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L’8 x 1000 e la Chiesa

Posté par atempodiblog le 10 décembre 2011

Un punto che ha costituito per molti anni un elemento di polemica nei confronti della Chiesa

L'8 x 1000 e la Chiesa dans Antonio Socci antoniosocci

L’8 x 1000 che oggi, peraltro, è assolutamente volontario per cui se uno decide di dare l’ 8 x 1000 allo Stato, oppure ai Valdesi o alla Comunità Ebraica può farlo benissimo, quindi non c’è nulla di obbligatorio. Questo famoso 8 x 1000 è l’eredità, diciamo, di quello che dopo i Patti Lateranensi del 1929 lo stato italiano versava alla Chiesa Cattolica, ma attenzione, non come regalia come per tanti anni è stato presentato, ma esattamente come parziale remunerazione di tutto ciò che lo Stato italiano in discendenza dei fatti che abbiamo illustrato aveva derubato alla Chiesa. Perché la Chiesa non aveva assolutamente nessun bisogno di avere l’8 x 1000, di avere la congrua, ecc… ecc… perché grazie alla carità dei cristiani aveva vissuto e viveva da secoli da sola. Sennonché la Chiesa è stata letteralmente saccheggiata e derubata, spogliata e ridotta (perfino il Papato) veramente in totale povertà. Per cui quando nel 1929 dopo molti decenni quindi è intervenuto l’accordo, la conciliazione fra Stato e Chiesa, lo Stato ha accettato in qualche modo di farsi carico di sostenere, come dire, la Chiesa laddove l’aveva prima espropriata e spogliata.
Innanzitutto, oggi, con il sistema del nuovo concordato dopo il 1984 si tratta di contributi volontari quindi sono comunque soldi che i cittadini liberamente danno alla Chiesa, ma anche per quanto riguarda i soldi che alla Chiesa venivano dati dallo Stato prima del 1984 si ricordi bene che era soltanto una parziale riparazione di un immane saccheggio.

Tratto da un intervento su Radio Maria del dott. Antonio Socci

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La parrocchia sottomarina in direzione di Betlemme

Posté par atempodiblog le 9 décembre 2011

La parrocchia sottomarina in direzione di Betlemme dans Padre Livio Fanzaga parrocchiasottomarina

La parrocchia sottomarina, silenziosa e solenne, si avvia, nuotando, in direzione di Betlemme.
I pesci in processione, resistendo al freddo e al gelo, un canto soave elevano verso il cielo.
“Tu scendi dalle stelle” cantano in coro quelle anime belle.
Davanti alla culla del Divino Bambino si fa avanti un timido pesciolino.
“In questo mondo crudele, che non ti ama più, eccoti il nostro cuore, o piccolo Gesù”.
I chierichetti in fila portano un cestino, colmo di regali per Gesù Bambino.
Il Pesce Palla, accompagnato dalla gente, porta a S. Giuseppe il conto corrente.
“E’ per i ripetitori – dice - della nostra Radio Maria, che porta il nome della tua sposa pia”.
La Santa Famiglia dà la benedizione alla parrocchia che festosa riparte in processione.
In coda il Pescecane, dimagrito e in affanno, pensa al cenone dell’ultimo dell’anno.

Padre Livio Fanzaga

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Figli di Dio non si nasce. Si diventa

Posté par atempodiblog le 9 décembre 2011

Figli di Dio non si nasce. Si diventa
L’articolo che qui ripubblichiamo può essere riassunto nelle due prime risposte del Catechismo maggiore di san Pio X: «Siete voi cristiano? Sì, io sono cristiano per grazia di Dio. Perché dite voi: per grazia di Dio? Io dico: per grazia di Dio, perché l’essere cristiano è un dono tutto gratuito di Dio, che noi non abbiamo potuto meritare
»
Tratto da: 30Giorni

Figli di Dio non si nasce. Si diventa dans Commenti al Vangelo Cappella-Brancacci-Battesimo-dei-neofiti
Masaccio Il battesimo dei neofiti, nella Cappella Brancacci della chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze

La Chiesa ha da poco celebrato col santo Natale la nascita nel tempo dell’unigenito eterno Figlio di Dio. Secondo una teologia sempre più diffusa, con l’incarnazione del Figlio deriverebbe in maniera automatica l’attribuzione immediata a ogni uomo della figliolanza divina. Nel senso che ogni uomo, che lo sappia o no, che lo accetti o no, vive già radicalmente in Cristo. Secondo tale teologia, Cristo, prima ancora di essere il capo della Chiesa, è il capo di tutto il creato. Ogni uomo gli appartiene prima ancora di essere raggiunto e trasformato dal suo Spirito.

