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“A Gesù per Maria”

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2012

“A Gesù per Maria”. Questo il motto cui fu sempre fedele nel corso della sua esistenza il venerabile don Placido Baccher (1781-1851). Definito l’“Apostolo dell’Immacolata”, è noto a Napoli per la diffusione del culto della “sua” Madonnina, che si venera nell’antica Basilica pontificia del Gesù Vecchio, nel centro antico della città.
Si tratta di una piccola statua in legno realizzata da un valido artista popolare napoletano, Nicola Ingaldi; le dimensione sono ridotte, ma la creazione artistica è vivacemente colorata, seguendo le indicazioni dello stesso don Placido, che volle la statua dell’Immacolata, così come l’aveva sognata una notte di tanti anni prima, nel buio di una cella…
di Gianandrea De Antonellis – Radici Cristiane

“A Gesù per Maria” dans Fede, morale e teologia v7fgom

Una famiglia fedele alla Chiesa e al Re
Già, perché don Placido, non ancora sacerdote, aveva sofferto la prigione: vi era stato molti anni prima, nel 1799, durante la rivoluzione giacobina che aveva instaurato a Napoli la cosiddetta Repubblica Partenopea.
La famiglia di don Placido (che era l’ultimo di sette fratelli), infatti, era rimasta fedele al Re, Ferdinando IV di Borbone, ed aveva aderito ad una società realista che tentava di riportare sul Trono il legittimo sovrano.
Accadde che il fratello di don Placido, Gerardo Baccher, consegnò ad una sua amica, la famosa Luisa Sanfelice, un salvacondotto che la avrebbe messa al riparo da eventuali ritorsioni dei legittimisti. Costei, di costumi non irreprensibili, fece pervenire il salvacondotto ad un suo amante, di fatto denunziando i Baccher che vennero tutti arrestati.
Gerardo e un altro fratello, Gennaro, vennero fucilati l’ultimo giorno di esistenza della sanguinaria Repubblica Partenopea (durò soli sei mesi, ma i suoi tribunali, emuli di quelli del “Terrore” parigino, mandarono a morte una media di dieci persone al giorno), nonostante l’esercito del cardinale Ruffo premesse alle porte di Napoli e la flotta inglese di Nelson impedisse i rifornimenti dal mare.
Con disumana crudeltà, i prigionieri furono più volte condotti sul luogo dell’esecuzione e quindi di nuovo in cella prima di essere realmente fucilati, per torturarli con la speranza di una grazia. Il padre e due altri fratelli si salvarono solo perché, essendo stata rimandata di un giorno la loro esecuzione, le truppe lealiste del Cardinal Ruffo conquistarono la città e liberarono i prigionieri.

Miracolosa liberazione
Miracolosa la liberazione dalle carceri giacobine: la Madonna gli appare e lo esorta a sperare; il giorno dopo, poco prima della fucilazione, viene invitato a tornare a casa da un giudice: appena uscito, lo stesso giudice si accorge della sua assenza e ordina la sua esecuzione immediata, ma è troppo tardi.
Dal canto suo, il giovane Placido (aveva solo 18 anni) passò in cella 70 giorni di sofferenze e umiliazioni da parte dei carcerieri; questi gli avevano tolto ogni oggetto personale, lasciandogli solamente il rosario.
La notte di un venerdì ebbe un sogno celestiale: la Vergine gli apparve e lo esortò a diffondere per Napoli la propria devozione. Il risveglio, ancora nelle carceri del Castel Capuano, fu traumatico, ma nel corso della giornata avvenne un miracolo: portato nella Cappella dei condannati a morte e quindi di fronte alla Commissione rivoluzionaria che doveva leggergli la sentenza, sentì dirsi da un giudice – visibilmente commosso dal suo aspetto umile e pacifico – che poteva andare.
Si parla di miracolo perché di lì a poco lo stesso giudice notò la sua assenza e comandò di rintracciarlo per eseguire immediatamente la fucilazione.
Varie sono le traversie che accompagnarono le ore successive di Placido: egli riuscì a sfuggire alla cattura calandosi in un pozzo, sopravvisse a una grave ferita alla testa procuratosi nella fuga, venne addirittura arrestato per errore dai sanfedisti che lo scambiarono per un giacobino, ma finalmente fu riconosciuto dal cardinal Ruffo, il quale ordinò che venisse accompagnato sotto scorta alla propria abitazione.

