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Pasolini, Schettino e noi: quale rimedio al nostro moralismo?

Posté par atempodiblog le 21 février 2012

Pasolini, Schettino e noi: quale rimedio al nostro moralismo?
di Valerio Capasa – Il Sussidiario

Pasolini, Schettino e noi: quale rimedio al nostro moralismo? dans Alessandro Manzoni

A cosa serve la poesia, se poi la realtà ci sbatte contro con violenza? Non ci interessa appena se uno studente possa farsene qualcosa domani nel mondo del lavoro, ma se ci aiuta a guardare diversamente le cose che succedono: per esempio la tragedia della Costa Concordia.
A me sembra, come a Calvino, che essa sia un’occasione insostituibile, per la «sopravvivenza di quel che si chiama umano in un mondo dove tutto si presenta inumano»: e non è forse inumana la dilagante indignazione a buon mercato, fondata sul presupposto manicheo secondo cui i mostri sono sempre altri e mai noi? In queste settimane, per esempio, ci si è svelato uno stuolo di insospettabili esperti di navigazione, sedicenti capitani coraggiosi e senza peccato pronti a scagliare la (prima?) pietra contro il comandante Schettino. Un mio alunno quattordicenne, che voleva murarlo vivo “perché non ha compiuto il proprio dovere”, dimenticava però che qualche minuto prima si era giustificato perché non aveva fatto i compiti.
Di questa mancanza di realismo, di questa rimozione della nostra fragilità, quanto è responsabile un certo modo di leggere a scuola? Prendiamo don Abbondio: insegnanti e studenti pronti da un paio di secoli a dargli del vile, comodamente seduti dietro cattedre e banchi, con lo stesso atteggiamento di chi guarda in poltrona gli errori arbitrali alla moviola: ma quanti, se terrorizzati da due tipi loschi, sarebbero così coraggiosi da opporsi? In balia di quante connivenze ci adeguiamo perfino in circostanze più soft?
Come ha osservato Pirandello, «noi dovremmo tutti provar disprezzo e indignazione per don Abbondio», «eppure siamo indotti al compatimento, finanche alla simpatia». Come mai? Perché Manzoni «ascolta entro di sé anche la voce delle debolezze umane», alla luce dell’«esperienza della vita» anziché di princìpi astratti («forse lo stesso don Abbondio, in astratto, parlando, predicando della missione del sacerdote, avrebbe detto su per giù le stesse cose» del cardinal Borromeo). «Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio»: ma «noi non possiamo, se non astrattamente, sdegnarci di lui», e infatti «il poeta non si sdegna», perché sa che l’«ideale non si incarna se non per rarissima eccezione». Non è che lo giustifichi, quasi prendesse la «debolezza per misura del dovere», e anzi «ne fa strazio» senza risparmiarci un briciolo di quella colpevole «paura»: «quella pietà, in fondo, è spietata», ma «il poeta, in somma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è per umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano su la coscienza».
È che «il coraggio, uno non se lo può dare». Si difende così don Abbondio, «agnello tra i lupi», e il cardinal Borromeo sembra d’accordo, aggiungendo tuttavia che è anche vero che il coraggio che non abbiamo possiamo chiederlo. Non sapete che «c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?». Non è un caso se Lucia, il personaggio più coraggioso del romanzo, è anche quello più aiutato a viverlo (da Renzo a fra Cristoforo, dall’innominato alla compagna in lazzaretto).