Questa concezione pretende trovare un avallo nell’affermazione di san Tommaso d’Aquino secondo cui «considerando la generalità degli uomini, per tutto il tempo del mondo, Cristo è il capo di tutti gli uomini, ma secondo gradi diversi» (Summa theologica III, 8, 3) ripresa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes dell’ultimo Concilio: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (22). Ma se si togliessero dalla frase della Summa theologica e dalla frase della Gaudium et spes gli incisi «secondo gradi diversi» e «in certo modo» non si rispetterebbero tutti i dati della fede cattolica. E infatti lo stesso Concilio, nella costituzione dogmatica Lumen gentium (13), seguendo fedelmente la Tradizione, distingue chiaramente tra la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e l’appartenenza in atto dei credenti alla comunione di Gesù Cristo. Secondo il metodo proprio di tutta la rivelazione biblica.
Se, con l’incarnazione del Verbo, la figliolanza divina fosse attribuita immediatamente a ogni uomo, il mistero della scelta o elezione e quindi la fede, il battesimo e la Chiesa non avrebbero più alcun ruolo costitutivo per la salvezza: la missione della Chiesa nel mondo sarebbe solo quella di far prendere coscienza a tutti gli uomini di questa salvezza già presente nella profondità di ognuno. Insomma, ogni uomo, in virtù dell’incarnazione del Verbo, acquisirebbe automaticamente, anche se inconsapevolmente, “l’esistenza in Cristo” ricevendo così, in virtù della sua trascendenza come persona umana, gli effetti salvifici della redenzione operata da Gesù Cristo. Sarebbe un “cristiano anonimo”.
Già Erik Peterson, il famoso esegeta tedesco convertitosi alla Chiesa cattolica dal luteranesimo, nel suo saggio del 1933 Die Kirche aus Juden und Heiden (La Chiesa composta da Giudei e da Gentili), commentando i capitoli 9-11 della lettera di san Paolo ai Romani, spiegava che non può esserci un cristianesimo ridotto all’ordine meramente naturale, in cui gli effetti della redenzione operata da Gesù Cristo verrebbero trasmessi geneticamente, per via ereditaria, a ogni uomo, per il solo criterio di condividere con il Verbo incarnato la natura umana. La figliolanza divina non è l’esito automatico garantito dall’appartenenza al genere umano. La figliolanza divina è sempre un dono gratuito della grazia, non può prescindere dalla grazia donata gratuitamente nel battesimo e riconosciuta e accolta nella fede. Un brano di san Leone Magno, letto nella liturgia dell’Avvento, chiarisce con precisione il rapporto tra l’incarnazione e il battesimo: «Se colui, che è il solo libero dal peccato, non avesse unito a sé la nostra natura umana, tutta quanta la natura umana sarebbe rimasta prigioniera sotto il giogo del diavolo. Noi non avremmo potuto aver parte alla vittoria gloriosa di lui se la vittoria fosse stata riportata fuori della nostra natura. A causa di questa mirabile partecipazione alla nostra natura rifulse per noi il sacramento della rigenerazione, perché, in virtù dello stesso Spirito per opera del quale fu generato e nacque Cristo, anche noi, che siamo nati dalla concupiscenza della carne, nascessimo di nuovo di nascita spirituale». E sant’Agostino nel De civitate Dei scrive: «La natura corrotta dal peccato genera perciò i cittadini della città terrena, mentre la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste. Perciò i primi sono chiamati vasi d’ira; gli altri sono chiamati vasi di misericordia. Se ne ha un simbolo anche nei due figli di Abramo. L’uno, Ismaele, nacque secondo la carne dalla schiava Agar, l’altro, Isacco, nacque secondo la promessa da Sara, che era libera. Entrambi sono stirpe di Abramo, ma un rapporto puramente naturale ha fatto nascere il primo, invece la promessa che è segno della grazia ha donato il secondo. Nel primo caso si rivela un comportamento umano, nel secondo caso si rivela la grazia di Dio».
Basta tornare al Nuovo Testamento e al modo in cui san Giovanni, il discepolo prediletto, descrive la figliolanza divina, per mostrare come tale figliolanza non è un immediato possesso naturale ma sempre un dono gratuito che il Signore elargisce a chi sceglie, e che si accoglie nella fede («Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi», Gv 15, 16).
Sono soprattutto tre i testi di Giovanni che trattano della figliolanza divina promessa da Gesù e sperimentata dal cristiano: un versetto del Prologo (Gv 1, 12) che parla del nostro potere di diventare figli di Dio; la prima parte del dialogo con Nicodemo (Gv 3, 1-8), che descrive tutto ciò che compie lo Spirito Santo in noi per realizzare la nostra generazione e la nostra nascita come figli di Dio; infine due passi della prima lettera (1Gv 3, 6-9; 1Gv 5, 18-19) dove vengono descritti gli effetti spirituali e morali nella vita concreta del cristiano, quando egli vive la sua divina figliolanza e diventa così “impeccabile”. Per l’argomento che stiamo trattando, sono significativi soprattutto i primi due passi sopra citati.
Nel Prologo (Gv 1, 12-14), Giovanni scrive: «A quanti lo accolsero, diede il potere di divenire figli di Dio, a coloro [cioè] che credono nel suo nome: [il nome di colui che] da Dio è stato generato. Sì, la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell’unigenito venuto da presso il Padre pieno della grazia della verità».
È importante notare in questo brano del Prologo innanzitutto l’uso del verbo divenire, sul quale i commentari non dicono quasi niente. Proprio questa scelta linguistica testimonia come intende Giovanni la figliolanza divina: figli di Dio si diventa, non si è ab initio solo in virtù della propria natura umana. La figliolanza divina non è un dato acquisito a priori, un possesso statico, implicito nella propria nascita naturale. Si diventa figli di Dio – come Gesù dice nel dialogo con Nicodemo – quando si è «generati dall’alto», cioè quando si è «generati dall’acqua e dallo Spirito». E ciò accade quando un avvenimento, il battesimo e la fede ci introducono in una nuova dinamica dell’essere, e mettono un dinamismo nuovo nella nostra esistenza. Questo tesoro fa di tutta la vita un cammino, un progredire, sempre preceduti e accompagnati da quei fatti di grazia operati dal Signore che tornano a sorprendere il cuore nutrendo così la fede. Insomma la figliolanza divina non è un marchio metafisico impresso nel destino di ognuno, lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia. È piuttosto un dono che si riconosce e si accoglie nella fede. Che interpella la nostra libertà, tanto che Dio stesso, secondo l’immagine stupenda di san Bernardo, ha atteso con trepidazione il sì di Maria.
L’altro termine chiave del brano del Prologo è la parola potere, che indica anch’essa non un possesso, ma un dinamismo. Non si diventa figli di Dio in maniera automatica, per legge di natura, ma per la fede. È la fede il potere dato per diventare figli di Dio: non una fede vaga e anonima, mero anelito religioso, comune almeno in alcune occasioni della vita a tutti gli uomini, ma la fede di chi «crede nel suo nome». Un’espressione che troviamo più volte in Giovanni: la vera fede consiste nel «credere nel nome del Figlio unigenito di Dio» (Gv 3, 18). Ne segue che la nostra figliolanza non può che essere una partecipazione alla figliolanza di colui che si è manifestato tra noi come «il Figlio unigenito venuto da presso il Padre». Questo potere di diventare figli di Dio, questa fede sorge, rimane e cresce come accadde alla fede dei primi discepoli. Proprio ciò che è accaduto ai primi discepoli resta per sempre l’esperienza paradigmatica di come si diventa figli di Dio. Perché la stessa presenza, che ha suscitato la fede nei primi che ha scelto, continua a operare nel presente, così da stupire e destare la fede anche oggi nel cuore degli uomini che il Padre gli dà (cfr. Gv 17, 2).
Il dialogo con Nicodemo costituisce il brano più lungo ed esplicito per il tema della figliolanza divina. Dei vari aspetti qui toccati, occorre sottolineare soprattutto l’insistenza sull’azione dello Spirito Santo nell’esperienza della figliolanza divina. Gesù spiega a Nicodemo: «Se uno non è stato generato dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3, 5). Quindi la via d’accesso al diventare «figli nel Figlio» è possibile solo a chi viene generato dallo Spirito nella fede e nel battesimo (indicato da Gesù in questo passo col segno dell’acqua).
Anche le teorie che riducono la figliolanza divina a un automatismo, quasi fosse un marchio di dominio acquisito impresso da Dio su ogni uomo, indicano spesso lo Spirito quale artefice di questa operazione. Secondo queste teorie gli uomini sarebbero per natura titolari della figliolanza divina, a prescindere dalla fede, dal battesimo e dal proprio libero acconsentire, proprio perché lo Spirito, nella sua illimitata libertà, applica a ognuno, lo sappia o no, lo voglia o no, i frutti della redenzione.
Proprio il Vangelo di Giovanni testimonia che lo Spirito Santo non è un’entità separata e indipendente, che opera nell’intimo segreto delle coscienze con un’azione parallela all’azione di Gesù Cristo Figlio di Dio.
Tutta la missione dello Spirito Santo nella storia della salvezza può essere espressa con le parole di san Basilio, lette nella liturgia del tempo di Natale: «Come il Padre si rende visibile nel Figlio, così il Figlio si rende presente nello Spirito». E Basilio aggiunge che ciò lo si apprende da quanto Gesù ha detto alla Samaritana: «“Bisogna adorare nello Spirito e nella verità” (Gv 4, 23) chiaramente definendo se stesso “la verità”».
Basta leggere le promesse che Gesù stesso fa ai discepoli riguardo al Paraclito nel Vangelo di Giovanni. Lo Spirito «insegnerà», facendo ricordare quello che ha detto Gesù (Gv 14, 26); «renderà testimonianza» a Gesù (Gv 15, 26); «non parlerà da sé stesso, ma dirà quello che ascolta» (Gv 16, 13). Lo Spirito Santo non è dunque un’entità arbitraria: egli possiede una chiara benché misteriosa intenzionalità («Lo Spirito ispira dove vuole», Gv 3, 8), opera certe cose, che sono sempre in relazione con la missione e l’insegnamento di Gesù. Siccome lo Spirito è «lo Spirito della verità» (Gv 15, 26; Gv 16, 13), quale altra verità potrebbe farci conoscere lo Spirito se non la verità di colui che ha detto: «Io sono la verità» (Gv 14, 6)? Lo Spirito guida il cristiano verso Gesù Cristo, verso la verità intera (Gv 16, 13); lo aiuta a scoprire sempre meglio il mistero di Gesù Cristo e a rimanere nella sua memoria. C’è un brano della costituzione dogmatica Lumen gentium che può riassumere quanto abbiamo detto: «Cristo, infatti, innalzato da terra, attirò tutti a sé; risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il suo corpo, la Chiesa, quale universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera incessantemente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo corpo e il suo sangue» (48).
Se figli di Dio non si nasce, ma si diventa, va da sé che ciò non è mai spunto di presunzione e di condanna per gli altri. Come ha ricordato Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio «la fede che abbiamo ricevuto» è un «dono dall’Alto senza nostro merito».
L’esperienza della figliolanza è invece tutta piena solo di gratitudine, per il dono immeritato, e di speranza nei confronti di tutti. Per cui non si tratta di giudicare i miscredenti, i lontani, o addirittura quelli che possono sembrare avversari. Anche perché ognuno di loro può, quando meno se lo aspetta, incontrare il fatto cristiano. Come scriveva Charles Péguy, commentando un verso di Corneille, «Dio tocca i cuori quando meno ce lo si aspetta. È la formula stessa del morso, è la formula dell’attacco, del colpo, della penetrazione della grazia. Ma essa implica anche che colui che vi pensa, che ha l’abitudine di pensarci, che è ricoperto dallo strato dell’abitudine è anche colui che si espone di meno e per così dire dà meno possibilità alla presa».
Questa gratitudine non giudica nessuno, ma è magnanima e misericordiosa anche davanti all’errore e al peccato. Come accadde a san Francesco Saverio, il discepolo prediletto che Ignazio di Loyola aveva mandato a evangelizzare il lontano Oriente. Davanti ai peccati anche turpi dei pagani, Francesco Saverio si stupiva che senza la fede, i sacramenti e la preghiera filiale non ne facessero di più gravi. Come scrive in una lettera inviata ai suoi compagni da Cochin, nel 1552: «Io non mi meraviglio per i peccati che esistono fra bonzi e bonze, quantunque ve ne siano in grande quantità. Anzi, mi meraviglio che non ne facciano più di quelli che fanno…».

