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Santo Stefano ovvero dell’amicizia di Cristo

Posté par atempodiblog le 11 décembre 2011

Santo Stefano ovvero dell’amicizia di Cristo
Omelia di Luigi Giussani per la festa di Santo Stefano
Desio, 26 dicembre 1944

Fonte: Tracce.it

Santo Stefano ovvero dell'amicizia di Cristo dans Don Luigi Giussani Santo-Stefano

Veni Sancte Spiritus.
Veni per Mariam.

Le sacre vesti che i ministri rivestono all’altare non han più il candore di ieri. Rosse sono: simbolo di sangue. Accanto alla dolcissima contemplazione di un Dio bambino riscaldato dall’amore della Madre, quale contrasto la visione di Stefano che muore fra il grandinare delle pietre, coperto di sangue! Con che raccapriccio il nostro pensiero passa dal canto degli angeli e dai volti affettuosi dei pastori alle figure urlanti e frementi d’odio dei lapidatori di Stefano!

Ma l’accostamento è denso di significato. Nel fulgore di luce che circonda la capanna di Betlem si delinea maestosa la figura della Croce.

S. Stefano fu il primo che per seguire il Maestro Divino sacrificò la propria vita. La festa del suo martirio unitamente a quella del S. Natale di cui completa il pensiero, ci danno una lezione di sacrificio. Il suo martirio ci indica un mezzo per aiutarci a vivere questa lezione di sacrificio; il suo martirio ce ne fa vedere i frutti preziosi.

Noi non comprenderemo nulla del vero significato del Natale, se non sentiamo vivamente che Dio si fece uomo per salvare noi: e per salvarci doveva sacrificarsi. Il Bambino, che contempliamo in questi giorni con tutto l’affetto e la riconoscenza di uomini credenti, porta impresso sulla sua fronte a programma di tutta la sua vita e monito alla nostra anima pensosa: «Io son nato a morire per te». Quando la nostra mamma da piccoli ci insegnava a compiere ogni giorno della novena del S. Natale un piccolo fioretto perché il Bambino Gesù ci stesse più comodamente sul fieno rigido e la paglia non lo facesse soffrire – Lui che sarebbe morto in Croce per nostro amore -, la nostra mamma senza saperlo coglieva in modo ingenuo, ma reale, il vero senso della nascita di Dio nel mondo, quello cioè di un profondo sacrificio.

Pensiamo: l’Infinito di Dio si è racchiuso in un minuscolo corpo di bambino. Egli, che ha creato tutto ciò che esiste, si è umiliato a nascere come un meschino figlio di uomo. Egli, l’Eterno, Bellissimo, Incorruttibile ha rivestito questa nostra carne, che ci pesa con tutte le sue esigenze, le sue infermità, la sua condanna a morire e a dissolversi. Egli, ai cui cenni tutte quante le creature si muovono come un canto immenso in Suo onore, ha vissuto in mezzo ai piccoli uomini, trattato colla stessa indifferenza con cui guardiamo le persone ignote che ci passano accanto. Egli, che costruì con meravigliosa sapienza tutte le leggi dell’universo e che conosce anche il più piccolo pensiero che s’alza dal nostro cuore nell’oscurità silenziosa della notte, fu trattato da pazzo. Egli, la giustizia vera, fu condannato ingiustamente. Egli, la vita stessa, in cui ogni vita affonda le radici di sua esistenza, morto sul patibolo degli schiavi. Egli, l’Amore, il cui sguardo trasformava una vita intera, la cui parola consolava una vita intera e di cui il tocco solo delle vesti risanava, giustiziato come un assassino.

