La Madonna a Fatima predisse un grande segno nel cielo prima della II° guerra mondiale

Posté par atempodiblog le 31 mars 2012

Le albe di Fatima
Il sole si mise a ballare e poi, come era stato predetto, il cielo annunciò una nuova guerra. Era l’aurora boreale del 1938

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Le apparizioni della Madonna a Fatima sono una pagina della storia della Chiesa piuttosto speciale. Per decenni ci si è interrogati sul famoso Terzo segreto di Lucia, e forse non ne siamo ancora venuti a capo. A molti infatti, sembra che certe cose non tornino, e che nel segreto della Madonna, oltre ai riferimenti agli attacchi esterni alla Chiesa, resi noti, ci sarebbe stato un cenno alla apostasia della Chiesa stessa, ad una perdita di fede non solo del mondo, ma anche del clero, dei pastori.
Ma non è di questo che voglio parlare, rimandando, per chi fosse interessato, agli ottimi lavori di Antonio Socci e Marco Tosatti.
Quello che vorrei approfondire, perché mi sembra non sia stato fatto a sufficienza, è la (poco) famosa aurora boreale del 25-26 gennaio 1938.
Nelle apparizioni portoghesi la Madonna venne a mostrare ai pastorelli l’Inferno, cioè il castigo eterno, ma non solo. Dichiarò anche che sotto il pontificato di Pio XI, se gli uomini non si fossero convertiti, sarebbe scoppiata un’altra guerra mondiale, più spaventosa della prima, annunciata da una “notte illuminata da una luce sconosciuta”. Decisamente la Madonna di Fatima non fu, diciamo così, rassicurante. Fatto sta, però, che se l’apparizione è vera, il messaggio è chiaro: conversione, penitenza, preghiera, altrimenti castigo. Nel senso che altrimenti Dio avrebbe lasciato l’uomo in balia di se stesso e della sua cattiveria: non c’è peggior castigo, infatti, di quello che noi uomini spesso siamo così bravi ad infliggerci, da soli. Come la virtù ha già in sé, in parte, il suo premio, così il peccato in sè porta una pena: è male non solo di fronte a Dio, ma anche per l’uomo.
La rivelazione della “notte illuminata da una luce sconosciuta” , con la connessa affermazione secondo cui la Russia avrebbe sparso i suoi errori nel mondo, fu messa per iscritto da Lucia, per il vescovo di Leira-Fatima, soltanto il 31 agosto 1941. Qualcuno ha quindi potuto dichiarare che si tratterebbe soltanto di una profezia post eventum, un po’ troppo facile.
Forse è meglio analizzare bene i fatti.
Ragionando prima proprio sulle date: è vero, Lucia parla ufficialmente dell’ aurora boreale del 1938 dopo che essa è già avvenuta. Però vi sono alcuni fatti da prendere in considerazione. Il primo: un segno celeste era già stato annunciato da Lucia nel 1917, e si era veramente verificato, come vedremo, proprio in quell’anno.
Il secondo: nel 1941 sarebbe stato veramente più opportuno e intelligente, umanamente parlando, annunciare il pericolo nazionalsocialista, o comunque entrambi, quello comunista sovietico e quello nazista. Infatti la Germania sembrava trionfante: possedeva tutta l’Europa, esclusa la Gran Bretagna; gli Usa non erano ancora entrati in guerra e l’Urss appariva destinato alla sconfitta, sotto il tallone tedesco, da un momento all’altro. Invece Lucia, contro ogni logico ragionamento umano, fu molto chiara (come lo era stata già in precedenza): sarà la Russia, non la Germania, “a spargere i suoi errori nel mondo”, “promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa”.
In effetti andò proprio così: pochi anni dopo il “Reich millenario” crollò miseramente, per fortuna, e per sempre; al contrario la Russia non solo vinse la guerra, ma si vide “regalare” dagli alleati mezza Europa. Il comunismo conobbe così una diffusione immensa, inimmaginabile, tanto più se ricordiamo che nel 1949 anche la Cina sarebbe divenuta comunista. Dovunque i comunisti arrivarono, dalla Polonia all’Albania, la Chiesa fu attaccata, perseguitata, distrutta.
C’è qualcosa, dunque, nella profezia di Lucia, che lascia interdetti. Anche perché la “fissazione” del comunismo Lucia e i veggenti la dimostrarono anche molto prima del 1941: del resto la Madonna era apparsa loro, non a caso, nel 1917, solo pochi mesi prima della rivoluzione bolscevica. Abbiamo molte testimonianze di questo. Dalle parole di Giacinta, che già nel 1920 annunciava un castigo, “prima per la Spagna”; al voto anticomunista dell’episcopato portoghese, nel 1936, al fine di essere preservati dal comunismo che sembrava potesse trionfare nella vicina Spagna e sfondare poi in Portogallo; alla lettera del vescovo di Leira, nel 1937, al pontefice, affinché provvedesse, come diceva Lucia, alla Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria; sino, per fare un ultimo esempio, ad una lettera al papa Pio XII della stessa Lucia, datata 24 ottobre 1940 (cioè prima dell’entrata nella seconda guerra mondiale della Russia), in cui si ri-domandava la Consacrazione della Russia stessa, considerata, anche in quella data per certi versi insignificante, il pericolo imminente!
Infine un’ultima considerazione: il Portogallo, nelle varie lettere di Lucia, appariva come “privilegiato” dalla Madonna (Lucia parlava e scriveva di una “protezione speciale”). In effetti il paese non fu coinvolto nella guerra di Spagna, come sarebbe stato molto facile, e rimase fuori anche dalla II guerra mondiale, dichiarandosi neutrale (e rimanendolo, cosa non facile, sino alla fine).
Ma torniamo, indietro, ai fatti del 1917. I veggenti erano in grossa difficoltà in un Portogallo allora in mano ad un governo ferocemente anticlericale e trovavano molti oppositori anche tra amici e parenti, oltre che nelle autorità locali. Eppure la piccola Lucia, che finì persino in prigione, perché osteggiata dal sindaco massone del paese, sfidò il mondo: la Madonna, disse, darà un segno, e convocò tutti per il 13 ottobre 1917 alla Cova da Iria, pur capendo bene che se il segno non ci fosse stato, sarebbe stato un bel guaio. Anche perché erano allora vietate dal governo portoghese le adunanze religiose fuori dalle chiese.
Il 13 ottobre migliaia e migliaia di persone si radunarono nella Cova. Le fonti dell’epoca parlano di almeno 40-50 mila persone, ma forse molte di più. Ebbene, cosa accadde? Ce lo raccontano innumerevoli testimoni, ma soprattutto, tra i tanti, un giornalista presente ai fatti, tale Avelino de Almedia, redattore capo di “O Sèculo”, quotidiano socialista di Lisbona, di orientamento positivista ed anticlericale, che in precedenza aveva ridicolizzato gli eventi di Fatima. Costui, sul numero del 15 ottobre, scrisse tra l’ altro: “Cose fenomenali. Come il sole ballò a mezzogiorno a Fatima [...] Il sole sorge, ma l’aspetto del cielo minaccia temporale. Nuvole nere si ammassano sulla folla di Fatima. [...] Alle dieci il cielo si oscura totalmente e non tarda a cadere una forte pioggia. [...] I fanciulli affermano che la Signora aveva parlato loro ancora una volta, e il cielo, prima caliginoso, comincia subito a schiarirsi in alto; la pioggia cessa e si presenta il sole che inonda di luce il paesaggio. [...] L’ora mattutina è la regola per questa moltitudine, che calcoli imparziali di persone colte e di tutto rispetto, punto rapite come per influenza mistica, contano in trenta o quaranta mila creature… La manifestazione miracolosa, il segno visibile annunciato sta per essere prodotto – assicurano molti pellegrini…
E si assiste a uno spettacolo unico e incredibile per chi non fu testimone di esso. Dalla cima della strada, dove si ammassano i carri e sostano molte centinaia di persone, alle quali manca la voglia di mettersi nella terra fangosa, si vede tutta l’immensa moltitudine voltarsi verso il sole, che si mostra libero dalle nuvole, nello zenit. L’astro sembra un disco di argento scuro ed è possibile fissarlo senza il minimo sforzo. Non brucia, non acceca. Si direbbe realizzarsi un’eclissi. Ma ecco che un grido colossale si alza, e dagli spettatori che si trovano più vicini si ode gridare: « Miracolo, Miracolo! Meraviglia, meraviglia! » Agli occhi sbalorditi di quella folla, il cui atteggiamento ci riporta ai tempi biblici e che, pallida di sorpresa, con la testa scoperta, fissa l’azzurro (cielo), il sole tremò ed ebbe mai visti movimenti bruschi fuori da tutte le leggi cosmiche, il sole « ballò », secondo la tipica espressione dei contadini”.
Negli anni, tanti hanno ragionato su questi fatti, che di per se stessi sono innegabili perché ampiamente dimostrati, sia dalle testimonianze più insospettabili, sia dai quotidiani vari dell’epoca, sia dalle foto, in cui si vede chiaramente una moltitudine esterrefatta, sbalordita, attonita, dinnanzi agli strani movimenti del sole.
Molti credettero e credono, altri parlarono di coincidenza, di fenomeno naturale, scientificamente spiegabile in qualche modo. Difficile, però, spiegare davvero come potesse Lucia, una semplice fanciulla di campagna, prevedere in anticipo che sarebbe successo qualcosa di simile. A meno di non ipotizzare che nascondesse in camera potentissimi cannocchiali e che fosse una astronoma di eccezionali qualità!
Un qualche collegamento tra il sole e la Madonna di Fatima, insomma, è lecito supporlo.
Anche alla luce dei fatti successivi. Siamo finalmente all’aurora boreale del 1938.
Andiamo ora a vedere bene cosa accadde la notte tra il 25 e il 26 gennaio di quell’anno. Ci fu, come si accennava, una grande aurora boreale, vista la quale Lucia, ben prima di scriverlo nel resoconto ufficiale del 1941, si affannò a dire, a destra e a sinistra, che quello era il segno terribile predetto dalla Madonna.
L’aurora venne descritta dal quotidiano laico italiano, La Stampa, del 26 gennaio 1938, sotto il titolo: “Un singolare fenomeno celeste. Un’aurora boreale sull’Italia”. Vi si poteva leggere di una “aurora boreale di eccezionale luminosità apparsa ieri su gran parte dell’ Europa meridionale e centrale: Alta Italia, Mezzogiorno della Francia, Germania, Svizzera e Austria, suscitando ovunque per la sua luminosità sorpresa e ammirazione”. Il quotidiano notava che l’intensità del fenomeno e soprattutto la sua diffusione su gran parte dell’Europa, era eccezionale, ripetendo che si era trattato di un “insolito fenomeno celeste… che rarissimamente viene osservato alle nostre latitudini”. Inoltre, dando conto dei vari luoghi in cui l’aurora era stata osservata, si notava con insistenza il fatto che il cielo si era colorato “di un rosso di fuoco a levante, come se si trattasse di un grande incendio”; qualche riga dopo si insisteva sul colore del cielo, impressionante, definito, questa volta, “rosso-sangue”.
Il giorno successivo, il 27 gennaio, La Stampa riportava questo titolo: “Un’altra aurora boreale tra l’una e le due di notte”. L’astronomo intervistato dal quotidiano metteva in luce il fatto che solitamente le aurore boreali si manifestano al nord, e che molto raramente assumono estensione e luminosità come quella appena osservata. “Stampa sera” del 28-29 gennaio titolava: “Il nostro Sole è in tumulto”. Si notava che “il sole attraversa un periodo di grande, grandissima attività”, piuttosto rara e straordinaria.
Un altro giornale, “Il Brennero” del 29 gennaio 1938, notava l’estensione dell’aurora, che si era vista chiaramente anche in Portogallo, oltre che nel resto d’Europa, e commentava così: “Fenomeno rarissimo. L’aurora boreale non si manifesta che raramente nelle nostre regioni ed in Europa centrale…L’aurora che ha incendiato l’altro giorno il cielo dell’Europa sembra essere stata di una estensione e di una intensità senza pari…”.
Un’altra fonte interessante per capire l’entità del fenomeno è la relazione di Eugenio Guerrieri, “La grande aurora boreale del 25-26 gennaio 1938”, pubblicata dall’Osservatorio Astronomico di Capodimonte-Napoli (Contributi astronomici, serie II, n.22, 1938, estratto da: Rivista di Fisica, matematica e scienze naturali anno 13, serie II, Ottobre-novembre 1938-XVII -N.1-).
Scrive tra l’altro il Guerrieri: “L’Aurora boreale osservata nella notte dal 25 al 26 gennaio 1938 è stata veramente splendida e deve considerarsi come fenomeno straordinario per la sua magnificenza, anormale per la sua visibilità, oltre che nelle regioni nordiche dell’Europa e dell’America, anche in quelle di bassa latitudine nel nostro emisfero. Dovunque fu oggetto di ammirazione in tutta l’Europa, in Germania ed in Inghilterra specialmente; grande sviluppo in longitudine dal Portogallo alla Russia ed in latitudine dalla penisola Scandinava alla Sicilia e finanche in molti paesi del Nord Africa”. Guerrieri nota che il cielo si è colorato in maniera incredibile, di “rosso sangue”, come se vi fosse un “incendio gigantesco”, e continua: “Nell’Atlantide e negli Stati Uniti d’America l’a.b. è stata grandiosa”, mentre ha destato “ammirazione e sorpresa, nella Spagna e nel Portogallo, dove il fenomeno non si vedeva da mezzo secolo. Questo è stato egualmente osservato a Biserta, Fez, Hammamet, Toza, ed in molti paesi della Tunisia e del Marocco dove l’a.b. rarissimamente si osserva e l’ultima è stata quella del 1891: in questi paesi gli europei hanno creduto ad un vastissimo incendio lontano, mentre gli indigeni, molto spaventati, hanno supposto segnali ed avvertimenti celesti”.

