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Santa Giovanna d’Arco

Posté par atempodiblog le 30 mai 2012

Santa Giovanna d'Arco dans Charles Péguy Santa-Giovanna-d-Arco

Hauviette diceva a Giovanna d’Arco: Tu vedi. Tu vedi. Quello che sappiamo, noi altri, tu lo vedi. Quello che c’insegnano, a noi altri, tu lo vedi. Il catechismo, tutto il catechismo, e la chiesa, e la messa, tu non lo sai, tu lo vedi, e la tua preghiera non la dici, non la dici soltanto, tu la vedi. Per te non ci sono settimane. E non ci sono giorni. Non ci sono giorni nella settimana; e non ore nella giornata. Tutte le ore per te suonano come la campana dell’Angelus. Tutti i giorni sono domeniche e più che domeniche e le domeniche più che domeniche”.

Charles Peguy – Il mistero della Carità di Giovanna d’Arco

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Il sacrificio di don Ivan. Travolto dalla sua chiesa per salvare una statua

Posté par atempodiblog le 30 mai 2012

Il parroco di Rovereto era entrato con i vigili del fuoco per recuperare delle immagini sacre
di Michele Brambilla – La Stampa

Il sacrificio di don Ivan. Travolto dalla sua chiesa per salvare una statua dans Articoli di Giornali e News