Troppo cristiano? Nell’Iliade gli eroi – mica i deboli – pregano continuamente. Quando Patroclo va a combattere, Achille chiede a Zeus di «rafforzargli il cuore nel petto», perché consapevole che «la mente di Zeus è sempre più forte degli uomini: mette in fuga anche un valoroso e gli toglie facilmente la vittoria; altre volte lo spinge egli stesso a combattere». Perfino Ettore, dopo dieci anni e ventidue canti pieni di eroismo, appena vide Achille «fu preso dal tremito e non poté più resistere: si lasciò indietro le porte e si mise in fuga», girando per tre volte intorno alla città di Troia come un cerbiatto «atterrito» da un leone.
Nell’uomo convivono la tensione alla gloria e – in agguato – la debolezza; dentro ciascuno c’è Ettore e c’è don Abbondio. Non accorgersene vuol dire guardarlo non come un mistero, con la pietas che merita, ma come un meccanismo.
È un habitus che assorbiamo a poco a poco. A volte penso che insegnare le funzioni di Propp possa abituare a non sentire più il bisogno di penetrare nell’esperienza di un racconto, come se bastasse individuare, in ogni narrazione, l’eroe, l’antagonista e gli altri ruoli; analogamente per i fatti di cronaca – si tratti di Sarah Scazzi o dell’isola del Giglio – ci servono un eroe, una vittima, un colpevole e una malafemmina, nonché un pizzico di sospetto su tutto. Forse disturbano troppo quelle domande sterminate sulla vita e sulla morte apertesi improvvisamente come lo scafo della Concordia nell’impatto con gli scogli della realtà, ci sentiamo naufragare in quell’angoscia senza parole, intravedendo un mistero troppo profondo per essere sondato: e allora saltiamo nella scialuppa degli schemi semplificatori, accontentandoci che chi ha sbagliato paghi e che il relitto venga rimesso a posto, perché la nostra personale crociera, fatta anche di celentaneschi richiami morali, must go on.
Nel ’47 Pasolini fotografava lucidamente uno dei grandi equivoci dell’insegnamento dell’italiano: «la preoccupazione moraleggiante, la costante didascalica… Ahimé, quale grigiore! Non si pensa dunque che l’assassino leggendo la storia di un assassino terrà sempre per la vittima?».
Quanti brani – magari letterariamente inconsistenti – vengono fatti leggere, quanti incontri con gli autori vengono organizzati, col solo scopo di cavarne un messaggio edificante: contro la guerra, contro la camorra, contro il razzismo, per la legalità, per sentirsi cittadini attivi ed europei.
«I ragazzi, udita la favola, hanno esaurito il loro interesse: indi si inchinano, o innocenti!, davanti alla morale; è un modo come un altro per ignorarla. Ma la morale: ossia il conclusivo e l’utile, non si trova in altro luogo che nel linguaggio stesso della favola, è tutt’uno con la curiosità suscitata. Nel caso che una “morale” indelicatamente applicata fosse: la favola insegna che non bisogna uccidere, sarebbe in effetti inutile: sì che, nonché essere sottintesa nel nesso, andrebbe piuttosto sottintesa nella compassione sollevata, per esempio, non verso la vittima, ma verso l’assassino».
C’è qualcuno che prova compassione verso l’assassino, verso chi abbandona la nave, verso noi, complici del male per debolezza? Come quella che Dante ebbe per il suo nemico Buonconte di Montefeltro, che l’ultimo istante prima di morire fu salvato eternamente soltanto «per una lagrimetta».

