di mamma, rossi di pianto, che non vorrebbero piangere e non vorrebbero, soprattutto, esser visti piangere, ma che non possono non piangere sotto la protezione del manto. Protezione che serve per i passanti, e anche per Gioacchino, che del resto ha il suo occhio, sempre sereno, oggi arrossato e opaco di lacrime già scese e ancora scendenti, e che va molto curvo sotto il suo velo messo a quasi turbante, con le ali laterali che scendono lungo il viso. Un vecchio affatto, ora, Gioacchino. Chi lo vede deve pensarlo nonno e forse bisnonno della piccolina che egli ha per mano. La pena di perderla dà al povero padre un passo strascicante, una lassezza di tutto il portamento che lo invecchia di un vent’anni, e il viso pare quello di un malato oltre che vecchio, tanto è stanco e triste, con la bocca che ha un lieve tremito fra le due rughe, che sono così marcate oggi, ai lati del naso. Cercano i due di celare il pianto. Ma, se possono farlo per molti, non lo possono per Maria, che per la sua statura li vede dal basso in alto e, alzando il piccolo capo, guarda alternativamente il padre e la madre. Ed essi si sforzano di sorriderle con la bocca che trema, e aumentano la stretta della loro mano sulla manina minuta ogni volta che la loro figliolina li guarda e sorride. Devono pensare: «Ecco. Un’altra volta di meno da vedere questo sorriso». Vanno piano. A rilento. Pare vogliano protrarre il più a lungo il loro cammino. Tutto serve a fermarsi… Ma una strada deve pur finire! E questa sta per finire. Ecco là, in cima a questo ultimo pezzo di strada che sale, le mura di cinta del Tempio. Anna ha un gemito e stringe più forte la manina di Maria. «Anna, cara, io sono con te!» dice una voce, uscendo dall’ombra di un basso arco gettato su un incrocio di strade. E’ Elisabetta, che certo era in attesa, la raggiunge e stringe al cuore. E, posto che Anna piange, le dice: «Vieni, vieni in questa casa amica per un poco. Poi andremo insieme. Vi è anche Zaccaria. Entrano tutti in una stanza bassa e scura, in cui è lume un vasto fuoco. La padrona, certo amica di Elisabetta, ma estranea ad Anna, cortesemente si ritira lasciando liberi i sopraggiunti. «Non credere che io sia pentita, o che dia con mala volontà il mio tesoro al Signore» spiega Anna fra le lacrime… «ma è che il cuore… oh! il mio cuore come duole, il mio vecchio cuore che torna nella sua solitudine di senza figli!… Se sentissi…» «Lo capisco, Anna mia… Ma tu sei buona e Dio ti conforterà nella tua solitudine. Maria pregherà per la pace della sua mamma. Non è vero?». Maria carezza le mani materne e le bacia, se le passa sul viso per esserne carezzata, e Anna serra fra le sue quel visino e lo bacia, lo bacia. Non si sazia di baciare. Entra Zaccaria e saluta: «Ai giusti la pace del Signore». «Sì» dice Gioacchino, «supplicaci pace, perché le nostre viscere tremano nell’offerta come quelle di padre Abramo mentre saliva il monte, e noi non troveremo altra offerta per riscattare questa. Né lo vorremmo fare, perché siamo fedeli a Dio. Ma soffriamo, Zaccaria. Sacerdote di Dio, comprendici e non ti scandalizzare di noi». «Mai. Anzi, il vostro dolore, che sa non soverchiare il lecito e portarvi all’infedeltà, mi è scuola nell’amare l’Altissimo. Ma fatevi cuore. Anna profetessa avrà molta cura di questo fiore di Davide e Aronne. In questo momento è l’unico giglio della sua stirpe santa che Davide abbia nel Tempio, e sarà curato come perla regale. Per quanto i tempi volgano al termine e dovrebbe esser cura delle madri della stirpe di consacrare le figlie al Tempio, poiché da una vergine di Davide uscirà il Messia, pure, per rilassamento di fede, i posti delle vergini sono vuoti. Troppo poche nel Tempio, e di questa stirpe regale nessuna, dopo che ne uscì sposa, or sono tre anni, Sara di Eliseo. Vero che ancora sei lustri mancano al termine, ma… Ebbene, speriamo che Maria sia la prima di molte vergini di Davide davanti al Sacro Velo. E poi… chissà…». Zaccaria non dice altro. Ma guarda pensoso Maria. Poi riprende: «Io pure veglierò su Lei. Sono sacerdote ed ho il mio potere là dentro. Lo userò per quest’angelo. E Elisabetta verrà sovente a trovarla…». «Oh! di certo! Io ho tanto bisogno di Dio e verrò a dirlo a questa Bambina, perché lo dica all’Eterno». Anna si è rinfrancata. Elisabetta, per sollevarla più ancora, chiede: «Non è il tuo velo di sposa questo? Oppure