Il tempo che ci è dato

Posté par atempodiblog le 14 novembre 2012

Benedetto tra i suoi coetanei
Il tempo che ci è dato
di Marina Corradi – Avvenire
Tratto da: Parrocchia di Colombella (Pg)

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Sono venuto a trovare i miei coetanei, ha esordito. E poi tutte le parole lasciate da Benedetto XVI ieri in una casa per anziani di Roma hanno avuto il colore di un ritrovarsi fra vecchi compagni, discutendo fra loro di ciò che i giovani, ancora, non sanno.

Uomo fra gli uomini nei passi lenti degli ottant’anni, il Papa ha detto una cosa audace: che essere vecchi è bello, per chi si sente amato da Dio. Bello, in un’accezione che non è contemplata dai manuali per sane, atletiche e spensierate vecchiaie, come cominciano a circolarne in Occidente – mirati a vecchi possibilmente benestanti, e promettenti consumatori. Invece Benedetto ha parlato del fatto che a quell’età si fa l’esperienza del bisogno dell’aiuto degli altri; bisogno, ha detto, che lui pure sperimenta. Quella necessità di aiuto è una naturale condizione di chi invecchia; ma, ha aggiunto, «è anche un dono, nella grazia di essere sostenuti e accompagnati».

Ora, che la vecchiaia con la sua zavorra di acciacchi e la graduale erosione della autonomia possa essere « dono » proprio per quel dover domandare all’altro, è una prospettiva alquanto insolita, che, scommettiamo, non troverebbe alcun consenso in un talk show dei nostri di ogni sera. Un dono l’aver bisogno di altri per camminare, poi per mangiare, magari anche infine per lavarsi? Che cosa assurda. Anzi non è forse proprio la nostra più grande paura, insieme alla solitudine, l’immaginare di non poter più badare a noi stessi? Di dover aspettare una badante semplicemente per due passi sotto casa – su quella stessa strada che da ragazzi facevamo di corsa e ora, cos’è stato?, si è fatta lunga, e faticosa come fosse diventata una erta salita.
Che cose strane, davvero, dice il Papa: e sembra quasi parli di mondo capovolto, in cui la realtà è altra dall’apparenza su cui tutti concordiamo. Ma allora questo dono, cosa sarebbe? È l’imparare, almeno a ottant’anni, «che nessuno può vivere solo e senza aiuto», spiega Benedetto. (C’è chi lo impara molto prima, e chi mai, finché non ci è costretto). E’ l’imparare, come dice un verso di Holderlin, che «noi siamo un colloquio». Cioè non monadi tese a realizzare solo se stesse, come ci viene comandato di questi tempi, ma inesorabilmente tesi al rapporto con l’altro.

E forse più radicalmente ancora, quel bisogno della vecchiaia ci riporta alla nostra origine: creature, e dunque figli di un Creatore. Intollerabile insegnamento, se ci si è creduti per tutta la vita i padroni di sé (è questa in fondo la vertigine di paura che spinge per la prima volta l’Occidente verso l’eutanasia, come estrema prova di autodeterminazione).

Eppure, insiste il Papa dai suoi ottantacinque anni, quel bisogno di aiuto portato dalla crescente debolezza, è davvero un dono. Perché ci riporta alla verità di ciò che profondamente siamo, a un’impronta che abbiamo addosso.

Figli. Da giovani, è quasi naturale che ce ne dimentichiamo, nell’età forte dell’innamoramento, dei sogni, del mondo immenso davanti; e del fascino del denaro, e del potere. Ma viene un tempo di impotenza e povertà, che, testimonia Benedetto, è in realtà tempo di misericordia. Tempo per ritornare ciò che siamo.
Come quella vecchia signora incontrata in un grande ospizio di Milano, un giorno, sola, in un corridoio. Una donna esile, fragile, gli occhi chiari, limpidissimi; e smarrita nella demenza senile. «Scusi – ha chiesto a me che, sconosciuta, passavo – sa a che ora viene a prendermi la mamma?» E io non sapendo proprio cosa dire mi sono seduta lì accanto. Lei continuava a ripetere, fiduciosa, che la mamma certo sarebbe arrivata, prima di sera, a prenderla. Che abbia ragione lei, mi sono chiesta, con quei suoi occhi, misteriosamente di nuovo infantili? Che abbia ragione, il Papa? Forse davvero novant’anni sono il tempo che ci è dato, per poter tornare infine come bambini.

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