• Accueil
  • > Archives pour janvier 2012

Il sogno delle due colonne

Posté par atempodiblog le 31 janvier 2012

Il sogno delle due colonne dans San Giovanni Bosco

Giovanni Bosco ha avuto il dono di diversi sogni profetici, alcuni dei quali riguardano la Chiesa nella sua travagliata navigazione nelle acque della storia. Uno dei più impressionanti e dei più attuali è quello delle due colonne alle quali, il Papa attacca la barca di Pietro per uscire indenne dalla tremenda bufera.
Il sogno presenta la guerra che in questi ultimi tre secoli è stata scatenata contro la Chiesa al fine di affondarla. È impressionante il dispiegamento di mezzi dei nemici di Cristo e l’odio di strutture che li anima. Sullo sfondo si intravede la ferocia del drago che, dopo aver tentato di ghermire il Bambino, insegue la Donna ovunque tenti di rifugiarsi.
Le due colonne verso le quali il nocchiero celeste guida la Chiesa hanno due segni inequivocabili. Sulla prima vi è una statua della Vergine Immacolata con l’iscrizione: “Auxilium Cristianorum”, “Aiuto dei Cristiani”.
Sull’altra, molto più alta e grossa, sta un’Ostia e sotto un cartello con
le parole: “Salus credentium” “Salvezza dei credenti”.
Che cosa significa? Significa che le armi invincibili di cui la Chiesa dispone per la grande battaglia sono la Santa Vergine e l’Eucaristia. A queste si aggiunge la guida illuminata del Vicario di Cristo in terra che, con mano ferma, conduce la nave all’approdo sicuro.
Sul terreno dove è stata edificata la nuova sede di Radio Maria c’era da anni un’alta colonna, con sopra una statua di Maria Ausiliatrice. È un invito e un impegno per tutta la grande famiglia di Radio Maria ad essere presenti e attivi nella grande battaglia dell’ora presente per il trionfo di Cristo e del Cuore Immacolato di Maria.

Padre Livio Fanzaga

 dans San Giovanni Bosco

Il sogno delle due colonne

Tra i sogni di Don Bosco, uno dei più noti è quello conosciuto con il titolo di «Sogno delle due colonne». Lo raccontò la sera del 30 maggio 1862.

«Figuratevi — disse — di essere con me sulla spiaggia del mare, o meglio sopra uno scoglio isolato, e di non vedere attorno a voi altro che mare. In tutta quella vasta superficie di acque si vede una moltitudine innumerevole di navi ordinate a battaglia, con le prore terminate a rostro di ferro acuto a mo’ di strale. Queste navi sono armate di cannoni e cariche di fucili, di armi di ogni genere, di materie incendiarie e anche di libri. Esse si avanzano contro una nave molto più grande e alta di tutte, tentando di urtarla con il rostro, di incendiarla e di farle ogni guasto possibile.

A quella maestosa nave, arredata di tutto punto, fanno scorta molte navicelle che da lei ricevono ordini ed eseguiscono evoluzioni per difendersi dalla flotta avversaria. Ma il vento è loro contrario e il mare agitato sembra favorire i nemici.
In mezzo all’immensa distesa del mare si elevano dalle onde due robuste colonne, altissime, poco distanti l’una dall’altra. Sopra di una vi è la statua della Vergine Immacolata, ai cui piedi pende un largo cartello con questa iscrizione: “AUXILIUM CHRISTIANO RUM”; sull’altra, che è molto più alta e grossa, sta un’OSTIA di grandezza proporzionata alla colonna, e sotto un altro cartello con le parole: “SALUS CREDENTIUM”.
Il comandante supremo della grande nave, che è il Romano Pontefice, vedendo il furore dei nemici e il mal partito nel quale si trovano i suoi fedeli, convoca intorno a sé i piloti delle navi secondarie per tenere consiglio e decidere sul da farsi. Tutti i piloti salgono e si adunano intorno al Papa. Tengono consesso, ma infuriando sempre più la tempesta, sono rimandati a governare le proprie navi.
Fattasi un po’ di bonaccia, il Papa raduna intorno a sé i piloti per la seconda volta, mentre la nave capitana segue il suo corso. Ma la burrasca ritorna spaventosa.
Il Papa sta al timone e tutti i suoi sforzi sono diretti a portare la nave in mezzo a quelle due colonne, dalla sommità delle quali tutto intorno pendono molte àncore e grossi ganci attaccati a catene.
Le navi nemiche tentano di assalirla e farla sommergere: le une con gli scritti, con i libri, con materie incendiarie, che cercano di gettare a bordo; le altre con i cannoni, con i fucili, con i rostri. Il combattimento si fa sempre più accanito; ma inutili riescono i loro sforzi: la grande nave procede sicura e franca nel suo cammino. Avviene talvolta che, percossa da formidabili colpi, riporta nei suoi fianchi larga e profonda fessura, ma subito spira un soffio dalle due colonne e le falle si richiudono e i fori si otturano.
Frattanto i cannoni degli assalitori scoppiano, i fucili e ogni altra arma si spezzano, molte navi si sconquassano e si sprofondano nel mare. Allora i nemici, furibondi, prendono a combattere ad armi corte: con le mani, con i pugni e con le bestemmie.
A un tratto il Papa, colpito gravemente, cade. Subito è soccorso, ma cade una seconda volta e muore. Un grido di vittoria e di gioia risuona tra i nemici; sulle loro navi si scorge un indicibile tripudio.
Senonché, appena morto il Papa, un altro Papa sottentra al suo posto. I piloti radunati lo hanno eletto così rapidamente che la notizia della morte del Papa giunge con la notizia della elezione del suo successore. Gli avversari cominciano a perdersi di coraggio.
Il nuovo Papa, superando ogni ostacolo, guida la nave in mez zo alle due colonne, quindi con una catenella che pende dalla prora la lega a un’ancora della colonna su cui sta l’Ostia, e con un’altra catenella che pende a poppa la lega dalla parte opposta a un’altra àncora che pende dalla colonna su cui è collocata la Vergine Immacolata.
Allora succede un gran rivolgimento: tutte le navi nemiche fuggono, si disperdono, si urtano, si fracassano a vicenda. Le une si affondano e cercano di affondare le altre, mentre le navi che hanno combattuto valorosamente con il Papa, vengono anch’esse a legarsi alle due colonne. Nel mare ora regna una grande calma».
A questo punto Don Bosco interroga Don Rua:
— Che cosa pensi di questo sogno?
Don Rua risponde:
— Mi pare che la nave del Papa sia la Chiesa, le navi gli uomini, il mare il mondo. Quelli che difendono la grande nave sono i buoni, affezionati alla Chiesa; gli altri, i suoi nemici che la com battono con ogni sorta di armi. Le due colonne di salvezza mi sembra che siano la devozione a Maria SS. e al SS. Sacramento del l’Eucaristia.
— Hai detto bene — commenta Don Bosco —; bisogna soltanto correggere una espressione. Le navi dei nemici sono le persecuzioni. Si preparano gravissimi travagli per la Chiesa. Quello che finora fu, è quasi nulla rispetto a quello che deve accadere. Due soli mezzi restano per salvarsi fra tanto scompiglio: Devozione a Maria SS., frequente Comunione.

Il servo di Dio cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, dava tanta importanza a questa visione, che nel 1953, quando fu a Torino come Legato Pontificio al Congresso Eucaristico Nazionale, la notte sul 13 settembre, durante il solenne pontificale di chiusura, sulla Piazza Vittorio, gremita di popolo, diede a questo sogno una parte rilevante della sua Omelia.
Disse tra l’altro: «In quest’ora solenne, nell’Eucaristica Torino del Cottolengo e di Don Bosco, mi torna in mente una visione profetica che il Fondatore del Tempio di Maria Ausiliatrice narrò ai suoi nel maggio del 1862. Gli sembrò di vedere la flotta della Chiesa battuta qua e là dai flutti di una orribile tempesta; tanto che, ad un certo momento, il supremo condottiero della nave capitana — Pio IX — convocò a consiglio i gerarchi delle navi minori.
Purtroppo la bufera, che mugghiava sempre più minacciosa, in terruppe a mezzo il Concilio Vaticano (è da notare che Don Bosco annunciava questi eventi otto anni prima che avvenissero). Nelle alterne vicende di quegli anni, per ben due volte gli stessi Supremi Gerarchi soccombettero al travaglio. Quando successe il terzo, in mezzo all’oceano furente cominciarono ad emergere due colonne, in cima alle quali trionfavano i simboli dell’Eucaristia e della Vergine Immacolata.
A quella apparizione il nuovo Pontefice — il Beato Pio X — prese animo e con una salda catena, agganciò la nave Capitana di Pietro a quei due solidi pilastri, calando in mare le ancore.
Allora i navigli minori cominciarono a vogare strenuamente per raccogliersi attorno alla nave del Papa, e così scamparono dal naufragio. La storia confermò la profezia del Veggente. Gli inizi pontifi cali di Pio X con l’àncora sullo stemma araldico coincisero appunto con il cinquantesimo anno giubilare della proclamazione dog matica della Concezione Immacolata di Maria, e venne festeggiata in tutto l’orbe cattolico. Tutti noi vecchi ricordiamo l’8 dicembre 1904, in cui il Pontefice in San Pietro circondò la fronte del l’Immacolata d’una preziosa corona di gemme, consacrando alla Madre tutta intera la famiglia che Gesù Crocifisso le aveva commesso.
Il condurre i pargoli innocenti e gli infermi alla Mensa Eucaristica entrò parimenti a far parte del programma del generoso Pontefice, che voleva restaurare in Cristo tutto quanto l’orbe. Fu così che, finché visse Pio X, non ci fu guerra, ed Egli meritò il titolo di pacifico Pontefice dell’Eucaristia.
Da quel tempo le condizioni internazionali non sono davvero migliorate; così che l’esperienza di tre quarti di secolo ci conferma che la nave del Pescatore sul mare in burrasca può sperare sal vezza solo con l’agganciarsi alle due colonne dell’Eucaristia e dell’Ausiliatrice, apparse in sogno a Don Bosco» (da L’Italia del 13 settembre 1953).
Lo stesso santo card. Schuster, un giorno disse a un Salesiano:
«Ho visto riprodotta la visione delle due colonne. Dica ai suoi Superiori che la facciano riprodurre in stampe e cartoline, e la diffondano in tutto il mondo cattolico, perché questa visione di Don Bosco è di grande attualità: la Chiesa e il popolo cristiano si salveranno con queste due devozioni: l’Eucaristia e Maria, Aiuto dei Cristiani».