di Padre Ignace de la Potterie

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Maria è in se stessa un inno alla vita

Posté par atempodiblog le 9 décembre 2011

Omaggio all’Immacolata. Il Papa: Chiesa perseguitata, ma l’unica minaccia che deve temere è il peccato dei suoi membri. Crisi: prevalga la speranza
di Isabella Piro – Radio Vaticana

Maria è un inno alla vita e sostiene la nostra speranza, in un momento difficile per l’Italia e il mondo: così il Papa ieri pomeriggio in Piazza di Spagna, a Roma, per il tradizionale atto di venerazione all’Immacolata. Nel suo discorso, Benedetto XVI ha sottolineato come in ogni tempo, nel mondo, la Chiesa soffra le persecuzioni, ma risulti vincitrice grazie alla forza di Dio. Ad accogliere il Santo Padre in Piazza di Spagna, c’erano tra gli altri il cardinale vicario, Agostino Vallini, ed il sindaco di Roma, Gianni Alemanno.

Maria è in se stessa un inno alla vita dans Fede, morale e teologia immacolata

Piazza di Spagna, “una delle piazze più belle di Roma” l’ha definita il Papa, è affollata di fedeli scaldati da un sole che sembra di primavera. A tutti loro Benedetto XVI parla di Maria Immacolata, la “piena di grazia”, ricolma dell’amore di Dio. Maria, concepita senza peccato originale, assunta in anima e corpo in cielo, dice il Papa, rappresenta la vittoria sul peccato e sulla morte:
“Anche tutta la sua vita terrena è stata una vittoria sulla morte, perché spesa interamente al servizio di Dio, nell’oblazione piena di sé a Lui e al prossimo. Per questo Maria è in se stessa un inno alla vita: è la creatura in cui si è già realizzata la parola di Cristo: ‘Io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza’ (Gv 10,10) ».
Una donna vestita di sole con una corona di dodici stelle sul capo: così la Madonna è descritta nell’Apocalisse. Ma questa immagine, sottolinea Benedetto XVI, ha anche un altro significato:
“Oltre a rappresentare la Madonna, questo segno impersona la Chiesa, la comunità cristiana di tutti i tempi. Essa è incinta, nel senso che porta nel suo seno Cristo e lo deve partorire al mondo: ecco il travaglio della Chiesa pellegrina sulla terra, che in mezzo alle consolazioni di Dio e alle persecuzioni del mondo deve portare Gesù agli uomini”.
La Chiesa che porta Gesù incontra l’opposizione di “feroci avversari”, afferma il Papa, ma in ogni epoca essa viene “sostenuta dalla luce e dalla forza di Dio”:
“E così in ogni tribolazione, attraverso tutte le prove che incontra nel corso dei tempi e nelle diverse parti del mondo, la Chiesa soffre persecuzione, ma risulta vincitrice. E proprio in questo modo la Comunità cristiana è la presenza, la garanzia dell’amore di Dio contro tutte le ideologie dell’odio e dell’egoismo”.
Ma c’è un’insidia, l’unica di cui la Chiesa “può e deve aver timore”, mette in guardia il Santo Padre: è il peccato dei suoi membri, i nostri peccati:
“Per questo il Popolo di Dio, peregrinante nel tempo, si rivolge alla sua Madre celeste e domanda il suo aiuto; lo domanda perché Ella accompagni il cammino di fede, perché incoraggi l’impegno di vita cristiana e perché dia sostengo alla speranza. Ne abbiamo bisogno, soprattutto in questo momento così difficile per l’Italia, per l’Europa, per varie parti del mondo”.
La preghiera, allora, conclude il Papa, si leva a Maria per chiedere la speranza:
“Maria ci aiuti a vedere che c’è una luce al di là della coltre di nebbia che sembra avvolgere la realtà”.
Al termine del suo discorso, Benedetto XVI ha offerto un cesto di rose bianche all’Immacolata, simbolo della purezza.

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Chi è l’Immacolata?

Posté par atempodiblog le 8 décembre 2011

Chi è l'Immacolata? dans Fede, morale e teologia San-massimiliano-m-kolbe

Da se stessa non è niente, come le altre creature, ma per opera di Dio è la più perfetta fra le creature. La più perfetta somiglianza dell’essere divino. L’Immacolata non ebbe mai nessuna macchia di peccato, il che vuol dire che il suo amore fu sempre totale, senza alcun impedimento. Amò Dio con tutto il proprio essere e l’amore la unì con Dio in modo così perfetto fin dal primo istante di vita, che nel giorno dell’Annunciazione l’Angelo potè rivolgersi a Lei dicendole: «Piena di grazia , il Signore è con te» [ Lc1,28]. Ella è, dunque, creatura di Dio, proprietà di Dio, somiglianza di Dio, immagine di Dio, figlia di Dio, nel modo più perfetto possibile ad un essere umano. Ella è strumento di Dio. Con piena consapevolezza si lascia volontariamente condurre da Dio, si conforma alla sua volontà, desidera solo ciò che Egli vuole, opera secondo la sua volontà e ciò nel modo più perfetto possibile, senza il minimo difetto, senza alcuna deviazione della propria volontà dalla volontà di Dio. La sua unione d’amore con Dio giunge fino al punto  che ella diviene Madre di Dio. Il Padre le affida il proprio figlio, il Figlio discende nel suo grembo, mentre lo Spirito Santo forma, con il corpo di Lei, il corpo santissimo di Gesù.

San Massimiliano Kolbe

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Bello è Dio

Posté par atempodiblog le 8 décembre 2011

Bello è Dio dans Citazioni, frasi e pensieri madonnaconbambino

«E il Verbo si è fatto carne (Gv. 1,14), è di una sublime bellezza [...]. Ma perché anche nella croce aveva bellezza? Perché la follia di Dio è più sapiente degli uomini; e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (Cor. 1,23-25) [...]
Bello è Dio, Verbo presso Dio; bello nel seno della Vergine, dove non perdette la divinità e assunse l’umanità; bello il Verbo nato fanciullo, perché mentre era fanciullo, mentre succhiava il latte, mentre era portato in braccio, i cieli hanno parlato, gli angeli hanno cantato le sue lodi, la stella ha diretto il cammino dei magi, è stato adorato nel presepio, cibo per i mansueti. E » bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori: bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell’invitare alla vita, bello nel non curarsi della morte, bello nell’abbandonare la vita e bello nel riprenderla; bello sulla croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo. Ascoltate il cantico con intelligenza, e la debolezza della carne non distolga i vostri occhi dallo splendore della sua bellezza. Suprema e vera bellezza è la giustizia; non lo vedrai bello, se lo considererai ingiusto; se ovunque è giusto, ovunque è bello. Venga a noi per farsi contemplare dagli occhi dello spirito».

Sant’Agostino

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Commento di p. Livio al messaggio di Medjugorje del 2/12/2011

Posté par atempodiblog le 7 décembre 2011

Messaggio a Mirjana del 2 dicembre 2011

Commento di p. Livio al messaggio di Medjugorje del 2/12/2011 dans Medjugorje mirjana

Come ogni 2 del mese verso le ore 9 di mattina la Madonna è apparsa a Medjugorje alla veggente Mirjana e le ha dato il seguente messaggio:

« Cari figli,
come Madre sono con voi per aiutarvi con il mio amore, preghiera ed esempio a diventare seme di ciò che avverrà, un seme che si svilupperà in un forte albero ed estenderà i suoi rami nel mondo intero. Per divenire seme di ciò che avverrà, seme dell’amore, pregate il Padre che vi perdoni le omissioni finora compiute. Figli miei, solo un cuore puro, non appesantito dal peccato può aprirsi e solo occhi sinceri possono vedere la via per la quale desidero condurvi.Quando comprenderete questo, comprenderete l’amore di Dio ed esso vi verrà donato. Allora voi lo donerete agli altri come seme d’amore. Vi ringrazio ».