La storia del Bambino di Nazareth è una storia di dolore ed è come una grande strada su cui tutti gli uomini, senza distinzione, devono camminare: ma vi è chi la percorre bestemmiando; vi è chi la percorre scuotendo la testa incredulo e senza persuasione; vi è chi la percorre come un lungo lamento, intontito, senza comprendere la meta divina; vi è infine chi la percorre con religiosa rassegnazione: vero martire, cioè testimone di Gesù Cristo – come Stefano -, è colui che si sforza almeno di percorrerla con amore. La vita dell’uomo è colma di fatiche, di rinunce, di dolore: ma l’uomo è attaccato alla sua vita terrena con un istinto formidabile; l’uomo su di essa fabbrica tutti i suoi sogni; in essa colloca tutte le sue speranze; per essa spende tutte le sue fatiche; per tenere la sua vita terrena l’uomo rinuncerebbe volentieri alla certezza di una vita felice nell’aldilà; il dolore e le pene che trova, si sforza bene di diminuirle: con un istinto profondo di egoismo, che cerca di scaricare su chi lo circonda la maggior quantità possibile di pesi, che cerca di asservirsi gli altri, che del bisogno e delle pene del prossimo si disinteressa con sollecitudine. In questa mentalità ogni malato è tenuto come un tollerato; ogni povero è un disgraziato; chi piange, un infelice; ogni essere debole e impotente, una cosa disprezzabile; ogni anima mite, un obbrobrio; ogni individuo poco quotato in società, un fallito. Così sorge l’abborrimento a ciò che costa, la nausea del dovere che impone fatica, l’odio al sacrificio.

A questo punto, per contrasto, mi pare quasi che S. Stefano sorga tra il cumulo dei sassi scagliati, a ricordarci una pagina di Vangelo. Un giorno Gesù si azzardò a dire chiaramente ai discepoli che Egli di lì a poco sarebbe dovuto essere crocifisso. Pietro, presolo per un braccio, si mise a rimproverarlo che così parlasse. Gesù, alzato lo sguardo severo ai discepoli, e con una voce che deve aver fatto rimanere assai male il povero Pietro: «Indietro, Satana – gli intimò -, tu ragioni non collo Spirito di Dio, ma collo spirito di questo mondo» (cfr. Mc 8,33). Indietro, Satana! La distinzione tra Cristo e l’anticristo, fra il cristiano e il non cristiano sta proprio in questa valutazione del sacrificio e della vita. Il sacrificio ha una funzione redentrice, perché è la strada che Cristo ha battuto per salvarci e che ognuno di noi deve seguire per giungere alla sua vera casa. Il sacrificio ha una funzione educatrice, perché ci impedisce di cullare l’illusione che la vita terrena debba durare indefinitamente; ci impedisce di scambiare la misera via del pellegrino colla luminosa eterna felicità della patria. Indietro, Satana! aveva risposto Cristo a Pietro; e levando poi la voce perché l’avesse a sentire anche la folla che gli s’andava accalcando intorno: «Chi mi vuol seguire, su, prenda la sua croce. Perché chi non vuole soffrire ora, soffrirà per sempre; ma chi si sacrificherà ora, godrà per sempre. Che importa a un uomo il divenir padrone dell’universo, se poi perde l’anima sua? Che cosa in cambio darà l’uomo per la sua anima?» (cfr. Mc 8,34-37). Come dovette sentire questo pensiero S. Stefano quando veniva spinto a viva forza fuori dalla Sinagoga e trascinato per le viuzze ingombre dalle baracche dei rigattieri fino al Palazzo del Sommo Sacerdote, per essere condannato alla morte.