Publié dans San Giovanni Bosco | Pas de Commentaire »

«Difendici dal male»

Posté par atempodiblog le 31 janvier 2012

«Difendici dal male» dans Citazioni, frasi e pensieri

Un certo momento ho visto il convento di questa nuova Congregazione. Mentre giravo e visitavo tutto, all’improvviso ho visto un gruppo di bambini, la cui età si aggirava dai cinque agli undici anni. Appena mi videro, mi circondarono e cominciarono a gridare ad alta voce: «Difendici dal male» e mi fecero entrare nella cappella che c’era in quel convento. Quando entrai nella cappella, vidi Gesù martoriato. Gesù guardò benevolmente verso di me e mi disse che veniva «offeso gravemente dai fanciulli. Tu difendili dal male!». Da quel momento prego per i fanciulli. Ma sento che la sola preghiera non basta.

Santa Faustina Kowalska

Publié dans Citazioni, frasi e pensieri, Santa Faustina Kowalska | Pas de Commentaire »

La Madonna, la maestra senza la quale ogni sapienza diventa stoltezza

Posté par atempodiblog le 31 janvier 2012

La Madonna, la maestra senza la quale ogni sapienza diventa stoltezza dans San Giovanni Bosco

Alla tenera età di 9 anni Don Bosco ha il suo primo sogno. In esso Gesù e la Vergine gli preannunziano, sebbene in forma velata, la sua futura missione.
Gli parve di essere vicino a casa sua, in mezzo a una moltitudine di ragazzi che si divertivano in un grande cortile. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, si slanciò in mezzo a loro, usando pugni e parole per farli tacere. Ed ecco apparirgli un Uomo venerando, nobilmente vestito, con una faccia così luminosa che Giovannino non riusciva a rimirarla. Lo chiamò per nome e gli ordinò di mettersi a capo di quei ragazzi aggiungendo:
— Non con le percosse, ma con la mansuetudine e la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Fa dunque loro subito un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.
Giovannino, tutto confuso, risponde che è un povero ragazzo ignorante, incapace di fare questo.
In quel momento risa, schiamazzi e bestemmie cessarono e i ra gazzi si raccolsero intorno a colui che parlava. Ma cediamo la parola a Don Bosco stesso: «Quasi senza sapere che cosa dicessi, gli domandai:
— Chi siete voi che mi comandate cose impossibili?
— Appunto perché è cosa che ti sembra impossibile, devi renderla possibile con l’ubbidienza e con l’acquisto della scienza.
— Dove, come acquisterò la scienza?
Io ti darò la Maestra. Sotto la sua guida potrai divenire sapiente; senza di essa ogni sapienza diventa stoltezza.
— Ma chi siete voi che parlate così?
— Io sono il figlio di Colei che tua Madre t’insegnò a salutare tre volte al giorno.
— Mia madre mi dice di non associarmi, senza suo permesso, con chi non conosco. Perciò ditemi il vostro nome.
— Il mio nome domandalo a mia Madre.
In quel momento vidi accanto a lui una Donna di aspetto maestoso, vestita di un manto che splendeva da tutte le parti, come se ogni punto fosse una fulgidissima stella. Vedendomi sempre più confuso, mi accennò di avvicinarmi a lei, mi prese con bontà per mano e mi disse:
— Guarda.
Guardai e mi accorsi che quei ragazzi erano tutti scomparsi. Al loro posto c’era una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi e parecchi altri animali.
— Ecco il tuo campo — ripigliò quella Signora —, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte e robusto, e ciò che ora vedrai succedere di questi animali tu dovrai farlo per i miei figli.
Volsi allora lo sguardo ed ecco che al posto di animali feroci, comparvero altrettanti agnelli mansueti, che saltellavano, correvano, belavano come per far festa a quell’Uomo e a quella Signora.
Allora, sempre nel sogno, mi misi a piangere e pregai quella Si gnora che parlasse in modo da poter capire. Ella mi pose la mano sul capo dicendomi:
— A suo tempo, tutto comprenderai.
A questo punto un rumore mi svegliò e io rimasi sbalordito. Mi sembrava di aver le mani che mi facessero male per i pugni che avevo dato e che la faccia mi bruciasse per gli schiaffi ricevuti».

Tratto da: Luci sull’Est

Publié dans San Giovanni Bosco | Pas de Commentaire »

Portiamo allegramente le nostre croci

Posté par atempodiblog le 31 janvier 2012

Portiamo allegramente le nostre croci dans Citazioni, frasi e pensieri sanfrancescosaveriomari

«La croce si porta, non si trascina. Portiamo allegramente e con amore filiale le nostre croci, perché dal Calvario si va al Cielo».

San Francesco Saverio Maria Bianchi

Publié dans Citazioni, frasi e pensieri | Pas de Commentaire »

L’amore per il prossimo

Posté par atempodiblog le 29 janvier 2012

L’amore per il prossimo  dans Citazioni, frasi e pensieri Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

Tutta la nostra religione non è che religione falsa e tutte le nostre virtù non sono altro che fantasmi; e siamo soltanto degli ipocriti agli occhi di Dio, se non abbiamo quella carità universale per tutti, per i buoni come per i cattivi, per i poveri come per i ricchi, per tutti quelli che ci fanno del male, come per quelli che ci fanno del bene.
No, non c’è virtù che meglio ci faccia conoscere se siamo i figli del buon Dio, come la carità. L’obbligo che abbiamo di amare il nostro prossimo è così grande, che Gesù Cristo ce ne fa un comandamento, che pone subito dopo quello col quale ci ordina di amarlo con tutto il cuore. Ci dice che tutta la legge e í profeti sono racchiusi in questo comandamento di amare il nostro prossimo.
Sì, dobbiamo considerare quest’obbligo come il più universale, il più necessario e il più essenziale alla religione, alla nostra salvezza. Osservando questo comandamento, mettiamo in pratica tutti gli altri. San Paolo ci dice che gli altri comandamenti ci vietano l’adulterio, il furto, le ingiurie, le false testimonianze. Se amiamo il nostro prossimo, non facciamo niente di tutto questo, perché l’amore che abbiamo per il nostro prossimo non può tollerare che facciamo del male.

S. Giovanni M. Vianney – Curato d’Ars

Publié dans Citazioni, frasi e pensieri, Fede, morale e teologia, Misericordia, Perdono, Santo Curato d'Ars | Pas de Commentaire »

Come si può abusare della bontà altrui?

Posté par atempodiblog le 29 janvier 2012

Come si può abusare della bontà altrui? dans Citazioni, frasi e pensieri santafaustinakowalska

Oggi mi è capitato un grande dispiacere da parte di una certa persona, una certa persona secolare. Questa persona sulla base di una cosa vera, ha raccontato molte cose inventate, e siccome tali cose sono state prese tutte per vere e diffuse per tutta la casa, quando sono giunte ai miei orecchi, mi si è stretto il cuore. Come si può abusare della bontà altrui? Ad ogni modo ho deciso di non dire nemmeno una parola in mia difesa e nei confronti di quella persona dimostrare ancora maggior bontà. Ma mi sono accorta che le mie forze erano troppo poche, per sopportare ciò tranquillamente, dato che la faccenda è andata avanti per settimane. Quando ho visto che la tempesta stava per scoppiare ed il vento cominciava a gettare la sabbia direttamente contro gli occhi, sono andata davanti al Santissimo Sacramento ed ho detto al Signore: «Gesù, Ti prego di darmi la forza della Tua grazia attuale cooperante, poiché sento che non ce la faccio in questa lotta. Difendimi con il Tuo petto». Allora udii queste parole: «Non temere, Io sono con te». Quando mi allontanai dall’altare, una forza ed una tranquillità singolare inondarono la mia anima, e la tempesta che infuriava urtò contro la mia anima, come contro una roccia e la schiuma della tempesta cadde su coloro che l’avevano provocata. Oh, quanto è buono il Signore, che paga ciascuno secondo le sue opere!… Ogni anima impetri per sé l’aiuto di una grazia attuale cooperante poiché qualche volta la grazia ordinaria non basta.

Santa Faustina Kowalska

Publié dans Citazioni, frasi e pensieri, Santa Faustina Kowalska | Pas de Commentaire »

Gesù: “sono tutto di tutti”.

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2012

Gesù: “sono tutto di tutti”. dans Citazioni, frasi e pensieri Adorazione

«Mentre era esposto il Santissimo, Egli mi diceva:
 “Io Sono Colui che Sono eppure sto qui tutto per te e per chi Mi vuole, sono tutto di tutti”».

Santa Veronica Giuliani

Publié dans Citazioni, frasi e pensieri, Santa Veronica Giuliani | Pas de Commentaire »

In un’anima sofferente dobbiamo vedere Gesù Crocifisso

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2012

In un'anima sofferente dobbiamo vedere Gesù Crocifisso dans Citazioni, frasi e pensieri santafaustina

Oggi mi sono sentita peggio del solito, ma Gesù in questo giorno mi ha dato più possibilità di esercitarmi nella virtù. È capitato che ho avuto un impegno più faticoso. La suora della cucina mi ha manifestato il suo malcontento perché ho fatto tardi a pranzo, anche se in nessun modo mi sarebbe stato possibile giungere prima. Ma mi sono sentita così male, che ho dovuto chiedere alla Madre Superiora di permettermi di andare a coricarmi. Sono andata a pregare Suor N… di sostituirmi nella mia mansione ed ho ricevuto un’altra ramanzina. «Ma come? Si è stancata tanto, sorella, che va di nuovo a mettersi a letto? Che vuoi, con questo continuo andare a letto!». Me la sono sorbita tutta, ma non era ancora la fine. Bisognava andare ed avvertire anche la suora che serve le malate, perché mi portasse il vitto.
Appena gliel’ho detto, è scattata e mi è corsa appresso dalla cappella lungo il corridoio, per dirmi quello che aveva in animo: «Perché va a mettersi a letto? ecc. ecc.». L’ho pregata di non portarmi niente. Scrivo questo molto in breve, perché non è mia intenzione scrivere di tali cose, ma lo faccio perché non ci si comporti a questo modo con un’altra anima, poiché questo non piace al Signore. In un’anima sofferente dobbiamo vedere Gesù Crocifisso e non un parassita ed un peso per la Congregazione. Un’anima sofferente rassegnata alla volontà di Dio attira sul convento più benedizione divina che tutte le suore che lavorano.
Povera quella casa che non ha suore ammalate! Talvolta Dio concede molte e grandi grazie per riguardo alle anime sofferenti ed allontana molti castighi unicamente per riguardo a queste. O Gesù mio, quando impareremo a guardare alle anime per motivi più elevati? Quando saranno veritieri i nostri giudizi? Ci dai la possibilità di esercitarci nelle opere di Misericordia e noi ci esercitiamo nei giudizi. Per conoscere se in una casa religiosa fiorisce l’amore di Dio, basta chiedere come vengono trattati gli ammalati, gli invalidi e gli inabili.