Commento di Padre Livio al messaggio del 2 dicembre 2011

pliviofanzaga dans Padre Livio Fanzaga

Cari amici, non c’è bisogno di sottolineare la straordinarietà di questo messaggio che comunque si colloca in un filone ben preciso della Regina della Pace, la quale non ha mai annunciato a Medjugorje la fine del mondo o una catastrofe imminente.
La Madonna ha sempre detto che attraverso una grande testimonianza, una grande lotta e combattimento spirituale alla fine trionferà il suo Cuore Immacolato e da questo punto di vista le Apparizioni di Medjugorje si collocano come il compimento di quelle di Fatima, così come la Madonna ha detto nel messaggio del 25 agosto 1991. Quindi lo sguardo verso il futuro è uno sguardo di speranza, con questa precisazione però, che è molto importante, e cioè che la Madonna sta preparando adesso questo futuro e lo sta preparando attraverso la chiamata alla conversione, alla fede, alla preghiera, alla pace e alla testimonianza attraverso coloro che hanno risposto alla Sua chiamata.
Quelli che hanno risposto alla Sua chiamata, ha detto la Madonna, sono: “il seme di ciò che avverrà”. Cosa avverrà? Verrà appunto un mondo in cui regnerà l’amore! “Il mondo nuovo della pace”, come lo chiama la Madonna, “un tempo di primavera”.
Allora la Madonna ci vuole responsabilizzare, siamo il seme di ciò che avverrà, cari amici: “un seme che si svilupperà in un forte albero ed estenderà i suoi rami nel mondo intero”.
Io più di una volta vi ho già detto che nel tempo dei dieci segreti ci saranno sconvolgimenti spirituali mai avvenuti prima. Gli uomini si renderanno conto che Gesù Cristo e la Madre di Cristo per ordine di Cristo intervenendo in nome di Cristo, salveranno l’umanità. Nel tempo dei dieci segreti, tutti gli uomini, poiché i segreti verranno svelati tre giorni prima, vedranno che sarà la Madre di Dio che interverrà in nome di Suo Figlio per salvare l’umanità in un passaggio in cui potrebbe essere compromesso il futuro del mondo stesso, in un momento in cui, come la Madonna ha detto: “satana vuole distruggere non soltanto la vita umana ma anche la natura e il pianeta in cui vivete” (messaggio del 25 gennaio 1991). La Madonna, non più di qualche giorno fa, il 17 novembre, nella Cattedrale di Vienna apparendo a Ivan, ha ripetuto il medesimo messaggio del 25 settembre 2001, dopo quello che era successo alle due torri, dicendo: “satana vuole l’odio, satana vuole la guerra. Pregate, pregate. Chi prega non ha paura del futuro!”.
Allora noi siamo quel seme, quelli che hanno risposto alla chiamata. Quel seme che la Madonna ha raccolto, ha preparato in tutti questi anni in cui la zizzania sta espandendosi in tutto il mondo. La Madonna ha raccolto questo seme, coltiva questo seme, pianta questo seme e questo seme si svilupperà in un forte albero, come il granello di senape, e stenderà i suoi rami nel mondo intero. Ci aspettano tempi di grandi sconvolgimenti spirituali, di grandi conversioni, perché gli uomini vedranno che è la Madre di Gesù che ci ha salvato!
Però, cari amici, dice la Madonna, ecco qui il richiamo forte: “Per divenire seme di ciò che avverrà, seme dell’amore,” cioè quel seme che preparerà la civiltà dell’amore, per far questo: ”pregate il Padre che vi perdoni le omissioni finora compiute”.
Quali sono le omissioni finora compiute? Sono l’omissione di una totale conversione, non ci siamo convertiti totalmente, non abbiamo ancora un “cuore puro”, abbiamo il cuore impuro, non abbiamo ancora “occhi sinceri”, ma abbiamo ancora occhi torbidi, per cui abbiamo omesso di operare, lavorare sul cuore, perché diventasse un cuore puro e cioè libero dal peccato, dalle passioni, “un cuore non appesantito dal peccato”. Abbiamo omesso questo, di far sì che il nostro cuore non fosse appesantito dal peccato, non fosse puro e che potesse aprirsi all’Amore di Dio, questo abbiamo omesso. Abbiamo omesso di avere “occhi sinceri”, occhi di luce che potessero vedere la via, “la via per la quale desidero condurvi”, che è la via dell’amore.
Allora questo dobbiamo fare e questo è il tempo di Grazia dell’Avvento e cioè la purificazione del cuore e gli occhi sinceri, luminosi.
Con un cuore puro, noi possiamo prendere le scelte importanti, siamo i canali dell’amore del mondo, gli occhi sinceri sono quelli che guidano gli uomini sulla Via di Dio. “Quando comprenderete questo”, dice la Madonna, “comprenderete l’amore di Dio ed esso vi verrà donato”.
L’amore di Dio ci viene donato! Però bisogna aprirsi per accoglierLo e comprenderLo. E poi, quando il nostro cuore sarà puro, pieno dell’amore di Dio e i nostri occhi saranno sinceri, “allora voi lo donerete agli altri come seme d’amore. Vi ringrazio ».
Cari amici, un messaggio straordinario, pieno di speranza che ci apre uno sguardo di luce sul futuro, ma nel medesimo tempo ci chiama alla responsabilità, alla conversione, anche alla confessione prima di Natale o in questa novena dell’Immacolata. Chiediamo alla Madonna Immacolata la grazia di un cuore puro e occhi sinceri, chiediamo la grazia di una conversione completa, prendiamo la decisione necessaria.
La Madonna ci dice “guardate il mio esempio, Io sono qui per aiutarvi col mio amore”. Con la preghiera e con l’esempio imitiamo la Madonna, guardiamoLa e imitiamoLa e diventeremo quel seme di ciò che avverrà, il seme dell’amore che diventerà un albero forte che stenderà i suoi rami nel mondo intero!
Pensate che meravigliosa visione di speranza e a quale responsabilità siamo chiamati e quale sollecitazione forte ci fa la Madonna alla conversione, alla conversione vera, cioè ad avere un cuore puro e occhi sinceri. È un convertito chi ha un cuore puro e occhi sinceri!

Trascrizione dall’originale audio ricavata dal sito:  www.medjugorjeliguria.it 

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Tu scendi dalle stelle e Quanno nascette Ninno

Posté par atempodiblog le 6 décembre 2011

Tu scendi dalle stelle e Quanno nascette Ninno dans Canti Tu-scendi-dalle-stelle-e-Quanno-nascette-Ninno

Il segreto dell’apprezzamento che si è prolungato lungo l’arco di oltre due secoli per i canti natalizi alfonsiani trova probabilmente la sua ragione più profonda nella considerazione del primo biografo di sant’Alfonso, Antonio Maria Tannoia. Il quale scrisse di lui che «Alfonso predicava Cristo e non se stesso».
Ora, la sua predicazione si esprime – come è noto – non solo attraverso le missioni popolari e degli esercizi spirituali, ma anche nelle forme dei trattati di teologia morale e di spiritualità, negli scritti di polemica nei confronti delle tesi illuministiche, e non ultimi, nei canti spirituali, scritti e musicati (o comunque adattati) direttamente dal fondatore dei Redentoristi.

Un’altra forma di catechismo
Se delle opere antilluministiche lo stesso biografo (e confratello) ha commentato che valsero più di una missione popolare, ancor più si dovrà dire delle canzoni spirituali e di quelle sul mistero del Natale, in particolare. In effetti, Alfonso – che ebbe fin da giovanissimo una solida preparazione musicale – ben sapeva quanta influenza potevano avere i canti nell’alimentare lo spirito di fervore religioso, e nel comunicare, anche emotivamente, la sostanza delle verità di fede.
Durante le missioni spesso venivano intonati i motivi musicali che egli aveva composto, e che talvolta suonava egli stesso per la comunità durante i momenti di ricreazione. I testi e le musiche avevano un andamento popolare e venivano appresi con facilità, andando a sostituire – era tra le intenzioni di Alfonso – canti profani, non raramente licenziosi.
La musica, insomma, non era un esercizio di virtuosismo personale slegato dall’apostolato, ma ne costituiva una continuazione di notevole efficacia. A conferma di questa fondamentale coerenza può essere citato il fatto che da vescovo Alfonso proibì il canto “figurato” (che riecheggiava arie di opere liriche) nei monasteri, dichiarando ammesso l’uso del solo gregoriano.