Una statua della Madonna? O un’immagine di suo Figlio? Non sappiamo di preciso se l’una o l’altra cosa. Ma sappiamo che, da un punto di vista artistico, non valeva granché.
Eppure don Ivan Martini è morto per quella statua, o per quell’immagine. La Chiesa è fatta anche da uomini così.
Erano le nove e mezza di mattina quando don Ivan, 65 anni, parroco di Rovereto sul Secchia – una frazione di Novi di Modena -, è entrato nella sua chiesa per recuperare quel che era sacro, per lui e per i fedeli. Un sopralluogo concordato con i Vigili del fuoco. Concordato e programmato da tempo.
La chiesa era pericolante dopo il terremoto di dieci giorni fa. Don Ivan è entrato con i pompieri. Hanno cominciato a scappare insieme, quando sembrava suonassero le trombe dell’Apocalisse. Ma lui non ce l’ha fatta. Dicono che forse la veste si è impigliata da qualche parte.
«L’ho raccolto che ancora respirava», mi racconta Gino Galiotti, uno di quelli che frequenta la parrocchia. «Ma si capiva che non ce l’avrebbe fatta. Una trave lo aveva schiacciato. Non c’erano neanche ambulanze, l’ho portato io all’ospedale di Carpi per fare prima. È morto quasi subito. Che cosa vuole che le dica? Era qui da una decina d’anni e gli volevano tutti bene. Si occupava anche dei carcerati, insomma uno di quei preti degli ultimi».
Arrivo a Rovereto sul Secchia in tarda mattinata, giusto in tempo per prendere la seconda forte scossa, che per fortuna quando si va in macchina non si sente, e le altre due del pomeriggio, meno forti. La provinciale da Carpi a qui è una stradina di campagna, piena di casette tutte con il loro giardino e naturalmente il loro posto auto, ma oggi le auto sono tutte fuori, sul bordo della strada, pronte a partire.
Mentre i giardini sono popolati: la gente ha lasciato le stanze e si è trasferita lì, ombrelloni e sdraio come in spiaggia, qualcuno monta anche una tenda. È un trasloco di cui si conosce l’ora d’inizio ma non quella della fine.
Sulla strada incontro un uomo di Novi, Mauro Bellelli, che mi porta alla sua cascina di campagna, completamente crollata. «Anche casa mia è danneggiata», dice, «a Novi è un disastro». Il primo che incontro a Rovereto si chiama Nicola Matrone. Viene verso di me e racconta: «Ho perso tutto, la casa e tutto quello che c’era dentro». Rovereto ha quattromila abitanti e nessuno ha il permesso di dormire a casa sua. Alcune case sono crollate, altre hanno dentro crepe che sembrano fiumi su una carta geografica. Comunque nessuno si fida a stare dentro, anche chi non ha visto crepe. «Sembrava la fine del mondo», mi racconta Tiziana Pivani, che lavora per le Coop e ora sta dando una mano ai soccorsi.
La gente di Rovereto è tutta raggruppata su un grande prato che sta proprio dietro la chiesa crollata. È una tenda che don Ivan aveva fatto tirare su per dir messa in questi giorni seguiti al terremoto dell’altra domenica. Adesso è diventato il rifugio non solo dei peccatori, ma di tutte le anime del paese. Ci sono gli scout, ragazzi commoventi di cui si parla sempre troppo poco, che hanno messo giù le panche per mangiare.
Gino Galiotti, quello che ha tirato fuori il parroco dalle macerie, lo incontro proprio lì mentre mescola gli spaghetti al ragoût in un’enorme pentolone da accampamento militare. «Don Ivan era già d’accordo da giorni con i pompieri per andare a recuperare delle statue e dei quadri all’interno della chiesa», mi dice sua moglie, Rosanna Caffini: «Io ero a casa, lui mi ha telefonato: vieni con me? Io sono arrivata, l’ho visto che si metteva l’elmetto, e che entrava con i vigili del fuoco. Poi, l’apocalisse». Usa anche lei questo termine, «l’Apocalisse»: lo dicono un po’ tutti qui, oggi. Continua il racconto: «Ero nell’angolo del cortile quando ho sentito il boato. Che cosa dovevo fare? Sono scappata nel parcheggio. Ho visto un pezzo di campanile venire giù. Che cosa pensa una persona in quei momenti? Se ha un marito e una figlia, pensa al marito e alla figlia. Sono corsa a casa con il cuore in gola a vedere se erano vivi. Grazie al cielo stavano bene, e Gino è venuto subito qui a cercare di salvare don Ivan».
Camminare per il paese è come percorrere una via crucis. Vedi tante casette a un piano, massimo due, e i loro proprietari tutti fermi sull’uscio ad aspettare chissà che cosa. «Mi hanno detto che la mia casa è a posto», dice Marina Rettilieri, «ma io dormo in auto questa notte».
«Io ci dormirei anche», dice Pietro Ronchetti, «però non ci danno il permesso, dicono che stanno preparando delle tende. D’altra parte è vero che le scosse di oggi sono state tremende». Anche le case più nuove sono segnate, «a Rovereto non c’è nessuno che queste notti avrà il permesso di dormire in casa», dice Giancarlo Luppi. La sua è già stata dichiarata inagibile.
Che cosa si vede sulle facce della gente di questo piccolo paese improvvisamente finito, con altri quattro o cinque, in un girone dell’inferno? La paura è la cosa che traspare di più. Non è neanche più la paura per quello che è successo: è il terrore per quello che può ancora succedere.
Questa è la Bassa che ispira pace solo a guardarla, con le sue pianure sconfinate, i suoi casolari e le sue stalle, i suoi piccoli corsi d’acqua nei campi e lungo le strade, il suo silenzio, il suo caldo d’estate e le sue nebbie d’inverno. Ma chi potrà più sentirsi tranquillo domani, e tra un mese, e tra cinquant’anni quando i ragazzi di oggi saranno i nonni che racconteranno ai bambini del terremoto dell’anno dei Maya, e i bambini penseranno che è una favola?
Eppure. Eppure la paura non vincerà gli emiliani, gente abituata a saper prendere la vita. Si vedono in giro anche tanti sorrisi. Come quello di una giovane mamma che sotto la tenda dietro la chiesa imbocca il suo piccolino e gli dice: «È la prima pasta al ragoût della tua vita, chi avrebbe mai pensato che l’avresti mangiata in un giorno così».
La vita continua, in quella tenda. Sono le cose strane. Tutti stanno trovando rifugio in un’opera che era stata voluta e realizzata dall’unica persona del paese che ha perso la vita. E chissà, forse un cristiano ci vede il rinnovarsi di quello in cui crede, e cioè che c’è qualcuno che muore per la salvezza di tutti.

