Ha senso la morale senza Dio? Rispondono Dostoevskij e Francis Collins
Posté par atempodiblog le 3 mai 2012
Ha senso la morale senza Dio? Rispondono Dostoevskij e Francis Collins
di Francesco Agnoli
Fonte: “Perché non possiamo essere atei” (Piemme 2009)
Tratto da: Uninone Cristiani Cattolici Razionali (uccr)
Pensiamoci bene. Che senso ha la vita morale degli individui, se non esiste un criterio superiore di giustizia? Chi è autore della legge? Esiste una legge vera, giusta, che valga per tutti perché superiore, precedente all’uomo, oppure ogni uomo ha il diritto di credere ciò che vuole, di farsi la sua verità morale, la sua etica? L’uomo è un animale in-cosciente, le cui azioni sono sempre “buone”, come quelle degli animali, perché volute dalla natura, regolate dall’istinto, oppure è un essere cosciente (quale differenza!) capace di scegliere, padrone della sua vita, che può essere libero dall’imperiosità brutale dell’istinto e dei sensi? A ben vedere proprio l’esistenza di una vita morale ha convinto grandi uomini della storia che la natura dell’uomo è non solo animale ma anche spirituale, e li ha portati a porsi la domanda su Dio. Ne citerò solo due: il grande romanziere Fedor Dostoevskij e uno scienziato moderno, uno dei più importanti genetisti di questo secolo, Francis Collins.
Dostoevskij è il massimo rappresentante del realismo russo, nell’epoca in cui altri letterati, come l’ “ateo-diversamente credente” Emile Zola, ritengono che l’uomo possa col tempo diventare “onnipotente” grazie alle sue conoscenze scientifiche, e possa essere studiato esattamente come un “ciottolo della strada”, non essendo, in fondo, nulla di più. Dostoevskij “esplora le strade della città, i vicoli più solitari e ignorati, descrivendo le bettole più sordide, gli antri più sinistri, le stamberghe più malsane… il ventre infetto e brulicante di Pietroburgo, sede del vizio e della degradazione umana”, alcolizzati e prostitute, contadini trasformati in operai, costretti ad una vita infame, e poi in rivoluzionari violenti e nichilisti: ma c’è, nell’autore russo, una distanza enorme dal positivismo e dal determinismo di Emile Zola (che dà importanza assoluta all’ambiente, alle condizioni materiali e sociali); c’è una indagine continua sulla spiritualità del singolo uomo, dotato di libero arbitrio, chiamato a scegliere (e qui c’è il dramma esistenziale) tra il bene e il male,la Fede e l’ateismo…
Dio, il male, la colpa (cioè la morale) sono proprio la tematica fondamentale del nostro autore, ignorata dai naturalisti francesi, che fa di lui un romanziere profondamente dotato di senso religioso e, insieme, un “romanziere psicologico”, precursore degli esistenzialisti. Siamo dunque agli antipodi della cultura positivista dell’epoca, come pure di quella odierna: mentre Dostoevskij racconta e approfondisce gli abissi umani, medici positivisti come Emilio Littre affermano che “il delitto è pazzia”; criminologi come Cesare Lombroso analizzano e catalogano i “crani deficienti”, ritenendo così di poter chiudere la personalità, la libertà, l’originalità di ogni singolo uomo nelle sue caratteristiche fisionomiche; credendo – anche qui la parola non è a caso – che l’uomo sia definito ed esaurito da ciò che si vede e si tocca, dall’ampiezza del cranio, dalla lunghezza degli arti, dalle malformazioni, dalla volumetria e dai bernoccoli della testa. Esattamente come faranno i primi teorici del razzismo; o Charles Darwin, quando riterrà che il cranio della donna, di dimensioni più ridotte rispetto a quello del maschio, sia un segno della sua inferiorità ; o i nazionalsocialisti, quando gireranno il mondo, sino in Tibet, per fare calchi di gesso sul volto degli indigeni, per risalire, tramite misurazioni e fisionomia, all’originaria razza superiore. Un po’ come oggi, allorché sempre più spesso si cerca di far passare una tendenza sessuale, una devianza, o una virtù, come una pura questione genetica.