Musica sacra napoletana e universale
I canti alfonsiani appartengono certamente al linguaggio della musica sacra napoletana, come si era venuta fissando nel corso del Settecento, ma l’intensità contemplativa che li caratterizza e la calda immediatezza espressiva delle immagini evocate li hanno resi veramente universali.
Il Santo non ha mai stampato la musica delle sue “canzoncine” spirituali (anche se ha scritto certamente della musica), ma in ogni caso essa era facilmente memorizzabile, e come tale veniva presto imparata dai suoi confratelli e dalle popolazioni.
Per le “canzoncine” proposte durante le missioni utilizzava ed adattava spesso melodie preesistenti. Nel caso, poi, di Tu scendi dalle stelle, la melodia è molto simile a quella suonata ancora attualmente dagli zampognari abruzzesi nelle novene dell’Immacolata e di Natale.
Uno studioso redentorista, il p. Paolo Saturno, ha scritto che tra le caratteristiche fondamentali dei canti alfonsiani vanno segnalate «l’uso costante (…) di determinate misure di tempo soprattutto il 6/8, la particolare aderenza testo-musica, la sempre emergente castigatezza di una melodia essenziale restia ad ogni soverchia fioritura melismatica e la cristallina semplicità che tutto predomina». Si tratta di elementi che traspaiono certamente in modo tutto particolare nei canti natalizi, e tra essi nei più famosi: la pastorale Quanno nascette Ninno e l’andantino Tu scendi dalle stelle.

Il semplice e profondo messaggio di Tu scendi dalle stelle
Quest’ultima, composta nel 1755, sembra evocare proprio le scene del presepe, e di quello napoletano in specie. La suggestione delle immagini – che pare richiamare l’intensità del teatro sacro – fa tutt’uno con l’essenzialità delle parole e con la vibrazione affettiva della melodia.
Il tutto è caratterizzato da una capacità evocativa che si fa sentire in modo inconfondibile nel famosissimo poemetto pastorale in dialetto napoletano (composto agli inizi dell’attività sacerdotale di Alfonso).
Questi canti natalizi propongono nella loro essenzialità la contemplazione del mistero dell’Incarnazione. Ma non in modo freddamente dottrinale né in forma di vuoto sentimentalismo. Il Natale è il mistero della potenza di Dio che assume tutta la debolezza della condizione umana, fino alla indigenza del Bambinello deposto sul fieno ed esposto al freddo. L’unico Dio creatore dell’universo vagisce nella mangiatoia: mentre non cessa per un istante di essere il Signore onnipotente viene incontro agli uomini e li chiama ad accoglierlo.
In queste melodie tradizionali nulla è banale, niente è casuale. La profondità della teologia si coniuga con la semplicità dei versi, e con l’orecchiabilità della musica. Ciascuno diviene partecipe dell’evento più importante della storia dell’umanità. Ciascuno è fatto compartecipe del rilievo cosmico ed escatologico del Natale. Ciascuno è chiamato a gioire con l’universo intero e con la storia intera, giacché attraverso l’Incarnazione, la grazia renderà possibile nel suo epilogo finale – secondo la profezia – l’amicizia della pecora e del leone, “e co lo lupo ‘n pace o pecoriello”.
Chi ascolta i canti natalizi alfonsiani è posto davanti alla grotta di Betlemme con l’intelligenza e con l’affetto, ove la mente e il cuore vibrano in umanissima sintonia. Soprattutto è sollecitato a pensare che il mistero del Dio-Bambino, “Ninno bello” – che non può non essere amato – si compie per lui. Non per una umanità indistinta né per un uomo astratto. Ma per ognuno, concretamente. Per il quale il Bambinello vagisce, e per il quale il Verbo incarnato sta compiendo la redenzione, attraverso ogni suo respiro ed ogni sua sofferenza.
Insomma, “Tu scendi dalle stelle” e “Quanno nascette Ninno” presentano l’amore di Dio che è alla radice del Natale, come un intensissimo richiamo ad amare l’unico vero Dio. Ove ciò che sollecita l’amore è proprio l’amore. Anzi, ove ciascuno è chiamato con l’efficacia della tenerezza ad interloquire familiarmente (Alfonso insisteva sulla necessità di predicare con linguaggio “alla familiare”) con il Salvatore.

di Giovanni Turco – Radici Cristiane

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Panettone, tra storia e leggenda

Posté par atempodiblog le 6 décembre 2011

Riti familiari e simbologie del Natale
Il dolce di origine milanese, con la sua tipica forma a cupola, regna sovrano durante le feste natalizie sulle tavole italiane. Ha origini antichissime e molte sono le leggende che cercano di ricostruirne la storia.
di Sara Deodati – Radici Cristiane

Panettone, tra storia e leggenda dans Cucina e dintorni Panettone

Lo scrittore Pietro Verri nella sua Storia di Milano (1783) narra dell’usanza culinaria che nel IX secolo animava le feste natalizie legate al territorio milanese: la preparazione di tre grandi pani, diversi da quelli che si mangiavano durante l’anno, che ogni pater familias tagliava distribuendoli nel corso di una celebrazione rievocativa dell’Ultima Cena, detta “rito del ciocco”.
Il capofamiglia versava un po’ di vino dal proprio bicchiere su un grosso ceppo acceso, solitamente di quercia, insieme a un piccolo fascio di rami e bacche di ginepro, quindi spezzava il “pane grande”, dopo averne inciso la superficie con una croce, distribuendone a tutti i componenti della famiglia. Il ceppo simboleggiava l’albero del Bene e del Male, il fuoco l’opera di Redenzione di Gesù Cristo, i pani il mistero della Divina Trinità. Il pane, preparato per l’occasione con cura particolare, diventava dunque metafora dei legami familiari.

Il “pan de toni”, o “panettone”
Con l’andar del tempo si diffuse la consuetudine di utilizzare solo la farina bianca per fare il pane natalizio, quella cioè di frumento, più pregiata del comune pane di miglio, sottolineando così l’eccezionalità dell’evento. Per aiutarne la lievitazione e come devozione le donne, dopo aver lavorato l’impasto, vi tracciavano sopra, con la fede nuziale, un solco a forma di croce. Il pane di Natale venne dunque chiamato “pan del ton” (pane di lusso), da cui “panettone”.
Su questi antichi riti si innestano molte leggende. Una del 1500 racconta che alla vigilia di Natale alla corte del Duca Ludovico Sforza detto il Moro, Signore di Milano, si tenne un grande pranzo ma il cuoco bruciò il dolce dimenticandolo nel forno; vista la sua disperazione, lo sguattero Toni propose una soluzione alternativa. Aveva preparato per sé un dolce usando degli ingredienti d’avanzo. Era un pane zuccherato, profumato di frutta candita e burro. Tutti furono entusiasti e al Duca che voleva conoscere il nome di quella prelibatezza, il cuoco rivelò: “L’è ‘l pan de Toni”, diventato poi “pan di Toni” ed infine panettone.
Uno dei racconti più “romantici”, ambientato sempre nella Corte di Ludovico il Moro, vede Ughetto degli Antellari (o Antellani), cavaliere milanese, innamorarsi di Adalgisa, figlia di Mastro Toni, panettiere del borgo delle Grazie; per entrare nel laboratorio del padre dell’amata e avvicinarla, si finse fornaio e per incrementare le magre vendite provò a inventare un dolce: con la migliore farina del mulino impastò uova, burro, zucchero e uva sultanina. Creò così il panettone (da “pan di Toni”, il fornaio) la cui bontà conquistò sia Adalgisa che la sua famiglia.
Tra le leggende fiorite intorno all’origine del panettone vi è anche quella che attribuisce l’invenzione del dolce a suor Ughetta, monaca cuciniera in un convento molto povero: non riuscendo a darsi pace all’idea di non poter servire nemmeno un dolce e per allietare il Natale delle giovani novizie, pensò di aggiungere all’impasto del pane, alcuni ingredienti fra cui pezzi di cedro e uvetta (in milanese “ughetta”), tracciando infine col coltello una croce sulla sommità del dolce in segno di benedizione, dando origine così al panettone.
È difficile stabilire chi fu realmente l’inventore di tanta bontà. Vi consiglio comunque di dare un bel morso a questo dolce e di decidere poi quale delle storie vi piace di più.
Il panettone poté diventare uno dei dolci natalizi più diffusi solo quando la grande industria alimentare lombarda degli anni ‘50 riuscì a produrlo in notevoli quantità. Angelo Motta (1890-1957) creò l’odierno panettone alto, fasciando l’impasto con carta sottile in modo da farlo crescere verticalmente.
Si trattava allora del classico dolce meneghino ben diverso dal consumistico prodotto di massa farcito e ricoperto di cioccolato, crema o panna, oggi tanto pubblicizzato e spesso preferito dagli italiani.

