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Meditare la Passione

Posté par atempodiblog le 29 février 2012

Meditare la Passione dans Don Giustino Maria Russolillo

Mi ripeta il Vangelo la storia della passione, mi rechino gli angeli gli strumenti della passione.
Dopo il peccato, l’amore non ha un nemico più terribile della dimenticanza, prodotta dall’assenza degli amici nel tempo e nello spazio. Quante anime in grazia languiscono senza amore! Voi volete che ravvivi sempre i ricordi del Vostro amore, di tutti i suoi segni, parole, doni e prove, per riaccendere e nutrire la fiamma in me e in tutti. Ma specialmente della Vostra passione e morte, volete che mi ricordi sempre e viva di questo ricordo, fatto, realtà permanente! Me lo dicono le stimmate e l’Eucaristia! Poiché in cielo avete voluto i segni vivi della passione anche nel corpo allo stato glorioso: perenne visione agli stessi Angeli e ai Santi della Vostra passione. Sulla terra poi avete istituito espressamente l’Eucaristia, sacrificio e sacramento, ordinando che l’uno e l’altro sia memoriale e riproduzione della passione. Il più degno ricordo di voi, lasciato da voi stesso. Il più efficace mezzo per produrre l’amore dato da voi stesso. E per la Vostra passione applicata, perpetuata, vi prego di non sopportare più oltre la mia indolenza e la mia insensibilità che ne deriva. Me ne ricorderò e per amore e dolore mi sentirò come venir meno! Credo a quanto diceva quel vostro servo: l’insensibilità del cristiano per voi crocifisso è un prodigio diabolico e non voglio più esserne vittima! Meditare la Vostra passione, sentirla, compatirla ci fa cogliere i frutti della redenzione, promuove la nostra santificazione e glorifica il Padre Vostro.

Beato Giustino Maria della Santissima Trinità Russolillo

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Della santa Comunione

Posté par atempodiblog le 29 février 2012

Della santa Comunione dans Sacramento della penitenza e della riconciliazione

Le suore non parlino del fatto che una si accosta più di rado e un’altra più spesso alla santa Comunione. Si astengano dall’emettere giudizi su questa materia, su cui non hanno diritto di parlare. Ogni giudizio in merito appartiene esclusivamente al confessore. La Superiora può interrogare una data suora, però non al fine di conoscere il motivo per cui non si accosta alla santa Comunione, ma allo scopo di facilitarle la confessione. Le superiore non si azzardino ad entrare nell’ambito della coscienza delle suore.

Santa Faustina Kowalska

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Due pesi e due misure

Posté par atempodiblog le 29 février 2012

Due pesi e due misure dans Riflessioni San-Francesco-di-Sales

Se qualcuno dei nostri dipendenti ha un modo di fare sgarbato, o ci riesce antipatico, può fare qualunque cosa, la prenderemo sempre per traverso; non cessiamo di umiliarlo e siamo pronti al rimprovero; al contrario, se qualcuno ci va a genio, può fare quello che vuole, lo scuseremo sempre.
Ci sono dei figli veramente buoni e bravi, ma invisi ai loro papà e alle loro mamme solo a causa di difetti fisici e magari poi sono preferiti quelli viziosi, perché hanno delle belle qualità fisiche. In ogni campo diamo la preferenza ai ricchi sui poveri, anche se non sono di stirpe più nobile o più virtuosi; diamo la preferenza anche a quelli vestiti meglio.
Esigiamo con scrupolo i nostri diritti, ma pretendiamo che gli altri siano remissivi nel chiedere i loro; conserviamo il nostro posto con puntiglio, ma vogliamo che gli altri siano umili e condiscendenti; ci lamentiamo con facilità del prossimo, ma poi guai se uno si lamenta di noi! Quello che facciamo per gli altri ci sembra sempre tanto, ciò che gli altri fanno per noi, nulla, almeno ci sembra.
Assomigliamo alle pernici di Pafiagonia che hanno due cuori: ne abbiamo uno dolce e cortese per noi, e uno duro, severo, intransigente per il prossimo. Usiamo due pesi: uno per pesare le nostre comodità, caricando il più possibile, l’altro per pesare quelle del prossimo, alleggerendo più che possiamo.
La Scrittura dice che le labbra ingannatrici hanno parlato in un cuore e in un cuore: con ciò vuol dire che hanno due cuori; avere due pesi: uno forte, per riscuotere e un altro leggero, per pagare, è cosa abominevole davanti a Dio.
Filotea, sii costante e giusta nelle tue azioni: mettiti sempre al posto del prossimo e metti lui al tuo e così giudicherai rettamente; quando compri fa la venditrice e quando vendi fa la compratrice e vedrai che riuscirai a vendere e comprare secondo giustizia.
Si tratta di piccole ingiustizie, che non obbligano alla restituzione, perché ci limitiamo rigorosamente nei termini a nostro favore; ma non per questo è un motivo per non correggerci. Sono grosse mancanze contro la ragionevolezza e la carità; se si guarda bene sono veri imbrogli: ma che ci vuole in fin dei conti a vivere con generosità, nobiltà di cuore, cortesia, e con un cuore signore, costante e ragionevole?
Ricordati di esaminare spesso il tuo cuore, Filotea, per vedere se verso il prossimo si comporta come vorresti che si comportasse lui nei tuoi confronti se tu fossi al suo posto; qui sta la ragionevolezza.

Tratto da: Filotea di San Francesco di Sales

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La mormorazione: una ferita alla carità

Posté par atempodiblog le 29 février 2012

La mormorazione: una ferita alla carità dans Madre Speranza

Asteniamoci dalla mormorazione. Noi non siamo chiamati a giudicare i nostri fratelli. Detestiamo questo vizio, ricordando che la carità ci obbliga ad evitarlo ad ogni costo.

Tutti sappiamo che la mormorazione consiste nel manifestare ad un altro le mancanze del nostro prossimo, spesso distruggendo il suo buon nome. Ciò avviene ogni volta che riportiamo i difetti altrui. Forse con maggiore danno se lo facciamo senza indicare detti difetti, ma usando espressioni che alludono a cose nascoste; così, per esempio, la frase: « Se io potessi parlare! »; oppure, nell’ascoltare maldicenze, rispondere: « Io anche avrei da dire, ma preferisco tacere ». Questo è terribile perché credo che una tale riserva danneggi molto più della manifestazione aperta di ciò che è successo; induce a sospettare, infatti, che si nascondano cose molto gravi.

Qualcuno potrebbe dire: «Io, quando parlo del mio prossimo, riferisco sempre cose risapute, per cui non credo di togliere la buona riputazione, dato che quello che dico non l’ho visto io ma mi è stato riferito. In tal caso la mia mancanza non è tanto grave perché si tratta di cose pubblicamente conosciute. Si sa che, quando un delitto è pubblico, diminuisce la gravità del parlarne».

Io credo invece che anche in quest’ultimo caso chi si compiace di riferire le mancanze dei propri fratelli dimostra di avere nel petto un cuore completamento freddo, privo di amore e di carità.

Vediamo come Egli si è comportato con i più grandi peccatori. Riguardo a Giuda, giunto il momento di manifestare il suo tradimento, lo fa con molta carità e delicatezza, senza palesare il suo nome. Egli dice: « Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà » (Mt 26, 23). In tal modo ciascuno prese rivolta a sé l’allusione e tutti chiesero pieni di spavento « Signore, sono forse io? ». Gesù, sebbene li vedesse spaventati, non fece alcun nome, solo disse in segreto a Giovanni « Colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò » (Gv 13, 26). E lo fece con tanta discrezione che nessun altro se ne accorse. Se Gesù manifestò questo al suo amato discepolo fu perché Giovanni lo amava profondamente. Colui che ama ha carità verso i propri fratelli; tace e nasconde le loro mancanze.

Siamo caritatevoli, perché la carità è il vincolo che ci unisce gli uni agli altri e tutti a Gesù. In ogni momento della nostra vita, solleviamo gli occhi più in alto e pensiamo che sarà veramente degno di approvazione in noi, non questo o quel metodo di virtù, ma il frutto della carità. Questo è ciò che Gesù ci chiede.