Per comprendere la visione del mondo di Dostoevskij occorre ripercorrerne, brevemente, la vita: Fedor frequenta ambienti sovversivi, atei, propugnatori di una rivoluzione in Russia, per abbattere lo zar e creare una nuova società. Nel 1849, però, molti di loro, tra cui il nostro, vengono arrestati dalla polizia zarista. Dostoevskij viene condannato a morte, poi lo zar commuta la pena in quattro anni di deportazione in Siberia. L’unica lettura, in questo lunghissimo periodo, sarà quella di un Vangelo, regalatogli da una donna mentre viene portato a scontare la pena. In seguito a questa esperienza il nostro muterà fortemente prospettiva, divenendo critico verso le proprie idee del passato e mostrando un profondo rispetto per la chiesa ortodossa e l’autorità costituita e un certo disprezzo per gli intellettuali russi che leggono gli illuministi europei disprezzando profondamente la propria terra e la propria patria. Intanto il suo matrimonio fallisce, viaggia per l’Europa, ricadendo di continuo nella passione per il gioco e per le donne, scrivendo articoli di giornale e romanzi a ritmo continuo, anche per far fronte alle spese ed ai creditori (spesso scrive i romanzi di notte, imbottito di caffè e di tabacco per rimanere sveglio). La sua vita disordinata si conclude nel 1881.
Tra i grandi romanzi spiccano “Delitto e castigo” (1866), “I demoni” (1871) e “I fratelli Karamazov” (1880). Nel primo di questi compare la tematica, che poi affascinerà Nietzsche, della ricerca della libertà come affermazione dell’io al di là di ogni morale, di ogni coscienza, “al di là del bene e del male”. Il protagonista, un ex studente squattrinato, Raskòl’nikov, uccidendo a colpi di accetta una vecchia usuraia, vuole, oltre che ottenere dei soldi, chiarire a sé stesso se è un “Napoleone” o un “pidocchio”, se appartiene alla categoria della massa, degli “uomini comuni”, per i quali la legge morale è sacra, o agli “uomini non comuni”, destinati a grandi imprese, per i quali non valgono le leggi ordinarie. Per questo può dire: “Non ho ucciso una persona, io; ho ucciso un principio!”. Questo principio è l’affermazione di una superiorità delle leggi morali, di una superiorità di Dio che quelle leggi oggettive impone: ai personaggi di Dostoevskij che vogliono affermare la loro illimitata libertà è chiaro il concetto che per fare ciò debbono sbarazzarsi di Dio, affermare la propria divinità, per divenire “uomo-dio” (se si scarta Dio è l’uomo ad essere assolutizzato). Ma Raskòl’nikov fallisce: compiuto il delitto non riesce neppure a rubare, i nervi gli cedono, è preso dal delirio e dal panico, non ha neppure la lucidità di occultare subito eventuali indizi. Diviene conscio di non essere un secondo Napoleone, e in lui rimane il vuoto, un forte senso di indegnità. Se infatti tutta la nostra possibilità di affermarci passa per questo mondo, chi non ottiene prestigio, potere, onore, come Napoleone, per che cosa è vissuto? Che scopo ha raggiunto? Ma Raskòl’nikov viene cambiato dall’incontro con Sonja, una ragazza buona, dolce, intensamente cristiana, che si prostituisce per salvare i genitori dalla mendicità. Col tempo le cose cambieranno: “una futura redenzione”, “una nuova concezione della vita” si affacceranno nell’animo di Raskòl’nikov. Ma Dostoevskij accenna soltanto alla sua rinascita, al suo cambiamento: è un’altra storia, che non racconta. Gli interessa solo un fatto: la coscienza esiste, si fa sentire, batte i suoi colpi; il Bene e la Verità non sono relativi al capriccio dell’uomo, ma oggettivi. Ciò che è giusto, è giusto, perché Dio esiste: ciò che è sbagliato, malvagio, cattivo, nessun uomo potrà renderlo giusto e buono, perché non è Dio ! Per concludere, in “Delitto e castigo” è presente la dialettica cristiana peccato-sofferenza che redime – misericordia. Il peccato rende impossibile la vita a Raskòl’nikov, lo isola, lo estranea dal resto dell’umanità; la sofferenza, la croce portata con rassegnazione e consapevolezza, è il mezzo per la sua redenzione, come gli dice Sonia nella frase sopra citata; la misericordia è l’amore gratuito di Sonia verso di lui che lo stupisce e lo spinge a cambiare.
Nel romanzo “I demoni”, invece, Dostoevskij parte dall’”affare Necaev”, un intellettuale anarchico che piacerà molto a Lenin, autore del “Catechismo del rivoluzionario”, processato ai suoi tempi per aver fatto uccidere un membro del suo gruppo e che alla fine si suicida. Dostoevskij sceglie dunque una vicenda reale per esprimere le sue nuove idee politiche. Nel romanzo, che descrive appunto i terroristi, definiti anche “nichilisti” o “demoni”, Necaev diviene Verchovenskij e l’anarchico Bakunin diviene Stavrogin. Entrambi, essendo atei, vivono nella dimensione del “tutto è permesso”: Verchovenskij ha un progetto politico, di “distruzione universale”, che non si arresta di fronte a nulla: come Marat all’epoca della rivoluzione francese, invita a “tagliare teste”, a “lapidare” pur di costruire una società secondo il proprio disegno. Alla fine Stavrogin, impazzito, si impicca; così anche un altro protagonista, Kirillov: il suo è un suicidio metafisico, una dimostrazione di disprezzo verso la nozione di Dio. Anche in questo romanzo l’autore ci dà un messaggio esistenziale chiaro: escluso Dio, l’uomo non può che mettersi al suo posto. Chiamato a decidere, a scegliere, non ha altro metro, altro riferimento, che se stesso, la propria idea, la propria soggettività, il proprio egoismo. L’io che non riconosce una origine, una dipendenza, un limite, si fa inevitabilmente Dio, mentre si proclama ateo.