Santa Faustina Kowalska

Publié dans Citazioni, frasi e pensieri, Santa Faustina Kowalska | 1 Commentaire »

Il significato della croce in un mondo dove gli stadi hanno preso il posto delle cattedrali

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2012

Il Dio denaro e la morte di Cristo
Il significato della croce in un mondo dove gli stadi hanno preso il posto delle cattedrali
Un articolo di monsignor Luigi Giussani su la Repubblica

Il significato della croce in un mondo dove gli stadi hanno preso il posto delle cattedrali dans Don Luigi Giussani dongius

Caro direttore, nella mia quotidiana ricerca delle conseguenze estetiche e, quindi, etiche della mia fede in Cristo, l’altro giorno ho ritrovato un verso di Carducci: Cristo «cruciato martire tu cruci gli uomini» (In una chiesa gotica, 1876; in: Odi barbare). Subito mi sono venute queste riflessioni.
La storia di Cristo, per chi la considera reale, non crocifigge gli uomini: e Lui, comunque si sia incontrato, che sale in croce per gli uomini. Perché gli uomini sono tormentati dalla pena del vivere; ma non sanno che questa pena è dovuta a una radice di male che è in loro: il peccato, dice il linguaggio religioso; «peccato!», dice il popolo con riferimento realistico.
Cristo, radice della vita, è ucciso dal male che è fatto nell’uomo dall’uomo. E siccome l’uomo compie tutte le sue azioni libere per poter vivere la propria pretesa «soddisfazione», l’uomo di Carducci chiama Cristo – cioè l’uomo storico che porta il nome di Gesù di Nazareth – «menzogna».

Notizie di tutti i giorni. Si apre alle sei, si comincia a vedere Euronews in tv. In trenta minuti si atterra qualsiasi tranquillità e anche speranza per la vita dell’uomo. Sullo schermo, la notizia di due ragazzi americani che fanno strage in una scuola e di una sparatoria con trenta morti ad un funerale in Georgia… E ancora, qualche mattina fa, le immagini del terremoto nello stadio di Gualdo Tadino coi suoi millecinquecento tifosi; il panico che li assaliva trapassava anche me. Mi rinnovava in modo profondo la pietà per gli uomini e per me stesso.
Ogni giorno nell’Euronews pare che un grido di folla che dia un colpo di reni umano alla vita sia reperibile ormai solo nello sport. Lo sport, con gli stadi al posto delle cattedrali antiche. Il solo luogo affollato, insieme a quegli uffici che esprimono l’unico dio reale della società di oggi: il soldo (noi facciamo lotta continua di fronte al potere: ma il potere sono i soldi, cioè la Borsa di Milano, di New York, di Londra, ecc.).
Eppure tutto il potere in atto, nella sua impotenza, sembra tante volte non offrire neanche un accenno di speranza per il popolo. Così che gli uomini, quando guardano l’orizzonte, e anche il cielo, debbono accusare paura. E anche i più saggi del mondo, coloro che passano per ispiratori della verità dell’uomo e del benessere del popolo, i guru, non sanno che fare. Bobbio deve confessare che tutti gli ideali, compreso il Pci, crollano. Per questo il mondo chiama Cristo l’uomo che mette in croce gli uomini.

Dove trovare ancora il fondamento di una speranza per convogliare gli uomini a rapporti in cui sia possibile una verità di amore? «Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio» (orazione liturgica della settimana santa).
L’unica sorgente di speranza è Cristo in croce: «Per radunare i popoli nel patto dell’amore, distendi le tue braccia sul legno della croce» (Inno del lunedì santo). Unica sorgente di speranza – fino alla possibilità di una letizia inimmaginabile e soprattutto irrealizzabile, in altre forme o in altre sorgenti – è quella che ha costruito la folla del Medioevo, coi suoi livelli di concezione, teorica ed etica – della persona e della società, compreso il potere, che allora non poteva eludere, come ultimo scopo, l’amore e il bene della gente, alla luce di una coscienza del proprio limite, cioè del senso del Mistero.
Questo segna l’esistenza di un popolo nato duemila anni fa. Un popolo che percorre le strade dei disagi di tutti e abita le case come ogni uomo, ma lo fa nella letizia del cuore come risposta a una ineffabile attesa: «Siate lieti sempre, siate lieti», che traduce l’antico detto della Bibbia: «Renderà nota la gloria della mia potenza nella letizia dei loro volti». È l’ebreo Gesù di Nazareth che compie questa promessa, come dice il Vangelo di san Giovanni.

Di fronte a questo non si può sfuggire a un paradosso: chi riconosce Cristo così come afferma tutta la tradizione cristiana, cioè Cristo morto in croce come unica salvezza di tutti gli uomini, non può partecipare alla vita degli altri uomini se non vivendo in una contraddizione: l’incoerenza. In altri termini, non può evitare che lo sguardo degli altri uomini su di lui innanzitutto lo accusi di incoerenza. Per questo in Quaresima la Chiesa mette sulle labbra dei cristiani queste parole: «Contro di te abbiamo peccato, Signore/ chiediamo un perdono che non meritiamo./ La vita nostra sospira nell’angoscia/ ma non si corregge il nostro agire./ Se aspetti, non ci pentiamo,/ se punisci, non resistiamo./ Tendi la mano a noi che siamo caduti,/ tu, che all’assassino pentito apristi il Paradiso». Il Mistero come misericordia resta così l’ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia. 

Publié dans Don Luigi Giussani | Pas de Commentaire »

Come nasce un movimento

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2012

Come nasce un movimento
Appunti da una conversazione di don Giussani con responsabili di Comunione e Liberazione durante un raduno internazionale nell’agosto del 1989.
Come nasce l’esperienza del movimento di Comunione e Liberazione, quali sono i fattori che l’hanno fatta sorgere e quale ne è ancora oggi il punto di origine? Ci interessa conoscere anche come è stato per lei l’inizio.
Tratto da: Movimento di Comunione e Liberazione (CL)

Come nasce un movimento dans Don Luigi Giussani dongiussani

Sono un po’ impacciato nel rispondere a questo invito, perché una testimonianza di quanto sia occorso a destare e continuare una esperienza come la nostra è già stata perfino stampata. Ma è pur vero che di ciò che si ama si può sempre parlare: pur ripetendosi, si dicono ugualmente cose nuove, perché il cuore vero è sempre nuovo.
Come nasce un movimento, come nasce una esperienza cristiana? Da una testimonianza, per un dono dello Spirito – ma vi insisterò dopo.
Un quotidiano ad alta diffusione nazionale ha riesumato di recente la figura di Andrea Emo come quella di un grande pensatore ignorato, pubblicandone un’antologia di pensieri, tra cui il seguente: «La Chiesa è stata per molti secoli la protagonista della storia, poi ha assunto la parte non meno gloriosa di antagonista della storia. Oggi è soltanto la cortigiana della storia». Ecco: noi non vogliamo vivere la Chiesa come cortigiana della storia. Se Dio è entrato nel mondo non è per essere cortigiano, ma redentore, salvatore, punto affettivo totale, verità dell’uomo. È questa passione che ci tormenta e determina ogni nostra mossa. Nella contingenza d’una decisione si può, evidentemente, sbagliare, ma lo scopo per cui agiamo è solo questo: che la Chiesa non sia cortigiana, ma protagonista della storia. Questa immanenza della Chiesa alla storia incomincia da me, da te, dove sono, dove sei.
In un recente discorso del Papa ai giovani, in Scandinavia, vi è una frase che riassume tutto il nostro contenuto di messaggio – a noi stessi e quindi agli altri –, che vogliamo gridare a tutto il mondo. «Come tutti i giovani del mondo» dice il Papa «voi siete alla ricerca di ciò che è importante e centrale nella vita. Nonostante alcuni di voi siano distanti dal punto di vista geografico e alcuni possano essere anche lontani dalla fede e dall’affidamento in Dio, siete venuti qui perché siete veramente alla ricerca di qualcosa d’importante su cui basare la vostra vita. Voi volete stabilire salde radici e percepite che la fede religiosa è parte importante per la vita piena che desiderate. Permettetemi di dirvi che io capisco i vostri problemi e le vostre speranze. Per questo desidero oggi, giovani amici, parlarvi a riguardo della pace e della gioia che possono essere trovate, non nel possedere ma nell’essere. E l’essere si afferma conoscendo una Persona e vivendo secondo il Suo insegnamento. Questa Persona si chiama Gesù Cristo, nostro Signore e Amico. Egli è il centro, il punto focale, Colui che tutto riunisce nell’amore».
Se è lecito, vorremmo ripetere: «Noi non conosciamo altro che questo!».

«E il Verbo si è fatto carne»
Come a me è apparsa all’orizzonte tale verità, così che improvvisamente ha abbracciato la mia vita? Ero un giovanissimo seminarista a Milano, un ragazzo probo, obbediente, esemplare. Ma – se ricordo bene quel che dice Concetto Marchesi in un suo testo di letteratura latina – «l’arte ha bisogno di uomini commossi, non di uomini riverenti». L’arte, cioè la vita – se deve essere creativa, ovvero se deve essere “vita” –, ha bisogno di uomini commossi, non di uomini riverenti. E io ero stato un seminarista ben riverente, salvo una parentesi in cui il poeta Leopardi, per un mese, mi tenne “agganciato” più di nostro Signore.