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Dove sbaglia Adriano

Posté par atempodiblog le 21 février 2012

Dove sbaglia Adriano
di Michele Brambilla – La Stampa

Dove sbaglia Adriano dans Articoli di Giornali e News

Se è vero che il Festival di Sanremo è una spia degli umori degli italiani, proviamo a vedere se il «caso Celentano» ha qualcosa da dirci.

Come mai l’ex ragazzo della via Gluck è stato tanto criticato? Non solo dai giornali, ma anche dal pubblico: non si era mai vista all’Ariston una contestazione in diretta come quella dell’altra sera: e chi continua a pensare che si sia trattato di una gazzarra organizzata, non ha capito o peggio non vuol capire (torneremo tra poco sul punto). Dicevamo: come mai tante reazioni negative?

Nei contenuti Celentano ha preso un paio di stecche anche pesanti – gli insulti ad Aldo Grasso e l’invocata chiusura di due giornali ma ha anche lanciato spunti tutt’altro che trascurabili. Quando dice che oggi, nella predicazione del clero, sono quasi scomparsi quelli che una volta si chiamavano «i Novissimi» (morte, giudizio, inferno e paradiso) Celentano ha perfettamente ragione: chiunque abbia frequentazione domenicale con la messa lo sa benissimo; chi legge le prolusioni della Cei ahimè lo sa ancor meglio. Quando poi dice che dobbiamo essere felici di essere nati perché abbiamo un destino di vita eterna, ci dice l’unica cosa di cui in fondo ciascuno di noi ha davvero bisogno, e che è l’essenza di quel Vangelo (che significa: «buona notizia») che i cristiani annunciano da duemila anni.

Celentano avrebbe dovuto dunque appassionare, commuovere, o almeno incuriosire. E invece, ha diviso, urtato, irritato. Non è scaturito, dalle sue parole, un dibattito sul mistero della vita e della morte, sul dilemma tra speranza e disperazione: ma molto più miseramente un polpettone sugli equilibri interni della Rai. Perché?

Perché Celentano ha dimostrato di essere legato a uno schema vecchio, quello secondo cui per proporre bisogna opporre; per parlare di una cosa buona, bisogna mostrarne una cattiva che tende a soverchiare, a soffocare. La sua è la retorica della denuncia, dell’indignazione, dei buoni contro i cattivi, del potere che è sempre marcio. Così si è subito creato un nemico da attaccare. Torno a quanto dicevo prima sulla contestazione: non credo che fosse organizzata, perché quando Celentano è comparso sul palco nessuno lo ha fischiato; poi ha cantato ed è stato applaudito; poi si è messo a parlare della vita eterna e tutti ascoltavano in un (è il caso di dirlo) religioso silenzio. È stato quando ha ri-tirato in ballo Avvenire e Famiglia Cristiana che dal pubblico è partito un collettivo «baaaasta!» che non poteva certo essere preparato. Basta, non ne possiamo più di queste polemiche.

Posso fare un esempio concreto? Quando Roberto Benigni ha portato in tv – anche all’interno di spettacoli «leggeri» – la Divina Commedia, e quindi gli stessi temi del paradiso e dell’eternità, ha infiammato, emozionato, coinvolto anche persone che ostentano agnosticismo se non ateismo. La differenza è che Benigni ha portato in televisione la Bellezza, Celentano la solita logora logica della rissa e della polemica.

Celentano farebbe bene a riflettere sul risultato che ha ottenuto, e che è l’opposto di quello che si prefiggeva. Sbaglia se dà la colpa alla «corporazione dei giornalisti». Ma lui ragiona così, vede un mondo che è governato solo (sottolineiamo il «solo», altrimenti non ci capiamo) da corporazioni, poteri forti, mercanti della guerra, inquinatori, speculazioni edilizie, corruzioni e così via. Non è che tutto questo non ci sia, anzi: c’è eccome. Ma l’Italia e probabilmente il mondo intero oggi – arrivati al fondo di una crisi che non è solo economica, ma è soprattutto morale – hanno bisogno di non piangersi più addosso; hanno bisogno di girare pagina, di trovare motivi di speranza, di qualcuno che indichi non solo il lordume ma anche la pulizia.

Perché c’è anche quella, la pulizia: e non è un caso se l’Ariston e credo tutti gli spettatori in tv hanno applaudito Geppi Cucciari quando ha indicato tra le donne da seguire come esempio quella nostra connazionale che fa la volontaria fra gli ultimi del mondo. E forse non è un caso neppure se a vincere il festival sia stata una canzone che ci dice che sì, c’è la crisi, ma questo non è l’inferno e non bisogna morire ma guardare avanti.

Abbiamo passato di tutto negli ultimi vent’anni: inchieste contro la corruzione, scandali, una politica dell’odio e tante altre schifezze. Abbiamo fatto marce pro e campagne contro. Ma adesso siamo in un momento in cui dobbiamo rialzarci. E con la sola denuncia di quello che non va non ci si rialza, si resta paralizzati.

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