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Riflessioni sul tema del perdono

Posté par atempodiblog le 15 septembre 2012

“Riflessioni sul tema del perdono”
intervento di Sua Eminenza il Cardinale Carlo Caffarra all’incontro con padre Aldo Trento “L’ultima parola non è il peccato. È la misericordia!”
Bologna, Aula Magna Santa Lucia, 16 novembre 2010
Tratto da: caffarra.it

Riflessioni sul tema del perdono  dans Alessandro Manzoni

1. Mi è difficile prendere la parola di fronte ad un testimone che ricostruisce quotidianamente con l’abbraccio del perdono umanità devastate. La mia parola, nella sua povertà, servirà solo a mettere in luce la testimonianza seguente.
L’uomo oggi – intendo l’uomo occidentale – sta male, anche se cerca di vivere gaiamente il suo malessere, perché si è interdetto l’esperienza del perdono da parte di Dio, e quindi l’esperienza della sua misericordia. L’uomo non può vivere una buona vita senza questa esperienza.
Egli è capace di agire male, ma è incapace di liberarsi dal male compiuto. Non dico di porre rimedio alle conseguenze che la sua azione ha causato in sé e su gli altri. C’è un testo manzoniano che ci aiuta a capire questo paradosso dell’uomo che può agire male e non può liberarsi dal male compiuto.
È la famosa notte dell’Innominato, nel momento in cui egli passa in rassegna tutte le sue scelleratezze. Erano tutte sue; erano lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quelle immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione [Promessi Sposi, cap. XXI]. Ed anche nelle Osservazioni sulla morale cattolica: il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell’altra più terribile ancora, non potrai esserlo più [VIII, 3].
Colle proprie scelte ciascuno di noi genera se stesso, e diventa genitore di se stesso: sei quello che decidi di essere. Gli atti di ingiustizia non erano solo atti di cui l’Innominato era responsabile: erano lui. Esiste una misteriosa ma reale progressiva identificazione del nostro io colle scelte della nostra libertà. Se penso ad un triangolo, non divento un triangolo. Se compio un furto, divento un ladro.
Posso certo e devo restituire ciò di cui mi sono indebitamente impossessato, ma ciò non toglie il mio essere stato ciò che sono stato. Esiste come un’identificazione della persona coi suoi atti: attaccata a tutti, come dice Manzoni.

2. La soluzione, la via di uscita sarebbe quella di un ricominciare da capo, come una sorta di rinascita e di rigenerazione. Ma come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere? [Gv 3,4].
Ma poiché l’uomo non può compiere questo miracolo, ha elaborato ed inventato altre vie palliative di liberazione dal male. Sono stati inventati vari surrogati dell’unico atto che potrebbe rigenerare l’uomo: il perdono di Dio. Non li enumero tutti. Mi limito a qualche riflessione sul tentativo più tragico, più disperato che l’uomo abbia mai compiuto di vivere senza il perdono di Dio: la negazione del male morale.
È un tentativo che è andato di pari passo con la negazione [dell’esistenza] di Dio. Intendo dire di un Dio coinvolto nel destino della persona umana.
Ciò non è avvenuto per caso. La negazione di Dio non ha coinciso casualmente con la negazione del male morale. I due, esistenza del male morale nell’uomo ed esistenza di Dio, stanno o cadono insieme.
Nessuno come Dostoevskij ci ha fatto riflettere su questo, soprattutto in due grandiosi romanzi, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov. Se Dio non esiste tutto è permesso: il frutto della negazione di Dio per il vero ateo è la liberazione da ogni legge morale. Ma cosa accade in uomini come Raskolnikov o come Ivan Karamazov? Vengono distrutti, alla fine, dal delitto che hanno compiuto. Elimina Dio dalla vita e la voce della coscienza si farà sempre meno imperiosa. Non sono certo la società e lo Stato ad impegnare la coscienza dell’uomo, a legare la sua libertà. È il cuore del dramma dell’uomo di oggi.
Ma c’è qualcosa nell’uomo che ha peccato che gli impedisce alla fine di accontentarsi dei vari surrogati al perdono di Dio. È il trovarsi con se stesso, con un se stesso divorato dalla potenza distruttiva del rimorso. Il castigo che segue al peccato – come hanno ben visto Manzoni e Dostoevskij – precede la condanna di ogni tribunale ed è più terribile di ogni condanna. È questo castigo la prova di Dio. Il peccatore può non riconoscere Dio nel suo castigo, ma se l’uomo non può impunemente offendere la legge, senza che il delitto ricada su di lui, la distruzione psicologica che segue al delitto afferma ugualmente la divinità della legge [D. Barsotti, Dostoevskij. La passione per Cristo, Edizioni Messaggero, Padova 1996, 182].
Ma forse oggi si è già imboccata un’altra strada. Si cerca di spiegare l’emergere del nostro essere coscienti di noi stessi, in prima persona, e quindi l’emergere della nostra libertà da una realtà di tipo neurobiologico, come si spiega un effetto con la sua causa.
Il mistero della coscienza verrà progressivamente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscienza [J. Searle, Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998, 166].