Come scrive Camus nei suoi Quaderni: «Non è attraverso degli scrupoli che l’uomo diventerà grande; la grandezza viene per grazia di Dio, come un bel giorno». Per me tutto avvenne come la sorpresa di un «bel giorno», quando un insegnante di prima liceo – avevo 15 anni – lesse e spiegò la prima pagina del Vangelo di san Giovanni. Era allora obbligatorio leggere questa pagina alla fine di ogni Messa; l’avevo sentita dunque migliaia di volte. Ma venne il «bel giorno»: tutto è grazia.
Come dice Adrienne von Speyr, «la grazia ci inonda. Ciò costituisce la sua essenza [la grazia è il Mistero che si comunica; l’essenza del comunicarsi del Mistero è che ci inonda, ci investe]. Essa non chiarisce punto per punto, ma irradia la sua luce come il sole. L’uomo su cui Dio prodiga se stesso dovrebbe essere preso da vertigine così da vedere solo la luce di Dio e non più i propri limiti, la propria debolezza [per questo è ignobile l’atteggiamento di chi si scandalizza dell’entusiasmo di un giovane cui è accaduto il “bel giorno”]. Dovrebbe rinunciare a ogni equilibrio (ricercato da sé), dovrebbe rinunciare a un dialogo tra sé e Dio come due partner, essere un semplice ricevitore con le braccia spalancate che non riescono ad afferrare, poiché la luce scorre su tutto e rimane inafferrabile e rappresenta molto di più di quanto possa accogliere la nostra mossa».
Dopo quarant’anni, leggendo questo brano della von Speyr, ho percepito ciò che mi accadde quando quell’insegnante spiegò la prima pagina del Vangelo di san Giovanni: «Il Verbo di Dio, ovvero ciò di cui tutto consiste, si è fatto carne,» diceva «perciò la bellezza s’è fatta carne, la bontà s’è fatta carne, la giustizia s’è fatta carne, l’amore, la vita, la verità s’è fatta carne: l’essere non sta in un iperuranio platonico, si è fatto carne, è uno tra noi». Mi ricordai in quel momento di una poesia di Leopardi, studiata in quel mese di “fuga” in terza ginnasio, intitolata Alla sua donna. Era un inno non a una delle sue “amanti”, ma alla scoperta che improvvisamente aveva fatto – in quel vertice della sua vita da cui poi decadde – che ciò che cercava nella donna amata era “qualcosa” oltre essa, che si palesava, si comunicava in essa, ma era oltre essa. Questo inno bellissimo alla Donna termina con un’appassionata invocazione: «Se dell’eterne idee / l’una sei tu, cui di sensibil forma / sdegni l’eterno senno esser vestita, / e fra caduche spoglie / provar gli affanni di funerea vita; / o s’altra terra ne’ superni giri / fra’ mondi innumerabili t’accoglie, / e più vaga del Sol prossima stella / t’irraggia, e più benigno etere spiri; / di qua dove son gli anni infausti e brevi, / questo d’ignoto amante inno ricevi». In quell’istante pensai come quella di Leopardi fosse, 1800 anni dopo, una mendicanza di quell’avvenimento che era già accaduto, di cui san Giovanni dava l’annuncio: «Il Verbo si è fatto carne». Non solo l’essere (bellezza, verità) non ha “sdegnato” di rivestire di carne la Sua perfezione e di portare gli affanni della vita umana, ma è venuto a morire per l’uomo: «Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto», ha bussato a casa sua e non è stato riconosciuto.
Ecco, questo è tutto. Perché la mia vita da giovanissimo è stata letteralmente investita da questo: sia come memoria che persistentemente percuoteva il mio pensiero, sia come stimolo a una rivalutazione della banalità quotidiana. L’istante, da allora, non fu più banalità per me. Tutto ciò che era – perciò tutto ciò che era bello, vero, attraente, affascinante, fin come possibilità – trovava in quel messaggio la sua ragion d’essere, come certezza di presenza e speranza mobilitatrice che tutto faceva abbracciare.
Avevo a quel tempo sul tavolo di studio una figura di Cristo del Carracci, sotto la quale avevo scritto una frase di Möhler (il famoso antesignano dell’ecumenismo, di cui al liceo avevo letto la Simbolica e altri scritti): «Io penso che non potrei più vivere se non Lo sentissi più parlare». Adesso, quando faccio l’esame di coscienza, sono costretto a chiedere alla misericordia di Cristo, attraverso la pietà di Maria, che mi faccia ritornare alla semplicità e al coraggio di allora; perché quando un così «bel giorno» accade e si vede improvvisamente qualcosa di bellissimo, non si può non dirlo all’amico vicino, non si può non mettersi a gridare: «Guardate là!». E così successe.

Studium Christi
Successe già in seminario, con i compagni vicini di banco, nella grande classe (eravamo molto numerosi). Così un gruppetto si unì – perché è all’opera sempre la medesima legge: alcuni si rendono più prossimi, si sentono affini alla tua visione, al tuo cuore, alla tua vita – e nacque il primo vero nucleo del movimento, che chiamammo Studium Christi. Ogni mese – poi ogni quindici giorni – facevamo una specie di ciclostilato intitolato Christus, in cui ognuno testimoniava una sua particolare ricerca sul rapporto tra la presenza di Cristo e qualcosa che gli interessava: lo studio, gli avvenimenti, ecc. Un altro gruppo di compagni ironizzava sul nostro tentativo; questo gruppo si coagulò e s’intitolò Studium Diaboli. Nella libertà tutto è possibile. Ma dopo un anno e mezzo il rettore del seminario (che fu poi cardinale a Milano) mi chiamò e mi disse: «La vostra è una bellissima cosa, ma divide la classe e non dovete più farla». Quando era Vescovo a Milano raccontava ancora, un po’ esagerando poeticamente come era nel suo temperamento, che una sera d’inverno, mentre noi seminaristi andavamo in massa in refettorio e lui era dietro di noi senza che ce ne accorgessimo, io dissi ai compagni vicini: «Il rettore ci ha ucciso il “Cristo”» (io, a dire il vero, non ricordo d’averlo detto).

Si tratta però di avvenimenti che non si possono arrestare. Quel seme che ho descritto animò la nostra amicizia per tutta la storia del seminario, ci impose la scelta degli autori da leggere, divenne il motivo degli autori da preferire (al liceo leggendo, per esempio, Möhler, Solov’ev, Newman, comprendendo quel che si poteva comprendere), e rese animoso il nostro studio di teologia, che non restò certamente dottrina cristallizzata.

«Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto»
Dopo una decina d’anni di varie vicende, divenuto insegnante nello stesso seminario teologico, incontrai sul treno un gruppo di studenti e incominciai a discutere di cristianesimo con loro. Li trovai così estranei alle cose più elementari che mi venne come irrefrenabile impeto il desiderio di far conoscere loro quello che io avevo conosciuto, affinché anche per loro avesse a sorgere il «bel giorno». Abbandonai perciò, sollecitato dal rettore, l’insegnamento in seminario (mi dedicavo di fatto più ai giovani che alla preparazione delle lezioni) e scelsi di insegnare religione nelle scuole medie superiori dello Stato.

Mi ricordo perfettamente quel giorno così importante per la mia vita. Mentre stavo salendo per la prima volta i quattro gradini che dalla strada portavano all’ingresso del liceo «Berchet» di Milano, dicevo a me stesso: «Io vengo qui a dare a questi giovani quello che è stato dato a me». Lo ripeto sempre, perché è questa l’unica ragione per cui abbiamo fatto tutto quel che abbiamo fatto (e continueremo a farlo fino a quando Dio ce lo concederà). L’unica ragione di ogni nostra mossa è che Lo conoscano, che gli uomini conoscano Cristo. Dio è diventato uomo, è venuto tra i suoi: che i suoi non Lo conoscano è il peccato più grave, è l’ingiustizia senza paragone più grande.

Cristo centro del cosmo e della storia
«Cristo centro del cosmo e della storia». Quando ho sentito nel suo primo discorso Giovanni Paolo II ripetere questa frase (letteralmente la stessa frase, lo possono testimoniare i miei amici di allora, è stata fin dall’inizio testo abituale della nostra meditazione), l’emozione provata mi ha ridestato il ricordo di tutta la dialettica che si sviluppò tra me e i giovani e tra i giovani stessi nella scuola, e il ricordo della tensione profonda con cui ci riunimmo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ripetevo sempre ai ragazzi: «Vieni e vedi», o «Vedrai cose maggiori di questa», come dice Gesù nel Vangelo; oppure, come dice una preghiera della Messa: «La Tua Chiesa si riveli al mondo»; o ancora: «Dio gloria del Suo popolo». E osservavo: «Che cosa significa ad esempio “Dio gloria del Suo popolo” se non il cambiamento che Cristo, attraverso il mistero della Sua permanenza nella Chiesa, produce nel singolo e nella società? Tale cambiamento è il miracolo che gli dà gloria».

Questo noi chiediamo a Dio da tanti anni, solo questo: che Cristo ci aiuti a vivere la Chiesa, affinché anche attraverso la nostra vita, la nostra azione, la nostra compagnia, i nostri progetti, Egli appaia sempre di più nel mondo agli uomini prescelti dal Mistero del Padre, affinché cioè appaia sempre di più la gloria di Dio attraverso un’adesione a Cristo che cambi la nostra vita e la vita del mondo trasfigurandole. È questo l’unico scopo per cui ci siamo ritrovati e ci ritroviamo, fino a quando Iddio vorrà.
I primi giorni del mio insegnamento di religione domandavo ai ragazzi, lungo le scale, o sui pianerottoli: «Il cristianesimo è presente qui, nella scuola, secondo te?». Quasi tutti mi guardavano stupiti e ridevano. Chi invece rispondeva diceva: «Ma no!». E io ribadivo: «Ma, allora, o la fede in Cristo non è vera, oppure chiede una modalità nuova». Fu l’inizio della dialettica aperta dall’affermazione che Cristo è il centro del cosmo e della storia, la chiave di volta per conoscere l’uomo e il mondo, l’origine di una possibile pace per il cuore dell’io e per la società, la ragione di un impeto affettivo ignoto e senza paragoni (qualcosa di analogo coglieva Socrate, quando sospendeva improvvisamente il suo discorso – tra i suoi scolari c’erano Platone, Senofonte ecc. – e diceva: «Non è forse vero, amici miei, che quando parliamo della verità dimentichiamo anche le donne?»).
Lo sviluppo dialettico del contenuto del messaggio lentamente polarizzò la curiosità, l’ira e l’affezione dei ragazzi, divenendo il punto più discusso della scuola per dodici anni (tempo in cui vi rimasi come insegnante di religione): Cristo e la Chiesa erano il tema quotidiano, oggetto di accanite discussioni.
« Che alternativa abbiamo,» dicevo allora, e ripeto ora «l’alternativa politica?». Vi è in proposito un’altra frase dai Quaderni di Camus, scritta nel 1953: «Ciò che la sinistra approva [la sinistra costituiva allora il simbolo dell’onestà redentiva dell’energia politica] passa sotto silenzio o viene giudicato inevitabile: 1) la deportazione di migliaia di bambini greci; 2) la distruzione fisica della classe contadina russa; 3) i milioni in campo di concentramento; 4) i sequestri politici; 5) le esecuzioni politiche quotidiane; 6) l’antisemitismo; 7) la stupidità; 8 ) la crudeltà. La lista è aperta». Ma già basta. Non è pessimismo, ma è difficile non far rientrare in queste categorie la politica nella sua attualità.
« Qual è» domandavo allora «l’altro campo di speranza alternativa, più serio della politica, più carico di riuscita? È la scienza?». Solo trent’anni fa, “scienza” era una parola cento volte più “divina” di quanto lo sia adesso. Tanti anni dopo avremmo dovuto sentire Giovanni Paolo II affermare: «La scienza della totalità (perché non è scienza se non ha la pretesa di afferrare l’orizzonte totale) conduce spontaneamente alla domanda sulla totalità stessa; domanda che non trova la sua risposta all’interno di tale totalità». La passione per l’orizzonte totale porta inesorabilmente alla domanda sul senso di questo orizzonte, ma all’interno di esso non è possibile trovare risposta.
Lo sviluppo del nostro interesse alla vita in tutti i suoi aspetti ebbe e ha come riferimento la Sua presenza: «Noi crediamo in Cristo morto e risorto, in Cristo presente qui e ora». Questo ci ha fatto interessare alla politica secondo la totalità della sua accezione, nella perfetta consapevolezza che non è dalla politica che ci può venire la salvezza; e ci ha fatto riappassionare allo studio, alla scienza, non per idolatria o per la promozione, ma per una serietà che scavasse un alveo sempre più preciso alla conoscenza, la quale, ultimamente, ha la sua consistenza in Cristo. Dall’esperienza della Sua presenza sono nate dunque una passione per la vita sociale e politica e una passione per la conoscenza (il Meeting di Rimini, sia pure tentativamente, ma tenacemente e appassionatamente, nasce da questo duplice interesse, o meglio dalla radice che ha creato questo duplice interesse).
Sant’Agostino nel Contra Iulianum osserva: «Questa è l’orrenda radice del vostro errore: voi pretendete di far consistere il dono di Cristo nel suo esempio mentre quel dono è la Sua persona stessa». Tutti parlano con riverenza dell’esempio di Cristo, dei valori morali, anche coloro che scrivono sulla «Voce Repubblicana»; costoro, anzi, insegnano, predicano ai cristiani che debbono vivere i valori morali per sostenere lo Stato. Ma il dono di Cristo è la Sua presenza: questo è il nuovo nel mondo e non vi sarà mai nulla di più nuovo di questo.
Scrive Milosz in una sua poesia: «Sono solo un uomo, ho bisogno di segni sensibili, costruire scale di astrazioni mi stanca presto. Desta, dunque, o Dio, un uomo in un posto qualsiasi della terra e permetti che guardandolo io possa ammirare Te». Cristo è la risposta a questa suprema invocazione umana. L’Incarnazione di Cristo corrisponde all’esigenza propria della natura dell’uomo, corrisponde in modo inconcepibile a un sensibile bisogno, a un bisogno dell’uomo vissuto e appassionato.