Alla notizia della aurora boreale, come si è detto, Lucia ritenne che si trattasse del segno della Madonna e continuò a ripeterlo anche dopo che gli accordi di Monaco sembrarono per un attimo scongiurare il conflitto. Nel 1938, però, la annessione nazionalsocialista dell’Austria può essere veramente considerata l’antefatto della II guerra mondiale. Anche perché proprio la sera del 25 gennaio Hitler aveva ricevuto il barone Werner Fritsch, generale e comandante in capo della Reichwehr, “che continuava ad avanzare obiezioni sui piani di guerra hitleriani”, per farlo definitivamente fuori. Come è risaputo, infatti, ufficiali e generali tedeschi, per lo più, non volevano la guerra e costituivano l’unico potere rimasto in grado di impensierire il dittatore. Proprio la defenestrazione di Fritsch fu dunque un evento preliminare alla guerra non indifferente (Antonio Spinosa, “Hitler”, Mondadori, Milano, 1991, p. 240-241), così come le purghe di Stalin, all’epoca del 1938 ormai quasi concluse, furono importanti per eliminare quei generali che si sarebbero messi di traverso rispetto all’alleanza con Hitler del 1939.
A questo punto un ultimo dettaglio. Gli storici concordano nel dire che nel 1938 la guerra era in un certo senso ormai nell’aria. Ma il fatto che segnò definitivamente lo scoppio del conflitto fu il patto von Ribbentrop-Molotov, cioè la spartizione della Polonia e di altre zone di influenza tra Hitler e Stalin. La II guerra mondiale, insomma, nacque definitivamente con l’accordo tra nazisti tedeschi e comunisti russi, tra Hitler e Stalin. Ebbene, questo patto fu firmato la sera del 23 agosto 1939 (von Ribbentrop, da una parte, Stalin e Molotov, dall’altra).
Manco farlo apposta, proprio quella stessa sera, in alcune zone, fu segnalata una nuova aurora boreale, non così straordinaria come quella del 1938, ma certo imponente.
Ce la descrisse nientemeno che il gerarca nazista Albert Speer nelle sue “Memorie del Terzo Reich”: “Quella notte- racconta Speer- ci intrattenemmo con Hitler sulla terrazza del Berghof ad ammirare un raro fenomeno celeste: per un’ora circa, un’intensa aurora boreale illuminò di luce rossa il leggendario Untersberg che ci stava di fronte, mentre la volta del cielo era una tavolozza di tutti i colori dell’arcobaleno. L’ultimo atto del ‘Crepuscolo degli dei’ non avrebbe potuto essere messo in scena in modo più efficace. Anche i nostri volti e le nostre mani erano tinti di un rosso innaturale. Lo spettacolo produsse nelle nostre menti una profonda inquietudine. Di colpo, rivolto a uno dei suoi consiglieri militari, Hitler disse: ‘Fa pensare a molto sangue. Questa volta non potremmo fare a meno di usare la forza’”. Già da “due o tre settimane- continua Speer- l’attenzione di Hitler si era chiaramente spostata sulle questioni militari” e il “partito favorevole alla guerra” prendeva sempre più piede. In margine a queste osservazione di Speer, il curatore delle sue memorie annota: “Il 23 agosto 1939, il Volkischer Beobachter (giornale nazista, ndr) annunciò quanto segue: “Martedì mattina (22 agosto) alle ore 2.45 l’osservatorio astronomico del Sonneberg ha notato una gran luce nel cielo settentrionale” (Albert Speer, Memorie del terzo Reich, Mondadori, Milano, 1997, p. 197).
Un altro gerarca nazista, presente alla scena, Nicolaus von Below, ricorderà a sua volta: “All’inizio abbiamo pensato che si trattasse di un grande incendio in una delle città a nord dell’Untersberg, ma poi quella luce rossa ha illuminato tutto il cielo a nord e allora è stato chiaro che si trattava di una manifestazione insolitamente intensa di luci nordiche, un fenomeno naturale che si verifica raramente nella Germania meridionale”. “Intimorito da quella scena, commenta T. Ryback, von Below disse a Hitler che forse quello era il presagio di un’imminente guerra sanguinosa. “Se così dev’essere, allora che sia più veloce possibile” replicò Hitler” (cit. in Timothy W. Ryback, “La biblioteca di Hitler”, Mondadori, Milano, 2008, p. 148-149).
Concludo con un fatto: molti dicono chela Madonna, a Medjugorje, completi, diciamo così, le apparizioni di Fatima. Anche lì, dove il sole avrebbe “ballato”, secondo molte testimonianze, in più di un’occasione,la Vergine avrebbe annunciato dieci segreti, per svelare qualcosa di importante al mondo. Uno di questi, a quanto sembra, prevede una grande segno nel cielo…