Madre Speranza
Fonte: Santuario dell’Amore Misericordioso di Collevalenza

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Il sogno dell’elefante

Posté par atempodiblog le 27 février 2012

Il sogno dell'elefante dans San Giovanni Bosco

Il 6 gennaio 1863 Don Bosco raccontava ai suoi giovani uno di quei sogni che facevano epoca per l’efficacia con la quale scuotevano i cuori e li portavano a Maria.
Sognò di trovarsi nella sua cameretta in amichevole conversazione col prof. Vallauri, senatore del Regno, quando sentì bussare alla porta. Corse a vedere. Era Mamma Margherita, morta da sei anni, che affannata lo chiamava:
— Vieni a vedere! Vieni a vedere!
Don Bosco esce sul balcone e vede, nel cortile, un elefante di smisurata grandezza. Sbigottito si precipita nel cortile, seguito dal prof. Vallauri.
Quell’elefante sembrava mite, docile, si divertiva con i giovani, li accarezzava con la proboscide, in modo che era sempre seguito da un gran numero di giovani. La maggior parte però fuggiva spaventata e finì per rifugiarsi in chiesa. Anche Don Bosco li seguì e, nel passare vicino alla statuetta della Vergine, collocata sotto il porticato (ove si trova ancora oggi), toccò l’estremità del suo manto per invocarne la protezione; ed Ella alzò il braccio destro. Vallauri lo imitò e la Vergine sollevò il braccio sinistro.
Venne l’ora delle sacre funzioni e tutti i giovani si recarono in chiesa. L’elefante li seguì e Don Bosco, mentre impartiva la benedizione eucaristica, vide al fondo il mostro anch’esso inginocchiato, ma in senso contrario, col muso e con le zanne rivolti alla porta principale. Usciti di chiesa, i giovani ripresero la ricreazione. «A un tratto — racconta Don Bosco —, all’impensata di tutti, vidi quel brutto animale, che prima era tanto gentile, avventarsi con furiosi barriti in mezzo ai giovani circostanti e, prendendo i più vicini con la proboscide, scagliarli in alto, sfracellarli sbattendoli in terra e con i piedi farne uno strazio orrendo. Era un fuggi fuggi generale: chi gridava, chi piangeva, chi invocava l’aiuto dei compagni; mentre, cosa straziante, alcuni giovani, invece di soccorrere i feriti, avevano fatto alleanza col mostro per procacciargli nuove vittime.
Mentre avvenivano queste cose, la statuetta della Madonna si animò, s’ingrandì, divenne persona di alta statura, alzò le braccia, aperse il manto che si allargò smisuratamente, tanto da coprire tutti quelli che vi si ricoveravano sotto. Ma vedendo Maria SS. che molti non si curavano di correre a lei, gridava ad alta voce:
— Venite ad me omnes (Venite a me tutti).
Ed ecco che la folla dei giovani sotto il manto cresceva, mentre il manto continuava ad allargarsi. Siccome però alcuni facevano i sordi e rimanevano feriti, la Vergine, rossa in viso, continuava a gridare:
— Venite ad me òmnes!
L’elefante intanto continuava la strage, aiutato da alcuni giovani che, armati di spada, impedivano ai compagni di rifugiarsi presso la Madonna. Tra i giovani ricoverati sotto il manto della Vergine alcuni facevano rapide scorrerie, strappavano all’elefante qualche preda e portavano i feriti sotto il manto della Madonna, e subito restavano guariti».
Il cortile ormai era deserto e presentava due scene opposte. Da una parte c’era l’elefante con 10-12 giovani che lo avevano aiutato a fare tanto male. A un tratto quel bestione si sollevò sulle zampe posteriori, si trasformò in un fantasma orribile con lunghe corna e, preso un nero copertone, avviluppò quei miseri che avevano parteggiato con lui, mandando un orribile barrito. Allora un denso fumo tutti li avvolse e si sprofondarono e sparirono col mostro in una voragine improvvisamente apertasi sotto i loro piedi.
Dall’altra parte la scena dolcissima della Vergine che, ai giovani ricoverati sotto il suo manto, rivolgeva belle parole di conforto e di speranza. Tra le altre, Don Bosco udì queste:
— Voi che avete ascoltato la mia voce e siete sfuggiti alla strage del demonio, volete sapere qual è la causa della loro perdita? Sono i cattivi discorsi e le azioni che ne seguirono. Fuggite quei compagni che sono amici di Satana, fuggite i cattivi discorsi, specialmente quelli contro la purità; abbiate in me una confidenza illimitata e il mio manto vi sarà sempre sicuro rifugio.
Detto questo, si dileguò e Don Bosco non vide altro che la cara statuetta, mentre i giovani salvati si ordinarono dietro a uno stendardo che portava la scritta: Sancta Maria, succurre miseris (Santa Maria, soccorri noi poveretti) e partirono cantando: «Lodate Maria, o lingue fedeli».
Don Bosco terminava il suo racconto dicendo: «Chi vorrà sapere il posto che tenevano in sogno, venga da me e io glielo manifesterò». «I giovani — commenta il biografo Don Lemoyne —, meditando tal sogno, per una settimana e più non lo lasciarono in pace. Al mattino molte confessioni, dopo pranzo furono quasi tutti da lui per sapere quale luogo tenessero in quel sogno misterioso».

Tratto da: Sogni Don Bosco
Fonte: Spiritualità Giovanile Salesiana

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Bernadette, la promessa di una vita straordinaria

Posté par atempodiblog le 26 février 2012

Bernadette, la promessa di una vita straordinaria
di Padre Livio Fanzaga – La Bussola Quotidiana

Bernadette, la promessa di una vita straordinaria dans Lourdes

Bernadette Soubirous. Bernadette di Lourdes. Ci dice ancora qualcosa questa ragazza a cui nel 1858 apparve la Madonna, apparizione a cui è dedicata la festa odierna? Ha ancora qualcosa dai dire ai ragazzi e alle ragazze di oggi, alle tante Ruby  ma alle ancora più numerose e anonime Francesca, Paola, Roberta?

Pensiamo a quella che è la caratteristica più evidente dei ragazzi di oggi: la mancanza di una prospettiva per il futuro. I ragazzi oggi appaiono impotenti, vedono la vita come una giungla, una lotta dove i più soccombono. E com’era la vita di Bernadette? Anche lei non aveva un futuro, secondo la logica del mondo. Era povera, ignorante, ma non solo: viveva anche una tragedia in famiglia, suo padre era stato accusato (ingiustamente) di furto, per cui la sua famiglia era emarginata, malfamata e Bernadette stessa disprezzata. Le prospettive per il futuro erano nere.

Ma a un certo punto avviene questo incontro straordinario, Bernadette viene colpita soprattutto da una cosa: la Madonna si rivolgeva a lei con rispetto, dice che le “parlava come a una persona”. Ha scoperto la sua dignità di persona dallo sguardo di un Altro, ha sperimentato lo sguardo con cui ci guarda Dio. Ed è questa scoperta che le ha cambiato la vita. Non importa la condizione in cui sei, quanto disperata sia la tua vita: se rispondi alla chiamata di Dio, Dio fa della tua vita qualcosa di straordinario.

Da Bernadette impariamo che Dio ha un pensiero sulla nostra vita, sulla vita di ognuno di noi, un pensiero buono, un grande progetto. Scoprire la missione che ci è assegnata da Dio, esserle fedele, è questo che improvvisamente ci offre un futuro, sta qui la chiave della vita.

Vengono subito in mente tanti altri esempi di questo genere: prendiamo Giovanni Paolo II, anche lui povero, un operaio in una Polonia povera e oppressa. E santa Faustina Kowalska, una ragazza povera, per tanti aspetti simile a Bernadette, eppure venerata oggi in tutto il mondo perché Dio ha affidato a lei il messaggio della Sua misericordia. E ancora: i ragazzi di Medjugorie, anche loro poveri, abitanti in un luogo sperduto e isolato che oggi è diventato un centro in cui arrivano persone da tutto il mondo.

Ecco perché Bernadette è una figura di straordinaria attualità: se la sua situazione esistenziale era analoga a quella dei ragazzi d’oggi, tanto più l’incontro che le ha aperto il futuro è possibile per ognuno, in qualunque condizione si trovi. Se ci affidiamo, se siamo fedeli alla chiamata e alla missione che ci viene assegnata, Dio fa della nostra vita qualcosa di straordinario, inimmaginabile.

E lo fa assecondando il nostro modo di essere, valorizzando la nostra umanità. Pensiamo infatti a cosa è oggi Lourdes: il santuario mondiale della sofferenza. Come ha fatto a diventarlo? Nel suo messaggio a Bernadette, la Madonna non ha mai parlato della sofferenza, né ha prodotto guarigioni miracolose. Tutto è nato perché, avendo imparato a guardarsi come Dio la guardava, Bernadette ha vissuto la sua sofferenza fisica – aveva infatti una malattia gravissima – come la propria strada alla santità. Anche la malattia da maledizione si è trasformata in opportunità. Allora, non dal messaggio della Madonna ma dalla risposta di Bernadette nasce la Lourdes così come la conosciamo oggi. O meglio, dalla risposta di Bernadette alla chiamata di Dio. Perché Dio non fa magie, ma si affida alla nostra libertà, esalta la nostra libertà.

Una vita straordinaria e l’esaltazione della nostra libertà. Ci interessa?

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Il Card. Ravasi su Radio Maria e le apparizioni di Medjugorje

Posté par atempodiblog le 25 février 2012

Uno stralcio dell’intervista di Valerio Pece per la Rivista Tempi al Card. Gianfranco Ravasi

Il Card. Ravasi su Radio Maria e le apparizioni di Medjugorje dans Articoli di Giornali e News

Lei ha una seguitissima rubrica su Radio Maria. Come giudica quella che per molti è diventata l’“Università dei cattolici”? Cosa risponde anche a coloro che dentro la chiesa guardano questa Radio un po’, come dire, dall’altro in basso?
Tra i meriti di Radio Maria c’è senz’altro quello di aver intercettato un orizzonte vasto e non nazional-popolare, come a volte erroneamente si pensa. La mia rubrica è la riproduzione di un ciclo di conferenze che tenni al Centro culturale San Fedele a Milano. Devo dire che non sono lezioni facili, per cui ogni volta mi stupisco delle email che mi arrivano dagli ascoltatori: vogliono approfondimenti, spiegazioni, vorrebbero avere il testo. Non sarà bello da dire ma la verità è che noi ci portiamo dietro un po’ di sfiducia del “Popolo di Dio”, pensando che alla fine ci si accontenti, invece basta ascoltarlo per vedere quanto profondamente si interroghi sulle domande fondamentali: vita, morte, dolore, oltrevita. I tanti ascoltatori di Radio Maria sono una vera lezione per noi teologi.