Lezione di sacrificio quella di Natale e S. Stefano, ma quale il mezzo per poterla vivere? Ce lo indica S. Stefano colla sua appassionata dedizione al Signore Gesù. Si potrebbe esprimere così: «Non bisogna sentirsi da soli». Quando due sposi fedeli si sentono l’uno vicino all’altro; quando i genitori si sentono vicini ai loro figlioli e i figli accanto ai genitori, la loro forza davanti al sacrificio non è forse centuplicata? Quando degli amici veri si sentono solidali e compatti nel loro Ideale, la loro forza davanti ad ogni ostacolo non si ingigantisce a dismisura? Oh fratelli, e sposo e genitore e figlio e amici altro non sono che una espressione sensibile di Cristo benedetto, l’invisibile ma vero sposo e padre e madre e figlio ed amico, sempre desto accanto a noi con affetto infinitamente premuroso per sostenerci colla sua forza divina. Ma bisogna “credergli”. E credere non è appena prestar fede alle sue parole, ma aderire alla Sua Persona, sentire la Sua Persona sempre presente, dominatrice di ogni attività della vita, di ogni relazione sociale, perfino di ogni forma di pensiero e di sentimento interiore. Dobbiamo poter affermare che nella vita giudicheremmo o agiremmo in modo completamente diverso, se Nostro Signore Gesù Cristo non esistesse: perché Egli è ogni giorno il nostro Maestro personale. «Mi chiamate Maestro, e fate bene: perché lo sono» (cfr. Gv 13,13). È questa fede profonda nella presenza vivente di Nostro Signore Gesù Cristo che fece di Stefano il primo martire: eccolo, ritto, colle braccia elevate mentre la gragniuola di sassi gli cade addosso furibonda: e «lo lapidarono, mentre egli pregava dicendo: “Signore Gesù, accogli l’anima mia”» (cfr. At 7,59).

Un ultimo riflesso ci suggerisce la festa di oggi. «Noi abbiamo abbandonato tutto, Signore, per seguirti» (cfr. Mt 19,27), esclamò una volta Pietro a Gesù. E voleva quasi soggiungere: «Che ci darai?». Gesù rispose alla domanda sottintesa: «Il centuplo in questa vita e la vita eterna» (cfr. Mt 19,29). Il centuplo in questa vita. È una gloria anche terrena: dopo tanti secoli ancora oggi milioni di uomini in tutto il mondo rendono il loro canto di omaggio a S. Stefano e la sua apoteosi s’innalza come una magnifica cattedrale, fatta di ammirazione, di gloria, di amore, di entusiasmo, di venerazione. Ma soprattutto il frutto del sacrificio accolto sulla terra è la pace. Il bene dell’esilio è la pace, come il bene della patria è la felicità. Io parlo, fratelli, della pace interiore, senza di cui non si può godere completamente di nulla; della pace interiore, perché quella esterna in tanto è necessaria in quanto che senza di essa diviene molto più difficile il mantenere quella interiore dello spirito: noi oggi ne abbiamo l’esperienza. La pace vera, quella che importa e che è la sicurezza grande della coscienza che cerca di fare la volontà di Dio; la pace vera, quella che importa e che è la tranquillità profonda che ognuno di noi può sentire, ma che è quasi impossibile far capire a uno che non la prova; che ci lascia lo strazio e il dolore e l’ansia della fatica, ma che in fondo all’anima, appena ci ritorniamo, ci fa trovare una fedele rassegnazione, una silenziosa e certa speranza; la pace vera, quella che importa e che è una pazienza piena di bontà e di comprensione per gli altri, che son tutti nostri fratelli e miseri come noi. Ecco Stefano, colpito a morte, cade in ginocchio con un ultimo grido pieno di pace: «Signore, perdona loro questo peccato» (cfr. At 7,60).

Ci dia Gesù Bambino, per intercessione della Madonna, come la diede al Suo primo martire, la forza sovrumana di saperLo seguire sulla strada della Croce, che è la legge di ogni vita, che è la legge di ogni vero amore, che è – ora – soprattutto la legge della vera amicizia con Cristo. Questa forza Egli la darà ai suoi poveri fratelli uomini, i cui giorni disgraziati fanno toccare con mano come non siamo fatti per la terra.

A noi che dobbiamo soffrire e non vogliamo soffrire, noi che dobbiamo piangere e versiamo con amarezza impotente le nostre lacrime; noi che siamo spogliati e martoriati, e ci ribelliamo con istinto di belve ferite agli strappi rudi; noi che dobbiamo morire e vorremmo fuggire dalla morte con raccapriccio e con orrore. Ci dia di soffrire in pace; di piangere in pace; di sentirci martoriati in pace; di morire in pace.