Francesco Agnoli - Il Foglio
Tratto da: Libertà e Persona

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Gli altri

Posté par atempodiblog le 28 mars 2012

Gli altri dans Apoftegmi dei Padri del deserto Gli-altri

Padre e figlio erano seduti accanto in chiesa. Ad un tratto, il bambino toccò il padre e ridacchiò: Papà, guarda quell’uomo! Sta dormendo!.
Il padre guardò il figlio con molta serietà e rispose: Sarebbe meglio se dormissi anche tu. Piuttosto che sparlare degli altri”.

Alcuni anziani si recarono in visita da Abba Poemen e chiesero: Secondo te, quando in chiesa sorprendianio i nostri fratelli a sonnecchiare, è opportuno pizzicarli per farli svegliare?.
L’anziano rispose: Se vedessi un fratello sonnecchiare, gli appoggerei la testa sulle mie ginocchia e lo lascerei riposare.

Dobbiamo tutti riscoprire che cosa significa indulgenza.

di Don Bruno Ferrero

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La grazia di rispettare i fratelli

Posté par atempodiblog le 28 mars 2012

La grazia di rispettare i fratelli dans Citazioni, frasi e pensieri 2r7359k

Signore Gesù, metti un lucchetto alla porta del nostro cuore, per non pensare male di nessuno, per non giudicare prima del tempo, per non sentir male, per non supporre, né interpretare male, per non profanare il santuario sacro delle intenzioni.

Signore Gesù, legame unificante della nostra comunità, metti un sigillo alla nostra bocca per chiudere il passo ad ogni mormorazione o commento sfavorevole.


Concedici di custodire fino alla sepoltura, le confidenze che riceviamo o le irregolarità che vediamo, sapendo che il primo e concreto modo di amare è custodire il silenzio.


Semina nelle nostre viscere fibre di delicatezza. Dacci uno spirito di profonda cortesia, per riverirci l’uno con l’altro, come avremmo fatto con te.


Signore Gesù Cristo, dacci la grazia di rispettare sempre. Così sia.

Don Ignacio Larranaga

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Non contravvenire alla carità

Posté par atempodiblog le 28 mars 2012

Non contravvenire alla carità dans Citazioni, frasi e pensieri San-Francesco-di-Sales

“Se avessimo novantanove ragioni per giudicare male il prossimo e una sola per ritenerlo in buona fede, dovremmo scegliere quest’ultima per non contravvenire alla carità”.

San Francesco di Sales

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Aldo Trento: “Amici dottori, curare significa abbracciare l’altro”

Posté par atempodiblog le 28 mars 2012

Aldo Trento: «Amici dottori, curare significa abbracciare l’altro»
Appunti da uno strano incontro tra il missionario e un gruppo di famosi psichiatri. «Non so nulla di tecniche psichiatriche. Quelle vengono di conseguenza a un metodo che ha curato la mia depressione: l’abbraccio di Cristo. Lui al centro cambia tutto. Lui è la cura che fa morire i malati cantando nella clinica della Divina Provvidenza»
di Benedetta Frigerio – Tempi

Aldo Trento: “Amici dottori, curare significa abbracciare l'altro” dans Articoli di Giornali e News

Le aule del seminario “Malattia e Cura” della facoltà di Medicina dell’Università Bicocca aprono le porte a un sacerdote per spiegare cosa significhino la malattia e la cura in ambito psichiatrico. Davanti a padre Aldo Trento, missionario in Paraguay, dove il sacerdote ha fondato una clinica per moribondi, anziani, bambini violentati e malati di mente, ci sono diversi studenti e più di una decina di psichiatri, alcuni fra i più famosi d’Italia (Italo Carta, Cesare Cornaggia, Lorenzo Calvi, Leo Nahon, Rodolfo Reichmann, Massimo Clerici). «Conoscendo la sua esperienza – dirà ad un certo punto uno di loro – ho ritrovato un modo di guardare al malessere profondo che è positivo. Padre Trento, ma lei come riesce a stare davanti alla sofferenza altrui in questo modo?».

Racconta il missionario: «Non so nulla delle teorie psichiatriche. Ho passato 15 anni della mia vita a cercare di farmi curare e, mentre qualcuno mi stava a fianco, la Provvidenza faceva crescere la clinica di cui oggi sono il vice-direttore. Perché il direttore è il Santissimo Sacramento». Gli occhi degli studenti strabuzzano e gli sguardi si catalizzano sull’uomo che racconta della sua «depressione, di cui Dio ha usato per salvarmi». Padre Trento narra la vicenda che nel 1968, già prete, lo portò alla follia: «Non capivo più nulla. Solo una cosa sapevo: non potevo fuggire da quello che mi stava accadendo. Non è che se scappi dai problemi, andando nella Terra del Fuoco, le cose si risolvono. Perché il problema è nell’Io. La mia unica risorsa fu l’urlo, la richiesta d’aiuto, la confessione e l’abbraccio fisico, prima di don Luigi Giussani (quando tutti volevano ricoverarmi, mi mandò ad Asunción) poi di un prete che passava le giornate con me, volendomi bene anche quando ero una larva lamentosa».

Per lui è vero quello che diceva don Giussani e che lo psichiatra Eugenio Borgna ripete sempre: «C’è in tutti noi della follia. Chi può dire di essere completamente equilibrato? Forse un morto». Secondo padre Trento l’unico modo per stare davanti al disagio altrui è un metodo «di cui nessuno parla più: l’abbraccio all’altro. Una carne che ti stia a fianco. È stato fissando una presenza fisica che mi amava che, nel tempo, ho iniziato ad accettare me stesso, a guardare a questo bene anziché alla mia pochezza. A ironizzare sul nulla che sono. Oggi tanti si odiano perché non riconoscono questo sguardo misericordioso su di sé».

Per padre Trento il nocciolo della questione non è la malattia, ma l’uomo: «Io non conosco la patologia, ma so chi è l’uomo e di cosa ha bisogno. Solo per questo posso cercare di curare la malattia». Il sacerdote si ostina a parlare di un “Io” bisognoso di una compagnia che lo abbracci. «Solo questo rende grande la vostra arte medica e la tecnica. Solo se al centro c’è l’uomo guardato così: come un essere in relazione al Padre, che poi è la persona di Cristo. Pensate a chi ha inventato la medicina e le tecniche moderne. Sono i grandi santi come san Camillo de Lellis che, amando il malato come Cristo, rivoluzionò la medicina».

Il punto per il sacerdote è offrire un abbraccio «che risponde a questo grido. Un abbraccio che non è il mio, ma quello di Cristo attraverso di me. Il metodo nella mia clinica è fissare il Santissimo: tutti i medici, gli operatori, io, dobbiamo inginocchiarci davanti al Corpo di Cristo ogni giorno. Così portiamo il suo sguardo ai pazienti e accadono miracoli. Gente che muore cantando, bambine violentate che crescono e diventano buone mamme».

In aula non vola una mosca. Padre Trento racconta dei propri malati, di mille storie di umanità sfibrate e poi redente «perché se non ci fosse l’abbraccio di Dio risorto l’uomo dovrebbe maledire chi lo ha messo al mondo». Si sofferma sulla vicenda di una piccola undicenne, appena arrivata nella sua clinica, violentata per due mesi e poi gettata su una strada: «Stando con me, certo del bene che Cristo vuole a me e a lei, la bimba ha cominciato a volermi al suo fianco, a chiamarmi « papà » e a dirmi che mi vuole bene. I miei pazienti? Alcuni muoiono felici, altri tristi ma sorridenti. C’è chi ringrazia della malattia per aver incontrato Cristo e chi si converte, come accaduto a un musulmano di recente». Padre Trento dice di non avere altro metodo per curare se non quello che cura anche lui. «E allora porto loro il Santissimo e li abbraccio perché loro sono Cristo sofferente nel Getsemani che chiede di non essere abbandonato».