Che idea si è fatta delle apparizioni che avverebbero a Medjugorje? I frutti in termini di conversioni sembrano davvero abbondanti.
Non sono mai stato a Medjugorje e non so se mai vi andrò, ne riconosco però l’assoluto rilievo. Va detto che la commissione voluta da papa Benedetto XVI e guidata dal cardinale Ruini è già a metà del suo cammino. Certo, bisognerà verificare bene la genesi delle apparizioni ma va detto che la commissione è guidata da teologi assolutamente qualificati, di cui fidarsi. Sono curioso dell’esito finale. Le strade per la conversione poi sono tante e diversissime, a Paul Claudel bastò ascoltare il Magnificat nella cattedrale di Notre-Dame durante la messa di Natale, Medjugorje oggi è la strada per tanti, i frutti parlano chiaro.

Tratto da: Il cardinale che si fece Gentile – Rivista Tempi
Fonte: Radio Maria

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Giacomo e Giovanni di Zebedeo diventano “i figli del tuono”. Verso Aczib con il pastore Anna.

Posté par atempodiblog le 24 février 2012

Giacomo e Giovanni di Zebedeo diventano “i figli del tuono”. Verso Aczib con il pastore Anna. dans Maria Valtorta mariavaltorta

[14 novembre 1945]
Gesù cammina per una zona molto montagnosa. Non sono monti alti, ma è un continuo salire e scendere di colli e un fluire di torrenti, allegri in questa stagione fresca e nuova, limpidi come il cielo, giovinetti come le prime foglie sempre più numerose sui rami. Ma, per quanto la stagione sia bella, allegra, tale da sollevare il cuore, non sembra che Gesù sia molto sollevato di spirito, e meno di Lui lo sono gli apostoli. Vanno, zitti zitti, per il fondo di una valle. Solo pastori e greggi si presentano ai loro occhi. Ma Gesù neppure pare vederli.
È il sospiro sconfortato di Giacomo di Zebedeo e le sue parole improvvise, frutto di un pensiero cruccioso, quello che richiama Gesù… Giacomo dice: «E sconfitte!… e sconfitte!… Sembra di essere dei maledetti…».
Gesù gli posa la mano sulla spalla: «Non sai che questa è la sorte dei migliori?».
«Eh! lo so da quando sono con Te! Ma ogni tanto ci vorrebbe qualcosa di diverso, e prima lo avevamo, per risollevare cuore e fede…».
«Dubiti di me, Giacomo?». Quanto dolore trema nella voce del Maestro!
«Nooo!…» Il “no” non è molto sicuro, in verità.
«Ma dubitare, dubiti. Di che allora? Non mi ami più come prima? Il vedermi cacciato, o deriso, o anche solo trascurato in questi confini fenici ti ha affievolito l’amore?». Vi è un pianto che trema nelle parole di Gesù, per quanto non vi siano singhiozzi o lacrime. È proprio la sua anima che piange.
«Questo no, Signore mio! Anzi il mio amore per Te cresce più ti vedo non compreso, non voluto, avvilito, afflitto. E per non vederti così, per poter mutare il cuore agli uomini, sarei pronto a dare la mia vita in sacrificio. Mi devi credere. Non mi stritolare il cuore già tanto afflitto, con il dubbio che Tu pensi che io non t’ami… Altrimenti… Altrimenti io andrò in eccessi. Tornerò indietro e farò vendetta di chi ti addolora, per provarti che ti amo, per levarti questo dubbio, e se sarò preso e ucciso non mi importerà nulla. Mi baserà averti dato una prova d’amore.
«Oh! Figlio del tuono! Donde tanta irruenza! Vuoi dunque essere un fulmine sterminatore?». Gesù sorride per la foga e i propositi di Giacomo.
«Oh almeno ti vedo sorridere! Questo è già un frutto di questi miei propositi. Che ne dici, Giovanni? Dobbiamo mettere in pratica il mio pensiero per sollevare il Maestro avvilito da tante ripulse?».
«Oh! sì. Andiamo noi. Torniamo a parlare. E se lo insultano ancora come re di parole, re zimbello, re senza denaro, re pazzo, pestiamo sodo finché si accorgano che il re ha pure un esercito di fedeli e che questi non sono disposti allo scherno. La violenza è utile in certe cose. Andiamo, fratello!» gli risponde Giovanni, e non pare più lui, sempre dolce, così irato come è.
Gesù si pone tra i due, li afferra alle braccia per trattenerli e dice: «Ma uditeli! Ed Io, che ho predicato per tanto tempo? Oh! sorpresa delle sorprese! Anche Giovanni, la mia colomba, mi è divenuto sparviero! Guardatelo, voi, come è brutto, torbo, rabbuffato, svisato dall’odio. Oh! vergogna! E vi stupite se dei fenici restano indifferenti, se degli ebrei sono astiosi, se dei romani mi intimano lo sfratto, quando voi, i primi, non avete ancora capito niente dopo due anni che siete con Me, quando voi siete fatti di fiele per l’astio che avete in cuore, quando voi mettete fuori dai vostri cuori la mia dottrina d’amore e perdono, la sfrattate come cosa stolta e accogliete come buona alleata la violenza! Oh! Padre santo! Questa sì che è una sconfitta! Invece di essere come tanti sparvieri arrotanti rostro e unghioni, non sarebbe meglio foste angeli oranti il Padre di dare conforto al Figlio suo? Quando mai si è visto che un temporale faccia del bene colle sue folgori e le sue grandinate? Ebbene, a ricordo di questo vostro peccato contro la carità, a ricordo di quando ho visto affiorare sul vostro viso l’animale-uomo al posto dell’uomo-angelo che voglio sempre veder in voi, vi soprannominerò “i figli del tuono”».
Gesù è semiserio mentre parla ai due infiammati figli di Zebedeo. Ma il suo rimprovero non dura davanti al loro pentimento, e con viso luminoso di amore se li stringe al cuore dicendo: «E mai più brutti così. E grazie del vostro amore. E anche del vostro, amici» dice rivolto ad Andrea, Matteo ed i due cugini. «Venite qui, che abbracci voi pure. Ma non sapete che, non avessi altro che la gioia di fare la volontà del Padre mio e il vostro amore, sarei sempre felice, anche se tutto il mondo mi schiaffeggiasse? Sono triste, non per Me, per le mie sconfitte, come voi le dite, ma per pietà delle anime che respingono la Vita. Ecco, ora siamo tutti contenti, non è vero, o grandi bambini che siete? Su, allora. Andate da quei pastori che mungono il gregge e chiedete un poco di latte in nome di Dio. Non abbiate paura» dice vedendo lo sguardo desolato degli apostoli. «Ubbidite con fede. Avrete latte e non legnate, anche se l’uomo è fenicio».
E i sei vanno mentre Gesù li attende sulla via. E prega intanto, il mesto Gesù che nessuno vuole…
Tornano gli apostoli con un piccolo secchiello di latte e dicono: «Ha detto l’uomo che Tu vada là, ti deve parlare, ma non può lasciare le capre ghiribizzose ai piccoli pastori».
Gesù dice: «Allora andiamo là a mangiare il loro pane».
E vanno tutti sul greppo dal quale si spenzolano le capre capricciose.
«Io ti ringrazio del latte che mi hai dato. Che vuoi da Me?»
«Tu sei il Nazareno, vero? Quello che fa miracoli?».
«Sono quello che predica la Salute eterna. Sono la Via per andare al Dio vero, la Verità che si dona, la Vita che vi vivifica. Non sono il fattucchiere che fa prodigi. Quelli sono la manifestazione della mia bontà e della vostra debolezza, che ha bisogno di prove per credere. Ma che vuoi da Me?»
«Ecco… Tu eri due giorni sono ad Alessandroscene?».
«Sì. Perché?».
«Io pure c’ero coi miei capretti e quando ho capito che accadeva zuffa me la sono filata, perché è costume suscitarle per rubare ciò che è sui mercati. Sono ladri tutti, i fenici come… gli altri. Io non dovrei dirlo perché sono di padre proselite e di madre siriana, proselite io pure. Ma è verità. Bene. Torniamo al racconto. Mi ero messo in uno stallazzo con le mie bestie, in attesa del carro di mio figlio. E a sera, nell’uscire dalla città, incontrai una donna piangente con una figlioletta fra le braccia. Aveva fatto otto miglia per venire da Te. Perché sta fuori, nelle campagne. Le ho chiesto che avesse. È una proselite. Era venuta per vendere e comprare. Aveva sentito di Te. E la speranza le era venuta in cuore. Era corsa a casa, aveva preso la bambina. Ma con un peso si cammina lenti! Quando fu all’emporio dei fratelli, Tu non c’eri più. Loro, i fratelli, le hanno detto: “Lo hanno cacciato via. Ma ci ha detto ieri sera che rifarà la scala di Tiro”. Io – sono padre anche io – le ho detto: “E allora vai là”. Ma lei mi ha risposto: “E se dopo quanto è accaduto Egli passa da altre vie per tornare in Galilea?” Le ho detto: “Oh! senti. O quella o l’altra dei confini. Io pascolo tra Rohob e Lesemdan, proprio sulla strada che è di confine fra qui e Neftali. Se lo vedo glielo dico, parola di proselite”. E te l’ho detto».
«E Dio te ne remuneri. Io andrò dalla donna. Devo tornare ad Aczib».
«Ad Acziba vai? Allora possiamo fare strada insieme, se non sdegni un pastore».
«Non sdegno nessuno. Perché vai ad Aczib?».
«Perché là ho gli agnelli. A meno che… non li abbia più».
«Perché?».
«Perché c’è il male… Non so se fu stregoneria o che altro. So che la mia bella mandra mi si è ammalata. Per questo ho portato qui le capre, ancora sane, per separarle dalle pecore. Qui staranno con due figli. Ora sono in città, alle spese. Ma torno là… a vederle morire, le mie belle pecore lanute…». L’uomo sospira… Guarda Gesù e si scusa: «Parlare a Te, che sei Chi sei, di queste cose, e affliggerti, Tu già certamente afflitto di come ti trattano, è stoltezza. Ma le pecore sono affetto e denaro, sai?, per noi…».
«Capisco. Ma guariranno. Non le hai fatte vedere a chi se ne intende?».
«Oh! mi hanno detto tutti la stessa cosa: “Uccidile e vendi le pelli. Non c’è altro da fare”, e anche mi hanno minacciato se le faccio girare… Hanno paura della malattia per le loro. Le devo così tenere chiuse… e muoiono di più. Sono cattivi, sai?, quelli  di Acziba…».
Gesù dice semplicemente: «Lo so».
«Io dico che me le hanno stregate…».
«No. Non credere certe storie… Quando verranno i tuoi figli, parti subito?».
«Subito. A momenti saranno qui. Sono i tuoi discepoli questi? Sono questi soli?».
«No. Ne ho altri ancora».
«E perché non vengono qui? Una volta vicino a Meron, incontrai un gruppo di essi. C’era a capo un pastore. Così si diceva. Uno alto, robusto, di nome Elia. Fu in ottobre, mi pare. Prima o dopo i Tabernacoli. Ora ti ha lasciato?».
«Nessun discepolo mi ha lasciato».
«Mi era stato detto che…».
«Che cosa?»
«Che Tu… che i farisei… Insomma che i discepoli ti avevano lasciato per paura, e perché Tu eri un…».
«Demonio. Dillo pure. Lo so. Doppio merito in te che credi lo stesso».
«E per questo merito non potresti… ma forse chiedo cosa sacrilega…».
«Dilla. Se è malvagia te lo dirò».
«Non potresti, passando, benedire il mio gregge?» l’uomo è tutto ansia…
«Benedirò il tuo gregge. Questo…» e alza la mano benedicendo le caprette sperse, «…e quello delle pecore. Credi che la mia benedizione le salvi?».
«Come salvi gli uomini dalle malattie, così potrai salvare le bestie. Dicono che sei il Figlio di Dio. Le pecore le ha create Dio. Perciò sono cose del Padre. Io… non sapevo se era rispetto chiedertelo. Ma, se si può, fallo, Signore, ed io porterò al Tempio grandi offerte di lode. Anzi, no! Darò a Te. Per i poveri. E sarà meglio».
Gesù sorride e tace.
Giungono i figli del pastore e, dopo poco, Gesù coi suoi e il vecchio partono, lasciando i giovanotti a custodia delle capre.
Vanno lesti, volendo giungere presto a Chedes per uscirne subito cercando raggiungere la strada che dal mare viene verso l’interno. Deve essere la stessa che si biforca ai piedi del promontorio, fatta nell’andare ad Alessandroscene. Almeno così comprendo dai discorsi del pastore coi discepoli. Gesù è avanti solo.
«Ma non avremo altre  noie?» chiede Giacomo d’Alfeo.
«Chedes non dipende da quel centurione. È fuori dei confini fenici. I centurioni basta non stuzzicarli che si disinteressano di religione».
«E poi non ci fermiamo…».
«Ce la farete a fare oltre trenta miglia in un giorno?» chiede il pastore.
«Oh! siamo pellegrini perpetui!».
Vanno e vanno… Chedes è raggiunta. Ed è sorpassata senza incidenti. Prendono la strada diretta. Sul cippo è segnalata Acziba. Il pastore lo segnala dicendo: «Domani vi saremo. Questa notte verrete con me. Conosco contadini delle valli, ma molti sono nei confini fenici… Bene! Sconfineremo. E certo non saremo subito scoperti… Oh! la vigilanza! Farebbero meglio a farla per i ladroni!…».
Il sole cade e le valli non giovano certo a mantenere la luce, boscose poi come sono. Ma il pastore è molto pratico e va sicuro.
Giungono ad un villaggetto, proprio un pugnello di case.
«Se ci ospitano qui, sono israeliti. Siamo proprio sui confini. Se non ci vorranno, andremo ad altro paese che è fenicio».
«Non ho prevenzioni, uomo».
Bussano ad una casa.
«Tu, Anna? Con amici? Vieni, vieni, e Dio sia con te» dice una donna molto anziana.
Entrano in una vasta cucina, allegra di fuoco. Una numerosa famiglia di tutte le età è riunita al desco, ma cortesemente fa posto ai sopraggiunti».
«Questo è Giona. Questa è sua moglie e i figli e i nipoti e nuore. Una famiglia di patriarchi fedeli al Signore» dice il pastore Anna a Gesù. E poi, volgendosi al vecchio Giona: «E questi che è con me è il Rabbi d’Israele. Quello che desideravi conoscere».
«Benedico Dio di essere ospitale e di avere poso questa sera. E benedico il Rabbi venuto nella mia casa, chiedendo benedizione».
Anna spiega che la casa di Giona è quasi un albergo per i pellegrini che dal mare vanno nell’interno.
Si siedono tutti nella cucina calda e le donne servono i sopraggiunti. Vi è un rispetto tale che è persino paralizzante. Ma Gesù risolve la situazione prendendosi intorno, subito dopo il pasto, i molti bambini e interessandosi di loro che subito fraternizzano. E dietro a loro, nel breve spazio di tempo che separa la cena dal riposo, si fanno arditi gli uomini della casa, narrando ciò che hanno saputo del Messia, chiedendo nuove cose. E Gesù rettifica, conferma, spiega, benigno, in una pacata conversazione, finché pellegrini e famigliari vanno al riposo, dopo che Gesù ha benedetto tutti.