«Siamo una cosa sola»
Quanto ha affermato nel suo discorso inaugurale il nuovo arcivescovo di Colonia, cardinal Meisner, pone il tema che occorre ora toccare: «La parola eterna del Padre si è fatta carne. E ora nella Chiesa è rimasta udibile e toccabile per tutti gli uomini». Ma la Chiesa di che cosa è fatta? Di te, di me. Questa è stata la scoperta immediata e spontanea che, nel mese di ottobre in cui entrai nella scuola come insegnante di religione, seguì al messaggio lanciato.

Se Dio è diventato uomo ed è qui e si comunica a noi, tu e io siamo una cosa sola. Tra te e me, estranei, è tolta l’estraneità o, come la chiamava san Paolo, l’inimicizia: siamo amici. Per contrasto, facevo notare ai ragazzi più grandi: «Siete stati cinque anni insieme nella stessa classe, nello stesso banco, siete pieni di connivenze, ma non di amicizia; andate in vacanza insieme, studiate insieme, vi divertite insieme, ma non siete amici: siete compagni provvisori, tra voi non c’è nulla che abbia durata, nessuno è in rapporto con e si sente interessato al destino dell’altro».
Lo dicevo perché Cristo è presente proprio attraverso, dentro, la nostra unità, quell’unità in cui ci immette il gesto con cui Egli ci afferra, il sacramento del Battesimo. Afferrandoci nel Battesimo, Cristo ci ha messi insieme come membra dello stesso corpo (cfr. i capitoli 1-4 della Lettera agli Efesini). Egli è presente qui e ora, in me, attraverso me, e la prima espressione del cambiamento in cui la Sua presenza si documenta è che io mi riconosco unito a te, è che noi siamo una cosa sola.
Come scrive san Paolo nella Lettera ai Galati, al capitolo 3 (un altro brano che sempre citavo): «Tutti voi che siete stati battezzati, vi siete immedesimati con Cristo. Non esiste più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti voi siete uno, una sola persona in Cristo Gesù». Qualsiasi utopia l’uomo abbia creato, non è mai giunto a immaginarsi questa unità che il fatto di Cristo ha realizzato in noi. Se lo riconosciamo, agisce, e la nostra vita diventa più umana.
Cristo rende la nostra vita più umana. Perciò l’altra frase del Vangelo che costituiva la sfida con cui entravo nella scuola e che ripetevo in tutte le ore di insegnamento era: «Chi mi segue avrà la vita eterna, e il centuplo quaggiù». «“Chi mi segue avrà la vita eterna”, e questo vi può non interessare» osservavo, «ma avrà “il centuplo quaggiù” – cioè vivrà cento volte meglio l’affezione all’uomo o alla donna, al padre e alla madre, avrà cento volte più passione per lo studio, amore per il lavoro, gusto per la natura –, questo non può non interessarvi».
L’esigenza espressa da Milosz nella poesia citata è propriamente quella di incontrare qualcuno – visibile, toccabile – seguendo il quale si possa fare esperienza del centuplo. «Desta dunque un uomo in un posto qualunque della terra e permetti che guardandolo io possa ammirare Te»: questo è Cristo per l’uomo.
Ma Cristo è in te e in me, e ciò è tremendo (tremendum mysterium): è la sorgente della nostra responsabilità e della nostra umiltà, impossibile a evitarsi, perché siamo il segno fisico della Sua presenza.
Eravamo in quindici quando dicevo che la nostra comunità è il segno reale, anche se contingente, provvisorio, risibile, ma grande, per cui Cristo diventa oggetto di un’esperienza presente. Da quindici che eravamo, l’ultimo anno di insegnamento al liceo, allo stesso raduno, diventammo circa trecento. Ma non importa il numero. Dopo dodici anni avremmo potuto essere in tre, in due (questo è il significato del matrimonio come sacramento; il matrimonio è, dovrebbe essere, il segno per la comunità, perché vi si incontra quell’unità che non nasce dalla carne e dal sangue, ma da Cristo).
La comunità, dilatata senza confine, è il Mistero di questa identità per cui e in cui veramente io posso dire con timore, tremore e amore a Cristo: «Tu». Questa scoperta è stata un passo preciso in un certo raduno tenuto davanti al mare, su una torre, a Varigotti.

La comunità è il luogo della memoria
La memoria è la coscienza di una presenza che è incominciata nel passato e che dura: la memoria è coscienza della presenza di Cristo.

Come diceva Pavese: «La memoria è una passione ripetuta». Noi viviamo una passione per Cristo, una passione ripetuta, perché purtroppo in noi non ci può essere una continuità imperterrita.
Ancora Pavese scrive: «La ricchezza di un’opera [cioè di una generazione o della nostra vita come generazione] è sempre data dalla quantità di passato che essa contiene». Ma si deve trattare di un passato che possa essere nel presente più potentemente che come ricordo, perché il ricordo appiattisce, è come un vestito logoro. La memoria di Cristo è memoria di un passato che diventa così presente da determinare il presente più di ogni altro presente. Memoria è diventata la parola capitale della nostra comunità: la comunità è il luogo dove si vive la memoria.
Voglio ora dettagliare alcuni aspetti di questa realtà comunionale, parola che indica una compagnia che non nasce dalla carne e dal sangue ma da Cristo, e la cui vita è la memoria. «La memoria s’è empita di sangue» affermava santa Caterina da Siena. La memoria si «empie» del sangue della croce e della gloria della resurrezione, perché non si può concepire la croce di Cristo senza la resurrezione. Perciò, diceva giustamente Claudel, la pace, che è l’eredità che Cristo ci ha lasciato come segno della Sua presenza attiva e operante, «in parti uguali di dolore e di gioia è fatta».

La drammaticità di una lotta
Innanzitutto, la vita di comunità non ha mai soppresso la drammaticità, non ha mai preteso da alcuno un passo forzoso. È sempre stata una proposta appassionata, ma ben consapevole della fatica richiesta a chi la riceveva. La verità, certo, porta nella comunicazione di sé la propria evidenza, e l’annuncio di Cristo è talmente corrispondente a quello che l’uomo desidera, attende, che venirne investiti è come un frangente di evidenza che non può evitare di suscitare un positivo sussulto. Ma subito dopo insorge una resistenza. Facevo osservare ai ragazzi: «Mentre io parlo voi siete lì attenti e la vostra faccia inequivocabilmente dice: “Eh già”, ma, subito dopo, la diabolicità, il peccato originale, vi riempie di “ma, se, forse, però, chissà”, cioè di scetticismo, per farvi fuggire dall’evidenza che vi è balenata». Insorge una resistenza, e si apre la drammaticità di una lotta.

La drammaticità è inerente a ogni rapporto (non c’è un solo rapporto realmente umano che non sia drammatico). Nel rapporto con Cristo essa tocca la sua profondità più grande. E la drammaticità non consiste in un’esasperazione isterica, ma nel dire «Tu» con la consapevolezza della differenza e del cammino da compiere.
« Prima la mia volontà [dove innanzitutto si colloca la resistenza] e poi la mia intelligenza» scrive un dissidente lituano «hanno resistito a lungo, ma alla fine mi sono arreso e ho vinto [il vincitore è chi afferma se stesso]. Non è stata una capitolazione di fronte all’avversario. È stata la riconciliazione con il Padre [con l’origine costitutiva di sé]: il Suo possesso di me è la mia liberazione» (ne Il senso religioso, che contiene gli appunti da me dettati in quei primi anni di scuola, questa identificazione tra essere posseduti ed essere liberi viene sviluppata).
Dopo solo un anno dall’inizio del movimento, con i ragazzi di prima e seconda liceo classico, abbiamo stampato un’antologia di Dionigi l’Areopagita, col testo greco a fronte, che conteneva una tra le frasi più belle che abbia mai letto: «Chi mai potrà parlare dell’amore all’uomo proprio di Cristo, traboccante di pace?». È il cuore della frase appena citata: «Il Suo possesso di me è la mia liberazione».

La domanda, gesto supremo dell’uomo
Assistendo alla drammaticità vissuta da quei primi giovani che partecipavano – allora, quando eravamo alcune centinaia, dalla mattina alla sera, anche al di fuori della scuola, stavamo insieme a discutere – ho capito per la prima volta, dopo tutti gli anni del seminario, che cosa vuol dire chiedere.

La domanda è l’espressione suprema dell’uomo, ed è la più elementare: in qualsiasi condizione l’uomo la può realizzare, anche se è ateo. Anzi, quanto più un uomo sente fatica tanto più essa gli è consona. Ne I promessi sposi, a un certo punto, l’ateo – l’Innominato – esclama: «Dio, se ci sei, rivelati a me». Non vi è nulla di più razionale di questo: «Se ci sei» è la categoria della possibilità, dimensione irrinunciabile di una ragione autentica, «rivelati a me» è la domanda.
Saremo tutti giudicati sulla domanda, perché anche nella fossa dei leoni o sotterrati dalla melma, noi possiamo gridare, domandare. Nella Settimana santa, la liturgia ambrosiana (è stupefacente fino a che punto di tenerezza giunge la Chiesa) ci suggerisce una forma commovente di domanda: «Anche se ho fatto tardi non chiudere la Tua porta. Sono venuto a bussare. A chi Ti cerca nel pianto apri, Signore pietoso; accoglimi al Tuo convito, donami il pane del Regno».
Io non ho mai detto ai primi ragazzi che si riunivano: «Pregate». Coloro che venivano, anche se non partecipavano al contenuto, partecipavano al gesto della preghiera. Dopo un po’ di tempo tutti facevano la comunione quotidiana. Ripetevo loro che il sacramento è la preghiera più grande, l’essenza della preghiera, perché è domanda di tutto il proprio io: un uomo vi partecipa anche senza saper pensare, senza saper dire, senza saper nulla, domanda con la sua presenza: «Sono qui». Come fare, allora, a gerarchizzare valori e contenuti? Che cosa dobbiamo ottenere per poter sviluppare la vita? La domanda che cosa deve domandare? L’affezione a Cristo!
Scrive san Tommaso d’Aquino: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione» (che nel senso latino del termine significa compimento, completezza). La cosa più bella nella storia del nostro movimento è che centinaia, e poi migliaia di giovani hanno imparato e vivono l’affezione a Cristo, che sola permette vera affezione all’amico, alla donna, a sé.
Ma come ottenere questa capacità di affezione a Cristo? Innanzitutto, soprattutto, al di là di tutto, domandandola. La storia religiosa dell’umanità, cioè la Bibbia, termina con questa frase: «Vieni, Signore Gesù». È una domanda “affettiva”, un’espressione vibrante di “attaccamento”. Fino a pochi anni fa era questa la formula che sempre suggerivamo. Adesso se n’è aggiunta un’altra: Veni Sancte Spiritus. Veni per Mariam. È la stessa, più sviluppata e cosciente.

