Don Dolindo tra bocciature e una grazia improvvisa…

Posté par atempodiblog le 12 juin 2012

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Il primo esame al liceo Genovesi: bocciato!
Nel 1891 papà comperò una casa al Vico Nilo n. 26, dove ci trasferimmo nello stesso anno o nell’anno successivo, non ricordo. Siccome mio fratello Elio era abbastanza grande, papà lo preparò con una certa accuratezza agli esami di ammissione in quella classe che allora si chiamava prima ginnasiale, e lo pose in condizione da essere approvato. Se ricordo bene, gli regalò anche in premio un orologio di nickel.
Io fui lasciato in disparte come cretino.
Ma ecco la decisione improvvisa e assurda di mio padre. Volle che avessi fatto anch’io la prima ginnasiale senza andare a scuola. Dovevo copiare (sic!) i libri di Elio, e poi impararli sotto la guida di Elio stesso. Ed io stavo, così, giornate intere per terra sul famoso scalino a copiare. Ma era logico che non apprendessi nulla. Avrei avuto tanto desiderio di apprendere il latino, perché volevo essere Sacerdote, ma come potevo apprenderlo in quel modo e senza capirne nulla? Non avevo poi nessuna idea di grammatica, di geografia, di aritmetica.
Ciò nonostante, papà, nel luglio del 1894, volle che mi presentassi al ginnasio governativo Genovesi, in piazza del Gesú, per fare gli esai di ammissione in seconda ginnasiale.
E’ superfluo dire quale fu l’esito di questi esami: italiano 2 o 3; latino 2; geografia zero assoluto. In compenso, naturalmente, la mia abituale ed atroce scarica di percosse. Ripetetti gli esami ad ottobre colmedesimo risultato.
Papà allora mi presentò dai Gesuiti, al collegio Pontano, che allora si trovava in Via Atri. Feci gli esami: stesso risultato.
Papà non si rassegnava a darsi per vinto, e tanto disse e tanto fece col preside del «Genovesi», che era allora il prof. Simoncelli, che mi fece ammettere,
per grazia, in prima ginnasiale. Mio fratello Elio passò in 2° ginnasio.
Avevo dodici anni, ma di statura ero piccolo piccolo, il più piccolo della classe; serbavo una condotta irreprensibile e il professore mi fece capo classe.
Le lezioni a memoria le portavo; le imparavo macchinalmente senza capirne nulla; ma gli scritti erano una rovina. Il professore mi voleva bene e cercava di aiutarmi, ma io ero chiuso di mente.
Era impossibile avere amicizie nella scuola; papà lo proibiva. Per impedirlo, egli ci faceva uscire di casa pochi minuti prima che cominciasse la scuola, in modo che dovevamo andarci di corsa per trovarci in tempo. Finita la scuola, dovevamo ritornare di corsa a casa. Non ho avuto perciò mai amicizie con nessuno; non potevo neppure scambiare parola col compagno, vicino di banco.

Un incidente diplomatico
Il mio abbigliamento era originale: un vestito unto e sdrucito, un berretto ingrassato a visiera, le scarpe rotte.
In giorni determinati della settimana, dopo lo studio di classe vi era, in palestra, a scuola, la lezione di ginnastica. Era allora che io mettevo in esposizione i miei cenci.
Una volta non avendo cosa mettermi addosso, fui costretto ad indossare un vecchio calzone di papà, al quale raccorciai io stesso, semplicemente, con una sforbiciata, i gambali. Me lo fermai, quindi, alla vita con uno spago. Ero pronto per la palestra. Com’era logico, fui deriso dai compagni; ma il colmo avvenne quando fui chiamato per il salto alla balestra.
- Pronti? -
- Viaaa! – E corsi al salto. Si spezzò lo spago che reggeva i calzoni e lasciamo andare quel che avvenne…
Mi allontanai pieno di vergogna.
Alla fine dell’anno, feci gli esami; fui riprovato, ebbi un mondo di percosse e dovetti ripetere la classe ancora una volta. Comunque, nella scuola, non appresi nulla: né il bene, né il male.

[...]

Di nuovo agli studi: un disastro! Poi una grazia improvvisa…
La mattina seguente fummo condotti alla scuola del collegio secolare annesso alla casa.

Io frequentavo la 2a ginnasiale e mi feci ben presto notare per la mia cretinaggine. Al solito le lezioni a memoria le imparavo; ma dove si richiedeva l’intelligenza e la riflessione, io non ne combinavo nulla.
Fu allora che mi raccomandai tanto a Gesú e alla Madonna perché mi avessero aiutato.
Avvenne poi un fatto curioso.
Recitavo con i condiscepoli il S. Rosario ed avevo davanti a me una immagine della Madonna (che conservo) appoggiata ad un libro.
Dissi alla Madonna: «O mia dolce Mamma, se mi vuoi Sacerdote, dammi l’intelligenza, perché lo vedi che sono un cretino».
D’un tratto, genuflesso com’ero, mi assopii: l’immagine si mosse per il vento o altro, non so dirlo, mi toccò la fronte e mi svegliai dall’assopimento con la povera mia mente svelta e lucida.
Era una grande misericordia di Dio. Oramai io ero fuori dei pericoli esterni del male e l’intelligenza poteva giovarmi a conoscere e ad amare Dio.
Io infatti non ebbi l’intelligenza che per conoscere ed amare Dio.

Sac Dolindo Ruotolo

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