Tratto da: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Opera di Maria Valtorta.

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CL, don Giussani sarà beato. Così lo raccontò il Pontefice

Posté par atempodiblog le 23 février 2012

Cl, don Giussani sarà beato
Così lo raccontò il Pontefice
L’omelia di Ratzinger ai funerali nel 2005: “La sua grande lezione fu non confondere la fede con il moralismo”. Il popolo di Cl lo vuole sugli altari: “Santo subito”
Tratto da: Il Giornale

CL, don Giussani sarà beato. Così lo raccontò il Pontefice dans Articoli di Giornali e News

Cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,«i discepoli al vedere Gesù gioirono». Queste parole del Vangelo ora letto ci indicano il centro della personalità e della vita del nostro caro don Giussani. Don Giussani era cresciuto in una casa – come dice – povera di pane, ma ricca di musica, e così dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza e non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale: cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita, e così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia.

Già da ragazzo ha creato con altri giovani una comunità che si chiamava Studium Christi; il loro programma fu di parlare di nient’altro se non Cristo, perché tutto il resto appariva come perdita di tempo. Naturalmente ha saputo poi superare l’unilateralità, ma la sostanza gli è sempre rimasta, che solo Cristo dà senso a tutto nella nostra vita, sempre ha tenuto fisso lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro, una storia di amore, è un avvenimento. Questo innamoramento in Cristo, questa storia di amore che è tutta la sua vita era tuttavia lontana da ogni entusiasmo leggero, da ogni romanticismo vago; realmente, vedendo Cristo, ha saputo che incontrare Cristo vuol dire seguire Cristo, che questo incontro è una strada, un cammino, un cammino che attraversa – come abbiamo sentito nel salmo – anche la «valle oscura». E nel Vangelo, nel secondo Vangelo abbiamo sentito proprio l’ultimo buio della sofferenza di Cristo, della apparente assenza di Dio, dell’eclisse del Sole del mondo. Sapeva che seguire è attraversare una «valle oscura», vuol dire andare sulla via della croce, e tuttavia vivere nella vera gioia. Perché è così? Il Signore stesso ha tradotto questo mistero della croce, che in realtà è il mistero dell’amore, con una formula nella quale si esprime tutta la realtà della nostra vita. Il Signore dice: «Chi cerca la sua vita, vuol avere per sé la vita, la perde e chi perde la sua vita, la trova ». Don Giussani realmente voleva non avere per sé la vita, ma ha dato la vita, e proprio così ha trovato la vita non solo per sé, ma per tanti altri. Ha realizzato quanto abbiamo sentito nel primo Vangelo: non voleva essere un padrone, voleva servire, era un fedele servitore del Vangelo, ha distribuito tutta la ricchezza del suo cuore, ha distribuito la ricchezza divina del Vangelo, della quale era penetrato e, servendo così, dando la vita, questa sua vita ha portato un frutto ricco come vediamo in questo momento, è divenuto realmente padre di molti e, avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo, proprio ha guadagnato i cuori, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo. Questa centralità di Cristo nella sua vita gli ha dato anche il dono del discernimento, di decifrare in modo giusto i segni dei tempi in un tempo difficile, pieno di tentazioni e di errori, come sappiamo. Pensiamo agli anni ’68 e seguenti,un primo gruppo dei suoi era andato in Brasile e qui si trovò a confronto con questa povertà estrema, con questa miseria. Che cosa fare? Come rispondere? E la tentazione fu grande di dire: adesso dobbiamo, per il momento, prescindere da Cristo, prescindere da Dio, perché ci sono urgenze più pressanti, dobbiamo prima cominciare a cambiare le strutture, le cose esterne, dobbiamo prima migliorare la terra, poi possiamo ritrovare anche il cielo. Era la tentazione grande di quel momento di trasformare il cristianesimo in un moralismo, il moralismo in una politica, di sostituire il credere con il fare.