Un’affezione totalizzante
Un’affezione che sostenga la vita, in cui l’uomo trovi la sua compiutezza, deve avere come contenuto, come oggetto, qualcosa che possa pertinere ad omnia (interessare tutto). Vi è in proposito una nota frase di Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa avvenimento nel suo ambito». Se è un grande amore quello tra un uomo e una donna, i sanguinosi fatti di piazza Tienanmen, un canto sentito, il sole davanti agli occhi, tutto ciò che accade, insomma, diventa un avvenimento nel suo ambito.

Occorre che l’oggetto d’amore sia tale da poter inglobare tutto. Per questo Comunione e Liberazione (una volta si chiamava Gioventù Studentesca) non ha mai organizzato gesti che non fossero inequivocabilmente educativi. La scelta della montagna per le vacanze, per fare un esempio, non è casuale (non abbiamo cominciato col mare, perché il mare è più distraente). La sanità dell’ambiente umano, l’imponente bellezza della natura, favoriscono ogni volta il rinnovarsi della domanda sull’essere, sull’ordine, sulla bontà del reale – il reale è la prima provocazione attraverso cui viene destato in noi il senso religioso –. Con la necessaria disciplina, che è sempre stata rigorosamente curata (la disciplina è come l’alveo di un fiume: l’acqua vi scorre più pura, più limpida, più rapida; la disciplina è necessaria in quanto è riconosciuto un senso a tutto), le vacanze in montagna si sono proposte all’esperienza delle persone come una profezia, sia pur fugace, della promessa cristiana di compimento, come un piccolo anticipo di paradiso, e ogni particolare doveva veicolare quella promessa e realizzare quell’anticipo.
Ciò che tutti normalmente ci rimproverano è il segno della nostra grandezza: che tutto avvenga dentro l’orizzonte della presenza di Cristo, cioè della nostra compagnia. Ci rimproverano che l’esperienza dell’amore a Cristo sia totalizzante: ma tutto ciò che è diviso e staccato dalla Sua presenza sarà distrutto! La divisione è l’inizio della distruzione. Per questo noi abbiamo sempre odiato la parola censura. «Non si può censurare nulla» dicevo «non per passione psicanalitica, ma perché tutto venga alla luce, sia chiarito, spiegato e aiutato».

Una letizia in fondo al dolore
Il segno di una vita che cammina nell’affezione a Cristo, che cioè aderisce e partecipa alla Sua compagnia, è la letizia. «Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» ha affermato Cristo poco prima di morire.

La gioia soltanto è madre del sacrificio: non è ragionevole il sacrificio se non è attirato dalla bellezza del vero. È la bellezza – «splendore del vero» – che chiama al sacrificio. Come dice la Bibbia nel libro del Siracide: «Un cuore felice è anche sereno davanti ai cibi, quello che mangia egli gusta».
Questa gioia e questa letizia stanno anche nel fondo del dolore più acuto, che a un certo punto non si può evitare: il dolore del proprio male. Appartenere alla nostra compagnia significa anzi cominciare a presentire che il dolore più grande è quello del proprio male, del peccato. Nessuno può dire: «Non commetterò più il peccato», perché la coerenza alla legge di Dio, cioè il seguire Cristo, è un miracolo della grazia, non è una capacità nostra. Per questo il punto in cui la libertà del Mistero e la libertà dell’uomo s’abbracciano è la domanda.

La grandezza dell’istante
Un’altra scoperta è diventata normale nella nostra storia: la grandezza dell’istante, l’importanza del momento, del contingente, che è il punto di incontro dell’infinità di sollecitazioni con cui il Mistero ci convoca (non abbiamo perciò niente di più amico delle circostanze inevitabili: esse sono il segno oggettivo del Mistero che ci chiama). Ancora nella liturgia ambrosiana si trova questa bella preghiera: «Tu, Dio, doni alla Chiesa di Cristo di celebrare Misteri ineffabili nei quali la nostra esiguità di creature mortali si rende sublime in un rapporto eterno e la nostra esistenza nel tempo comincia a fiorire come vita senza fine. Così, seguendo il Tuo disegno di amore l’uomo passa da una condizione mortale a una prodigiosa salvezza».

Lo stupore dell’incontro
De Lubac, in Paradossi e nuovi paradossi, osserva che «il conformista [chi aderisce alla mentalità comune, cioè chi non aderisce alla Sua compagnia] prende perfino le cose dello spirito per il loro aspetto formale, esteriore. L’obbediente invece prende perfino le cose della terra per il loro aspetto interiore e sublime». Per questo occorre coltivare una dote umana che è immediatamente propria del bambino e diventa grande quando è propria dell’adulto: lo stupore. Come mi è stato scritto: «Non è comunicato se non ciò che è ricevuto gratuitamente (come da un bambino). E si trattiene solo perché si è stupiti». Occorre incrementare dunque la capacità di stupore: «Se non sarete come bambini non entrerete mai».

Nella seconda parte del primo capitolo del Vangelo di Giovanni si racconta di Giovanni e Andrea che si mettono a seguire Gesù. «Gesù si volta e dice: “Che cosa cercate?”. “Maestro, dove abiti?”. “Venite a vedere”. Ed essi andarono e rimasero tutto quel giorno con Lui». Immaginiamo quei due che vanno dietro, tutti intimiditi, a quel giovane uomo che li precede: chissà con quale stupore lo guardavano e lo ascoltavano!
Un’altra pagina del Vangelo mi colpisce come questa. Descrive il momento in cui Gesù passa in mezzo alla folla di Gerico. Il capo della mafia di Gerico, Zaccheo, si arrampica su un sicomoro per vederLo, perché era piccolo di statura. Gesù gli passa vicino, guarda su, dove si era issato, e gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19, 5). Immaginiamo che cosa ha dovuto sentire quell’uomo! È come se Cristo gli avesse detto: «Io ti stimo, Zaccheo, fai presto a scendere, vengo a casa tua». Ma quell’incontro non sarebbe vero – sarebbe come se non fosse avvenuto duemila anni fa – se non avvenisse adesso. Un uomo non può aderire a Cristo se non percepisce che è vero oggi! Gli incontri con persone che ci guardano e ci comprendono come Gesù ha guardato e compreso Zaccheo, e che noi possiamo guardare, sono i fatti più importanti della vita. «Guardate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi»: è l’invito di uno dei primi documenti cristiani, la Didaché.

La compagnia, luogo dell’appartenenza
La comunità, la compagnia, dove l’incontro con Cristo accade, è il luogo dell’appartenenza del nostro io, il luogo da cui esso attinge la modalità ultima di percepire e di sentire le cose, di coglierle intellettualmente e di giudicarle, di immaginare, di progettare, di decidere, di fare. Il nostro io appartiene a questo “corpo” che è la nostra compagnia, e da esso attinge il criterio ultimo per affrontare tutte le cose. Perciò il nostro punto di vista non va per la sua strada, ma si obbliga al paragone e nel paragone obbedisce alla comunità, alla compagnia. Come diceva Rilke alla moglie, in riferimento a quell’appartenenza breve ma esemplare che è il rapporto uomo-donna: «Dove rimane all’oscuro qualcosa, esso è di un genere che non esige chiarimenti, ma sottomissione». Grande è la sottomissione che noi sperimentiamo nella vita della nostra compagnia: è sottomissione al Mistero di Cristo che si rende presente nella nostra compagnia e cammina con noi.

Una affermazione di Péguy coglie bene il punto: «Quando l’allievo non fa che ripetere non la stessa risonanza ma un miserabile ricalco del pensiero del maestro; quando l’allievo non è che un allievo, fosse pure il più grande degli allievi, non genererà mai nulla. Un allievo non comincia a creare che quando introduce egli stesso una risonanza nuova (cioè nella misura in cui non è un allievo). Non che non si debba avere un maestro, ma uno deve discendere dall’altro per le vie naturali della figliazione, non per le vie scolastiche della discepolanza».
Questo è il bisogno della nostra compagnia, perché essa sia sorgente di missione in tutto il mondo: non discepolanza, non ripetitività, ma figliolanza. L’introduzione di un’eco e di una risonanza nuova è propria del figlio che ha la natura del padre. Ha la stessa natura, ma è una realtà nuova. Tant’è vero che il figlio può far meglio del padre e il padre può guardare tutto felice il figlio che è diventato più grande di lui. Ma quello che il figlio fa è più grande proprio e solo in quanto realizza di più quello che il padre ha sentito. Perciò, per l’organicità vivente della nostra compagnia, non esiste niente di più contraddittorio che, da un lato, l’affermazione della propria opinione, della propria misura, del proprio modo di sentire e, dall’altro, la ripetitività. È la figliazione che genera: il sangue dell’uno – del padre – passa nel cuore dell’altro – del figlio – e genera una capacità di realizzazione diversa. Così si moltiplica e si dilata il grande Mistero della Sua presenza, affinché tutti Lo vedano dando gloria a Dio.

Publié dans Don Luigi Giussani | Pas de Commentaire »

Cronaca di una vera Messa di riparazione

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2012

Cronaca di una vera Messa di riparazione dans Articoli di Giornali e News chiesa

Tante persone hanno riempito la grande chiesa di san Pio X, nella piazza milanese antistante il Politecnico, la sera del 24 gennaio, nella stessa ora, le nove di sera, in cui veniva inaugurato lo spettacolo di Romeo Castellucci al Teatro Parenti, che tanto ha attirato l’attenzione dei media per le offese al Volto di Cristo.