Ma il più grande romanzo di Dostoevskij è forse “I fratelli Karamazov”: quest’opera ha, come altre del nostro, il fascino di un grande racconto poliziesco, ricco di suspanse, nato dalla riflessione su un vero parricidio, di cui Dostoevskij, in Siberia, aveva conosciuto l’autore. “La principale questione che sarà agitata in tutte le parti del libro – scrive Dostoevskij – è la stessa della quale ho sofferto coscientemente o incoscientemente per tutta la vita: l’esistenza di Dio”. Giganteggiano due figure, quella di Alioscia Karamazov, con la sua visione cristiana del mondo (il modello di ciò che l’autore russo vorrebbe essere?) e quella, opposta, di suo fratello Ivan, con la sua tormentata ricerca della libertà attraverso la rivoluzione nichilista, con il suo essere malato di occidentalismo, cioè, per Dostoevskij, di ateismo; con la sua incapacità di accettare certe realtà della religione, come la sofferenza, l’umiliazione e la croce. Ivan, con i suoi discorsi e le sue filosofie, è il vero ispiratore dell’uccisione del padre, sebbene non ne sia l’esecutore materiale. Anche qui un’uccisione “filosofica”, perché con i suoi discorsi ha convinto il futuro assassino, il fratellastro Smerdiakov, che tutto è legittimo, perché Dio non esiste. Lo ribadisce il diavolo ad Ivan: “La coscienza! Che cosa è la coscienza? Sono io stesso che me la invento. Perché mai mi tortura? Per un’abitudine. Per un’universale abitudine del genere umano, vecchia di settemila anni. Liberiamocene, e saremo degli dei!”. Si ripete, così, lo stesso concetto di Raskòl’nikov e di Kirìllov: “Se non esiste Dio, tutto è permesso”. Alla fine Ivan, sentendosi colpevole per la morte del padre e per l’ingiusta condanna dell’altro fratello, il violento e passionale Dimitrij, impazzisce; Smerdiakòv, l’omicida materiale, si uccide, e Dimitrij, che tanto aveva odiato il padre sino a volerlo eliminare in cuor suo, verrà condannato, pur essendo innocente. Delitto, coscienza, libertà, accettazione del castigo, riconoscimento che esiste una legge morale oggettiva, divina: questa, in sintesi, l’antropologia di Dostoevskij.
Pochi anni più tardi la Russiasarebbe stata sconvolta dalla rivoluzione comunista e dall’ondata di morte e di persecuzione di Lenin e Stalin. Il primo, inventore dei gulag, avrebbe affermato: “Per noi non esiste e non può esistere il vecchio sistema di moralità e di umanità…La nostra moralità è nuova…A noi tutto è permesso…Sangue? E sangue sia…” (R.W. Clark, “Lenin”, Bompiani). Stalin, invece, prefigurato profeticamente, insieme ai suoi seguaci, nei “demoni” senza Dio di Dostoevskij, avrebbe detto: “Ivan il Terribile era estremamente crudele. Ma bisogna far vedere perché doveva essere crudele. Uno degli errori di Ivan il Terribile sta nel fatto che non ha sterminato fino alla fine cinque grandi famiglie feudali…lui ammazzava qualcuno e poi pregava e si pentiva a lungo. Dio era per lui un impaccio in questa opera. Bisognava essere ancor più risoluti” (Gianni Rocca, “Stalin”, Mondadori, Milano, 1988, p.352). Dio, cioè una legge morale superiore e precedente all’uomo, non fu dunque, per l’“uomo d’acciaio”, per l’autore dello sterminio dei kulaki, per il carceriere dei gulag, per l’inventore della “grandi purghe”, un “impaccio” e un freno! Fu, Stalin, un uomo emancipato da Dio, un Raskòl’nikov, un Ivan, un Necaev coerente sino alla fine e senza pentimenti. Non temettela Giustizia di Dio, né ritenne di dover invocare la sua Misericordia, perché aveva deciso di non riconoscere alcuno al di sopra di sé.
