Piccolo grande hobbit
di Alessandro Gnocchi – Il Timone
Con i suoi antieroi protagonisti, Tolkien celebra l’immutabile saldezza della verità sul bene e sul male. Una grande fiaba che ci parla del peccato e della Grazia, della fede e delle opere. Con una certezza finale: la vita dell’uomo non è una tragedia, ma un felice ritorno a casa
«Egli trasse un profondo sospiro. “Sono tornato”, disse».
Ci voleva un genio per chiudere con una simile riga le 1.258 pagine di un capolavoro come Il Signore degli Anelli. In quell’ultima riga, di cui Samvise Gamgee è protagonista assoluto, si racchiude il segreto dell’immortalità letteraria. Perché la grande epopea, la grande poesia, il grande romanzo, alla fine, non sono altro che il grande racconto del ritorno a casa. Non sono altro che la riscrittura della parabola del figlio prodigo. Perché la grande epopea, la grande poesia, il grande romanzo, alla fine, non sono altro che riti letterari dell’unica vera religione, che è quella cattolica.
L’incauto hobbit Samvise Gamgee, partito da Hobbiville per fedeltà a padron Frodo e nella speranza di incontrare gli Elfi, diventa protagonista di un’epocale battaglia contro Sauron, il Nemico. Una vera e propria epopea al termine della quale sembrerebbe che nulla possa più essere come prima. E invece no: «“Sono tornato” disse». Perché ciò che conta non muta mai. Lo spiega re Aragorn, a Eomer, nipote del Re del Mark: «Il bene e il male sono rimasti immutati da sempre, e il loro significato è il medesimo per gli Elfi, per i Nani e per gli Uomini. Tocca a ognuno di discernerli».
Epifania del sacro
Il mondo fiabesco del capolavoro di Tolkien vive nell’epifania luminosa del sacro, nel bagliore che rivela definitivamente ciò che gli uomini troppo a lungo hanno dimenticato. Per questo, nella Terra di Mezzo, può essere segno di un destino anche il semplice incontro con un Ramingo, un Re, un mago, un Elfo, un nano. L’improvvisa apparizione di queste o chissà quali altre creature producono nelle anime dei personaggi e del lettore un ordine liturgico che, improvvisamente, colloca al loro posto le cose e le parole. Frutto di sapienza letteraria che Tolkien, nel celebre saggio Sulle fiabe, chiama «subcreazione», arte di utilizzare gli elementi della realtà quotidiana per costruire un mondo coerente e vero: «Costruire un Mondo Secondario dentro il quale il sole verde risulti credibile, imponendo Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e certamente esigerà una particolare abilità, una sorta di facoltà magica. Pochi si cimentano in compiti così ardui; ma quando li si affronta e li si attua in misura maggiore o minore, si ottiene un risultato artistico senza pari: arte narrativa, insomma, elaborazione di racconti nella forma primaria e più pregnante».
Nella sua spregiudicatezza antiletteraria, un inventore di fiabe come Tolkien non si preoccupa della parola, se non per considerarla un seme che, affondato nel terreno, sparisce per liberare alla luce il fiore di cui era, misteriosamente, portatore. Nasce in tal modo un linguaggio che esorta alla contemplazione e alla comunione con il divino. In cui le parole, usurate dall’incuria degli uomini, possono compiere il loro ufficio solo riattingendo alla propria forza originaria.
Il «nome delle cose»
Per questo anche le cose hanno un nome nel mondo di Tolkien. «Anduril, Fiamma dell’Occidente» la spada forgiata dagli Elfi per Aragorn, il Re destinato a tornare sul trono. «Pungolo» lo spadino che il vecchio Bilbo consegna a Frodo prima che la Compagnia dell’Anello parta per la propria missione. Anche le cose hanno un nome perché, attingendo alla forza delle origini, assolvono compiti che vanno ben oltre il profano. Si compongono in cerimonia: ciò che trasforma in scrittura una bella prosa. «Alta scrittura senza cerimonia non fu possibile mai», scrive in proposito Cristina Campo nel saggio Parco dei cervi «fosse pure occultata la cerimonia nella convenzione di un sottovoce». «Hai l’aspetto di un normalissimo Hobbit» dice Bilbo a Frodo dopo averlo convinto a indossare sotto gli abiti una cotta di maglia forgiata dalla sapienza dei Nani. «Ma adesso vi è in te più di quanto appaia in superficie». Cos’è, questo, se non puro, rituale sottovoce? Discorso che, per stupire, non ha bisogno di convocare dai quattro punti cardinali legioni di angeli e di demoni da contrapporre in lamenti grandiosi.
Nel mondo c’è qualcosa di sacro
Perché la fiaba è fatta così. Spesso si pensa che nasca dalla sazietà di un’anima al cospetto di una fantasmagoria infinitamente più grande di tutte le delizie attese per tanto tempo. E, invece, sgorga dallo stupore che si prova quando il destino ha avuto cura di disporre una realtà un poco inferiore all’aspettazione. L’artista che se ne sappia abbeverare avrà trovato una fonte di ispirazione perenne. Territorio tutt’altro che rassicurante, dato che racconta i segreti, anche quelli dolorosi della vita.