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Il mistero della carità di Giovanna d’Arco

Posté par atempodiblog le 30 mai 2012

Il cardinale Roger Etchegaray ricorda la Pulzella d’Orléans nel giorno della sua festa
Fonte: 30Giorni

Il mistero della carità di Giovanna d’Arco dans Charles Péguy Giovanna-conduce-le-truppe-francesi-alla-battaglia-di-Orl-ans-miniatura-tratta-da-La-Vie-des-femmes
Giovanna conduce le truppe francesi alla battaglia di Orléans, miniatura tratta da La Vie des femmes célèbres (1505) di Antoine Dufour, Musée Dobrée, Nantes

30 maggio, memoria di santa Giovanna d’Arco, vergine

La pietà di Jeannette
Secoli ci separano da Giovanna d’Arco ma, come mai prima, ella sembra esserci contemporanea, perché sono la stessa Francia e la stessa Chiesa, ambedue così straziate, a risvegliare il nostro interesse per lei. Il cuore di Giovanna d’Arco si è colmato di pietà a contatto con la miseria del suo tempo: una Francia lacerata ed incerta del proprio destino. Era mossa da una pietà per il regno di Francia. E questo per umile adesione alla volontà di Dio. Si pensi alla pena con cui, mentre prendeva le armi a Vaucouleurs, ammise: «Preferirei piuttosto filare accanto alla mia povera madre, perché questo non è il mio mestiere».
Giovanna sa che la patria non è un’astrazione o un pregiudizio, è una realtà molto concreta. Non è con le idee che si costruisce una patria, ma con la terra che si attacca alla suola delle scarpe.
Non c’è storia più francese della sua. Non vi è una sola francese che possa considerarsi più francese di lei per quella sua vivacità spontanea, che resta tale persino durante la sua prigionia, per quel suo meraviglioso equilibrio che ne rivela le umili origini. A detta di un critico letterario «il capolavoro più commovente e più puro della lingua francese» è nato nel corso dei suoi processi, da un «prodigioso dialogo tra la santità e la viltà» (R. Brasillach, Le procès de Jeanne d’Arc, 1932).
Di Giovanna, della sua pietà di umile contadina, della simpatia e commozione che suscitò nel popolo è stata testimone Rouen. Che non è soltanto la città del processo e di un rogo crepitante di infamia, ma è soprattutto il luogo del «processo al processo» (Régine Pernoud) e di una riabilitazione in cui riecheggia tutta l’esistenza della Pulzella. Senza quelle testimonianze di amici di infanzia, di compagni d’armi, di ex giudici, non sapremmo quasi nulla della sua storia cristallina.
E questo processo al processo, che illumina una vita così breve, ha potuto aprirsi e svolgersi con tanta rapidità grazie alla simpatia popolare degli abitanti di Rouen che non hanno mai dubitato di colei che bruciava davanti ai loro occhi sulla piazza del Mercato Vecchio. Non conosco omaggio più commovente che sia stato reso al popolo di Rouen di quest’affresco di volti pieni di compassione inquadrati in primo piano dalla cinepresa muta di Dreyer nella sua Passione di Giovanna d’Arco.

«Io mi rimetto a Dio»
«Da quando il caro Péguy se n’è andato vorremmo che Giovanna d’Arco appartenesse soltanto ai bambini». Così scrisse Bernanos. E aveva colto nel segno, quando suggeriva che solo lo sguardo dei bambini, come quello che aveva Charles Péguy, poteva comprendere la vicenda della Pulzella d’Orléans.
Alla missione che Dio le indica, Giovanna non aggiunse nulla di suo. «Mi rimetto a Dio, il Re del cielo e della terra», dichiarò a Giovanni di Chatillon che la torturava.
Péguy non ha mai smesso di guardare stupito questo mistero:

«E quel gran generale che adunava intorno a sé città
Come si bacchian noci con una gran pertica
Non era altro in mezzo al rumore e alle guerre civili
Che un’umile fanciulla immersa nel suo amore per Dio».
Se è vero che Giovanna d’Arco è santa, non è certo perché ha salvato la Francia, né tantomeno perché è salita al rogo (che la Chiesa non ha mai riconosciuto come martirio), ma semplicemente perché tutta la sua vita sembra essere in perfetta adesione a quella che lei afferma essere la volontà di Dio. Ciò che lei fa, è ciò che Dio vuole e unicamente questo: «Poiché era Dio ad ordinarlo» ha dichiarato con forza «anche se avessi avuto cento padri e cento madri, anche se fossi stata figlia di re, sarei partita».