La curiosità
Il 3 febbraio ricorre la festa di San Biagio. Nella devozione popolare il santo è invocato contro il mal di gola perché, secondo la tradizione, avrebbe salvato miracolosamente un bambino che aveva una lisca di pesce conficcata in gola. L’episodio avvenne durante il percorso che lo conduceva alla prigione, dopo essere stato catturato dai romani.
Nel giorno della sua festa i sacerdoti benedicono la gola dei fedeli usando due candele benedette, incrociate e legate da un nastro rosso; ad esse il fedele accosta la propria gola fino a toccarle e poi le bacia.
Nel Milanese è tradizione conservare fino al 3 febbraio un panettone, detto appunto il “panettone di San Biagio” e di consumarlo la mattina a digiuno, “per benedire la gola”, come popolarmente si dice, proteggendola dai malanni stagionali.
È un altro chiarissimo esempio di come devozione, senso religioso, e usanze popolari si intreccino dando luogo ad un costume diffuso.

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Facciamo festa a Gesù Bambino

Posté par atempodiblog le 5 décembre 2011

Facciamo festa a Gesù Bambino dans Avvento Presepio

Il Natale è la festa più amata perché parla al cuore degli uomini. Dio viene fra noi e si presenta come un Bambino indifeso nel contesto di una famiglia povera e umile. Dalla Santa Famiglia di Nazareth si diffonde un messaggio di pace, di bontà e di amore che riconcilia la terra col cielo. Natale è un giorno unico, perché il Figlio di Dio è apparso sulla scena del mondo ed è venuto in mezzo a noi come amico e come fratello. Maria ce lo ha donato, perché potessimo accoglierlo nella fede e nell’amore. Oggi però, proprio nei paesi di antica cristianità, si festeggia il Natale senza pensare a Colui che dovrebbe essere il festeggiato. Si rimuove il fatto che la nascita di Gesù è un evento straordinario. Si mostra persino ostilità se si fa riferimento al Bambino di Betlemme.

Si vorrebbe cancellare la pagina di vangelo della natività e trasformare il giorno del compleanno di Gesù in una festa pagana. Non lasciamoci trascinare nelle tenebre dell’incredulità e del disprezzo di Dio. Facciamo tutto il possibile per onorare il Natale, non solo preparando la culla del cuore a Gesù Bambino, ma anche con i segni esteriori della festa.

Orniamo le nostre case con segni cristiani e soprattutto rievochiamo l’evento della Notte Santa costruendo il presepio, anche piccolo, perché sia un segno della presenza del Bambino Gesù nelle nostre famiglie. Facciamo festa con la Sacra Famiglia e anche le nostre famiglie gusteranno i doni inestimabili della gioia e della pace.

di Padre Livio Fanzaga

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Il presepe nelle nostre case

Posté par atempodiblog le 5 décembre 2011

Il presepe nelle nostre case dans Santo Natale Presepe

In tutto il mondo nel periodo natalizio, si preparano con un’intensa gioia, con cura e tenerezza i presepi nelle case e nelle chiese. Non è un gioco da bambini, è un atto pieno di fede, che porta buoni frutti, sia che siamo soli o in famiglia.
Riviviamo la nascita di Gesù nella mangiatoia di una stalla a Betlemme. Nella capanna o nella grotta, poniamo le tenere statuine della Madonna, di San Giuseppe: sono in attesa. Attorno, i pastori con le loro pecore, sullo sfondo l’asino e il bue che riscalderanno il Bambinello. La notte è fredda, ma quei cuori sono caldi.
Poi, nella notte di Natale, adagiamo con un bacio nella mangiatoia, il piccolo Gesù. Che meraviglia!

Gli evangelisti Luca e Matteo furono i primi a descrivere la storia dell’incarnazione di Cristo. È famoso il Vangelo di Natale di San Luca, divulgato nelle prime comunità cristiane e già nel Quarto secolo troviamo a Roma (nelle catacombe) immagini della natività. L’origine esatta del presepio è difficile da definire ma è storicamente documentato che già in tempo paleocristiano, il giorno di Natale nelle chiese venivano esposte immagini religiose, che dal decimo secolo assunsero un carattere sempre più popolare, estendendosi poi in tutta l’Europa.

Comunemente il “padre del presepio” viene considerato San Francesco d’Assisi, poiché a Natale del 1223 fece il primo presepio in un bosco. Allora, papa Onorio III, gli permise di uscire dal convento di Greggio, così egli eresse una mangiatoia all’interno di una caverna in un bosco, vi portò un asino ed un bue viventi e tenne la sua famosa predica di Natale davanti ad una grande folla di persone, rendendo così accessibile e comprensibile la storia di Natale a tutti coloro che non sapevano leggere.

Baluardi delle costruzioni dei presepi in Europa divennero l’Italia, la Spagna, il Portogallo e il Sud della Francia. Nell’Europa dell’Est la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, in centro Europa soprattutto l’Austria ed il Sud della Germania.
Il presepio non si può non fare, è troppo prezioso: senza di esso avremmo solo freddo.

Tratto da: Il giornalino di Radio Maria

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La confessione natalizia

Posté par atempodiblog le 5 décembre 2011

La confessione natalizia dans Don Tino Rolfi Sacramento-della-riconciliazione

Da parte di noi sacerdoti la confessione natalizia rappresenta un grande impegno, perché grazie a Dio sono ancora moltissimi i fedeli che desiderano accostarsi a questo Sacramento in occasione del S. Natale. Per cui, nei giorni precedenti alla grande solennità, il lavoro ferve e noi siamo sempre più legati al confessionale, per ascoltare tutti coloro che hanno questo vivo desiderio, di ricevere il perdono di Dio e di rinnovare com’è giusto la propria vita. La vigilia di Natale poi, le nostre chiese pullulano di persone che attendono con pazienza il proprio turno per assolvere a questo importante dovere cristiano.
Talvolta i sacerdoti abbondano di consigli ed esortazioni, trattenendo il penitente per un tempo eccessivo: cosicché ci si mette in fila più volentieri là dove ci si sente più accolti, e dove si ritiene che il confessore intuisca più in fretta la propria situazione, senza domande superflue. Don Bosco diceva che bastano tre minuti per risolvere una vita di peccato che durava da anni.
Naturalmente, da parte del penitente, occorre un pentimento sincero e il vivo desiderio di cambiar vita: senza questi due elementi fondamentali non abbiamo i presupposti per una buona confessione natalizia, e perciò per vivere bene il S. Natale, che è festa di gioia, ma che potrebbe anche passare nella nostra vita senza lasciare alcuna traccia, rimanendo il nostro cuore chiuso alla conversione, e perciò ancora nel buio e nella tristezza.
Quali sono le virtù che dobbiamo maggiormente coltivare avvicinandosi il S. Natale? Io direi che sono soprattutto due: l’umiltà e la carità.

1.
L’umiltà.
Quando ci mettiamo davanti al presepe noi contempliamo un piccolo Bambino, inerme e indifeso, che non può certo confidare nelle proprie forze, ma solo nell’amore della mamma e del papà, che gli stanno accanto, e che lo riscaldano con il loro affetto e le loro premure, insieme ai due simpatici animali che fanno sempre da sfondo: il bue e l’asinello. Quale capolavoro di semplicità e di umiltà, se pensiamo che questo Bambino è nientemeno che il Figlio di Dio fatto uomo, sceso in mezzo a noi a condividere la nostra povera umanità, per donarci la sua eccelsa divinità! Dunque chi si accosta alla confessione natalizia deve in qualche modo imitare l’abbassamento al nostro Salvatore e presentarsi al sacerdote senza alcun artificio umano, volto a capire in parte la propria miseria, perché appaia solo il meglio di noi. No, più ci si umilia, e più si è perdonati e giustificati. Ed è il ritornello costante di tutte le lettere di S. Paolo: che cioè si è giustificati non tanto per le proprie opere (sempre mancanti), ma piuttosto per la fede in Cristo, che è venuto apposta nel mondo per toglierci il peccato e per ridarci la grazia di Dio. E S. Paolo parla certo per esperienza, dato i suoi trascorsi di
persecutore dei cristiani.