Perché, che cosa comporta il credere? Si può dire: in questo momento dobbiamo fare qualcosa. E tuttavia, di questo passo, sostituendo la fede col moralismo, il credere con il fare, si cade nei particolarismi, si perdono soprattutto i criteri e gli orientamenti, e alla fine non si costruisce, ma si divide. Monsignor Giussani, con la sua fede imperterrita e immancabile, ha saputo, che anche in questa situazione, Cristo, l’incontro con Cristo rimane centrale, perché chi non dà Dio, dà troppo poco e chi non dà Dio, chi non fa trovare Dio nel volto di Cristo, non costruisce, ma distrugge, perché fa perdere l’azione umana in dogmatismi ideologici e falsi, come abbiamo visto molto bene.

Don Giussani ha conservato la centralità di Cristo e proprio così ha aiutato con le opere sociali, con il servizio necessario l’umanità in questo mondo difficile, dove la responsabilità dei cristiani per i poveri nel mondo è grandissima e urgente. Chi crede deve attraversare – abbiamo detto – anche la «valle oscura», le valli oscure del discernimento, e così anche delle avversità, delle opposizioni, delle contrarietà ideologiche che arrivavano fino alle minacce di eliminare i suoi fisicamente per liberarsi da questa altra voce che non si accontenta del fare, ma porta un messaggio più grande, così anche una luce più grande.

Per leggere il testo integrale cliccare iconarrowti7 dans Don Luigi Giussani QUI

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Don Giussani, al via la causa di beatificazione richiesta da Cl al cardinale Scola

Posté par atempodiblog le 22 février 2012

Nel trentesimo anniversario del riconoscimento del movimento e nel settimo della morte
Don Giussani, al via la causa di beatificazione richiesta da Cl al cardinale Scola
Presentato il «supplice libello», la richiesta di apertura dell’iter, all’arcivescovo di Milano, che fu suo amico personale
Redazione Milano online – Corriere della Sera

Don Giussani, al via la causa di beatificazione richiesta da Cl al cardinale Scola dans Don Luigi Giussani

Al via la causa di beatificazione. Comunione e Liberazione ha presentato venerdì 17 febbraio il «supplice libello», cioè la domanda formale di inizio della causa di beatificazione. «In questo modo – spiegala Diocesi – ha avuto inizio l’iter canonico per introdurrela Causa di Beatificazione e Canonizzazione di questo benemerito figlio della Chiesa ambrosiana, secondo la costituzione apostolica “Divinus perfectionis Magister” del 25 gennaio 1983 e secondo le norme “Ab episcopis servandis” del 7 febbraio 1983 e l’istruzione “Sanctorum mater” del 25 settembre 2007. Le procedure canoniche, nella fase diocesana, prevedono, tra l’altro, la richiesta di parere alla Conferenza episcopale regionale sulla importanza e l’opportunità della Causa, la richiesta del consenso della Santa Sede, la nomina della commissione storica e di quella teologica, la raccolta tutta la documentazione, e se verificata la pertinenza della Causa, la raccolta di testimonianze».

LA CELEBRAZIONE - Nel trentesimo anniversario del riconoscimento del movimento e nel settimo della morte, l’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, ha presieduto una celebrazione eucaristica, mercoledì sera, in Duomo. Al termine, don Julián Carrón, presidente della Fraternità di CL, renderà noto di avere presentato all’arcivescovo di Milano la richiesta di apertura della causa di beatificazione. «La richiesta è stata inoltrata oggi stesso, 22 febbraio 2012, giorno dell’anniversario e festa della Cattedra di San Pietro – si legge in una nota di CL –  attraverso la postulatrice nominata dal Presidente della Fraternità canonicamente costituitosi Attore di detta Causa: si tratta della professoressa Chiara Minelli, docente di Diritto canonico ed ecclesiastico nell’Università degli Studi di Brescia».

NELLE MANI DI SCOLA - L’istanza è stata presentata all’arcivescovo di Milano, nella cui diocesi è nato, è vissuto e ha operato don Giussani, sacerdote diocesano. A questo punto spetta al cardinale Angelo Scola, che di don Giussani fu amico personale, disporre l’apertura dell’«Inchiesta Informativa Diocesana sulla vita, le virtù e la fama di santità». Dando la notizia, don Carrón si augura che «la Madonna – “di speranza fontana vivace” – ci aiuti ogni giorno a diventare degni delle promesse di Cristo e della immensa grazia che nel carisma di don Giussani abbiamo ricevuto e ancora riceviamo».

LA VITA - Don Giussani, nato a Desio il 15 ottobre del 1922, è morto a Milano il 22 febbraio del2005. A celebrare le esequie fu il cardinale Joseph Ratzinger che, di lì a poco, venne eletto Papa. Il 26 maggio 1945 Giussani, ventitreenne, ricevette l’ordinazione sacerdotale dal cardinale Ildefonso Schuster, figura storica della Chiesa ambrosiana. Successivamente rimase nel seminario di Venegono come insegnante. Nel 1954 trentaduenne, lasciò l’insegnamento in seminario per quello nelle scuole superiori. All’origine della decisione di don Giussani fu l’incontro con alcuni adolescenti, in treno, che stupirono Giussani perchè non conoscevano i fondamenti del cattolicesimo. L’inizio dell’insegnamento della religione nelle scuole superiori, presso il liceo Berchet di Milano fu il momento cui si fa risalire la nascita del movimento che poi si chiamò Comunione e Liberazione. Don Giussani fu insegnante al Liceo Berchet per dieci anni, fino al 1964. Le prime riunioni di studenti sotto la sua guida si tennero col nome di Gioventù Studentesca (Gs), che fondò insieme all’amico don Francesco Ricci e che fino agli anni settanta fu nell’alveo dell’Azione Cattolica. Giussani in quegli anni iniziò anche un’intensa attività pubblicistica nella quale si poneva all’interno e all’esterno della Chiesa l’attenzione sul problema educativo. Nel 1964, ottenne la cattedra di Introduzione alla Teologia presso l’Universitá Cattolica di Milano, che mantenne fino al 1990.

LA NASCITA DI CL - Negli anni fra il 1969 e il 1970 il movimento giovanile da lui creato prese il nome di Comunione e Liberazione. Giussani ne assunse la guida presiedendone il consiglio generale. L’11 febbraio 1982 il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbela Fraternitá di Comunione e Liberazione. Il sacerdote divenne prelato d’onore di sua santità nel 1983, per volere di Giovanni Paolo II. Nel corso di questi decenni Comunione e liberazione si è diffusa in tutto il mondo, ad essa è legata la struttura imprenditoriale della Compagnia delle opere e ancora a Cl fa riferimento l’associazione per il volontariato internazionale Avsi, quindi l’iniziativa denominata banco alimentare. Il successore di don Giussani è il sacerdote di origini spagnole, don Julian Carròn. Nel corso dell’omelia pronunciata il 24 febbraio del2005 in occasione dei funerali di Giussani, il cardinale Ratzinger disse fra l’altro: «Don Giussani ha conservato la centralità di Cristo e proprio così ha aiutato con le opere sociali, con il servizio necessario l’umanitá in questo mondo difficile, dove la responsabilitá dei cristiani per i poveri nel mondo è grandissima e urgente». Quindi aggiunge: «Chi crede deve attraversare – abbiamo detto – anche la “valle oscura”, le valli oscure del discernimento, e così anche delle avversità, delle opposizioni, delle contrarietà ideologiche che arrivavano fino alle minacce di eliminare i suoi fisicamente per liberarsi da questa altra voce che non si accontenta del fare, ma porta un messaggio più grande, così anche una luce più grande».

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Decidersi per Dio

Posté par atempodiblog le 22 février 2012

Decidersi per Dio
di Padre Livio Fanzaga – La Bussola Quotidiana

Decidersi per Dio dans Digiuno

Per comprendere la Quaresima bisogna fare riferimento ai quaranta giorni che Gesù ha trascorso nel deserto prima di compiere la sua missione. Quaranta giorni nei quali Gesù si è preparato alla lotta contro il principe delle tenebre, contro Satana: quaranta giorni di digiuno e di preghiera. Questi quaranta giorni facevano a loro volta riferimento ai quaranta anni che il popolo di Israele ha trascorso nel deserto, deserto che secondo la Sacra Scrittura è un tempo di prova ma anche un tempo di comunione con Dio, ed è comunque il passaggio verso la Terra promessa.
Per noi è fondamentale il significato di questi quaranta giorni che Gesù ha trascorso nel deserto vivendo nel digiuno e nella preghiera. Sono infatti proprio questi i due connotati fondamentali che ci accompagnano nella Quaresima.