3. L’evento cristiano è la possibilità offerta all’uomo di essere rigenerato mediante il perdono di Dio: di nascere di nuovo e di cominciare di nuovo. Il cristianesimo è la possibilità di dire in qualunque circostanza: ora ricomincio da capo, perché è il perdono di Dio sempre offerto all’uomo, ad ogni uomo.
Dire Dio perdona non significa: Dio decide di non tenere in conto le scelte della tua libertà, con una sorta di dissimulazione. Egli prende tremendamente sul serio le nostre scelte sbagliate, e ne assume il peso fino in fondo. L’assunzione di tutte le scelte sbagliate di ogni uomo è la Croce di Cristo.
Ma nello stesso tempo il perdono di Dio consiste nell’azione di Dio che trasforma la nostra libertà e rinnova alla radice il nostro io. Questo atto è più divino, è più grande dello stesso atto della creazione. All’accusa degli uomini, al loro peccato, Dio risponde col suo perdono. Esiste un limite contro
il quale si infrange la potenza del male: il perdono e la misericordia di Dio.
Ancora Dostoevskij ha espresso mirabilmente la forza rigeneratrice del perdono di Dio, nel discorso di un ubriaco, incapace di liberarsi dal vizio del
bere che ha portato la sua famiglia nella miseria più nera: nel discorso di Marmeladov, il padre di Sonia, in Delitto e castigo. Marmeladov chiede
pietà.
«Colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che tutto e tutti comprese, avrà pietà di noi, egli è il solo giudice, egli verrà nell’ultimo giorno … Tutti
saranno giudicati da lui ed egli perdonerà a tutti: ai buoni e ai tristi, ai santi e ai mansueti … E quando avrà pensato agli altri, allora verrà il nostro
turno: Avvicinatevi anche voi, ci dirà, avvicinateci, voi beoni, avvicinatevi, voi disperati. E ci avvicineremo tutti senza timore…
E i saggi e i benpensanti diranno: Signore, perché accogli costoro?. Io li accolgo … Perché nessuno di loro si è creduto degno di questo favore. E ci
tenderà le braccia e noi ci precipiteremo e scoppieremo in singhiozzi e comprenderemo tutto … E capiremo tutto … Signore venga il tuo Regno”».
La pagina, a mio giudizio fra le più alte della letteratura cristiana di ogni tempo, sembra la filigrana della pagina evangelica che narra il pianto della
prostituta perdonata che ha solo il coraggio di baciare i piedi del Signore. E chi vide quell’incontro non poté non accusare Cristo di comportarsi come fosse Dio. È nella sua misericordia che Egli rivela la sua divinità.

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Kasatkina: la grande “lezione” dell’Inquisitore ai cristiani

Posté par atempodiblog le 15 septembre 2012

DOSTOEVSKIJ/ Kasatkina: la grande “lezione” dell’Inquisitore ai cristiani
Tratto da: ilsussidiario.net

Kasatkina: la grande “lezione” dell’Inquisitore ai cristiani dans Anticristo

martedì 24 gennaio 2012
Tat’jana Kasatkina, studiosa di letteratura russa, tra i maggiori esperti al mondo di Fëdor Dostoevskij, ha concluso domenica un ciclo di conferenze che l’ha portata in varie città italiane. A Firenze ha accettato di parlare con Ilsussidario.net della «Leggenda del grande Inquisitore», capitolo-capolavoro del romanzo che Dostoevskij riuscì a concludere poco prima della morte, I fratelli Karamazov. Kasatkina ha appena concluso la conferenza che l’ha vista instaurare un dialogo, improvvisato e coinvolgente, con Gustavo Zagrebelsky proprio sulla Leggenda come «enigma della libertà».

Tat’jana Kasatkina, come ha «scoperto» Dostoevskij?
Noi russi siamo cresciuti in un mondo senza Dio, e l’orrore della realtà ridotta unicamente alla sua dimensione materiale forse non per gli adulti, ma per i bambini è certamente insopportabile. Per me è stato come vivere in una situazione di dissonanza cognitiva, perché ho sempre saputo che dietro l’apparenza c’era qualcosa di «altro», ma intorno a me tutti congiuravano a tacerlo. Quando, per la prima volta, a undici anni, ho letto Dostoevskij, ho capito che quell’uomo parlava di ciò che cercavo da tanto tempo – del fatto che ogni cosa è soltanto l’inizio, una introduzione a qualcosa di eterno. Da quel momento l’ho amato per tutta la vita.

Dove passa la via di Dostoevskij alla scoperta dell’uomo, e che posto ha il male in questa scoperta?
Dostoevskij scopre l’uomo penetrando quel male che egli definisce come «fango sovrapposto». Questo è molto singolare, perché di solito gli scrittori, quando parlano dell’uomo, o si fermano alla superficie di questo fango, o cercano di ignorarlo. Invece, nell’uomo che a prima vista noi rifiuteremmo, Dostoevskij ci mostra Cristo, il volto più bello che ci può essere in un uomo.