hai filato del nuovo bisso?». «E’ quello. Lo consacro con Essa al Signore. Non ho più occhi… E anche le ricchezze sono molto scemate per tasse e sventure… Non mi era lecito fare gravi spese. Ho provveduto solo ad un ricco corredo per il suo tempo nella Casa di Dio e per poi… perché penso che non sarò io quella che la vestirà per le nozze… e voglio sia sempre la mano di sua mamma, anche se fredda e immota, che la para alle nozze e le fila i lini e le vesti da sposa». Oh! perché pensare così?!». «Sono vecchia, cugina. Mai come sotto questo dolore me lo sento. L’ultime forze della mia vita le ho date a questo fiore, per portarlo e nutrirlo, ed ora… ed ora.. – sulle estreme soffia il dolore di perderlo e le disperde». Non dire così, per Gioacchino». «Hai ragione. Vedrò di vivere per il mio uomo». Gioacchino ha fatto mostra di non sentire, intento ad ascoltare Zaccaria, ma ha udito e sospira forte con gli occhi lucidi di pianto. «Siamo a mezzo fra terza e sesta. Credo sarebbe bene andare» dice Zaccaria. Si alzano tutti per rimettersi i mantelli e andare. Ma, prima di uscire, Maria si inginocchia sulla soglia a braccia aperte: un piccolo cherubino implorante. «Padre! Madre! La vostra benedizione!». Non piange, la piccola forte. Ma le labbruzze tremano e la voce, spezzata da un interno singulto, ha più che mai il trepido gemito della tortorina. Il visetto è più pallido e l’occhio ha quello sguardo di rassegnata angoscia che, più forte sino a divenire inguardabile senza soffrirne profondamente, le vedrò sul Calvario e nel Sepolcro. I genitori la benedicono e la baciano. Una, due, dieci volte. Non se ne sanno saziare… Elisabetta piange silenziosamente e Zaccaria, per quanto voglia non mostrarlo, è commosso. Escono. Maria fra il padre e la madre, come prima. Davanti, Zaccaria e la moglie. Eccoli dentro le mura del Tempio. «Vado dal Sommo Sacerdote. Voi salite sino alla grande terrazza. Valicano tre cortili e tre atri sovrapposti. Eccoli ai piedi del vasto cubo di marmo incoronato d’oro. Ogni cupola, convessa come una mezza arancia enorme, sfolgora al sole che ora, sul mezzodì, cade a perpendicolo sul vasto cortile che circonda il fabbricato solenne, ed empie il vasto piazzale e l’ampia scalinata che conduce al Tempio. Solo il portico che fronteggia la scalinata, lungo la facciata, è in ombra, e la porta altissima di bronzo e oro è ancor più scura e solenne in tanta luce. Maria pare ancor più di neve fra il gran sole. Eccola ai piedi della scalinata. Fra padre e madre. Come deve battere il cuore a quei tre! Elisabetta è a fianco di Anna, ma un poco indietro, di un mezzo passo. Uno squillo di trombe argentine e la porta gira sui cardini, che pare diano suono di cetra nel girare sulle sfere di bronzo. Appare l’interno con le sue lampade nel profondo, ed un corteo viene dall’interno verso l’esterno. Un pomposo corteo fra suoni di trombe argentee, nuvole d’incenso e luci. Eccolo sulla soglia. Davanti, colui che deve essere il Sommo Sacerdote. Un vecchio solenne, vestito di lino finissimo, e sul lino una più corta tunica pure di lino, e su questa una specie di pianeta, qualcosa fra la pianeta e la veste dei diaconi, multicolore: porpora e oro, violaceo e bianco vi si alternano e brillano come gemme al sole; due gemme vere brillano su esso ancor più vivamente al sommo delle spalle. Forse sono fibbie con il loro castone prezioso. Sul petto, una larga placca splendente di gemme, sostenuta da una catena d’oro. E pendagli e ornamenti splendono alla base della tunica corta, e oro splende sulla fronte al disopra del copricapo, che mi ricorda quello dei preti ortodossi, la loro mitra fatta a cupola anziché a punta come quella cattolica. Il solenne personaggio viene avanti, da solo, sino al principio della scalinata, nell’oro del sole che lo fa ancora più splendido. Gli altri attendono stesi a corona fuor dalla porta, sotto il portico ombroso. A sinistra è un gruppo candido di fanciulle con Anna profetessa e altre anziane, certo maestre. Il Sommo Sacerdote guarda la Piccola e sorride. Le deve parere ben piccina ai piedi di quella scalinata degna di un tempio egizio! Alza le braccia al cielo in una preghiera. Tutti curvano il capo, come annichiliti davanti alla maestà sacerdotale in comunione con la Maestà eterna. Poi, ecco. Un cenno a Maria. E Lei si stacca dalla madre e dal padre e sale, come affascinata