L-incoronazione dans Santa Giovanna d’Arco
1429. L’ncoronazione di Carlo VII a Reims In questo affresco di Jules Lenepveu conservato al Panthéon di Parigi, alle spalle del re è raffigurata Giovanna d’Arco

Il limite di ogni politica
Giovanna, eroina della propria patria perché santa di Dio, ci indica che è la carità che viene da Dio che ci fa amare la concretezza del particolare. È proprio questa carità frutto di grazia a stabilire il limite di ogni progetto politico, così che sia alieno da pretese totalizzanti.
Il cristiano può anche felicitarsi del fatto che la politica attuale non determini soltanto obiettivi e mezzi, ma promuova finalità e valori, una concezione dell’uomo. Ma in tal caso, il rischio di una sopravvalutazione si fa grande, molto più di quello di una sacralizzazione, di una venerazione della politica. Niente è più temibile di una politica dalle pretese totalizzanti. Come cristiani, qualunque sia il nostro impegno politico, abbiamo il dovere di denunciare il carattere limitato di tutte le ideologie, non appena hanno la pretesa di presentarsi come via di salvezza; accettandole senza riserve, gli uomini rischiano di veder sacrificata la propria integrità.
La missione profetica della Chiesa, di tutti i suoi figli e figlie, consiste in primo luogo nell’affermare che Dio soltanto è Dio, fonte e termine della storia; consiste nella denuncia della sacralizzazione di ogni azione politica, soprattutto in un’epoca in cui rischia di perder vigore il valore assoluto della fede.
La Chiesa diverrebbe presto insignificante se cercasse di confondersi con gli interessi di un progetto politico. Essa non deve temere di impregnare di fermento evangelico la società offrendo la propria originalità, cioè la vita di uomini riconciliati in Cristo attenti ai bisogni concreti innanzitutto dei poveri. Coscienti, come Giovanna d’Arco di Péguy, che solo per grazia riaccade nella storia degli uomini un nuovo inizio di vita cristiana: «Forse ci vorrebbe altro, mio Dio, tu sai tutto. Sai quello che ci manca. Ci vorrebbe forse qualcosa di nuovo, qualcosa di mai visto prima. Qualcosa che non fosse ancora mai stato fatto. Ma chi oserebbe dire, mio Dio, che ci possa essere ancora del nuovo dopo quattordici secoli di cristianità, dopo tante sante e tanti santi, dopo tutti i tuoi martiri, dopo la passione e morte di Tuo Figlio. Insomma quello che ci vorrebbe, mio Dio, ci vorrebbe che tu mandassi una santa… che riuscisse».

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Dio scrive dritto. L’avventura umana e spirituale di un cardinale

Posté par atempodiblog le 30 mai 2012

Dio scrive dritto. L’avventura umana e spirituale di un cardinale
di Angelo Comastri con Saverio Gaeta, Ed. San Paolo

Dio scrive dritto. L'avventura umana e spirituale di un cardinale dans Cardinale Angelo Comastri o6n3ph

Il sacerdozio, la malattia, gli incontri con Giovanni Paolo II e Madre Teresa di Calcutta… L’autobiografia del cardinale Angelo Comastri.
Con toccante sincerità Angelo Comastri racconta la sua storia di sacerdote guidato dalla misericordia di Dio per strade che nessuno avrebbe mai potuto prevedere. Originario della Toscana, di umili origini, il piccolo Angelo sente la chiamata al sacerdozio. Gli è accanto la mamma, che lo segue con commovente semplicità. Dagli anni dello studio in seminario all’ordinazione, dalle prime esperienze pastorali all’inattesa nomina a vescovo di Massa Marittima-Piombino, è sempre la Misericordia di Dio a guidarlo nel suo ministero e a portarlo, dopo una grave malattia, dapprima a Loreto e poi a Roma come cardinale e arciprete della basilica di San Pietro.

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