Uno psichiatra chiede come deve essere organizzato il luogo della cura: «Questa è una conseguenza, come la tecnica – risponde il missionario -. La clinica esiste per fare compagnia a Gesù “nevrastenico nel Getsemani”, come scrive Charles Péguy. Allora la pizzeria, allora la ricerca delle cure migliori, allora la confessione. Come i viados che vengono da me e con la confessione si riconoscono amati a tal punto da ritrovare la loro identità nell’amore di Dio».
Quindi viene la tecnica migliore, le medicine più adeguate e tutto il resto: «Perciò ho scelto il lavoro in équipe settimanali dove ciascun operatore (siamo più di 20) deve prima parlare di quello che vive con ogni paziente. Solo poi si fa l’analisi clinica e si pensa al miglior farmaco o modo per curarlo. Anche i soldi arrivano di conseguenza perché chi conosce la nostra clinica si affeziona e dona. E, poi, in modo inaspettato, arrivano sempre anche i farmaci in un paese dove non si trovano quelli basilari».

«Capite quale responsabilità avete voi, dottori? Per curare dovete riunire quello che si è separato». Padre Trento chiude così il suo intervento. Un gruppo di studenti lo segue, pieno di domande, sin fuori dalle porte dell’aula.

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Le armi non conoscono recessione

Posté par atempodiblog le 28 mars 2012

Negli ultimi anni +24%. L’India ormai primo importatore: da sola vale il 10% del mercato. Lo rivela l’ultimo rapporto del Sipri di Stoccolma: a riempire gli arsenali sono Paesi emergenti o quelli più poveri.
di Francesco Palmas – Avvenire

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L’industria di armamenti non conosce crisi. È l’amara constatazione che emerge dall’ultimo rapporto del Sipri (Stockholm international peace research institute), pubblicato lo scorso 19 marzo. I trasferimenti mondiali di armi continuano a crescere a doppia cifra: più 24% nel periodo 2007-2011 rispetto al quinquennio 2002-2006. La regione Asia-Oceania rappresenta ormai il 44% delle importazioni mondiali di armamenti, mentre i primi esportatori sono gli Stati Uniti (30%).
Il maggior cliente dei « mercanti di morte » si conferma l’India, che vale da sola il 10% delle importazioni mondiali. Crescono le spese militari del gigante asiatico: nel 2012-2013 aumenteranno del 17%, per raggiungere quota 40 miliardi di dollari, il doppio circa di quanto investa l’Italia. Delhi sta diversificando le fonti di approvvigionamento e sviluppando un’industria nazionale.

È sempre più esigente in materia di compensazioni industriali. Mosca è sua fonte privilegiata, con forniture di aerei ed elicotteri (Mig-29, Su-30), di carri pesanti (T-90, T-72), di sommergibili e altri materiali. I due Paesi cooperano anche nello sviluppo dell’aereo furtivo T-50 Pak-Fa e sul futuro aereo da trasporto multiruolo Mta. Ma da qualche anno l’India si sta rivolgendo sempre più spesso ai Paesi occidentali: ha acquistato dalla Francia caccia Mirage e Rafale, missili Mica e sottomarini Scorpène, ma non sono mancati materiali militari provenienti dalla Gran Bretagna (Sepecat Jaguar, Sea Harrier e Hawk) e dall’Italia.

Fortissima è la collaborazione con Israele nel campo dei droni, dei sistemi antimissilistici e dei radar. Ancora più a ovest, sono gli Stati Uniti la nuova frontiera del procurement indiano. Nel 2008, sono stati comprati a Lockheed Martin 6 velivoli da trasporto tattico C-130J e un anno dopo 6 aerei da sorveglianza marittima Boeing P8 Poseidon. Ma è l’anno scorso che è arrivata la commessa principale: più di quattro miliardi di dollari per 10 cargo C-17 Globemaster, capaci ciascuno di trasportare 102 paracadutisti.

Due ragioni spiegano i dati indiani: innanzitutto l’evoluzione del bilancio della difesa cinese, in crescita dell’11,2% nel 2012. I due Paesi spartiscono una frontiera comune di 2mila chilometri e hanno diversi contenziosi territoriali, uno dei quali legato al fiume Brahmaputra. L’altro motivo è legato all’ostilità ricorrente fra India e Pakistan, con la disputa sul Kashmir che data ormai dal 1947. Lo stato maggiore indiano ha elaborato una strategia del « duplice fronte », che prevede di disporre delle capacità necessarie a condurre offensive multiple nel nord dell’Himalaya sia contro il Pakistan, sia contro la Cina. Gli acquisti d’armi vanno in questa direzione, come lo sviluppo del deterrente nucleare, dei missili balistici e di una flotta sottomarina strategica.

Per l’Istituto internazionale di studi strategici (Iiss), le spese militari asiatiche supereranno nel 2012 quelle dei Paesi europei: parliamo di oltre 180 miliardi di euro e non è un caso che tutti i maggiori importatori mondiali di armi siano asiatici. Dopo l’India, spiccano la Corea del Sud (6%), il Pakistan (5%), la Cina (5%) e Singapore (4%), la città-Stato che consacra alla difesa il 5% della sua ricchezza nazionale, uno dei tassi principali al mondo. L’aeronautica singaporegna allinea ben 422 aeromobili, fra cui 143 caccia F-15 (24) ed F-16 Block 52 (74). Si addestra negli Stati Uniti, in Australia e in Francia e riceverà dall’Italia 12 velivoli avanzatissimi: gli M-346 Master di Alenia-Aermacchi.

Fra le principali tendenze registrate dal Sipri, si segnalano le importazioni militari della Grecia, crollate del 18% dal 2002 ad oggi. Atene non è più il quarto importatore di armi convenzionali, ma il decimo. Colpa della crisi finanziaria che erode i bilanci della difesa pan-europei. Nei 16 Paesi membri della Nato si sono registrati cali superiori al 10% (2008-2010), ricorda l’analista John Chipman. È una tendenza destinata a peggiorare: le forze armate britanniche perderanno l’8% delle risorse nel prossimo quadriennio. La Germania seguirà, professionalizzando una Bundeswher dal formato ridotto. L’Italia ha già dovuto ridurre acquisti e uomini. Peggio ancora è andata a Belgio e a Paesi Bassi, ove la mannaia ha causato perdite irreversibili di capacità militari.

Se qualcuno risparmia (ed è difficile lamentarsene), altri spendono e spandono, anche se la loro economia nazionale non se la passa certo meglio; e così facendo sottraggono risorse a servizi ben più vicini ai cittadini. Nelle Americhe è il Venezuela di Chavez a distinguersi per la crescita delle importazioni belliche: più 555% dal 2002 ad oggi. Caracas ha ordinato alla Russia qualcosa come 6 miliardi di dollari di materiali militari, fra caccia, carri T-72, lanciarazzi multipli Smerch, elicotteri Mi-17 e sistemi di difesa aerea S-300. Il Nordafrica non è stato a guardare, con un incremento del 273% nell’import di armamenti. Il solo Marocco è cresciuto del 443%.

Una cosa è certa: se i Paesi asiatici primeggiano per spese militari, sono gli industriali dell’armamento statunitensi ed europei a beneficiarne. Secondo una recente classifica del Sipri, delle prime 100 aziende legate al settore della difesa solo 12 sono asiatiche e per gran parte fabbricano equipaggiamenti acquisiti su licenza dai rispettivi governi. Nel 2010, i grandi dell’armamento mondiale hanno fatto affari per 411,1 miliardi di dollari e le loro vendite sono cresciute del 60% nel periodo 2002-2010.

Nella top-100, 44 industriali sono statunitensi e realizzano una cifra d’affari di 246,6 miliardi di dollari. Occupano 7 delle prime 10 posizioni mondiali, con il gigante Lockheed Martin in testa. E valgono più della metà dei 411,1 miliardi di fatturato. Imprese non toccate dalla crisi economica: l’ultimo decennio è stato prodigo in guerre e le cifre d’affari sono esplose. I dieci leader, tre dei quali europei (Bae System, Eads e Finmeccanica) impiegano 1.138.310 persone.