Nella «Leggenda» di Ivan Karamazov il bene, di cui l’inquisitore si fa garante e custode, è puro oggetto di potere. Il suo disegno vince o è scardinato?
Se l’inquisitore semplicemente si sbagliasse? Se questa domanda non si ponesse, la «Leggenda» non sarebbe un testo che tutti continuano a leggere e rileggere. Sarebbe troppo semplificativo dire che il grande inquisitore ha solo torto quando descrive la situazione dell’uomo nel mondo. Noi stessi sappiamo come vorremmo rinunciare alla nostra libertà, come vorremmo rinunciare a questa continua responsabilità di dover sempre decidere, come vorremmo avere a nostra disposizione un insieme di regole, consegnandoci alle quali esser certi di stare nel giusto. Per questo dobbiamo ringraziarlo…

Ringraziare l’inquisitore?
Egli difende una tentazione che esiste da sempre, quella di consegnarci alle regole e di rivendicarne la validità per tutti. Chi le rispetta fa la cosa giusta ed è buono, chi non le rispetta è cattivo. Per lottare contro i cattivi che non mettono in pratica le regole, abbiamo tentato di creare paradisi umani che sono diventati degli inferni. Il grande inquisitore ci mostra con rigorosa coerenza non solo tutti i punti deboli della natura umana, ma anche dove porta la strada della nostra tentazione. Per questo dobbiamo «ringraziarlo». In fondo a questa via, l’uomo può trovare soltanto il nulla. Invece l’unica legge del cristiano, dice Dostoevskij, è quella di imitare Cristo.

Gustavo Zagrebelsky nella sua analisi ha notato che queste due figure, Cristo e il grande inquisitore, sono specularmente contrarie. Sono «fratelli e al tempo stesso nemici mortali».
È vero. Il professore ha anche ragione nell’affermare che il grande inquisitore è un seduttore. Aggiungerei: è essenzialmente un seduttore. Cristo è lo sposo della Chiesa dell’umanità, l’inquisitore è il loro «don Giovanni». Essi sono uno più vicino all’altro di due fratelli carnali, proprio perché pretendono l’amore della stessa donna. Io riuscirò a fare quello che tu non sei riuscito a fare – Gli dice l’inquisitore, insistendo sul fatto che l’umanità, la sposa, Lo ha ripudiato.

Gesù non dice parola, ma alla fine bacia il vecchio. Qual è la sua lettura di questo artificio finale di Dostoevskij?
Qui si commette sempre un errore fondamentale. Perché Cristo non tace: al contrario, dice due sole parole, importantissime: talità kumi, «fanciulla, alzati». Le si può capire solo in relazione all’inizio di questo straordinario capitolo, che ha un andamento circolare. All’inizio della «Leggenda» Ivan racconta della madre di Gesù, che si getta in ginocchio davanti a Dio implorandolo di perdonare tutti i peccatori senza eccezione. Quando Dio le mostra i piedi e le mani trafitti del Figlio, chiedendole: Come faccio a perdonare i suoi carnefici?, lei ordina a tutti i santi e gli arcangeli di mettersi in ginocchio con lei e di pregare per tutti. È questo il vero inizio della Leggenda, che finisce col bacio di Cristo. Le due parti parlano della stessa cosa: del fatto che Cristo non ha nemici. Cristo torna sulla Terra per cercare l’umanità come figlia e come sposa. Perciò, quando dice «fanciulla, alzati» non lo sta dicendo solo alla ragazza che giace davanti a lui, ma a tutta l’umanità e a tutta la Chiesa.

Compreso l’inquisitore?
Sì, perché egli non è solo un avversario, ma anche un membro del corpo di Cristo che è la Chiesa. Anche lui «è» questa fanciulla che Cristo e venuto a risvegliare. Per questo, alla fine, lo bacia. Il grande inquisitore lotta contro Cristo, ma Cristo non lotta contro il grande inquisitore; il bacio vuol dire che Cristo è venuto per adottare i propri nemici, per diventare loro fratello. Noi possiamo essere nemici di Cristo, ma egli non può essere nostro nemico. Si può aggiungere: i veri cristiani non hanno nemici; possono combattere solo per qualcosa, mai contro.

Che cosa rappresenta per lei questo testo?
Ha chiarito definitivamente in me una domanda che avevo sul senso della salvezza. Sappiamo che si salverà chi percorrerà la «via stretta», non la «via larga». Ma le spiegazioni che ho sentito per queste espressioni non mi hanno mai soddisfatto, fino a che non ho trovato la risposta nella «Leggenda». Ognuno deve andare a Cristo seguendo la strada che è fatta solo per lui. La via larga mi pare quella delle regole comuni, mentre la via stretta è quella che appartiene solo a me come singolo. Nessuno può fare la mia strada, come io non posso fare quella di un altro.

Perché la «Leggenda del grande inquisitore» è sempre attuale?
Perché non siamo ancora compiutamente cristiani.

(Federico Ferraù)

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