Napoli: filo diretto col Purgatorio

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2012

Napoli: filo diretto col Purgatorio
Il culto delle anime dei defunti segna l’arte e la vita quotidiana di Napoli. L’esempio di una città che, cattolicamente, rispose alle epidemie e alla morte con la fede e la fantasia. Chiese, edicole, devozioni personali parlano all’uomo del suo destino finale.
di Marcello D’Orta – Il Timone

Napoli: filo diretto col Purgatorio dans Festa dei Santi e commemorazione dei fedeli defunti Santa-Maria-delle-Anime-del-Purgatorio-ad-Arco

Si dice che Napoli sia un teatro all’aria aperta; che ogni giorno, specialmente nel centro antico, si rappresenti la Commedia dell’Arte. Nel Seicento anche le chiese di Napoli diventavano palcoscenico. Non vi si recitava l’opera buffa ma il dramma, il dramma della morte e del dolore. Il sec. XVII fu il secolo delle grandi epidemie, ma anche il secolo del barocco e della Controriforma. A Napoli c’è una chiesa che riassume, per dir così, questi tre momenti “spettacolari”. Si tratta della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, altrimenti nota come Purgatorio ad Arco, o chiesa d’e cape ‘e morte.

Questo gioiello dell’architettura barocca sorge in via Tribunali, una delle più affollate e vive strade cittadine. «Chi vuol capire via Tribunali – ha scritto Adrian Martin – deve scomodarsi a scendere nella cripta del Purgatorio. Infatti, come intuire, anche approssimativamente, la totalità della vita, senza essere penetrato nel regno delle ombre? […] La famosa gioia di vivere del popolo napoletano non sarebbe altro che un roseo sentimentalismo da operetta se non vi si contrapponesse, con la stessa passione ed onnipresenza, l’amore per la morte».

Errore. Napoli non ama la morte, Napoli ama la vita. Sempre. L’ama al punto da vestire la morte dei suoi panni. Il culto delle anime del Purgatorio, che in questa chiesa trova la sua massima espressione pittorica e pittoresca (vedremo il perché), nasce proprio da questo sentimento così forte. Nell’ossario di questo tempio (al quale si accede scendendo una lugubre scala) il popolo avviò un quotidiano e confidenziale dialogo con i teschi (capuzzèlle), come si trattasse di gente ancora viva, ma con poteri particolari, primo fra tutti quello di intercedere presso Dio.

Qualunque altra civiltà al mondo avrebbe chinato il capo davanti al trionfo della Morte; Napoli oppose la sua fede e la sua fantasia. Nel 1656 la peste, dopo aver mietuto vittime in mezza Europa, si abbatté sulla città, uccidendo i tre quarti della popolazione. Il numero dei morti era così alto che, non sapendo più dove seppellire i corpi, molti furono stipati in grotte e caverne, altri sotterrati in chiese, orti, spiagge, quando non gettati nelle chiaviche o in mare. La restante popolazione, anziché volgere lo sguardo irato al Cielo, si volse ai suoi santi protettori. Furono composte in onore di San Gennaro e dell’Addolorata (la spagnolesca Vergine dal petto trafitto di spade) processioni che tra canti, preghiere e flagellamenti invocavano la protezione sulla città. Nelle grandi calamità naturali (eruzione del Vesuvio, terremoti, epidemie) e sociali (guerre, rivoluzioni, rivolte), Napoli si è sempre stretta attorno al suo patrono, e san Gennaro – come recita il titolo di un famoso libro – non ha mai detto di no.

Davanti all’ecatombe di morti, i napoletani, lungi dal perdere la speranza e arrendersi alla Parca, hanno elevato un altare alla Vita, certo ricordandosi delle evangeliche parole: «Io sono la Via, la Verità e la Vita. Chi crede in me non morirà in eterno». Fede e fantasia. Siccome la maggior parte dei morti era gettata nelle fosse comuni, chi voleva piangere un figlio, un parente, un amico scomparso, doveva recarsi negli ipogei delle chiese, dove solo i più ricchi o i prelati avevano sepoltura. Qui “adottava” un teschio tra le centinaia ammonticchiate, lo spolverava, gli dava il nome del proprio defunto e lo piangeva come tale. Non sempre il teschio rappresentava un congiunto scomparso; anzi, la pietà si indirizzava per lo più al culto delle cosiddette “anime pezzentelle”, cioè anime del Purgatorio abbandonate da tutti, anche dai parenti, per le quali nessuno versava una lacrima. «Nelle civiltà del nord si nasconde la morte – ha scritto Jean Noel Schifano – mentre qui […] costituisce un modo per comunicare ancora tra i vivi attraverso la memoria del morto. Il culto dei morti è il culto della vita. Non a caso Napoli è la città europea in cui i suicidi sono meno frequenti».

Abbiamo esordito parlando di teatralità. La Controriforma doveva ricordare a tutti la fragilità dell’essere umano, e il momento del Giudizio. Nella chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, il riferimento alla morte è costante, come attestano sculture rappresentanti teschi alati, tibie, femori incrociati, clessidre, e dipinti. Molte funzioni religiose, qui come in altre chiese della città, si svolgevano la notte, perché «giovano non poco al compungimento de’ cuori le tenebre della notte, che coll’horrore natio intimorendo gli animi gli dispongono più attamente a’ colpi del divino timore». Le prediche avevano come soggetto la morte e il castigo per i peccatori. Un momento che senz’altro potremmo definire terrificante era il “dialogo col teschio”. Il predicatore, dal pulpito, prendeva in mano un cranio e gli dava la sua voce, contraffacendola. Quando si rivolgeva al teschio lo guardava, quando era il teschio a rispondere, lo voltava verso i fedeli. Molti di questi erano colti da malore, sicché diventava «necessario al predicatore d’intermettere il discorso […] per dar luogo a gemiti e singhiozzi degli uditori, che gli impedivano di parlare».

Però, terminata la celebrazione, gli stessi animi timorosi si “riconciliavano” con i crani (e quindi con la morte) promettendogli preghiere e suffragi, in cambio di favori. Se la grazia tardava a realizzarsi, il fedele non spolverava più il teschio e poteva giungere pure a percuoterlo.

Il rapporto strettissimo fra la popolazione e le Anime del Purgatorio si evidenzia anche nel numero delle edicole votive, che a Napoli sono non meno di duemila. Molte rappresentano proprio le Anime del Purgatorio, piccole figure di creta avvolte dalle fiamme che stendono le braccia al Crocifisso o alla Madonna. Ogni edicola ha il suo “curatore”, cioè l’abitante del vicolo che controlla la freschezza dei fiori o il corretto funzionamento dell’impianto di illuminazione.

«Vi erano [nell’ipogeo] delle ragazze, anche giovani e belle, che si alzavano in punta di piedi per sussurrare al teschio, con un bacio quasi appassionato, la loro preghiera segreta» (Gustav Herling). È superstizione, questa, o (straordinaria) testimonianza di fede?

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«Che cos’è il purgatorio?
Il purgatorio è lo stato di quanti muoiono nell’amicizia di Dio, ma, benché sicuri della loro salvezza eterna, hanno ancora bisogno di purificazione, per entrare nella beatitudine celeste.

Come possiamo aiutare la purificazione delle anime del purgatorio?
In virtù della comunione dei santi, i fedeli ancora pellegrini sulla terra possono aiutare le anime del purgatorio offrendo per loro preghiere di suffragio, in particolare il Sacrificio eucaristico, ma anche elemosine, indulgenze e opere di penitenza».

(Catechismo della Chiesa Cattolica, Compendio, nn. 210211).

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