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Per carità

Posté par atempodiblog le 22 mars 2012

Cari cattolici pauperisti, anche le opere di bene nascono dai soldi. Un po’ di esempi da non scordare

Per carità dans Articoli di Giornali e News manipace

Prendo in mano una rivista del mondo cattolico progressista, e trovo scritto che la chiesa ha fatto una scelta, un’“opzione preferenziale”, per i poveri, i “malriusciti”, gli emarginati, gli ultimi ecc. Non è una constatazione nuova. Ben prima della triste teologia della liberazione, lo notavano i primi avversari del cristianesimo, Celso e Porfirio. In tempi più recenti, Nietzsche e Hitler dicevano lo stesso, ovviamente con un analogo disgusto. E’ senza dubbio vero: sotto ogni cielo e in ogni epoca, chi più chi meno, perché sempre uomini e peccatori, i cristiani hanno soccorso orfani e vedove; hanno creato ospedali e xenodochi; hanno riscattato schiavi e prigionieri. Eppure, nel modo in cui questa “preferenza” viene espressa oggi in certi ambienti, vedo qualcosa di ideologico, cioè di parziale e limitante. Parziale e limitante perché talora si dimentica quante volte sono stati uomini e donne ricchi, facoltosi, a fare del bene ai poveri, a divenire poveri con i poveri. Possiamo ricordare la generosità delle principesse dei primi secoli, come Pulcheria, di ricche matrone come Melania, Fabiola e Marcella, di nobildonne ottocentesche come la contessa di Barolo, Maddalena di Canossa, Teresa Verzeri. Anche san Francesco, il più verace sposo di “madonna povertà”, nacque ricco e si fece povero. Povero volontario. Parziale e limitato, il pauperismo di certuni, perché dimentica quante opere di misericordia sono nate anche dai soldi, non sempre del tutto puliti, di mercanti e usurai, che tra medioevo e rinascimento hanno spesso finanziato prodigiose opere di carità; perché dimentica quante volte uomini poveri come il Cottolengo, o san Giovanni Bosco, hanno saputo salire le scale dei ricchi, anche di uomini non integerrimi, senza disprezzo manicheo sulle labbra, per ottenerne pane per i poveri, con grande frutto. Parziale, ancora, perché come non sono mai mancati i ricchi generosi, e distaccati dalle loro stesse ricchezze, cosa non certo facile, non scarseggiano neppure i poveri che, una volta divenuti ricchi, vogliono assaporare con assoluto egoismo la loro nuova condizione. Sì, la chiesa, come Cristo, deve amare i poveri, ma non è materialista come l’ideologia marxista. Crede dunque che i ricchi, come i poveri, abbiano l’anima, e che tra eternità e tempo vi sia una gerarchia: la vita eterna è una ricchezza più grande di ogni ricchezza terrena, e non è in ciò che è materiale, necessariamente, che si realizza l’equità e la giustizia; non è nel benessere, che pure è cosa buona, che si compie la felicità umana. Certo, tra i peccati che “gridano vendetta al cospetto di Dio”, Leone XIII mise il negare la “giusta paga agli operai”, e prima di lui Ambrogio si scagliava contro i ricchi che credono che la terra sia loro proprietà; certo, dopo Leone XIII, Pio XI attaccò il “funesto ed esecrabile internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro”, così come i suoi predecessori medievali avevano stigmatizzato i banchieri usurai e i guadagni illeciti. Ciò non toglie che per la chiesa l’anima dei ricchi non vale di meno di quella dei poveri, e quella dei poveri non vale di più di quella dei ricchi. Non mi convince, ancora, la visione pauperista in stile marxista di certo mondo “cattolico”, perché si riduce troppo spesso a predica, a utopia, a vagheggiamento di una attenzione verso i lontani, che mi sembra, a volte, un po’ troppo facile. Perché dimentica troppo spesso quello che una santa che di poveri se ne intendeva, Madre Teresa di Calcutta, definiva “il più povero tra i poveri”, cioè il bambino nel grembo materno. Non di rado, quando si parla di questo tema, in troppi di questi cattolici, esplode una rabbia strana, che si palesa in espressioni come queste: “A te interessano gli embrioni, i feti, e dimentichi gli uomini”. A me pare sia vero il contrario: chi ha attenzione verso il più piccolo dei fratelli, la avrà, necessariamente, anche verso gli altri. Chi vede l’umanità anche dove essa è più nascosta, e più fragile, più facilmente la scorgerà anche dove è più evidente. Chi è disposto ad accogliere il figlio non aspettato o “imperfetto”, saprà accogliere anche il prossimo suo, più di chi, al contrario, sopprime la carne della sua carne e il sangue del suo sangue.

Chi sono i nuovi poveri
Oggi però dobbiamo chiederci, come cristiani, chi sono i nuovi poveri. Certo, sono anche coloro che non hanno beni materiali a sufficienza. Non siamo puri spiriti e Cristo si dedicava anche a moltiplicare pani e pesci. Ma nel nostro occidente la povertà odierna più grande, quella che molti pauperisti non sanno vedere, è quella spirituale. Abbondano i poveri che mancano del senso della vita: così soli e indigenti da vivere senza Dio; così poveri da non sapere cosa siamo al mondo a fare; così poveri da cercare inutilmente, nell’egoismo sfrenato e nel consumismo di beni materiali o di affetti sciupati, un goccio di vita vera. A costoro la chiesa deve spezzare il pane della sapienza, anche tornando ad essere luogo di bellezza, nel canto, nell’arte, nella liturgia. Deve ridare Dio, il senso della grazia e del peccato, e il senso del sacro. Sono questi i maggiori doni che si possono fare ai poveri di spirito, pasciuti o non pasciuti, ma spesso egualmente disperati, di oggi.

Francesco Agnoli – Il Foglio
Tratto da: Saint Francis Assisi

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Per la crescita del Pil non bisogna imitare la Cina, ma tornare alle radici cristiane

Posté par atempodiblog le 19 mars 2012

Per la crescita del Pil non bisogna imitare la Cina, ma tornare alle radici cristiane (quando l’Italia cresceva al 6 per cento annuo)
di Antonio Socci – Libero

Per la crescita del Pil non bisogna imitare la Cina, ma tornare alle radici cristiane dans Antonio Socci antoniosocci

Monopolizzano la scena ormai da mesi: la “signora crescita” e il “signor pil”. E inseguiamo tutti drammaticamente il loro matrimonio. Anche in queste ore sono al centro delle trattative fra partiti, governo e sindacati.
La politica italiana si è perfino suicidata sull’altare di questa nuova divinità statistica da cui sembra dipendere il nostro futuro. Se però alzassimo lo sguardo dalla cronaca dovremmo chiederci: chi è questo “signor Pil”?
I manuali dicono che è il “valore di beni e servizi finali prodotti all’interno di un certo Paese in un intervallo di tempo”. Ma fu proprio l’inventore del Pil, Simon Kuznets, ad affermare che “il benessere di un Paese non può essere facilmente desunto da un indice del reddito nazionale”.
Lo ha ricordato ieri Marco Girardo, in un bell’articolo su “Avvenire”, aggiungendo che ormai da decenni economisti e pensatori mettono in discussione questo parametro: da Nordhaus a Tobin, da Amartya Sen a Stiglitz e Fitoussi.

KENNEDY LO SAPEVA
Girardo ha riproposto anche un bell’intervento di Bob Kennedy, che già nel 1968, tre mesi prima di essere ammazzato nella campagna presidenziale che lo avrebbe portato alla Casa Bianca, formulò così il nuovo sogno americano:
“Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.
Non è una discussione astratta. Infatti con l’esplosione e lo strapotere della finanza – che nei primi anni Ottanta valeva l’80 per cento del Pil mondiale e oggi è il 400 per cento di esso – questo “erroneo” Pil è diventata la forca a cui si impiccano i sistemi economici, il benessere dei popoli e la sovranità degli stati.
Oggi la ricchezza finanziaria non è più al servizio dell’economia reale e del benessere generale, ma conta più dell’economia reale e se la divora, la determina e la sconvolge (e con essa la vita di masse enormi di persone).
Anche perché ha imposto una globalizzazione selvaggia che ha messo ko la politica e gli stati e che sta terremotando tutto.

PRIGIONIERI DELLA FINANZA
La crescita del Pil o la sua decrescita decide il destino dei popoli, è diventata quasi questione di vita o di morte e tutti – a cominciare dalla politica, ridotta a vassalla dei mercati finanziari – stanno appesi a quei numerini.
Dunque le distorsioni e gli errori che erano insiti nell’originaria definizione del Pil rischiano di diventare giudizi sommari e sentenze di condanna per i popoli.
Per questo, l’estate scorsa, nel pieno della tempesta finanziaria che ha investito l’Italia, un grande pensatore come Zygmunt Bauman, denunciando “un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo”, descriveva così l’assurdità della situazione: “C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca”.
Nessuno ovviamente può pensare che non si debba cercare la crescita del Pil (l’idea della decrescita è un suicidio). Il problema è cosa vuol dire questa “crescita” e come viene calcolata oggi. Qui sta l’assurdo.
Bauman faceva un esempio:
se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito”.
Con questa assurda logica – per esempio – fare una guerra diventa una scelta salutare perché incrementa il pil, mentre avere in un Paese cento Madre Teresa di Calcutta che soccorrono i diseredati è irrilevante.
Un esempio italiano: avere una solidità delle famiglie o una rete di volontariato che permettano di far fronte alla crisi non è minimamente calcolato nel Pil.
Eppure proprio noi, in questi anni, abbiamo visto che una simile ricchezza, non misurabile con passaggio di denaro, ha attutito dei drammi sociali che potevano essere dirompenti.