Sacerdote dell’Immacolata
Passata la bufera rivoluzionaria, Placido Baccher, che era già terziario domenicano, sentì rinforzarsi la propria vocazione e nel 1802 vestì l’abito talare frequentando e studiando da esterno prima presso la Congregazione sacerdotale di S. Maria Regina Apostolorum (dove aveva studiato S. Alfonso Maria de’ Liguori), poi presso il collegio di S. Tommaso.
Completati gli studi venne ordinato sacerdote il 30 maggio del 1806, celebrando la prima Messa nella chiesa di S. Lucia al Monte, ai piedi del Santuario dell’Immacolata fatto erigere dalla venerabile suor Orsola Benincasa. Una chiesa che gli stava a cuore, poiché fin da ragazzo vi seguiva la madre ogni sabato: un santuario che la venerabile aveva edificato alle falde del Castel S. Elmo, quasi a proteggere dall’alto la città.
Erano gli anni del dominio napoleonico: Giuseppe Bonaparte era diventato Re di Napoli, ed era ripresa certa politica anticlericale. Mentre venivano incarcerati molti partigiani dei Borbone (lo stesso padre di don Placido, Vincenzo, finì nel terribile carcere piemontese di Finestrelle, una sorta di “Siberia” nostrana), si procedeva alla soppressione di 12 conventi e 26 monasteri nella sola Napoli, veniva espulso l’arcivescovo (che non aveva voluto giurare fedeltà al Napoleonide).
In questa situazione drammatica don Placido comprese l’importanza della propria missione: tener viva la devozione per l’Immacolata, che in lui risaliva alla gioventù e si era consolidata nel periodo di prigionia; egli poté esprimerla al meglio dopo l’ordinazione sacerdotale: don Placido prese immediatamente a fare apostolato in alcune chiese napoletane, instaurando la pratica dei raduni del sabato per recarsi alla chiesa dell’Immacolata; quando poi venne nominato, nel 1811, rettore della Chiesa del SS. Salvatore, conosciuta anche come chiesa del Gesù Vecchio (i gesuiti ne avevano costruita poco distante un’altra, magnifica, chiamata del Gesù Nuovo), don Placido si profuse per trasformarla in un fervido centro di devozione mariana.
Va detto, a questo punto, che la chiesa, dopo l’espulsione dei Gesuiti dal Regno (1768) e la soppressione dell’Ordine (1773), venne annessa all’adiacente università e rischiò di diventare un teatro o l’Aula Magna della stessa.
Quindi don Placido investì ogni sforzo (e anche ogni sostanza personale) per realizzare il ripristino e la riapertura del tempio. Fedele al suo motto “A Gesù per Maria”, fu ardente zelatore del Rosario, da lui considerato arma validissima di apostolato; promosse il culto eucaristico, esortando i fedeli alla Comunione; favorì il culto dei santi gesuiti, primi fondatori della chiesa, in particolare di san Luigi Gonzaga, che aveva abitato lì dal 1586 al 1587; fece costruire l’organo per rendere più solenni le funzioni religiose, riportò al loro splendore i marmi, i bronzi, le suppellettili, gli arredi sacri e le panche, avendo ben compreso l’importanza della bellezza per elevare lo spirito.