2.
La seconda virtù da curare, avvicinandosi il S. Natale, è certo la carità.
Come possiamo ricevere il perdono di Dio, se a sua volta non concediamo il perdono ai nostri fratelli che ci hanno offeso, o comunque hanno ferito il nostro orgoglio? I Santi dicevano che i nostri migliori benefattori non sono coloro che ci lodano, ma piuttosto coloro che ci umiliano e ci maltrattano.
Si, perché in questo modo ci correggono e ci danno modo di esercitare molte virtù cristiane, che forse avevamo dimenticato da tempo. Nessuno si accosti alla confessione natalizia senza prima aver risolto certe tensioni o certi contrasti che possiamo avere col nostro prossimo: altrimenti la nostra offerta (cioè la nostra richiesta di perdono) non sarà gradita a Dio, e non potremo da Lui essere in alcun modo giustificati. Dunque, essendo il S. Natale la festa  dell’amore, ecco che occorre molto esercitarsi in questa virtù, che giustamente viene considerata la regina di ogni virtù cristiana.
Auguro perciò a tutti una buona confessione natalizia, che ci liberi il cuore da ogni tristezza e ci faccia ben sperare per il futuro, nostro e dei nostri figli.

Don Tino Rolfi
Tratto da: Il giornalino di Radio Maria

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Il vero Natale? Si trova solo in galera

Posté par atempodiblog le 4 décembre 2011

Il vero Natale? Si trova solo in galera
L’ultima frontiera è il carcere romano di Regina Coeli: in questi giorni è pieno di presepi, nonostante gran parte dei detenuti sia di fede ortodossa o islamica. Nessuno protesta. È il baluardo della resistenza al neopaganesimo
di Renato Farina – Il Giornale (21/12 /2009)

Il vero Natale? Si trova solo in galera dans Santo Natale presepeincarcere

Regina Coeli è il carcere più famoso d’Italia. Oggi è il punto di resistenza cristiana al politicamente corretto che vorrebbe disinfettare dal sacro e soprattutto dal cattolicesimo ogni spazio pubblico e specialmente statale. All’ingresso, nella rotonda da cui si dipartono i raggi, c’è una statua della Madonna. Del resto Regina Coeli già a causa del nome è una sfida alla moda multiculturale. Perché evocare la Regina del Cielo, che notoriamente è la Madonna, quando in carcere ci sono un sacco di musulmani per cui in cielo non c’è nessuna regina, al massimo ci sono le uri a uso e consumo dei martiri?
Ci sono delle sezioni elevate a monumento nazionale: sono entrate nel nostro immaginario coi film anni ’50, con le porte di legno spesso, le ringhiere, il cortile per l’ora d’aria. Ma c’è qualcosa di ancora più monumentale e storico, anche se fresco come le cose dei bambini insegnate loro dai vecchi: il presepio. Dietro le sbarre c’è una gemmazione di gesubambini, capanne e asinelli.
In questo momento il carcere di Regina Coeli è divenuto forse l’angolo del nostro Paese dove c’è la più forte resistenza cristiana al neopaganesimo. Soprattutto quello travestito da politicamente corretto. Strano ma vero. Con tutti i problemi e la vita grama delle galere, e il caso Cucchi, e le tragedie di quando manca la libertà però qui il Natale è Natale, nel senso che nasce Gesù. Non si concepisce tra queste mura Natale senza Gesù, fisico, carnale, roseo, amatissimo forse perché è stato carcerato anche lui. Ricordate le polemiche sulla scuola di Cremona e la festa delle luci privata di Gesù Bambino? Non è un caso isolato, ci sono tanti asili comunali dove si rappresenta la fiaba del funghetto e dell’extraterrestre pur di non parlare di Betlemme. Nelle scuole statali, in nome del multiculturalismo e del rispetto per l’Islam o per chi professa ateismo o quel che voglia, si elimina spesso la nascita del Salvatore come causa della festa. Si fa la festa della luce, ma senza che la luce illumini il volto del Bambinello. Una luce senza senso. Qui no. Sono mille i detenuti, la gran parte – più del 90 per cento – in attesa di giudizio. Più della metà sono stranieri, prevalgono i romeni. Ma sovrabbondano – sono alcune centinaia – i carcerati coi nomi arabi di musulmani. Eppure nessuno si sogna di togliere le immagini sacre (come in tutte le prigioni sovrabbondano Padre Pio, il Gesù misericordioso, la Madonna di Medjugorje, Papa Wojtyla e Madre Teresa di Calcutta) e men che meno i crocefissi. Di questi tempi però le carceri, e soprattutto Regina Coeli, sono il posto dei presepi, dove Gesù che nasce rallegra tutti, anche gli islamici. Nessuna protesta, nessun dubbio.
Anche i romeni ortodossi, che non concepiscono ufficialmente il presepe, che è cosa tipicamente cattolica, costruiscono la scena ambientandola sotto architetture d’oro invece che nella povertà.
I presepi grandi sono dieci. Alcuni sono capolavori. Quello alla rotonda è del tipo napoletano. Lo hanno allestito alcuni partenopei, lo scheletro e le meravigliose statuine erano state donate alla famosa suor Paola, che le ha passate ai detenuti. Un agente che si intende di elettricità dà una mano.
C’è una roccia, la capanna è in alto. Come la libertà, desiderata, a portata di mano, in salita però. Padre Vittorio, il cappellano, racconta che a Regina Coeli si preparano dal 1981, sezione per sezione e c’è una gara. Il direttore Mariani e il comandante Meschini guardano ammirati questa produzione artistica. Forniscono statuine, muschio e sabbia. Ma spesso le statuine le fabbricano, con strumenti ammessi qui dentro, i prigionieri. E c’è un amore tremendo nel volto di Gesù ricavato nel legno dolce con il tagliaunghie. Omar, senegalese di Dakar, nell’ottava sezione dice: «Mi piace il presepe, mette allegria».
Un romeno è riuscito a farsi dare la carta igienica e un po’ di maccheroni.
Li cuoce e stracuoce, poi modella la poltiglia, e ne escono statuine modellate con dita ruvide e delicate. Nelle celle poi ci sono i presepi individuali, conchiglie peruviane con chicchi che formano la Sacra Famiglia. C’è sempre molta acqua, a cascata, a lago, vera, dipinta. Si capisce che l’acqua è il simbolo della libertà, e Gesù guarda chi li guarda. Trascrivo i nomi degli artisti: Vincenzo, Fabio, Antonio. A Regina Coeli noi custodiamo i detenuti; i detenuti custodiscono quel che resta dei segni cristiani. Cosa cantava l’angelo a Betlemme? «Pace in terra agli uomini di buona volontà».

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Quella sera di Natale del 1886

Posté par atempodiblog le 3 décembre 2011

Paul Claudel: colpito dal canto del Magnifiicat, «in un istante il mio cuore fu toccato e io credetti»…
di Maria Di Lorenzo – Mensile Madre di Dio

«C‘è una cosa, Dio supremo, che Tu non puoi fare. / Ed è di impedire che io Ti ami». L’amore radicale, oseremmo dire bruciante, che il poeta nutre nei confronti di Dio è espresso da due versi fulminanti in cui la supplica si fa assoluta. Paul Claudel nella primavera del 1900, all’età di 32 anni, si era presentato all’abbazia benedettina di Solesmes, e qualche mese più tardi a quella di Ligugé, per un ritiro. Ma aveva compreso di non essere fatto per la vita monastica. «Fu un momento molto crudele nella mia vita», scrive a Louis Massignon nove anni dopo. «Benché non sia piaciuto a Dio di farmi uno dei suoi preti, amo profondamente le anime», dirà ad André Gide con cui, insieme a Jacques Rivière, fonderà La Nouvelle Revue française (1909).