Il primo connotato è la preghiera. Gesù ha trascorso quaranta giorni in intima comunione col padre, la preghiera è uno dei motivi fondamentali di tutta la vita apostolica del Signore: non solo i quaranta giorni prima della sua missione, ma anche durante tutta la sua missione Gesù ha vissuto una intensa preghiera personale, dedicando molte volte l’intera notte a pregare.  E usciva dalla preghiera trasfigurato. Questa è certamente la prima caratteristica della Quaresima, senza la quale ne perdiamo il significato. E qui sta anche la differenza fondamentale tra la Quaresima cristiana e il Ramadan musulmano. La Quaresima cristiana è prima di tutto tempo di comunione con Dio. La comunione con Dio è invece lontana mille miglia dall’islam, per cui davanti a Dio c’è solo la  sottomissione.

Dunque Gesù ha trascorso quaranta giorni di intima comunione col padre. E lì ha umanamente ha preso tutta quella forza che la preghiera dà e che noi vediamo così espressa in un altro momento della vita di Gesù, quello del Getsemani: lì, attraverso la preghiera il Signore acquista quella forza per cui dice al termine della preghiera, agli apostoli “Alzatevi, andiamo”. E nell’ora delle tenebre affronta la grande battaglia. Nell’uno e nell’altro caso Gesù attraverso la preghiera si è preparato alla grande battaglia contro il principe delle tenebre.

Portando la cosa sul piano della nostra vita cristiana, la Quaresima è anzitutto tempo di preghiera. Preghiera vera, preghiera del cuore, preghiera che è colloquio con Dio, ascolto di Dio, della sua volontà, ascolto delle sue ispirazioni, ascolto di quello che ci dice, il suo richiamo a una vita più santa, più cristiana, una vita più vera. E nella preghiera esporre anche la nostra condizione esistenziale, di persone fragili, affaticate, di persone che molte volte sono scorate, che non hanno ben chiaro il fine della vita, non hanno ben chiare le scelte fondamentali della vita. Quindi vorrei suggerire molto concretamente: la prima cosa da fare in Quaresima è riaccendere la preghiera, almeno le preghiere fondamentali. Al mattino conquistare Dio con il cuore, in cui Dio porta la sua luce, la sua pace, la sua gioia. Molte volte bastano pochi minuti per essere in comunione con Dio, ma poi si deve riattivare durante la giornata questa comunione. E soprattutto la sera, per cui vorrei suggerire una preghiera tipica della Quaresima, che è la preghiera davanti alla croce, cioè mettersi veramente davanti alla croce, meditare sul significato della croce.

Pietro nella prima predica dopo la Pentecoste ha detto, comprendendo finalmente la Passione : “Patì per i nostri peccati”. Quindi meditare la croce, meditare che attraverso la croce Cristo, il Padre attraverso il Figlio, ci perdona i peccati. Cristo è l’agnello di Dio che porta i peccati del mondo, li ha espiati al nostro posto, per nostro amore, per donarci il perdono nella vita eterna, per cui quando andiamo a confessarci – e il pensiero va soprattutto alla confessione pasquale che deve essere particolarmente significativa – per quanto grandi i delitti che noi abbiamo potuto commettere Gesù ci dà l’assoluzione.

Nel pentimento c’è l’assoluzione dei peccati perché Cristo ha espiato lui al nostro posto, un atto d’amore estremo, che vediamo nel Crocifisso. Quindi vorrei suggerire questa specifica  preghiera quaresimale, prima di andare a letto: sostare davanti alla croce, chiedere perdono per i propri peccati, pensare all’amore estremo con cui Dio ci ha amati, che ha fatto dire a santa Caterina da Siena, guardando la croce: “Chi è  quello stolto bestiale che vedendosi così amato non ami?”.
La preghiera personale diventa più forte, più sostanziosa, se durante la Quaresima ci impegniamo ad andare alla messa quotidiana. Molti lo fanno. Dacci oggi il nostro pane quotidiano: ascoltiamo la parola di Dio, durante la messa riceviamo la comunione. In questo modo rafforziamo la nostra debole volontà per combattere contro il male.

L’altro aspetto fondamentale della Quaresima è il digiuno: fin dai primi tempi i cristiani hanno digiunato il mercoledì e il venerdì, duramente. Poi, il digiuno più rigido a pane e acqua è continuato nella storia della Chiesa soprattuto nel tempo di Quaresima, di Avvento, e così via. Il popolo cristiano ha digiunato fino a qualche decennio fa in modo sostanzialmente serio. Non soltanto nel tempo di Quaresima ma ogni volta che si doveva fare la comunione, si era digiuni dalla mezzanotte. Abbiamo perso sicuramente qualcosa perdendo il digiuno. In tempi recenti la Chiesa ha tentato di ristabilirlo, ma a questo riguardo dobbiamo dire che la vera svolta è venuta dalle apparizioni di Medjugorje: è vero, devono essere ancora riconosciute dalla Chiesa, ma il loro aspetto pastorale lo abbiamo tutti davanti agli occhi.

La Madonna fin da 30 anni fa ha introdotto un digiuno che adesso ha rinvigorito tutta la Chiesa, il digiuno a pane e acqua il mercoledì e venerdì con finalità ben precise: Oltre alla conversione personale c’è anche una finalità di carattere storico sociale: Gesù ha detto che certi demoni si cacciano con la preghiera e il digiuno; così la Madonna per il demonio dell’odio e della guerra, che vuole distruggere il mondo, ha chiesto la preghiera del santo rosario e il digiuno a pane e acqua mercoledì e venerdì.

Questo digiuno è importantissimo ma attenzione a non intenderlo come una specie di dieta. La Madonna ha detto “digiunate con il cuore”, lo dice anche la Chiesa. Il digiuno cristiano ha un obiettivo ben preciso: è finalizzato al combattimento spirituale, è finalizzato alla mortificazione della fame di mondo, perché cresca in noi la fame di Dio. Questo è l’obiettivo finale del digiuno: portare alla rinuncia vera del peccato, perché attraverso la fame di mondo, le cose di questo mondo, Satana ci distrugge con quello che ci offre.

Dobbiamo dunque innestare nella nostra vita questo tipo di digiuno: cibo, sacrifici, fioretti, c’è un’ampia letteratura a questo riguardo. Rinunciare al fumo, ai liquori durante la quaresima. Ovviamente i più deboli, quelli che si accontentano del digiuno come lo propone la Chiesa con materna accondiscendenza, possono digiunare mercoledì santo  e venerdì santo: la colazione, un pranzo leggero e poi astinenza. Tutti i venerdì di quaresima il minimo indispensabile. Suggerisco però un digiuno molto più rigido, magari rinunciando a quelle cose che fanno male anche la salute come il fumo e l’alcol. Ma tutto queste deve essere finalizzato a rafforzare la volontà in modo tale da rinunciare al peccato Questa è la vera rinuncia, ed è in questo modo che noi ci prepariamo per la Pasqua. Cioè rinunciando al peccato e attraverso la confessione pasquale.

In questo periodo dobbiamo mettere una marcia in più nel nostro cammino verso la santità. Mettiamoci davanti a Dio, guardiamo alla nostra vita, guardiamo cosa c’è da cambiar;, se siamo sulla strada sbagliata, quella che porta alla perdizione, non aspettiamo a cambiarla, non aspettiamo che sia troppo tardi.

Decidiamoci per Dio, decidiamoci per la conversione, decidiamoci per la santità.
Questo è quel modo di vivere la quaresima che farà sì che la Pasqua sia una pasqua veramente di pace, del cuore riconciliato con Dio.

Infine c’è la terza dimensione caratteristica della Quaresima: la carità. Perché la sobrietà tipica della Quaresima, il rinunciare al superfluo, e tutto quanto finora descritto,  è sempre stato visto dalla Chiesa in funzione della carità, della condivisione, in funzione di quel “Avevo fame, e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere.…):  è la condivisione del pane con chi non ne ha, con chi è più povero. Vorrei aggiungere però che la carità si esprime anche attraverso le sette opere di misericordia spirituale e le sette di misericordia corporale. L’elemosina deve essere un atteggiamento di compassione, o di misericordia verso il prossimo sofferente. E questo può essere dare da mangiare a chi non ne ha, può essere una mano tesa, un incoraggiamento: visitare i carcerati, e tutte quelle opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, visitare i malati, tutta quella gamma di opere che ci portano al prossimo. Questo è il dinamismo della Quaresima: attraverso la preghiera tu ricevi l’amore di Dio nel tuo cuore e attraverso la carità tu lo doni agli altri.

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La Quaresima è un tempo di grazia che va valorizzato al massimo

Posté par atempodiblog le 22 février 2012

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La Quaresima è un tempo di grazia che va valorizzato al massimo. Per questo bisogna prendere degli impegni concreti, ai quali essere fedeli ogni giorno, scongiurando così il rischio di essere risucchiati nel tritacarne quotidiano.
Uno di questi impegni è la preghiera quotidiana davanti alla Croce. Ogni sera, prima di andare a letto, mettiti in ginocchio davanti al crocifisso. Se non ce l’hai, procuratelo al più presto. Appendilo davanti al tuo comodino, sul quale terrai aperto il libro della Sacra Scrittura.
Guarda con gli occhi della fede a Gesù crocifisso. Considera il carico immenso di male che sta sopportando al nostro posto e per la nostra salvezza. Alcune di quelle ferite, nel suo corpo e nel suo cuore, sono state inferte dai tuoi peccati.
Ammira la sua pazienza, la sua mitezza, la sua misericordia e il suo perdono. Chiedi la grazia della contrizione del cuore in modo tale che maturi in te la decisione di lasciare una vita di peccato e di amarlo sopra ogni cosa.
Guarda quanto sei amato e quanto sei freddo. Chiedi a Gesù la grazia di accenderti di amore per Lui e di testimoniarlo col dono della tua vita. Con Maria coopera anche tu all’opera della salvezza eterna delle anime.