Francis Collins non è un romanziere, come Dostoevskij, ma un famoso scienziato americano, nativo della Virginia, che si specializza nella seconda metà del Novecento in chimica e fisica a Yale, “alla ricerca di quella eleganza matematica”, scrive, che lo “aveva attirato in questo ramo della scienza”. La sua posizione rispetto a Dio è quella di un agnostico, che non si chiede più di tanto e che scivola via via nell’ateismo pratico e poi teorico. Dalla chimica alla biochimica, alla medicina, alla genetica: “ero sbalordito dall’eleganza del codice genetico umano e dalle molteplici conseguenze di quei rari momenti in cui il suo meccanismo di trascrizione si inceppava”. Col tempo, soprattutto a causa di certi incontri, con situazioni e persone, Collins si rende conto di “aver optato per una cecità volontaria e di essere caduto vittima di qualcosa che si poteva descrivere solo come arroganza, avendo evitato di prendere seriamente in considerazione il fatto che Dio potesse rappresentare una possibilità reale”. Colui che prenderà il posto del genetista ateo James Watson alla direzione del più importante progetto di studio sul genoma umano, il Progetto Genoma, si rende cioè conto che la sua grande curiosità per la natura, la genetica, l’immensamente piccolo, convive con una chiusura alla totalità della realtà, alla domanda sul senso ultimo, totale, di ciò che esiste.
In una tortuosa ricerca Collins finisce per leggere “Scusi, qual è il suo Dio?”, di Clive S. Lewis, un ex ateo che si era riproposto di confutare tramite la logica l’esistenza di Dio, ma che era approdato al risultato opposto. Lewis offre a Collins la possibilità di interrogarsi sulla legge morale, sul bene e sul male, sulla loro origine: il senso del bene e del male è solo l’effetto di determinate tradizioni culturali? E’ solamente “una conseguenza di pressioni evolutive”, come sostengono i sociobiologi? L’impulso altruistico nasce da un interesse personale, del tipo “io ti do qualcosa affinché tu mi dia”, e null’altro? Collins riflette sulla natura umana, sul rimorso che ci attanaglia, quando riteniamo di aver sbagliato, pur magari avendone ricevuto un vantaggio; sulla coscienza che ci interroga e ci suggerisce, sulla capacità di certe persone, come madre Teresa o altre figure storiche, di dare totalmente se stesse, gratuitamente, al di fuori di qualsiasi orizzonte materialistico. Socrate, Gesù, Madre Teresa, coloro che muoiono per un bene più grande, ma intangibile, per il prossimo, per un ideale spirituale, sono forse solo dei pazzi, degli errori genetici, o non piuttosto uno schiaffo in faccia alle teorie materialistiche e deterministiche sull’uomo? L’altruismo disinteressato, scrive Collins, “costituisce una sfida rilevante per l’evoluzionista e rappresenta un vero scandalo per il pensiero riduzionista”, e “l’agape di Oskar Schindler e madre Teresa smentisce questo tipo di pensiero. Incredibile ma vero, la legge morale mi chiederà di salvare l’uomo che sta affogando anche se è mio nemico” (F. Collins, “Il linguaggio di Dio”, Sperling & Kupfer, Milano 2007, pp. 20-22). Questo, checché ne dicano coloro che ritengono l’uomo determinato in tutto dalla genetica: aggressivo o mite, fedele o infedele, giusto o malvagio, a seconda di determinati geni, di determinati meccanismi interni, indipendenti dalla volontà, dalla libertà, pur relativa, dell’uomo. Collins, che di geni si intende, capisce che l’uomo è assolutamente qualcosa di diverso, di non determinato, di non riducibile ad una sua parte, quella fisica: può progettarsi, costruirsi, lottare contro certe tendenze malvagie, o assecondarle; può scegliere una strada, pentirsi, riscattarsi o proseguire nell’abisso dell’egoismo e della cattiveria. Ogni azione, ogni scelta è una possibilità libera, in cui l’uomo si realizza, esprime se stesso, indipendentemente da comandamenti genetici, o da impulsi interni incontrollabili. Condizionato, certo, dalle circostanze e dalla sua natura corporale, ma non totalmente determinato, come i sassi, o le stelle, né regolato dagli istinti, solamente, come gli animali.
Dopo le considerazioni sulla legge morale, Collins prosegue analizzando le sue conoscenze scientifiche e paragonandole alla fede cui è approdato. Il Big Bang? “L’idea di un inizio finito dell’universo non è del tutto consonante con la concezione buddista”, come non lo è con le visioni panteiste, ma si accorda perfettamente con l’idea di un Dio Creatore trascendente ed è quindi perfettamente compatibile con la teologia medievale cristiana e col pensiero biblico. Anzi, si può tranquillamente dire che è un’idea filosoficamente già intuita da pensatori cristiani assai prima della nascita della scienza moderna. La genetica? Per lui è “il manuale di istruzioni di Dio”, “il linguaggio di Dio”, che però “non spiegherà mai certi speciali attributi umani, come la conoscenza della legge morale e l’universalità delle ricerca di Dio”.
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