La “Madonnina di don Placido”
Malgrado tutto, però, a don Placido la chiesa sembrava una reggia senza regina: fu allora che ebbe l’idea di porre sull’altare maggiore la statua dell’Immacolata, la “Madonnina di don Placido”.
Il culto che si instaurò nel Gesù Vecchio per la Vergine si diffuse per tutta Napoli e folle di fedeli affollavano la chiesa per le cerimonie del sabato, per la Novena e per la festa dell’Immacolata Concezione, particolarmente cara a Napoli ed alla dinastia borbonica (la colonna dell’Immacolata di Piazza di Spagna a Roma venne fatta costruire per volontà ed a spese del sovrano napoletano).
Nel 1826, celebrandosi il Giubileo – con un anno di distanza rispetto all’Anno Santo romano – le cerimonie culminarono con l’apposizione di una corona che il Capitolo Vaticano ogni anno destinava ad una statua mariana che fosse ritenuta celebre per antichità, miracoli o devozione popolare.
Don Placido pose la candidatura della “sua”statua non senza esitazione, in quanto mancava il requisito dell’antichità. Il “processo” si tenne a Roma e lo stesso Papa Leone XII appoggiò la proposta della chiesa napoletana: il 30 dicembre 1826 avvenne la solenne incoronazione della piccola “Madonnina” alla presenza della famiglia reale, della corte e delle principali autorità: nelle strade adiacenti vennero schierati alcuni reparti dell’esercito, mentre i cannoni di Castel S. Elmo e Castel Nuovo sparavano a festa.

Una vita santa
Quel successo rappresentò per don Placido la gioia più grande: considerandosi un semplice prete, umile e penitente, non beveva mai liquori o vini, digiunava tutti i sabati con solo pane e acqua, quando il confessore l’obbligò a cibarsi, il suo pasto si componeva di dodici fagioli o 15 ceci; portava sotto la veste talare il cilicio e spesso si flagellava.
Ricevette varie onorificenze che non ostentò mai; venne nominato Cavaliere di Malta e mise le sue insegne al collo della Madonnina del suo Oratorio privato; rifiutò un vescovado nel Regno delle Due Sicilie e la nomina a canonico della cattedrale per dedicarsi anima e corpo all’Immacolata ed al suo culto.
Nel 1836, l’anno del colera (che mieté oltre 10.000 vittime), fu in primo piano nell’organizzare i soccorsi alla popolazione, non solo con digiuni personali, voti e preghiere, ma anche correndo da un capo all’altro della città, organizzando squadre di soccorso, raccolta e distribuzione di biancheria, indumenti e medicine.
Al termine del morbo i parrocchiani del Gesù offrirono alla statua della Madonna il raggio d’argento che tuttora la circonda.
Nel 1849 Pio IX, scacciato dalla Repubblica Romana ed accolto trionfalmente nel Regno delle Due Sicilie, visitando Napoli si trattenne presso la chiesa del Gesù Nuovo, vi celebrò messa e pregò in ginocchio presso la statua dell’altare: quindi dichiarò di mettersi sotto la protezione di Maria Immacolata.
In quel periodo ebbe più volte occasione di ricevere don Baccher in udienza privata e si ritiene che l’impulso a proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione sia nato proprio durante la visita al Gesù Vecchio ed i colloqui con don Placido.
Ma l’anziano sacerdote napoletano non avrebbe potuto assistere alla solenne proclamazione del dogma, avvenuto nel 1854: morì infatti il 19 ottobre 1851, dopo una breve malattia, e come da suo desiderio venne tumulato dietro l’altare maggiore della basilica di cui per 40 anni era stato attivissimo rettore, proprio sotto la protezione di quella statua che aveva tanto amato e di fronte alla quale fino all’ultimo si era mortificato con tanta disciplina.
La causa per la sua beatificazione fu introdotta il 12 maggio 1909 e il 27 febbraio 1944 si ebbe il decreto sull’eroicità delle virtù e il titolo di Venerabile.