Padre Livio Fanzaga

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Pasolini, Schettino e noi: quale rimedio al nostro moralismo?

Posté par atempodiblog le 21 février 2012

Pasolini, Schettino e noi: quale rimedio al nostro moralismo?
di Valerio Capasa – Il Sussidiario

Pasolini, Schettino e noi: quale rimedio al nostro moralismo? dans Alessandro Manzoni

A cosa serve la poesia, se poi la realtà ci sbatte contro con violenza? Non ci interessa appena se uno studente possa farsene qualcosa domani nel mondo del lavoro, ma se ci aiuta a guardare diversamente le cose che succedono: per esempio la tragedia della Costa Concordia.
A me sembra, come a Calvino, che essa sia un’occasione insostituibile, per la «sopravvivenza di quel che si chiama umano in un mondo dove tutto si presenta inumano»: e non è forse inumana la dilagante indignazione a buon mercato, fondata sul presupposto manicheo secondo cui i mostri sono sempre altri e mai noi? In queste settimane, per esempio, ci si è svelato uno stuolo di insospettabili esperti di navigazione, sedicenti capitani coraggiosi e senza peccato pronti a scagliare la (prima?) pietra contro il comandante Schettino. Un mio alunno quattordicenne, che voleva murarlo vivo “perché non ha compiuto il proprio dovere”, dimenticava però che qualche minuto prima si era giustificato perché non aveva fatto i compiti.
Di questa mancanza di realismo, di questa rimozione della nostra fragilità, quanto è responsabile un certo modo di leggere a scuola? Prendiamo don Abbondio: insegnanti e studenti pronti da un paio di secoli a dargli del vile, comodamente seduti dietro cattedre e banchi, con lo stesso atteggiamento di chi guarda in poltrona gli errori arbitrali alla moviola: ma quanti, se terrorizzati da due tipi loschi, sarebbero così coraggiosi da opporsi? In balia di quante connivenze ci adeguiamo perfino in circostanze più soft?
Come ha osservato Pirandello, «noi dovremmo tutti provar disprezzo e indignazione per don Abbondio», «eppure siamo indotti al compatimento, finanche alla simpatia». Come mai? Perché Manzoni «ascolta entro di sé anche la voce delle debolezze umane», alla luce dell’«esperienza della vita» anziché di princìpi astratti («forse lo stesso don Abbondio, in astratto, parlando, predicando della missione del sacerdote, avrebbe detto su per giù le stesse cose» del cardinal Borromeo). «Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio»: ma «noi non possiamo, se non astrattamente, sdegnarci di lui», e infatti «il poeta non si sdegna», perché sa che l’«ideale non si incarna se non per rarissima eccezione». Non è che lo giustifichi, quasi prendesse la «debolezza per misura del dovere», e anzi «ne fa strazio» senza risparmiarci un briciolo di quella colpevole «paura»: «quella pietà, in fondo, è spietata», ma «il poeta, in somma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è per umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano su la coscienza».
È che «il coraggio, uno non se lo può dare». Si difende così don Abbondio, «agnello tra i lupi», e il cardinal Borromeo sembra d’accordo, aggiungendo tuttavia che è anche vero che il coraggio che non abbiamo possiamo chiederlo. Non sapete che «c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?». Non è un caso se Lucia, il personaggio più coraggioso del romanzo, è anche quello più aiutato a viverlo (da Renzo a fra Cristoforo, dall’innominato alla compagna in lazzaretto).
Troppo cristiano? Nell’Iliade gli eroi – mica i deboli – pregano continuamente. Quando Patroclo va a combattere, Achille chiede a Zeus di «rafforzargli il cuore nel petto», perché consapevole che «la mente di Zeus è sempre più forte degli uomini: mette in fuga anche un valoroso e gli toglie facilmente la vittoria; altre volte lo spinge egli stesso a combattere». Perfino Ettore, dopo dieci anni e ventidue canti pieni di eroismo, appena vide Achille «fu preso dal tremito e non poté più resistere: si lasciò indietro le porte e si mise in fuga», girando per tre volte intorno alla città di Troia come un cerbiatto «atterrito» da un leone.
Nell’uomo convivono la tensione alla gloria e – in agguato – la debolezza; dentro ciascuno c’è Ettore e c’è don Abbondio. Non accorgersene vuol dire guardarlo non come un mistero, con la pietas che merita, ma come un meccanismo.
È un habitus che assorbiamo a poco a poco. A volte penso che insegnare le funzioni di Propp possa abituare a non sentire più il bisogno di penetrare nell’esperienza di un racconto, come se bastasse individuare, in ogni narrazione, l’eroe, l’antagonista e gli altri ruoli; analogamente per i fatti di cronaca – si tratti di Sarah Scazzi o dell’isola del Giglio – ci servono un eroe, una vittima, un colpevole e una malafemmina, nonché un pizzico di sospetto su tutto. Forse disturbano troppo quelle domande sterminate sulla vita e sulla morte apertesi improvvisamente come lo scafo della Concordia nell’impatto con gli scogli della realtà, ci sentiamo naufragare in quell’angoscia senza parole, intravedendo un mistero troppo profondo per essere sondato: e allora saltiamo nella scialuppa degli schemi semplificatori, accontentandoci che chi ha sbagliato paghi e che il relitto venga rimesso a posto, perché la nostra personale crociera, fatta anche di celentaneschi richiami morali, must go on.
Nel ’47 Pasolini fotografava lucidamente uno dei grandi equivoci dell’insegnamento dell’italiano: «la preoccupazione moraleggiante, la costante didascalica… Ahimé, quale grigiore! Non si pensa dunque che l’assassino leggendo la storia di un assassino terrà sempre per la vittima?».
Quanti brani – magari letterariamente inconsistenti – vengono fatti leggere, quanti incontri con gli autori vengono organizzati, col solo scopo di cavarne un messaggio edificante: contro la guerra, contro la camorra, contro il razzismo, per la legalità, per sentirsi cittadini attivi ed europei.
«I ragazzi, udita la favola, hanno esaurito il loro interesse: indi si inchinano, o innocenti!, davanti alla morale; è un modo come un altro per ignorarla. Ma la morale: ossia il conclusivo e l’utile, non si trova in altro luogo che nel linguaggio stesso della favola, è tutt’uno con la curiosità suscitata. Nel caso che una “morale” indelicatamente applicata fosse: la favola insegna che non bisogna uccidere, sarebbe in effetti inutile: sì che, nonché essere sottintesa nel nesso, andrebbe piuttosto sottintesa nella compassione sollevata, per esempio, non verso la vittima, ma verso l’assassino».
C’è qualcuno che prova compassione verso l’assassino, verso chi abbandona la nave, verso noi, complici del male per debolezza? Come quella che Dante ebbe per il suo nemico Buonconte di Montefeltro, che l’ultimo istante prima di morire fu salvato eternamente soltanto «per una lagrimetta».

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Dove sbaglia Adriano

Posté par atempodiblog le 21 février 2012

Dove sbaglia Adriano
di Michele Brambilla – La Stampa

Dove sbaglia Adriano dans Articoli di Giornali e News

Se è vero che il Festival di Sanremo è una spia degli umori degli italiani, proviamo a vedere se il «caso Celentano» ha qualcosa da dirci.

Come mai l’ex ragazzo della via Gluck è stato tanto criticato? Non solo dai giornali, ma anche dal pubblico: non si era mai vista all’Ariston una contestazione in diretta come quella dell’altra sera: e chi continua a pensare che si sia trattato di una gazzarra organizzata, non ha capito o peggio non vuol capire (torneremo tra poco sul punto). Dicevamo: come mai tante reazioni negative?

Nei contenuti Celentano ha preso un paio di stecche anche pesanti – gli insulti ad Aldo Grasso e l’invocata chiusura di due giornali ma ha anche lanciato spunti tutt’altro che trascurabili. Quando dice che oggi, nella predicazione del clero, sono quasi scomparsi quelli che una volta si chiamavano «i Novissimi» (morte, giudizio, inferno e paradiso) Celentano ha perfettamente ragione: chiunque abbia frequentazione domenicale con la messa lo sa benissimo; chi legge le prolusioni della Cei ahimè lo sa ancor meglio. Quando poi dice che dobbiamo essere felici di essere nati perché abbiamo un destino di vita eterna, ci dice l’unica cosa di cui in fondo ciascuno di noi ha davvero bisogno, e che è l’essenza di quel Vangelo (che significa: «buona notizia») che i cristiani annunciano da duemila anni.

Celentano avrebbe dovuto dunque appassionare, commuovere, o almeno incuriosire. E invece, ha diviso, urtato, irritato. Non è scaturito, dalle sue parole, un dibattito sul mistero della vita e della morte, sul dilemma tra speranza e disperazione: ma molto più miseramente un polpettone sugli equilibri interni della Rai. Perché?

Perché Celentano ha dimostrato di essere legato a uno schema vecchio, quello secondo cui per proporre bisogna opporre; per parlare di una cosa buona, bisogna mostrarne una cattiva che tende a soverchiare, a soffocare. La sua è la retorica della denuncia, dell’indignazione, dei buoni contro i cattivi, del potere che è sempre marcio. Così si è subito creato un nemico da attaccare. Torno a quanto dicevo prima sulla contestazione: non credo che fosse organizzata, perché quando Celentano è comparso sul palco nessuno lo ha fischiato; poi ha cantato ed è stato applaudito; poi si è messo a parlare della vita eterna e tutti ascoltavano in un (è il caso di dirlo) religioso silenzio. È stato quando ha ri-tirato in ballo Avvenire e Famiglia Cristiana che dal pubblico è partito un collettivo «baaaasta!» che non poteva certo essere preparato. Basta, non ne possiamo più di queste polemiche.