sale. E sorride. Sorride all’ombra del Tempio, là dove scende il Velo prezioso… E’ in alto della scalinata, ai piedi del Sommo Sacerdote che le impone le mani sul capo. La vittima è accettata. Quale ostia più pura aveva mai avuto il Tempio? Poi si volge e, tenendole la mano sulla spalla come a condurla all’ara, l’Agnellina senza macchia, la conduce presso la porta del Tempio. Prima di farla entrare chiede: «Maria di David, sai il tuo voto?». Al «sì» argentino, che gli risponde, egli grida: «Entra, allora. Cammina in mia presenza e sii perfetta». E Maria entra e l’ombra l’inghiotte, e lo stuolo delle vergini e delle maestre, poi quello dei leviti, sempre più la nascondono, la separano… Non c’è più… Ora anche la porta gira sui suoi cardini armoniosi. Uno spiraglio sempre più stretto permette vedere il corteo che inoltra verso il Santo. Ora è proprio un filo. Ora non è più niente. Chiusa. All’ultimo accordo dei sonori cardini risponde un singhiozzo dei due vecchi e un grido unico: «Maria! Figlia!»; e poi due gemiti che si invocano: «Anna!», «Gioacchino! ; e terminano: «Diamo gloria al Signore, che la riceve nella sua Casa e la conduce sulla sua via». E tutto finisce così. Dice Gesù: «Il Sommo Sacerdote aveva detto: “Cammina in mia presenza e sii perfetta”. Il Sommo Sacerdote non sapeva che parlava alla Donna solo a Dio inferiore in perfezione. Ma parlava in nome di Dio e perciò sacro era il suo ordine. Sempre sacro, ma specie alla Ripiena di Sapienza. Maria aveva meritato che la “Sapienza la prevenisse e le si mostrasse per prima”, perché “dal principio del suo giorno Ella aveva vegliato alla sua porta e, desiderando d’istruirsi, per amore, volle esser pura per conseguire l’amore perfetto e meritare d’averla a maestra. Nella sua umiltà non sapeva di possederla da prima d’esser nata e che l’unione con la Sapienza non era che un continuare i divini palpiti del Paradiso. Non poteva immaginare questo. E quando nel silenzio del cuore Dio le diceva parole sublimi, Ella umilmente pensava fossero pensieri di orgoglio, e levando a Dio un cuore innocente supplicava: “Pietà della tua serva, Signore! Oh! veramente che la vera Sapiente, la eterna Vergine, ha avuto un sol pensiero sin dall’alba del suo giorno: “Rivolgere a Dio il suo cuore sin dal mattino della vita e vegliare per il Signore, pregando davanti all’Altissimo”, chiedendo perdono per la debolezza del suo cuore, come la sua umiltà le suggeriva di credere, e non sapeva di anticipare le richieste di perdono per i peccatori, che avrebbe fatto ai piedi della Croce insieme al Figlio morente. “Quando poi il gran Signore lo vorrà, Ella sarà riempita dello Spirito d’intelligenza” e comprenderà allora la sua sublime missione. Per ora non è che una pargola, che nella pace sacra del Tempio allaccia, “riallaccia” sempre più stretti i suoi conversari, i suoi affetti, i suoi ricordi con Dio. Questo è per tutti. Ma per te, piccola Maria, non ha nulla di particolare da dire il tuo Maestro?. “Cammina in mia presenza, sii perciò perfetta”. Modifico lievemente la sacra frase e te la dò per ordine. Perfetta nell’amore, perfetta nella generosità, perfetta nel soffrire. Guarda una volta di più la Mamma. E medita su quello che tanti ignorano, o vogliono ignorare, perché il dolore è materia troppo ostica al loro palato e al loro spirito. Il dolore. Maria lo ha avuto dalle prime ore della vita. Esser perfetta come Ella era, era possedere anche una perfetta sensibilità. Perciò più acuto doveva esserle il sacrificio. Ma per questo più meritorio. Chi possiede purezza possiede amore, chi possiede amore possiede sapienza, chi possiede sapienza possiede generosità ed eroismo, perché sa il perché per cui si sacrifica. In alto il tuo spirito anche se la croce ti curva, ti spezza, ti uccide. Dio è con te».

Tratto da: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Opera di Maria Valtorta.

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Parlami al cuore tutto il giorno…

Posté par atempodiblog le 21 novembre 2012

Parlami al cuore tutto il giorno... dans Citazioni, frasi e pensieri dongiustinorussolillo

“Parlami al cuore tutto il giorno, fammi sentire la Tua presenza tutto il giorno, si svolga in me la tua azione santificatrice, tutto il giorno”.

Beato Giustino Maria della Santissima Trinità Russolillo

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