Su questo tema, nel saggio Della fiaba, scrive Cristina Campo: «A un bambino che legge viene promessa l’apparizione del re: parola rutilante. Ma la scaltra, veggente fiaba la sa più lunga di lui: “Gli araldi diedero fiato alle trombe, le porte d’oro si spalancarono. Apparve il re, pallido e triste, senza scettro né corona, tutto vestito a lutto”». Dolorosa rivelazione che, per un istante, mozza il fiato. Ma, proprio nel momento in cui la vita rallenta fino quasi a fermarsi, il bambino coglie e custodirà per sempre l’idea che nel mondo c’è qualcosa di sacro e di grande.
«Sono tornato» dice Sam, dopo essere passato indenne fra le tentazioni del potere portate nel mondo dall’Anello proprio perché ha sperimentato che nel mondo c’è qualcosa di sacro e di grande. Ma non si giunge a tanta consapevolezza attraverso un viaggio allegro e giocondo. Il territorio delle fiabe si estende fra i poli della bellezza e della paura. Lo splendore soprannaturale del bello e del vero si mostra solo dopo il superamento di terrori concreti e carnali. Non è un caso se gli eroi più grandi di questo genere letterario sono i santi: interpreti di quella fiaba assoluta, quella fiaba delle fiabe, che è il Vangelo.
La presenza della Grazia
Su questo terreno letterario, la sapienza di Tolkien sta nel rendere appena meno visibile la presenza della Grazia per chiedere più forza al dire e al fare dei suoi personaggi. All’impallidire dell’intervento divino, gli uomini sono costretti a farsi persino violenti per andare alla conquista del regno dei cieli. Poi, giunti al limitare delle loro possibilità, dove l’aria è troppo pura per essere alimento di povere creature, ritrovano il sostegno della luminosità pastosa e concreta del soprannaturale.
In un racconto come Il Signore degli Anelli, l’orizzonte si pulisce e raccoglie vicende che sanno veramente dire qualcosa all’uomo. Quelle che chiedono l’esercizio dell’occhio, organo del tragico, e dell’orecchio, organo del comico. Su scenari tragici, passati con tinte violente, l’innesto di dialoghi comici segna l’ingresso della Grazia nelle cose terrene. E si manifesta la tragicommedia, il più cristiano dei generi letterari, il versante evangelico della fiaba.
Lasciata a se stessa, la tragedia racconta l’incontro dell’uomo con la sofferenza e la morte. Ma, allo stesso tempo, è qualche cosa di più della percezione dell’ineluttabilità del morire: è la disperata opposizione a questa crudeltà. La visione tragica del mondo nasce dalla comprensione della natura come grembo originario del prodursi e dell’irrimediabile risolversi di tutto ciò che esiste. Perciò, l’uomo tragico vive in un mondo senza orizzonte, dominato dall’eterno fluire del farsi e del disfarsi.
Il cristiano, per contro, è costituito dalla capacità di sperare contro ogni male, di attendere oltre il limite umano della sopportazione, di proclamare la liberazione da ogni delusione. Un atteggiamento come questo si fonda sulla constatazione delle alterne vicende della vita per cui ci si può sempre attendere il bene nel dolore e, più distrattamente, il male nella gioia. Ma sempre con un senso, dentro un orizzonte luminoso.
Eroismo a portata di tutti
Per questo Frodo arriva fino in fondo alla sua missione. Perché Tolkien gli ha messo nel cuore tutta la propria fiducia nella Grazia e tutta la propria consapevolezza di dovervi unire le buone opere, come dire la propria fede cattolica. È con questa fede che il piccolo hobbit si avvia verso la voragine di Monte Fato trascinando dietro quel povero essere devastato dalla schizofrenia spirituale che è Gollum. In quella salita dolorosa, Frodo, per conto di Tolkien, mostra come la fede cristiana produca qualcosa di inedito e per molti versi imponderabile. Sul ciglio di Monte Fato, non opera più la semplice speranza in ciò che ci si può ragionevolmente attendere, ma la certezza dell’inattingibile, dell’inaudito, convinzione che a Dio nulla è impossibile. Pur nel dolore e nel terrore, Frodo sa che non sarà sfigurato nel grido tremendo come gli eroi della tragedia, uccisi dalle stesse potenze che li avevano generati. Lui potrà durare indefinitamente persino nell’abiezione perché una potenza oscura, sovrana e silenziosa lo sorregge, anche se è lontana e latita.
Fiat voluntas tua
E non caso, il gesto ultimo è compiuto da un oscuro hobbit, invece che da Re Aragorn o da Gandalf il Bianco. La tradizione cristiana è costitutivamente “antieroica” non perché escluda l’eroismo dal suo orizzonte, ma perché lo generalizza. L’eroismo è alla portata di tutti e non è più necessario essere una personalità riuscita per attingervi. Basta pronunciare le poche parole dell’adorazione perfetta: Fiat voluntas tua. E tutto diviene possibile.
Nella fiaba vince il folle che ragiona a rovescio. Colui che, come il santo, crede al cammino sulle acque, alle mura traversate da uno spirito ardente. Colui che, come il poeta, trae dalle parole concreti e carnali concetti, come quel geniale «Sono tornato».