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Tutto è bello

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2012

Tutto è bello dans Citazioni, frasi e pensieri autunno

-Avete mai visto una foglia d’albero?
-Sì.
-Ne ho vista poco fa una gialla, un po’ verde, un po’ marcita ai bordi. La portava il vento. Quando avevo dieci anni, d’inverno chiudevo gli occhi apposta e m’immaginavo una foglia verde, d’un bel verde acceso, con le venature; e il sole che brillava. Aprivo gli occhi e non ci credevo, perché era tanto bello; poi li richiudevo.
-Che cosa sarebbe? Un’allegoria?
-N…no… perché? Non è un’allegoria, ma semplicemente una foglia, soltato una foglia. La foglia è bella. Tutto è bello.
-Tutto?
-Tutto. L’uomo è infelice perché non sa che è felice; solo per questo. E’ tutto lì, tutto! Chi lo scopre diventa felice, subito, sul momento! […]

Fëdor Dostoevskij – I Demoni

Tratto da: In ogni atomo

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Napoli: filo diretto col Purgatorio

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2012

Napoli: filo diretto col Purgatorio
Il culto delle anime dei defunti segna l’arte e la vita quotidiana di Napoli. L’esempio di una città che, cattolicamente, rispose alle epidemie e alla morte con la fede e la fantasia. Chiese, edicole, devozioni personali parlano all’uomo del suo destino finale.
di Marcello D’Orta – Il Timone

Napoli: filo diretto col Purgatorio dans Festa dei Santi e commemorazione dei fedeli defunti Santa-Maria-delle-Anime-del-Purgatorio-ad-Arco

Si dice che Napoli sia un teatro all’aria aperta; che ogni giorno, specialmente nel centro antico, si rappresenti la Commedia dell’Arte. Nel Seicento anche le chiese di Napoli diventavano palcoscenico. Non vi si recitava l’opera buffa ma il dramma, il dramma della morte e del dolore. Il sec. XVII fu il secolo delle grandi epidemie, ma anche il secolo del barocco e della Controriforma. A Napoli c’è una chiesa che riassume, per dir così, questi tre momenti “spettacolari”. Si tratta della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, altrimenti nota come Purgatorio ad Arco, o chiesa d’e cape ‘e morte.

Questo gioiello dell’architettura barocca sorge in via Tribunali, una delle più affollate e vive strade cittadine. «Chi vuol capire via Tribunali – ha scritto Adrian Martin – deve scomodarsi a scendere nella cripta del Purgatorio. Infatti, come intuire, anche approssimativamente, la totalità della vita, senza essere penetrato nel regno delle ombre? […] La famosa gioia di vivere del popolo napoletano non sarebbe altro che un roseo sentimentalismo da operetta se non vi si contrapponesse, con la stessa passione ed onnipresenza, l’amore per la morte».

Errore. Napoli non ama la morte, Napoli ama la vita. Sempre. L’ama al punto da vestire la morte dei suoi panni. Il culto delle anime del Purgatorio, che in questa chiesa trova la sua massima espressione pittorica e pittoresca (vedremo il perché), nasce proprio da questo sentimento così forte. Nell’ossario di questo tempio (al quale si accede scendendo una lugubre scala) il popolo avviò un quotidiano e confidenziale dialogo con i teschi (capuzzèlle), come si trattasse di gente ancora viva, ma con poteri particolari, primo fra tutti quello di intercedere presso Dio.

Qualunque altra civiltà al mondo avrebbe chinato il capo davanti al trionfo della Morte; Napoli oppose la sua fede e la sua fantasia. Nel 1656 la peste, dopo aver mietuto vittime in mezza Europa, si abbatté sulla città, uccidendo i tre quarti della popolazione. Il numero dei morti era così alto che, non sapendo più dove seppellire i corpi, molti furono stipati in grotte e caverne, altri sotterrati in chiese, orti, spiagge, quando non gettati nelle chiaviche o in mare. La restante popolazione, anziché volgere lo sguardo irato al Cielo, si volse ai suoi santi protettori. Furono composte in onore di San Gennaro e dell’Addolorata (la spagnolesca Vergine dal petto trafitto di spade) processioni che tra canti, preghiere e flagellamenti invocavano la protezione sulla città. Nelle grandi calamità naturali (eruzione del Vesuvio, terremoti, epidemie) e sociali (guerre, rivoluzioni, rivolte), Napoli si è sempre stretta attorno al suo patrono, e san Gennaro – come recita il titolo di un famoso libro – non ha mai detto di no.