IL PAPA CI ILLUMINA
Ciò significa che ci sono fattori umani, non calcolabili nel Pil, che hanno un enorme peso nelle condizioni di vita di una società e anche nel rilancio della stessa economia.
Perché danno una coesione sociale che il mercato non può produrre, ma senza la quale non c’è neppure il mercato.
Ecco perché Benedetto XVI nella sua straordinaria enciclica sociale, “Caritas in Veritate”, uscita nel 2009, nel pieno della crisi mondiale, ha spiegato che “lo sviluppo economico, sociale e politico, ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano di fare spazio al principio di gratuità”, alla “logica del dono”.
Ovviamente il Papa non prospetta “l’economia del regalo”. Il “dono” è tutto ciò che è “gratuito”, non calcolabile e che non si può produrre: l’intelligenza dell’uomo, l’amore, la fraternità, l’etica, l’arte, l’unità di una famiglia, la carità, l’educazione, la creatività, la lealtà e la fiducia, l’inventiva, la storia e la cultura di un popolo, la sua fede religiosa, la sua laboriosità, la sua speranza.

MIRACOLO ITALIANO
Se vogliamo guardare alla nostra storia, sono proprio questi fattori che spiegano come poté verificarsi, nel dopoguerra, quel “miracolo economico” italiano che stupì il mondo.
Tutti oggi parlano di crescita (e siamo sotto lo zero), ma come fu possibile in Italia, dal 1951 al 1958, avere una crescita media del 5,5 per cento annuo e dal 1958 al 1963 addirittura del 6,3 per cento annuo?
Non c’erano né Monti, né la Fornero al governo. Chiediamoci come fu possibile che un Paese sottosviluppato e devastato dalla guerra balzasse, in pochi anni, alla vetta dei Paesi più sviluppati del mondo.
Dal 1952 al 1970 il reddito medio degli italiani crebbe più del 130 per cento, quattro volte più di Francia e Inghilterra, rispettivamente al 30 e al 32 per cento (se assumiamo che fosse 100 il reddito medio del 1952, nel 1970  noi eravamo a 234,1).
E’ vero che avemmo il Piano Marshall, ma anche gli altri lo ebbero. Inoltre noi non avevamo né materie prime, né capitali, né fonti energetiche. Eravamo usciti distrutti e perdenti da una dittatura e da una guerra e avevamo il più forte Pc d’occidente che ci rendeva molto fragili.
Quale fu dunque la nostra forza?
E’ – in forme storiche diverse – la stessa che produsse i momenti più alti della nostra storia, la Firenze di Dante o il Rinascimento che ha illuminato il mondo, l’Europa dei monaci, degli ospedali e delle università: il cristianesimo. Pure la moderna scienza economica ha le fondamenta nel pensiero cristiano, dalla scuola francescana del XIV secolo alla scuola di Salamanca del XVI.
Noi c’illudiamo che il nostro Pil torni a crescere se imiteremo la Cina. Ma la Cina – anzi la Cindia – non fa che fabbricare, in un sistema semi-schiavistico (quindi a prezzi stracciati), secondo un “know how” del capitalismo che è occidentale. Scienza, tecnologia ed economia sono occidentali. L’Oriente copia.

ECCO IL SEGRETO
Proprio l’Accademia delle scienze sociali di Pechino, richiesta dal regime di “spiegare il successo, anzi la superiorità dell’Occidente su tutto il mondo”, nel 2002, scrisse nel suo rapporto: “Abbiamo studiato tutto ciò che è stato possibile dal punto di vista storico, politico, economico e culturale”.
Scartate la superiorità delle armi, poi del sistema politico, si concentrarono sul sistema economico: “negli ultimi venti anni” scrissero “abbiamo compreso che il cuore della vostra cultura è la vostra religione: il cristianesimo. Questa è la ragione per cui l’Occidente è stato così potente. Il fondamento morale cristiano della vita sociale e culturale è ciò che ha reso possibile la comparsa del capitalismo e poi la riuscita transizione alla vita democratica. Non abbiamo alcun dubbio”.
Loro lo sanno. Noi non più.

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San Giuseppe merita il tuo affetto

Posté par atempodiblog le 19 mars 2012

Marzo, mese consacrato a san Giuseppe dans Fede, morale e teologia Maria-e-Giuseppe

Ama molto San Giuseppe, amalo con tutta l’anima, perché è la persona, assieme a Gesù, che ha amato di più la Madonna e che più è stato in rapporto con Dio: colui che più lo ha amato, dopo nostra Madre.

- Merita il tuo affetto, e ti conviene frequentarlo, perché è Maestro di vita interiore, ed è molto potente presso il Signore e presso la Madre di Dio.

Forgia, 554

di San Josemaría Escrivá de Balaguer
Tratto da: josemariaescriva.info

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Qualcuno che sta arrivando

Posté par atempodiblog le 18 mars 2012

Qualcuno che sta arrivando dans Antonio Socci

Una volta qualcuno stava cantando la Sevillanas del adios: “Algo se muere en el alma/ cuando un amigo se va…”. E un uomo saggio e col cuore grande osservò: “per ogni uomo la vita è così. Tutto si allontana all’orizzonte del tempo e lui se ne sta sulla riva del mare a guardare le cose finché diventano un punto all’orizzonte e spariscono. Ma può accadere il contrario, cosicché dalla riva del mare scorgi un punto lontano, è una barca che si avvicina, arriva, scende un uomo e viene ad abbracciare te. Ecco, per i cristiani la vita non è più le cose che se ne vanno, ma Qualcuno che sta arrivando”.

di Antonio Socci
Tratto da: Il Foglio (2004)

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La corrispondenza del cuore nell’incontro con la Bellezza

Posté par atempodiblog le 17 mars 2012

La corrispondenza del cuore nell’incontro con la Bellezza
del cardinale Joseph Ratzinger

La corrispondenza del cuore nell’incontro con la Bellezza  dans Fede, morale e teologia
Cristo pantocrator, un particolare del mosaico della cupola di Fethiye Djami (XIV secolo), Istanbul

La vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della Bellezza che ferisce l’uomo, essere toccati dalla realtà, «dalla personale Presenza di Cristo stesso» come dice Nicolas Kabasilas. L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale. Non dobbiamo certo sottovalutare il significato della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e rigoroso: esso rimane assolutamente necessario. Ma da qui, disdegnare o respingere il colpo provocato dalla corrispondenza del cuore nell’incontro con la Bellezza come vera forma della conoscenza, ci impoverisce e inaridisce la fede, così come la teologia. Noi dobbiamo ritrovare questa forma di conoscenza, è un’esigenza pressante del nostro tempo

Ogni anno, nella liturgia delle ore del tempo di Quaresima, torna a colpirmi un paradosso che si trova nei vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, l’una accanto all’altra, ci sono due antifone, una per il tempo di Quaresima, l’altra per la settimana santa. Entrambe introducono il salmo 44, ma ne anticipano una chiave interpretativa del tutto contrapposta. È il salmo che descrive le nozze del re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. Nel tempo di Quaresima il salmo ha per cornice la stessa antifona che viene utilizzata per tutto il restante periodo dell’anno. È il terzo verso del salmo che recita: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia».
È chiaro che la Chiesa legge questo salmo come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Riconosce Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra indica la bellezza interiore della Sua parola, la gloria del Suo annuncio. Così, non è semplicemente la bellezza esteriore dell’apparizione del Redentore ad essere glorificata: in Lui appare piuttosto la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso che ci attira a sé e allo stesso tempo ci procura la ferita dell’Amore, la santa passione (eros) che ci fa andare incontro, insieme alla e nella Chiesa Sposa, all’Amore che ci chiama. Ma il lunedì della settimana santa la Chiesa cambia l’antifona e ci invita a leggere il salmo alla luce di Is 53,2: «Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore». Come si concilia ciò? Il «più bello tra gli uomini» è misero d’aspetto tanto che non lo si vuol guardare. Pilato lo presenta alla folla dicendo «Ecce homo» onde suscitare pietà per l’Uomo sconvolto e percosso al quale non è rimasta alcuna bellezza esteriore. Agostino, che nella sua giovinezza scrisse un libro sul bello e sul conveniente e che apprezzava la bellezza nelle parole, nella musica, nelle arti figurative, percepì assai fortemente questo paradosso e si rese conto che in questo passo la grande filosofia greca del bello non veniva semplicemente rigettata, ma piuttosto messa drammaticamente in discussione: che cosa sia bello, che cosa la bellezza significhi avrebbe dovuto essere nuovamente discusso e sperimentato.
Riferendosi al paradosso contenuto in questi testi egli parlava di «due trombe» che suonano in contrapposizione e pur tuttavia ricevono i loro suoni dal medesimo soffio, dallo stesso Spirito. Egli sapeva che il paradosso è una contrapposizione, ma non una contraddizione. Entrambe le citazioni provengono dallo stesso Spirito che ispira tutta la Scrittura, il quale però suona in essa con note differenti e, proprio in questo modo, ci pone di fronte alla totalità della vera Bellezza, della Verità stessa. Dal testo di Isaia scaturisce innanzitutto la questione, di cui si sono occupati i Padri della Chiesa, se Cristo fosse dunque bello oppure no. Qui si cela la questione più radicale se la bellezza sia vera, oppure se non sia piuttosto la bruttezza a condurci alla profonda verità del reale. Chi crede in Dio, nel Dio che si è manifestato proprio nelle sembianze alterate di Cristo crocifisso come amore «sino alla fine» (Gv 13,1) sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente egli apprende anche che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e, sì, anche l’oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell’accettazione del dolore, e non nell’ignorarlo.

Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al Fedro di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo «entusiasma» attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’Origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto. Nel discorso di Aristofane del Simposio si afferma che gli amanti non sanno ciò che veramente vogliono l’uno dall’altro. È al contrario evidente che le anime di entrambi sono assetate di qualcos’altro che non sia il piacere amoroso. Questo “altro” però l’anima non riesce a esprimerlo, «ha solamente una vaga percezione di ciò che veramente essa vuole e ne parla a se stessa come un enigma». Nel XIV secolo, nel libro sulla vita di Cristo del teologo bizantino Nicolas Kabasilas si ritrova questa esperienza di Platone, nella quale l’oggetto ultimo della nostalgia continua a rimanere senza nome, trasformato dalla nuova esperienza cristiana.
Kabasilas afferma: «Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo».

La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo. Ciò che afferma Platone e, più di 1500 anni dopo, Kabasilas non ha nulla a che fare con l’estetismo superficiale e con l’irrazionalismo, con la fuga dalla chiarezza e dall’importanza della ragione. Bellezza è conoscenza, certamente, una forma superiore di conoscenza poiché colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità. In ciò Kabasilas è rimasto interamente greco, in quanto egli pone la conoscenza all’inizio. «Origine dell’amore è la conoscenza», egli afferma, «la conoscenza genera l’amore». «Occasionalmente» così prosegue «la conoscenza potrebbe essere talmente forte da sortire allo stesso tempo l’effetto di un filtro d’amore». Egli non lascia questa affermazione in termini generali. Com’è caratteristico del suo pensiero rigoroso, egli distingue due tipi di conoscenza: la conoscenza attraverso l’istruzione che rimane conoscenza, per così dire, «di seconda mano» e non implica alcun contatto diretto con la realtà stessa. Il secondo tipo, al contrario, è conoscenza attraverso la propria esperienza, attraverso il rapporto con le cose. «Quindi, fintanto che noi non abbiamo fatto esperienza di un essere concreto, non amiamo l’oggetto così come esso dovrebbe essere amato».
La vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della Bellezza che ferisce l’uomo, essere toccati dalla realtà, «dalla personale Presenza di Cristo stesso» come egli dice. L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale. Non dobbiamo certo sottovalutare il significato della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e rigoroso: esso rimane assolutamente necessario. Ma da qui, disdegnare o respingere il colpo provocato dalla corrispondenza del cuore nell’incontro con la Bellezza come vera forma della conoscenza, ci impoverisce e inaridisce la fede, così come la teologia. Noi dobbiamo ritrovare questa forma di conoscenza, è un’esigenza pressante del nostro tempo.

A partire da questa concezione Hans Urs von Balthasar ha edificato il suo opus magnum dell’estetica teologica, della quale molti dettagli sono stati recepiti nel lavoro teologico, mentre la sua impostazione di fondo, che costituisce veramente l’elemento essenziale del tutto, non è stata affatto accolta. Questo non è, beninteso, semplicemente solo, o meglio, non è principalmente un problema della teologia, ma anche della pastorale che deve nuovamente favorire l’incontro dell’uomo con la bellezza della fede. Gli argomenti cadono così spesso nel vuoto perché nel nostro mondo troppe argomentazioni contrapposte concorrono le une con le altre, tanto che all’uomo viene spontaneo il pensiero, che i teologi medievali avevano così formulato: la ragione «ha un naso di cera», ossia la si può indirizzare, se solo si è abbastanza abili, nelle più svariate direzioni. Tutto è così assennato, così convincente, di chi dobbiamo fidarci? L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima ed in questo modo le apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei criteri di giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti. Resta per me un’esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’uno all’altro e altrettanto spontaneamente ci dicemmo: «Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera». In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di Realtà presente da rendersi conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della Verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore. E la stessa cosa non è forse evidente quando ci lasciamo commuovere dall’Icona della Trinità di Rublëv? Nell’arte delle icone, come pure nelle grandi opere pittoriche occidentali del romanico e del gotico, l’esperienza descritta da Kabasilas, partendo dall’interiorità, si è resa visibile e partecipabile. Pavel Evdokimov ha indicato in maniera così pregnante quale percorso interiore l’icona presupponga. L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un «digiuno della vista». La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la «gloria di Dio sul volto di Cristo» (2Cor 4,6). Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una purificazione del cuore, ci rivela la Bellezza, o almeno un raggio di essa.
Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità. Io ho spesso già affermato essere mia convinzione che la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare i santi, a entrare in contatto con il Bello.
Ora però dobbiamo rispondere ancora ad un’obiezione. Abbiamo già respinto l’affermazione secondo cui quanto finora sostenuto sarebbe una fuga nell’irrazionale, nel mero estetismo. È vero piuttosto l’opposto: proprio così la ragione viene liberata dal suo torpore e resa capace di azione. Maggior peso ha oggi un’altra obiezione: il messaggio della bellezza viene messo completamente in dubbio attraverso il potere della menzogna, della seduzione, della violenza, del male. Può la bellezza essere autentica, oppure, alla fine, non è che un’illusione? La realtà non è forse in fondo malvagia? La paura che, alla fine, non sia lo strale del bello a condurci alla verità, ma che la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera “realtà” ha angosciato gli uomini in ogni tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto fare poesia, dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori? Ora questa obiezione, per la quale esistevano motivi sufficienti ancora prima di Auschwitz, in tutte le atrocità della storia, indica in ogni caso che un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente. Non regge il confronto con la gravità della messa in discussione di Dio, della verità, della bellezza. Apollo, che per il Socrate di Platone era «il Dio» e il garante della imperturbata bellezza come «il veramente divino», non basta assolutamente più. In questo modo ritorniamo alle «due trombe» della Bibbia dalle quali eravamo partiti, al paradosso per cui di Cristo si può dire sia «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo», sia «Non ha apparenza né bellezza… il suo volto è sfigurato dal dolore». Nella passione di Cristo l’estetica greca, così degna di ammirazione per il suo presentito contatto con il divino, che pure le resta indicibile, non viene rimossa, bensì superata. L’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine – la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva «sino alla fine» e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è «vera», bensì proprio la Verità. È per così dire un nuovo trucco della menzogna presentarsi come «verità» e dirci: al di là di me non c’è in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla; così facendo siete sulla strada sbagliata. L’icona di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante.
Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a Lui e crediamo all’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della Bellezza.

La menzogna conosce comunque anche un altro stratagemma: la bellezza mendace, falsa, una bellezza abbagliante che non fa uscire gli uomini da sé per aprirli nell’estasi dell’innalzarsi verso l’alto, bensì li imprigiona totalmente in se stessi. È quella bellezza che non risveglia la nostalgia per l’Indicibile, la disponibilità all’offerta, all’abbandono di sé, ma ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di piacere. È quel tipo di esperienza della bellezza di cui la Genesi parla nel racconto del peccato originale: Eva vide che il frutto dell’albero era «bello» da mangiare ed era «piacevole all’occhio». La bellezza, così come ne fa esperienza, risveglia in lei la voglia del possesso, la fa ripiegare per così dire su se stessa. Chi non riconoscerebbe, ad esempio nella pubblicità, quelle immagini che con estrema abilità sono fatte per tentare irresistibilmente l’uomo ad appropriarsi di ogni cosa, a cercare il soddisfacimento del momento anziché l’aprirsi ad altro da sé? Così l’arte cristiana si trova oggi (e forse già da sempre) tra due fuochi: deve opporsi al culto del brutto il quale ci dice che ogni altra cosa, ogni bellezza è inganno e solo la rappresentazione di quanto è crudele, basso, volgare, sarebbe la verità e la vera illuminazione della conoscenza. E deve contrastare la bellezza mendace che rende l’uomo più piccolo, anziché renderlo grande e che, proprio per questo, è menzogna.

Chi non conosce la frase tante volte citata di Dostoevskij: «La Bellezza ci salverà»? Ci si dimentica però nella maggior parte dei casi di ricordare che Dostoevskij intende qui la bellezza redentrice di Cristo. Dobbiamo imparare a vederLo. Se noi Lo conosciamo non più solo a parole ma veniamo colpiti dallo strale della sua paradossale bellezza, allora facciamo veramente la Sua conoscenza e sappiamo di Lui non solo per averne sentito parlare da altri. Allora abbiamo incontrato la bellezza della Verità, della Verità redentrice. Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo del bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria Luce.