Persone “normali”, chiamate da un parroco “normale”, don Marco Barbetta, che ha pronunciato parole semplici e belle prima della Messa e durante la breve omelia, parole che almeno noi vorremmo ricordare visto che i giornalisti di Repubblica e del Corriere hanno preferito seguire la bagarre un po’ folkloristica con cui lo spettacolo è stato accolto da gruppi eterogenei nei pressi dello stesso teatro milanese, mentre neppure il quotidiano dei cattolici italiani ha ritenuto meritevole di una cronaca una Messa celebrata nella stessa città dove Avvenire viene pubblicato.

Anzitutto un ipotetico cronista avrebbe potuto descrivere la gente intervenuta. Parrocchiani anzitutto, e poi esponenti delle associazioni e dei movimenti che avevano invitato i loro aderenti a partecipare alla celebrazione, famiglie, tanti giovani e molti che hanno letto l’invito sulle pagine web della Bussola Quotidiana. Persone per niente esagitate, che hanno pregato accogliendo il messaggio centrale del parroco, ossia che la Messa di riparazione è una celebrazione straordinaria, al di fuori dall’orario consueto delle celebrazioni liturgiche, soltanto perché risponde a un evento pubblico, ma si rivolge anzitutto al cuore di ciascuno dei presenti. Un fatto oggettivamente offensivo del Volto di Cristo e della sensibilità di tanti milanesi cattolici potrebbe diventare l’occasione di conversione per ciascuno dei presenti, ha ricordato il parroco, e così possa nascere il bene dal male, come solo Dio è capace di fare.

Conversione è la parola che più ha accompagnato la celebrazione liturgica, accanto all’altra, inevitabilmente al centro dell’attenzione, del Volto di Cristo. Anche perché don Barbetta ha celebrato la liturgia della conversione di san Paolo, ricordando appunto come il cuore dell’uomo possa passare dalla persecuzione, dalle offese, all’amore totale, alla dedizione, così come appunto avvenne a Saulo di Tarso.

Sul cuore dell’uomo il parroco ha insistito, ricordando che la Messa che celebrava voleva riparare a un’offesa, ma nessuno si permetteva di giudicare il cuore dell’artefice dello spettacolo teatrale, verosimilmente pieno di contraddizioni, conflitti e sostanzialmente incomprensibile a chiunque non sia Dio, l’Unico che può veramente scrutare i cuori. D’altra parte, una fede autentica, una venerazione sincera del Volto di Cristo non può rinunciare a un giudizio, anche artistico: l’arte infatti ha una dimensione oggettiva e non può essere confinata alle intenzioni dell’artista.

Don Barbetta ha anche ricordato come l’episodio dello spettacolo teatrale di Castellucci sia soltanto uno dei tanti che offendono la Chiesa nella nostra epoca. Infatti la Messa era celebrata anche con l’intenzione di fare memoria dei tanti martiri cristiani di questi ultimi mesi in diverse nazioni del mondo, uno ogni cinque minuti secondo recenti statistiche, e per ricordare il diritto alla libertà e al rispetto dell’identità religiosa.

All’uscita, sempre l’ipotetico cronista avrebbe potuto raccogliere i commenti dei partecipanti. Avrebbe così potuto cogliere uno stile fermo e pacato, convinto che la fede deve diventare cultura per essere autentica e dunque non può non giudicare gli avvenimenti che a diverso titolo la riguardano, compresi quelli artistici … e un po’ blasfemi.

di Marco Invernizzi – La Bussola Quotidiana

Publié dans Articoli di Giornali e News, Marco Invernizzi, Stile di vita | Pas de Commentaire »

Gita d’istruzione

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2012

Gita d'istruzione dans Articoli di Giornali e News gita

Il 23 dicembre 2011 un paio di insegnati di un liceo del bergamasco hanno portato gli allievi, tutti minori, in gita d’istruzione (o esperienza extracurricolare, boh) in Val di Susa, a violare la disposizione prefettizia che vieta la circolazione nell’area dei lavori della Tav. Un parlamentare torinese (Pd) li ha denunciati anche perché a far loro da ciceroni c’erano i militanti NoTav. Indovinate che cosa insegnano quei due insegnati? Ve lo dico io: religione.

di Rino Cammilleri

Publié dans Articoli di Giornali e News, Rino Cammilleri | Pas de Commentaire »

Si può amare “quell’uomo”?

Posté par atempodiblog le 20 janvier 2012

IL NAUFRAGIO AL GIGLIO
Si può amare “quell’uomo”?
di Pier Paolo Bellini
Il comandante «inescusabile», il nostro moralismo e «la strada del dono di sé». Perché la speranza è poter dire un giorno: «Ho desiderato tutta la vita tornare su quella nave…» (da “Il Foglio”)
Tratto da: Tracce

Si può amare “quell'uomo”? dans Articoli di Giornali e News naufragiogiglio

“Va bene, comandante”. Non c’è andato, Schettino. Il comandante Gregorio Maria De Falco, della Capitaneria di Porto di Livorno (lo sentiamo tutti) “ha ragione”: sta dicendo semplicemente quello che si impone alla coscienza come “obbligatorio”. Alla coscienza d’uomo.
Schettino “deve” fare così. E non lo fa. In maniera plateale, vergognosamente evidente al mondo. Con conseguenze terrificanti. Proviamo e riproviamo a trovare giustificazioni. E non le troviamo (anche i più buoni tra noi), se non la più smaccata, umiliante piccolezza dell’uomo, di “quell’uomo”. Che si è permesso di giocare con patrimoni (vite) di altri, distruggendoli. Per disarmante dabbenaggine. E non basta. Neanche quell’ultimo sussulto, Schettino! Quello che ti avrebbe permesso di andare a letto, la notte maledetta, e di dire “Sono comunque un uomo, perché almeno ho percorso quella dannata biscaggina in senso inverso”. Neppure quel gesto riparatore, redentore, forse, in senso inverso al marciume. Uno spettacolo di umiliazione senza appello dell’uomo, di “quell’uomo”.
Per quel marciume emerso platealmente sulle acque terse del Giglio, Schettino è “inescusabile”, come ha dichiarato il procuratore capo di Grosseto Francesco Verusio, incarcerandolo. Ha ragione De Falco. Ha ragione anche Verusio.
Ma il marciume del moralismo che rigurgita in noi e che sale fino in gola per trovare sfogo e darci serenità, alla fine non è da meno: scaricare il nostro fardello su ciò che è palesemente marcio non è meno umiliante. E’ un rito liberatorio, primitivo e disumano di gente che ansiosamente lapida, per non essere lapidata.
Perché “quell’uomo” è l’uomo. C’è in ciascuno “quell’uomo”, inescusabile e capace di mentire fino all’ultimo, possibile atto di redenzione.
E proprio in “quell’uomo”, di fianco, sotto, prima, dopo, tutt’intorno alla falsità sputata (“va bene Comandante”) c’è una segreta, silenziosa implorazione, che non riesce neanche a prendere forma, tanto è capacità dimenticata o rifuggita: “Perdonatemi”. Perdonami. Tu, a cui ho rovinato l’esistenza: perdonami. Tu, se puoi, perdona un inescusabile.
Si può voler bene a un uomo inescusabile? Si può amare l’uomo? Perché, quando si ama un uomo, lo si ama così com’è. Questo è il dramma eterno: per poter amare “quell’uomo” occorre qualcosa di ultimamente “ingiusto” e contemporaneamente “l’unica giustizia desiderabile”, quella per la quale saremmo salvati, saremmo amati.
Occorre un terremoto, qualcosa che scombussoli e, nello stesso tempo, realizzi la giustizia. Qualcosa di eccezionale, come un uomo che, nonostante la sua inescusabilità, sia capace di desiderare di fare l’unica cosa all’altezza della sua statura: dare la vita per l’altro. E al Giglio si è visto anche quest’uomo. Ma la strada del dono di sé è quella meno percorsa, meno abbracciata. Si capisce: è la meno probabile.
E lapidare “quell’uomo” è sempre un modo astuto e umiliante di evitare la porta stretta. Quanto bisogno abbiamo di incontrare uomini vedendo i quali diventi desiderabile dare la vita per l’altro, per l’uomo marcio che comanda e per il bambino innocente che muore a causa sua!
Per “quell’uomo”. Quanto bisogno abbiamo di poter dire un giorno, con sincerità: “Ho desiderato per tutta la vita poter percorrere quella dannata biscaggina in senso inverso”.

Publié dans Articoli di Giornali e News, Riflessioni | Pas de Commentaire »

Cosa raccomanda la Madonna a tutti noi

Posté par atempodiblog le 20 janvier 2012

Cosa raccomanda la Madonna a tutti noi

Cosa raccomanda la Madonna a tutti noi dans Apparizioni mariane e santuari veggentevicka

VICKA intrattenendosi con i pellegrini a Medjugorje [...] ha detto: i messaggi principali che la Madonna dice per noi sono: PREGHIERA, PACE, CONVERSIONE, CONFESSIONE, DIGIUNO. La Madonna raccomanda che noi digiuniamo due volte la settimana: mercoledì e venerdì, a pane e acqua. Poi desidera che noi preghiamo ogni giorno le tre parti del Rosario. Una cosa più bella che la Madonna raccomanda è pregare per la nostra forte fede. Quando la Madonna raccomanda di pregare non intende solo dire parole con la bocca, ma che ogni giorno, piano piano, apriamo il nostro cuore alla preghiera e così noi preghiamo “col cuore”. Ella ci ha dato un bellissimo esempio: voi nelle vostre case avete una pianta di fiore; ogni giorno mettete un po’ di acqua e quel fiore diventa una bella rosa. Così avviene nel nostro cuore: se noi ogni giorno mettiamo una piccola preghiera, il nostro cuore cresce come quel fiore… E se per due o tre giorni non mettiamo l’acqua, vediamo che esso appassisce, come se non esistesse più. La Madonna ci dice anche: a volte diciamo, quando è il momento di pregare, che siamo stanchi e pregheremo domani; ma poi viene domani e dopodomani e allontaniamo il nostro cuore dalla preghiera per rivolgerlo ad altri interessi. Ma come un fiore non può vivere senza acqua, così noi non possiamo vivere senza grazia di Dio. Dice pure: la preghiera col cuore non si può studiare, non si può leggere: la si può solo vivere, giorno per giorno per andare avanti nel cammino della vita di grazia.

A proposito del digiuno dice: quando una persona sta male, non deve fare digiuno a pane e acqua, ma fare solo qualche piccolo sacrificio. Ma una persona che sta bene in salute e dice che non può fare digiuno perché le viene il capogiro, sappia che se si fa digiuno “per amore di Dio e della Madonna” non ci saranno problemi: basta la buona volontà. La Madonna vuole la nostra completa conversione e dice: Cari figli, quando avete un problema o una malattia, voi pensate che io e Gesù stiamo lontani da voi: no, noi stiamo sempre vicino a voi! Voi aprite il vostro cuore e vedrete quanto amiamo tutti voi! La Madonna è contenta quando facciamo piccoli sacrifici, ma è ancor più contenta quando noi non pecchiamo più e abbandoniamo i nostri peccati. E dice: io vi do la mia Pace, il mio Amore e voi portateli alle vostre famiglie e ai vostri amici e portate la mia benedizione; io prego per tutti voi! E ancora: Io sono molto contenta quando nelle vostre famiglie e nelle vostre comunità pregate il Rosario; sono ancor più contenta quando i genitori pregano con i figli e i figli con i genitori, così uniti in preghiera che satana non può più farvi del male. Satana sempre disturba, vuole disturbare le nostre preghiere e la nostra pace.