Davanti all’ecatombe di morti, i napoletani, lungi dal perdere la speranza e arrendersi alla Parca, hanno elevato un altare alla Vita, certo ricordandosi delle evangeliche parole: «Io sono la Via, la Verità e la Vita. Chi crede in me non morirà in eterno». Fede e fantasia. Siccome la maggior parte dei morti era gettata nelle fosse comuni, chi voleva piangere un figlio, un parente, un amico scomparso, doveva recarsi negli ipogei delle chiese, dove solo i più ricchi o i prelati avevano sepoltura. Qui “adottava” un teschio tra le centinaia ammonticchiate, lo spolverava, gli dava il nome del proprio defunto e lo piangeva come tale. Non sempre il teschio rappresentava un congiunto scomparso; anzi, la pietà si indirizzava per lo più al culto delle cosiddette “anime pezzentelle”, cioè anime del Purgatorio abbandonate da tutti, anche dai parenti, per le quali nessuno versava una lacrima. «Nelle civiltà del nord si nasconde la morte – ha scritto Jean Noel Schifano – mentre qui […] costituisce un modo per comunicare ancora tra i vivi attraverso la memoria del morto. Il culto dei morti è il culto della vita. Non a caso Napoli è la città europea in cui i suicidi sono meno frequenti».

Abbiamo esordito parlando di teatralità. La Controriforma doveva ricordare a tutti la fragilità dell’essere umano, e il momento del Giudizio. Nella chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, il riferimento alla morte è costante, come attestano sculture rappresentanti teschi alati, tibie, femori incrociati, clessidre, e dipinti. Molte funzioni religiose, qui come in altre chiese della città, si svolgevano la notte, perché «giovano non poco al compungimento de’ cuori le tenebre della notte, che coll’horrore natio intimorendo gli animi gli dispongono più attamente a’ colpi del divino timore». Le prediche avevano come soggetto la morte e il castigo per i peccatori. Un momento che senz’altro potremmo definire terrificante era il “dialogo col teschio”. Il predicatore, dal pulpito, prendeva in mano un cranio e gli dava la sua voce, contraffacendola. Quando si rivolgeva al teschio lo guardava, quando era il teschio a rispondere, lo voltava verso i fedeli. Molti di questi erano colti da malore, sicché diventava «necessario al predicatore d’intermettere il discorso […] per dar luogo a gemiti e singhiozzi degli uditori, che gli impedivano di parlare».

Però, terminata la celebrazione, gli stessi animi timorosi si “riconciliavano” con i crani (e quindi con la morte) promettendogli preghiere e suffragi, in cambio di favori. Se la grazia tardava a realizzarsi, il fedele non spolverava più il teschio e poteva giungere pure a percuoterlo.

Il rapporto strettissimo fra la popolazione e le Anime del Purgatorio si evidenzia anche nel numero delle edicole votive, che a Napoli sono non meno di duemila. Molte rappresentano proprio le Anime del Purgatorio, piccole figure di creta avvolte dalle fiamme che stendono le braccia al Crocifisso o alla Madonna. Ogni edicola ha il suo “curatore”, cioè l’abitante del vicolo che controlla la freschezza dei fiori o il corretto funzionamento dell’impianto di illuminazione.

«Vi erano [nell’ipogeo] delle ragazze, anche giovani e belle, che si alzavano in punta di piedi per sussurrare al teschio, con un bacio quasi appassionato, la loro preghiera segreta» (Gustav Herling). È superstizione, questa, o (straordinaria) testimonianza di fede?

Ricorda
«Che cos’è il purgatorio?
Il purgatorio è lo stato di quanti muoiono nell’amicizia di Dio, ma, benché sicuri della loro salvezza eterna, hanno ancora bisogno di purificazione, per entrare nella beatitudine celeste.

Come possiamo aiutare la purificazione delle anime del purgatorio?
In virtù della comunione dei santi, i fedeli ancora pellegrini sulla terra possono aiutare le anime del purgatorio offrendo per loro preghiere di suffragio, in particolare il Sacrificio eucaristico, ma anche elemosine, indulgenze e opere di penitenza».

(Catechismo della Chiesa Cattolica, Compendio, nn. 210211).

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