Da questo momento Claudel decide di praticare la letteratura come una sorta di sacerdozio. Sente che è questa la sua missione. E per guadagnare le anime a Dio mette in scena le questioni morali e spirituali proprie del cattolicesimo testimoniando i piani divini attraverso le realtà terrestri. A tutt’oggi è riconosciuto come uno dei massimi autori francesi del Novecento e le sue opere teatrali sono ancora rappresentate con successo in tutto il mondo.

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Parigi: la Cattedrale di Notre-Dame, una delle costruzioni gotiche (1163-1345) più celebri del mondo.

U
na vocazione unica.
Era nato a Villeneuve- sur-Fère il 6 agosto 1868 – giorno della Trasfigurazione, come lui stesso noterà anni più tardi – e alla nascita viene consacrato alla Vergine, come primo maschio. A Villeneuve resta solo due anni, poiché il padre, che era conservatore delle ipoteche, è costretto dal suo lavoro a continui trasferimenti, finché nel 1882, a 13 anni, si trasferisce a Parigi con la madre e le sorelle.
Al liceo Louis Le Grand è un allievo molto brillante: legge Baudelaire, scopre con passione Goethe, ma è verso il poeta Arthur Rimbaud che sente di avere una sorta di « filiazione spirituale », forse perché percepisce nel precoce genio letterario, sotto le apparenze di una vita da maudit, la sua stessa sete bruciante di assoluto. Anche Paul è un ribelle. Tutto gli dà noia. Tutto in quei primi anni giovanili, imbevuto com’è di idee positiviste, gli risulta intollerabile, la morte come la vita, la solitudine come la compagnia. Comincia a cercare delle risposte che sazino la sua fame esistenziale. Simpatizza con il movimento anarchico del suo tempo e inizia a frequentare i Martedì letterari di Mallarmé.
Dai quattordici ai vent’anni vive il tempo difficile della crisi adolescenziale. «Chi sono io?», si chiede il giovanissimo Paul, e non sa trovare risposta. In questo periodo, abbandonate le pratiche religiose dell’infanzia, non ha punti fermi nella sua vita. È introverso e solitario. Nessuno, in famiglia come nella cerchia di amici, sospetta la crisi profonda in cui è immerso. Legge molto, ma confusamente: i romanzi di Hugo, di Zola, La vie de Jésus di Renan. Al liceo Louis Le Grand imperversa la moda del positivismo materialista di Taine e di Renan che invece di placare acuisce la sua inquietudine interiore. Del mondo ha una visione tanto cupa e disperata che non ha il coraggio di comunicare ad anima viva. La prima luce gli viene dalla lettura dei versi di Rimbaud, poi accadrà quello che sarà l’evento decisivo della sua vita.

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Una foto di Paul Claudel

A
diciotto anni, la sera di Natale del 1886, Paul va ad ascoltare i Vespri
a Notre- Dame e lì avviene il « giro di boa », una conversione così potente che imprimerà un segno fortissimo non solo alla sua anima, ma finirà per avvolgere e racchiudere tutta la sua esperienza letteraria. Colpito dal canto del Magnificat durante la funzione dei Vespri, avverte il sentimento vivo della presenza di Dio. «In un istante – scrive – il mio cuore fu toccato e io credetti».
Claudel in quell’istante si è sentito chiamato inequivocabilmente alla scrittura. Si può dire che solo ora comincia la sua attività letteraria, che non sarà mai disgiunta dal suo percorso di fede, ma costituirà un tutt’uno con esso, divenendone per questo strumento di conoscenza e di espressione artistica.
Tre anni dopo pubblica l’opera teatrale Testa d’oro. «Certamente – gli dirà Mallarmé – il teatro è in lei». Ma Paul in quegli anni decide di impegnarsi soprattutto nel diritto e nelle scienze politiche; superato un concorso, comincia a lavorare presso il Ministero degli affari esteri. Viene nominato viceconsole e mandato a New York, successivamente a Boston (1893). Lì stabilisce quella che sarà la sua regola di vita: sveglia ogni mattina alle 6 per pregare o recarsi a Messa; lavori personali fino alle 10, il resto del tempo dedicato alla diplomazia.
Scrive due nuove pièces, La città e Lo scambio, in cui esprime la sua scoperta della città e della società del profitto. Sente di aver trovato nel poema e soprattutto nel teatro la sua personale forma espressiva. Il suo stile è impetuoso, passionale, quasi violento, a tratti impenetrabile. Pensiamo per esempio al primo abbozzo del dramma La giovane Violaine che nasce da una antitesi potente, e irrisolta, tra cielo e terra, tra l’attaccamento profondo alle cose del mondo e il desiderio ineludibile di Dio, che nessuna brama terrena, appagata o no, può mai riuscire a saziare.

U
n’opera magistrale per il sì di Maria.
A 27 anni s’imbarca per la Cina. Su consiglio del suo confessore, porta con sé le due « summe » di Tommaso d’Aquino, che leggerà per cinque anni. Qui scrive la prima parte di Conoscenza dell’Est, la sua prima opera in prosa, che i contemporanei definiscono come il massimo traguardo raggiunto dalla lingua francese. Nel 1909 lascia la Cina per andare a Praga: qui termina L’Annonce faite à Marie, una delle più belle pièces teatrali di tutti i tempi, che sarà rappresentata per la prima volta al Théâtre de l’Oeuvre di Parigi nel 1912, ricevendo un’accoglienza trionfale da un pubblico costituito soprattutto di giovani.
La pièce s’incentra su un tema particolarmente caro a Claudel: ogni essere umano vive nel mondo per volontà di Dio che ha affidato a ciascuno una missione specifica sulla terra. È un compito unico che ciascuno ha per sé, diverso da tutti gli altri, ma che concorre alla fine all’armonia di tutto il creato. Lo stesso titolo dell’opera ne spiega la portata: l’annuncio dell’Angelo a Maria fu il segno concreto della volontà divina che chiamava la giovane a una missione nel mondo che avrebbe non solo sconvolto la sua vita, ma cambiato radicalmente le sorti dell’intera umanità. È stato il manifestarsi, limpido e concreto, di una vocazione. L’Annuncio parte da questo dato per porre in luce l’errore che può compiere l’essere umano di fronte a questo, ritenendo che la propria vocazione dipenda in ultima analisi esclusivamente da se stessi.
Dopo la cessazione dall’attività diplomatica avvenuta nel 1935, Claudel si ritira nel suo castello di Brangues per dedicarsi intensamente all’esplorazione dei segreti e dei misteri di quella che per lui è la fonte di ogni poesia e di ogni grazia, la Bibbia, scrivendo numerosi commenti alla Sacra Scrittura: Introduction au Livre de Ruth (1937), Un poète regarde la croix (1938), Le Cantique des cantiques (1948-1954), L’Apocalypse (1952), solo per citare i più noti. Per il teatro realizza altre pièces, come La crisi meridiana, La scarpina di raso e l’oratorio drammatico Il libro di Cristoforo Colombo. Ma rimane L’Annuncio a Maria l’opera che Claudel amava di più. Quando, nel 1955, venne rappresentata alla Comédie française, si organizzò la replica nel suo appartamento. La prima ebbe luogo il 17 febbraio, di fronte al Presidente della Repubblica. Ma solo cinque giorni più tardi il cuore di Paul Claudel cedette. Morì infatti il 23 febbraio 1955, poco dopo aver ricevuto la Comunione. Le ultime parole che il figlio maggiore intese dalla sua bocca furono: «Non ho paura».

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Incoraggiamo le tradizioni natalizie

Posté par atempodiblog le 2 décembre 2011

Cammino di Avvento dans Avvento Pregare-accanto-al-presepe

In questo tempo di preparazione al Natale Radio Maria deve esortare le famiglie perché conservino le tradizioni con le quali le varie culture ricordano la Natività.
Infatti, il Natale sta sempre più diventando una festa consumistica, dimenticando persino chi è Colui che viene festeggiato. Di qui l’importanza di incoraggiare i segni esteriori di questa festività, in particolare il presepio. Sproniamo le famiglie a costruire un presepio nelle proprie case, in modo tale che diventi una catechesi visibile per i bambini e sia uno stimolo a pregare insieme dinanzi alla culla di Gesù Bambino. In questo modo ci sarà più facile preparare i nostri ascoltatori ad accogliere il messaggio della pace e della gioia nei loro cuori e nelle loro famiglie.

Padre Livio Fanzaga

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