(Messaggio al XXIII Meeting per l’amicizia fra i popoli, Rimini, 21 agosto 2002)
Tratto da: 30Giorni

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Albano, la mia vita tra demoni e santi

Posté par atempodiblog le 16 mars 2012

Albano, la mia vita tra demoni e santi
La visita da Padre Pio, i concerti per il Papa, il dolore per Ylenia: il cantante racconta la sua fede
di Andrea Tornielli - La Stampa

Al Bano racconta la sua vita guardandola attraverso la lente della fede e del rapporto con Dio. Arriva in libreria «Io ci credo. Perché con la fede non mi sono arreso mai» (Piemme, pp. 224, euro 16,00). La Stampa l’ha letto in anteprima e ha scelto i punti più significativi.

Albano, la mia vita tra demoni e santi dans Andrea Tornielli

Dio
Dio non lo tocco, non l’ho mai visto, però ci parlo. Dio è quel sole che sta su di noi, che mi sta illuminando anche in questo momento. Dio è tutto, lo scorgo nel miracolo quotidiano delle 24 ore che cambiano, col vento che c’è o che non c’è o col temporale che arriva, o con il sole che rinasce. È una forza incredibile che tu avverti tangibilmente, la «tocchi» anche se non in senso materiale. Dio c’è, lo devi trovare. Devi lasciarti raggiungere da Lui.

Buone azioni
Ho imparato a fare ogni giorno qualcosa, anche una piccola cosa, che non serva solo a me stesso, ma serva agli altri. Se non faccio almeno una cosa buona ogni giorno, non mi sento in pace. Mi arrivano le telefonate delle suore della Caritas che mi chiedono di accogliere nella mia tenuta qualche nuova lavorante immigrata. Ecco, se non sono riuscito a fare qualcosa, a dire di sì a una richiesta, se non ho fatto almeno una buona azione ogni giorno, non riesco ad andare a letto in pace con me stesso.

Padre Pio
Era il novembre 1955, mi ci portarono le zie. Ho ancora chiara la strana sensazione che provai. C’era un odore forte e soave al tempo stesso. Un misto di incenso e di profumo di viole. Era il profumo di cui tutti parlavano.

Giovanni XXIII
Quando stavo a Milano una domenica andai a Sotto il Monte, il paese di Giovanni XXIII. Mi piacque molto l’idea che anche lui fosse figlio di contadini e che contadini fossero i suoi fratelli. Incontrai uno di loro, Saverio. Constatare quanto fossero umili le origini del Pontefice mi diede forza e speranza. La Chiesa cattolica ha sempre avuto questa grandezza: anche il figlio della famiglia più umile può diventare Papa.

Papa Wojtyla
Ho cantato per lui sette volte, ho partecipato alla messa celebrata nella sua cappella privata. Papa Wojtyla aveva due tipi di sguardo. Quello sorridente e bonario, che faceva cadere paure e soggezioni che potevi avere davanti a lui. Ma anche un altro sguardo, che ti faceva l’endoscopia dell’anima. Anche se i miei ricordi di quella volta che mi confessai da Padre Pio sono ormai sbiaditissimi, credo che la profondità dello sguardo fosse la stessa.

Romina e la divinità indiana
La mia ex moglie condivideva la mia visione religiosa della vita, anche questo ci aveva molto accomunati. Poi lei si è avvicinata al buddhismo. Un giorno spostò un’immagine della Madonna, che avevamo in giardino, per metterci quella di Ganesha, la divinità con la testa di elefante. Mi sono ribellato: era l’immagine della Vergine che avevamo messo insieme nella nostra casa. Ho detto: «C’è tanto spazio, proprio lì la dovevi sistemare?». Mi ha guardato in silenzio, come se io non capissi. Io soffrivo, soffrivo perché non condividevamo più la stessa fede.

La morte di Ylenia
Il mondo mi è crollato addosso. Mi sembrava di vivere in una tragedia greca, era come se le divinità del cielo avessero deciso che fino a quel momento ero stato troppo felice. Così sono entrato in crisi e ho sepolto la fede sotto una spessa coltre di cenere. Ho cominciato a vivere con disattenzione, inveivo contro il Cielo. Sono uscito dal tunnel quando mi sono reso conto che senza il dialogo con Dio vivevo peggio. Ho capito che avevo imboccato una strada senza uscita, fatta di cattiveria. Ero diventato cattivo con me stesso e con gli altri.

Il diavolo
Lo sento, lo avverto. E capisco che l’unica maniera per sconfiggerlo è la preghiera. Quando percepisco questa presenza, ho una reazione semplice, legata alla mia cultura. Prego e mi copro di croci. Faccio il segno della croce e più ne faccio, più percepisco che quella presenza si allontana. La croce è sempre stata una specie di arma segreta. Quando Ylenia e Romina hanno cominciato a prendere certe strade, la mia fede mi faceva considerare la presenza del male. Perché il diavolo si accanisce sempre contro i più deboli.

Radio Maria
Mi torna spesso l’immagine di mio padre seduto ad ascoltare Radio Maria. Diceva: «Ascoltare Radio Maria mi fa stare bene. Da quando la ascolto è come se avessi recuperato una vista che prima non avevo». Questa radio è davvero un fenomeno da studiare: non trasmette pubblicità, ma solo preghiere, messe, meditazioni, conferenze di carattere religioso. Fa compagnia a tantissime persone sole.

La malattia
Sono stato operato di cancro alla prostata. Ho coniato un motto: voglio essere io un problema per i problemi. Siccome i problemi non li devo invitare né li devo inventare, sono già lì a portata di mano e ti aggrediscono ogni giorno, allora voglio diventare agguerrito contro di loro, non scoraggiarmi, affrontarli. Senza azzardi, ma senza farmi prendere dal vittimismo. Un atteggiamento che detesto: ho visto molta gente rovinarsi con le proprie mani per vittimismo.

I precetti della Chiesa
Ho sofferto molto per lo schiaffo che ho ricevuto dopo il divorzio. Mi hanno vietato di incontrare il Papa, di fare la comunione, di fare il padrino di battesimo per il figlio di un mio amico. Se qualcuno ha avuto un incidente di percorso, deve essere aiutato, accolto, sostenuto. Il Vangelo è basato sul perdono, sull’amore. Non dovrebbero farmi sentire un estraneo. Ma il bilancio del mio rapporto con la Chiesa è positivo: meno male che i preti, i religiosi e le religiose ci sono, che ogni giorno lavorano per aiutare gli altri.

L’aldilà
Credo che la vita non finisca con la morte, che ci sia un Aldilà, che Qualcuno ci attenda. Ci credo perché sono nato in una famiglia legata alla terra, che mi ha educato a guardare al Cielo. Ci credo perché ancora oggi vedo che cos’è la fede riflessa negli occhi di mia madre. E perché nella bellezza della natura come nell’amore di un figlio riconosco la scintilla di un amore più grande.

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Accoglienza reliquie di S. Margherita Maria Alacoque e S. Claudio de la Colombière

Posté par atempodiblog le 14 mars 2012

Accoglienza reliquie di S. Margherita Maria Alacoque e S. Claudio de la Colombière dans Articoli di Giornali e News

Nei giorni 16/17/18 presso la chiesa del Sacro Cuore in contrada Cappella Bianchini in Torre del Greco si terrà l’evento dell’accoglienza e Adorazione delle Reliquie di S. Margherita Maria Alacoque e S. Claudio La Colombière.

Santa Margherita Maria Alacoque, vergine, entrata tra le monache dell’Ordine della Visitazione della beata Maria, corse in modo mirabile lungo la via della perfezione; dotata di mistici doni e particolarmente devota al Sacratissimo Cuore di Gesù, fece molto per promuoverne il culto nella Chiesa. A Paray-le-Monial nei pressi di Autun in Francia, il 17 ottobre, si addormentò nel Signor.

Fonte: PositanoNews

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L’immaginazione

Posté par atempodiblog le 14 mars 2012

L'immaginazione dans Citazioni, frasi e pensieri

Se l’immaginazione gira, ribollendo, su te stesso, essa crea situazioni illusorie, composizioni di luogo che, di norma, non quadrano col tuo cammino, ti distraggono scioccamente, ti raffreddano e ti allontanano dalla presenza di Dio. — Vanità.
Se l’immaginazione rigira attorno agli altri, cadi facilmente nel difetto di giudicare — senza averne la missione — e interpreti in modo gretto e poco obiettivo il comportamento altrui. — Giudizi temerari.
Se l’immaginazione svolazza sui tuoi talenti, sulle tue battute, o sul senso di ammirazione che susciti negli altri, ti esponi a perdere la rettitudine d’intenzione, e a dar corda alla superbia.
In genere, lasciar libera l’immaginazione comporta una perdita di tempo, e inoltre, quando non la si domina, apre il varco a un filone di tentazioni volontarie.
— Non trascurare nemmeno un giorno la mortificazione interiore!
Solco, 135

di San Josemaría Escrivá de Balaguer
Tratto da: josemariaescriva.info

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Perdonare è dimenticare

Posté par atempodiblog le 14 mars 2012

Perdonare è dimenticare dans Citazioni, frasi e pensieri

“Perdonare vuol dire dimenticare per sempre”.

San Giovanni Bosco

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