Posso fare un esempio concreto? Quando Roberto Benigni ha portato in tv – anche all’interno di spettacoli «leggeri» – la Divina Commedia, e quindi gli stessi temi del paradiso e dell’eternità, ha infiammato, emozionato, coinvolto anche persone che ostentano agnosticismo se non ateismo. La differenza è che Benigni ha portato in televisione la Bellezza, Celentano la solita logora logica della rissa e della polemica.

Celentano farebbe bene a riflettere sul risultato che ha ottenuto, e che è l’opposto di quello che si prefiggeva. Sbaglia se dà la colpa alla «corporazione dei giornalisti». Ma lui ragiona così, vede un mondo che è governato solo (sottolineiamo il «solo», altrimenti non ci capiamo) da corporazioni, poteri forti, mercanti della guerra, inquinatori, speculazioni edilizie, corruzioni e così via. Non è che tutto questo non ci sia, anzi: c’è eccome. Ma l’Italia e probabilmente il mondo intero oggi – arrivati al fondo di una crisi che non è solo economica, ma è soprattutto morale – hanno bisogno di non piangersi più addosso; hanno bisogno di girare pagina, di trovare motivi di speranza, di qualcuno che indichi non solo il lordume ma anche la pulizia.

Perché c’è anche quella, la pulizia: e non è un caso se l’Ariston e credo tutti gli spettatori in tv hanno applaudito Geppi Cucciari quando ha indicato tra le donne da seguire come esempio quella nostra connazionale che fa la volontaria fra gli ultimi del mondo. E forse non è un caso neppure se a vincere il festival sia stata una canzone che ci dice che sì, c’è la crisi, ma questo non è l’inferno e non bisogna morire ma guardare avanti.

Abbiamo passato di tutto negli ultimi vent’anni: inchieste contro la corruzione, scandali, una politica dell’odio e tante altre schifezze. Abbiamo fatto marce pro e campagne contro. Ma adesso siamo in un momento in cui dobbiamo rialzarci. E con la sola denuncia di quello che non va non ci si rialza, si resta paralizzati.

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Il Carnevale storico d’Ivrea

Posté par atempodiblog le 20 février 2012

Il Carnevale storico d’Ivrea
di Daniele Civisca – Radici Cristiane

Il Carnevale storico d'Ivrea dans Articoli di Giornali e News

Le origini
Il Carnevale di Ivrea è forse l’unico in tutto il mondo ad avere una trama precisa che lo rende simile alla rappresentazione di una antica commedia dell’arte.

Il nucleo originario della leggenda che viene rappresentata risale al Medioevo, sebbene l’odierna festa abbia preso forma solo all’inizio dell’Ottocento.
Due infatti sono i filoni storici che compongono la rappresentazione.
Il primo risale al Medioevo all’insediamento di Raineri di Biandrate come Signore della città.
Rainieri, preso possesso del Castello di S. Maurizio (il Castellazzo) sottrasse al Vescovo i suoi tradizionali poteri opprimendo l’intera cittadinanza, nobili e plebei, tanto che questa, esasperata da violenze e soprusi, nel 1194, insorse scacciandolo e distruggendo il Castellazzo.
Il maniero sorse però nuovamente per opera di GuglielmoVII Marchese del Monferrato che, meno di un secolo dopo, tentò nuovamente di sottomettere la città venendo però scacciato nel 1266 da una nuova sollevazione.
Nella leggenda, Raineri e Guglielmo sfumano in un’unica figura di tiranno che insidia la bella Violetta, figlia di un mugnaio. Questa, pronta a tutto pur di mantenere la propria purezza, mozza il capo del tiranno e, mostrandolo al popolo raccolto sotto gli spalti del castello, lo incita a liberarsi dell’oppressore. Ne segue una grande rivolta che porta alla distruzione del castello e che viene ancor oggi rappresentata dalla battaglia delle arance.
Per comprendere l’attuale struttura del Carnevale, occorre tuttavia completare la storia con uno sguardo ai tempi più recenti. Nel corso dei secoli infatti i vari rioni della città festeggiavano il carnevale separatamente, con feste animate da una accesa rivalità che sfociavano spesso in violenti scontri. Nel 1808 però il governo, preoccupato per l’ordine pubblico, impose di riunire queste feste in un’unica manifestazione, il cui controllo venne affidato ad un eminente cittadino ben accetto alla maggioranza della popolazione.
Nacque così la figura del Generale, “arbitro” del Carnevale, ed ebbe inizio il “moderno” Carnevale di Ivrea che da allora mantiene la stessa struttura.

L’apertura della festa
Tradizionalmente il ciclo del Carnevale di Ivrea inizia il giorno dell’Epifania, quando la banda di pifferai e tamburini, seguita dalla cittadinanza, percorre le vie per annunciare l’inizio del periodo di festa. Le musiche dei Pifferi hanno origine antica e sono ispirate alle marce seicentesche suonate dalle bande militari piemontesi ai tempi del Duca Emanuele Filiberto di Savoia.
Il Corteo Storico, ricco di figuranti in abiti rinascimentali a piedi e a cavallo, seguendo i Pifferi, raggiunge il Palazzo Comunale dove il Generale prende le consegne dal suo predecessore con la consegna della feluca e della sciabola.
Nel pomeriggio il Corteo, aperto dagli alfieri con le bandiere storiche dei rioni e delle parrocchie cittadine, raggiunge il Duomo dove, alla presenza di una grande folla e delle autorità cittadine si tiene una solenne messa.

La settimana di carnevale
L’inizio alla festa vera e propria avviene però il Giovedì Grasso quando il Generale riceve simbolicamente i poteri dal Sindaco e, subito dopo, si reca al Duomo per prestare omaggio al Vescovo.

Al Sabato viene ufficialmente presentata la Bella Mugnaia che, affacciandosi al balcone del Municipio, apre le danze mascherate in piazza. Solo nel 1858 la Mugnaia, ricordo della figura di Violetta, simbolo di moralità e di libertà, divenne parte integrante della rappresentazione.
L’ultima domenica di Carnevale si arriva al clou della festa. Al mattino si svolgono una serie di rievocazioni storiche, dalla “fagiolata benefica” (ricordo delle distribuzioni effettuate dalle Confraternite religiose ai poveri durante il Medioevo) alla “preda in Dora” durante la quale il Generale, gettando una pietra nel fiume, rievoca la presa del castello; al pomeriggio parte la Marcia in costume e ha finalmente inizio la famosa battaglia delle arance che si protrarrà per i due giorni successivi.

La Marcia
Ad aprire il grande corteo in costume è la Mugnaia su di un carro dorato adorno di garofani rossi e trainato da cavalli bianchi. La Mugnaia indossa una veste di lana bianca lunga fino alle caviglie e stretto ai fianchi da un cordone, un mantello di ermellino e una sciarpa verde su cui è appuntata una coccarda.

La segue il carro del Generale. Oltre alla feluca, alla fascia bianco rossa ed alla sciabola, indossa alti stivali speronati, calzoni, guanti bianchi ed una giubba nera con bordi, bottoni e spalline dorati.
Al fianco del Generale è presente tutto il suo Stato Maggiore: più di trenta persone tra Ufficiali, Aiutanti di campo, Vivandiere ed ex Aiutanti di campo, tutti a cavallo. Dietro di lui, il Podestà con il suo seguito ed infine i carri degli aranceri.
Il corteo percorre il centro storico e ad ogni piazza le squadre degli aranceri a piedi lo attendono pronte per la battaglia.

Gli “scarli” e il funerale del Carnevale
Quella dell’“abbruciamento degli scarli” è un altro aspetto tipico del Carnevale di Ivrea. Il Lunedì Grasso infatti, giovani coppie di sposi innalzano nelle piazze rionali gli “scarli”, alti pali intrecciati d’edera e ginepro, sormontati da una bandiera, simbolo della sacralità e dell’inviolabilità del matrimonio e della famiglia.

Il giorno dopo, l’ultimo giorno di festa, dopo la sfilata dei carri allegorici e la premiazione delle squadre di aranceti vincitrici, nelle cinque piazze rionali il Generale con il suo Stato Maggiore da fuoco agli “scarli”.
Per ultimo viene bruciato lo “Scarlo” in Piazza del Municipio. Il rogo è presieduto dalla Mugnaia che in piedi sul carro brandisce la spada verso l’alto. Se la stanchezza e il peso dell’arma fanno abbassare il suo braccio, la tradizione vuole ci sia da attendersi un anno negativo e i fischi e i rimbrotti della folla non si fanno attendere.
Completato quest’ultimo compito, il Generale riconsegna i poteri al Sindaco, tutti insieme, in un sacro silenzio, rotto solo dalla musica triste e lenta dei Pifferi, si partecipa al funerale del Carnevale fino alla Piazza Ottinetti. “Adverse a giobia n’ bot”, “arrivederci a giovedì all’una”, grida la folla, ovvero arrivederci al prossimo anno: il Carnevale di scherzi e divertimenti è ormai finito e la Quaresima di penitenza è alle porte.

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