La Madonna ci ricorda che un’arma contro satana è Il Rosario nella nostra mano: preghiamo di più! Mettiamo vicino a noi un oggetto benedetto: una croce, una medaglia, un piccolo segno contro satana. Mettiamo la S. Messa al primo posto: è il momento più importante, momento santo! E Gesù che viene vivo in mezzo a noi. Quando andiamo in chiesa, andiamo a prendere Gesù senza paura e senza scuse. Nella confessione poi, non andate solo a dire i vostri peccati, ma anche a chiedere un consiglio al sacerdote, così potete progredire. La Madonna è molto preoccupata per tutti i giovani del mondo, che vivono una situazione molto difficile: li possiamo aiutare solo con il nostro amore e la preghiera col cuore. Cari giovani, quello che vi offre il mondo è passeggero; satana aspetta i vostri momenti liberi: lì vi attacca, vi insidia e vuole rovinare le vostre vite. É questo un momento di grandi grazie, dobbiamo approfittarne; la Madonna vuole che accogliamo i suoi messaggi e li viviamo! Diventiamo portatori della sua Pace e portiamola in tutto il mondo! Prima di tutto però, preghiamo per la pace nel nostro cuore, pace nelle nostre famiglie e nelle nostre comunità: con questa pace, preghiamo per la pace in tutto il mondo! Se voi pregate per la pace nel mondo – dice la Madonna – e non avete pace nel vostro cuore, la vostra preghiera vale poco. La Madonna, in questo momento, ci raccomanda di pregare di più per le sue intenzioni. Ogni giorno prendiamo la Bibbia, leggiamo due o tre righe e su queste viviamo la giornata. Raccomanda di pregare ogni giorno per il Santo Padre, i vescovi, i sacerdoti, per tutta la nostra Chiesa che ha bisogno delle nostre preghiere. Ma in modo particolare la Madonna chiede di pregare per un suo piano che si deve realizzare. La grande preoccupazione della Madonna, e lo ripete sempre, in questo momento sono i giovani e le famiglie. E un momento molto molto difficile! La Madonna prega per la pace e vuole che anche noi preghiamo con Lei, per le stesse intenzioni. Stasera, quando la Madonna verrà, io pregherò per le vostre intenzioni; ma voi aprite il vostro cuore e date tutti i vostri desideri alla Madonna.

Fonte: Maria a Medjugorje

Publié dans Apparizioni mariane e santuari, Digiuno, Medjugorje | Pas de Commentaire »

Schettino è il capro espiatorio. Così ci indigniamo senza immedesimarci

Posté par atempodiblog le 20 janvier 2012

Schettino è il capro espiatorio. Così ci indigniamo senza immedesimarci
Intervista allo psichiatra Eugenio Borgna sulla tragedia all’isola del Giglio. La gogna mediatica cui è sottoposto il capitano è frutto di una semplificazione che lascia spazio solo alla recriminazione, allo sfogo e a certe magliette idiote. «Infierendo su una persona, perdiamo tutta la carica emozionale e ci ritroviamo così incapaci di riflettere sulla vera tragedia: la morte delle persone e il mistero del dolore».
di Leone Grotti – Tempi

Schettino è il capro espiatorio. Così ci indigniamo senza immedesimarci dans Articoli di Giornali e News naufragiocostaconcordia

«La tragedia della Concordia mette in evidenza una delle tendenze dominanti di oggi: cogliere l’aspetto più evidente e facile da comprendere di una situazione per ampliarlo, ingrandirlo, fino a trasformarlo nella sola causa di tutto il male che ne consegue. Quella di semplificare e sintetizzare tutte le cause di una tragedia in un punto solo è una tendenza dominante di oggi». Eugenio Borgna, primario emerito di psichiatria dell’Ospedale maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Milano, definisce così a tempi.it la predisposizione dei giornali e di una parte della società ad affrontare i problemi in termini di capro espiatorio. «Appena una persona considerata grande e importante, come un capitano di nave, diventa debole e cade, la gente lo prende di mira, dando sfogo così alle proprie inconsce frustrazioni. I giornali fomentano questo atteggiamento perché così possono semplificare i problemi, senza fare la fatica di approfondire niente. Il problema, però, è che nell’aggressione senza pietà dimentichiamo la morte, il dolore e ogni domanda sul mistero che esse rappresentano».
Il capitano Francesco Schettino è responsabile del naufragio della nave Concordia davanti alla costa dell’Isola del Giglio e della morte di molte persone.
Di fronte a questa sciagura terribile occorrerebbe una certa distanza psicologica per immedesimarci con tutti i soggetti che sono in gioco. Ma per farlo con il capitano, ad esempio, bisognerebbe avere un’attitudine a cogliere le ragioni profonde di ciò che è successo e anche il coraggio di collocare la sventura in un contesto generale. Ma questo oggi è considerato un tradimento, come uno schiaffo a chi è morto.
Perché parla di coraggio?
Basta vedere che cosa è accaduto al gip Valeria Montesarchio, che fa le indagini preliminari: ha detto che non è necessaria la custodia cautelare e l’hanno quasi lapidata. Ci vuole coraggio, è difficile sfuggire all’istinto di scaricare su una persona tutte le colpe e le violenze possibili, senza nemmeno lasciare spazio alla riflessione.
Lei come condurrebbe questa riflessione?
Se dovessi immedesimarmi nel capitano, direi che ha commesso un errore fatale, che però chiunque di noi avrebbe potuto compiere. Ma mi chiederei anche perché l’equipaggio non si è allarmato vedendo che erano così vicini alla costa, perché nessuno ha chiesto di cambiare rotta, perché la capitaneria di porto non l’ha avvisato, perché nessuno ha mai protestato contro i cosiddetti « inchini ». Non si può ridurre tutto al capitano Schettino.
Però dopo il naufragio ha abbandonato la nave.
Ammesso, come sembra, che l’abbia fatto, io mi chiederei perché non è risalito.
I giornali hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro analizzando questo problema.
Sì, ma in un’atmosfera surreale che non aiuta il ragionamento. Ad esempio, definire « eroe » Gregorio De Falco, che ha solamente invitato il capitano a tornare sulla nave, è uno sproposito e conferma l’atmosfera di demonizzazione generale. Io ho ascoltato solo in parte il dialogo tra il capitano e De Falco: le risposte di Schettino sembrano implicare una condizione psicopatologica di smarrimento e confusione totale. Nessuno l’ha sottolineato sui giornali. La paralisi emotiva che il suo comportamento denota non può essere bollata come codardia, viltà o addirittura disumanità. Che cosa gli costava risalire sulla nave? Niente, non sarebbe stato in pericolo di morte e anzi avrebbe salvato la sua dignità. Gli conveniva farlo, era nel suo interesse. Perché allora non è risalito? Perché era sconvolto, addirittura ha detto «perché è buio»: è evidente che non sapeva più quello che diceva.
Il paese di provenienza di Schettino ha chiesto di fermare la «gogna mediatica». I familiari sono addirittura arrivati al punto di domandare ai giornali di non calpestare la sua «dignità umana».
E hanno ragione. I giornali semplificano quando sostengono che la colpa è solo del capitano, che Schettino è « cattivo », quando gridano alla gogna, quando indicono la caccia del capro espiatorio: propongono una conclusione che tutti sono in grado di intendere e accogliere senza creare divisioni tra chi legge i giornali.
Perché lo fanno?
Per non fare fatica. Analizzare tutti i fattori è difficile, immedesimarsi dentro una coscienza e una soggettività come quella del capitano richiede tempo. Non solo, implica l’analisi del comportamento suo ma anche di tutti gli altri soggetti implicati nel naufragio. E poi, ripeto, ci vuole coraggio: chi cerca di riflettere e guardare le cose in modo critico viene accusato di complicità o di essere un traditore delle vittime. Basta vedere come hanno trattato il Gip, appena ha provato a ricollocare le cose in una cornice umana.
Perché secondo lei tutta la stampa ha reagito in modo unanime al naufragio della Concordia?
Perché non ha alcuna intenzione di affrontare seriamente il problema, di analizzare tutte le sue implicazioni.
In che senso?
Nel naufragio è morta molta gente. I giornali non presentano una partecipazione profonda al dolore per le vittime, non si legge nessuna riflessione profonda davanti al mistero della morte di chi cercava la gioia su una nave e ha trovato invece la fine della vita. Non c’è spazio sui giornali per il silenzio o la preghiera. Si percepisce solo la volontà da parte di alcuni di dimostrare partecipazione, ma si capisce che è falsa.
La partecipazione c’è, ma nei confronti ad esempio degli inventori della maglietta “Salga a bordo, cazzo”.
Purtroppo in tutti noi c’è la volontà di fare del male ai deboli. Chi governa una nave è considerato grande, importante, come anche i politici. Ma quando cadono, appena diventano deboli, ecco che molti li prendono di mira assalendoli, dando sfogo così alle proprie inconsce frustrazioni. Quella maglietta è un evidente segno di violenza, è vergognosa, io almeno la vedo così. Purtroppo la violenza vive dentro ogni uomo e appena questi comportamenti trovano una giustificazione legale, come l’offesa e la distruzione di un capitano che ha commesso un errore, ecco che tutti si sfogano.
I giornali sembrano riccorere sempre più spesso al capro espiatorio nell’affrontare i problemi.
Una parte della colpa ce l’ha l’esposizione mediatica, televisiva, stile Youtube e quant’altro, dei fatti. Tutto è esasperato e dilatato, reso patologico. La spettacolarizzazione dei fatti fa emergere in ognuno di noi le dimensioni meno nobili. Pur di apparire, di essere apprezzati e considerati bravi, diventiamo meno inclini alla speranza, al perdono, alla comprensione e alla preghiera. L’aspirazione della prima pagina ci rende crudeli.
Qual è la conseguenza di tutto ciò?
Quello che abbiamo visto e letto in questi giorni. La vita straziata dalla morte non è considerata nella dimensione spirituale corretta del dolore infinito per una vita spezzata. Anzi, il dolore stesso viene trasformato e cancellato da questa violenza distruttiva che convogliamo tutta su una persona che ha sbagliato. Così che nell’aggressione dimentichiamo la morte, il dolore e ogni domanda sul mistero che rappresentano. Ma queste domande sono la cosa più importante. Infierendo su una persona, perdiamo tutta la carica emozionale e ci ritroviamo così incapaci di riflettere sulla vera tragedia: la morte delle persone e il mistero del dolore.

Publié dans Articoli di Giornali e News, Riflessioni | Pas de Commentaire »

12