Nella sua visione dell’Apocalisse S. Giovanni vide davanti al trono dell’Agnello, cioè di Cristo, una immensa moltitudine di persone biancovestita, con una palma tra le mani. Domandò chi fossero: «Essi sono coloro che vennero dalla tribolazione e hanno reso bianche le loro vesti nel sangue dell’Agnello [cioè nella croce e nel dolore]. Perciò ora sono davanti al trono di Dio. Essi non avranno più né fame né sete, né il sole mai tramonterà per essi. E l’Agnello li condurrà per sempre alla sorgente della vita, della felicità, e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (cfr. Ap 7,14-17). Et absterget Deus omnem lacrimam ex oculis eorum. Che meravigliosa cosa! Ricordiamo, fratelli, nel nostro dolore, la visione di S. Giovanni, e confortiamoci al dolcissimo pensiero che «Dio asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi».

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Difendessero la fede in Gesù Cristo (e i dogmi) con la stessa tenacia con cui si battono per Ici e 8 x 1000…

Posté par atempodiblog le 11 décembre 2011

DIFENDESSERO LA FEDE IN GESU’ CRISTO (E I DOGMI) CON LA STESSA TENACIA CON CUI SI BATTONO PER ICI E OTTO PER MILLE…
di Antonio Socci

Difendessero la fede in Gesù Cristo (e i dogmi) con la stessa tenacia con cui si battono per Ici e 8 x 1000... dans Antonio Socci antoniosocci

La campagna sull’ “Ici della Chiesa” è stata lanciata dai radicali per anticlericalismo, ma gli ecclesiastici hanno dato una risposta così disastrosa che alla fine la Chiesa – oltre a doversi piegare sull’Ici – ne ha ricavato pure un grande danno di immagine e di credibilità.
Parlavo di faziosità radicale. Scrive Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, che la scorsa estate i radicali presentarono un emendamento alla manovra-bis che voleva colpire esclusivamente “gli enti religiosi cattolici”.
In modo da negare “soltanto ad essi i benefici stabiliti dalla legge” per le opere “senza fini di lucro. Neanche citati tutti gli altri soggetti (altre religioni, associazioni laiche, patronati, realtà politiche e sindacali)”.
Questo, dice Tarquinio, dimostra che i radicali sono mossi da ostilità discriminatoria contro la Chiesa.

ERRORI
Ma perché una campagna radicale che per mesi l’opinione pubblica ha snobbato, d’improvviso è stata abbracciata da tanti diventando una polemica di massa contro la Chiesa?
Perché il governo Monti ha usato l’Ici per realizzare gran parte della sua stangata sulle famiglie e sui pensionati e perché la Chiesa – basti vedere l’Avvenire – è stata una sfegatata sostenitrice di tale stangata.
D’improvviso dal giornale dei vescovi sono spariti gli appelli accorati per il “quoziente familiare” che erano stati ripetuti nei mesi precedenti.
Che “a pagare siano ancora le famiglie”, come ha denunciato il Forum delle associazioni familiari, è diventato irrilevante: gli italiani – per il giornale dei vescovi – devono pagare e zitti.
“Il governo sta facendo gli interventi giusti, quelli che devono essere fatti” recitava l’editoriale di mercoledì scorso. Sono provvedimenti “sostanzialmente equi” e tale manovra ora deve essere “sostenuta dai cittadini”.
Sulla stessa prima pagina di Avvenire, sempre mercoledì, c’era un altro editoriale, firmato dal direttore, il quale però si opponeva a qualunque sacrificio da parte della Chiesa sostenendo che i trattamenti di favore sull’Ici non esistono.

CONFUSIONE
Sennonché, proprio nelle stesse ore, il Segretario di Stato vaticano, cardinal Bertone, diceva cose sull’Ici e la Chiesa che suonavano come una smentita di Avvenire: “E’ un problema particolare: da studiare e da approfondire”.
Non solo. Giovedì c’è stata un’altra dichiarazione, stavolta di Andrea Riccardi, presidente della Comunità di S. Egidio, appena nominato ministro nel governo tecnico, che ha detto: “La Chiesa dovrebbe pagare l’Imu in caso di attività commerciali”.
Come “dovrebbe”? Non lo sta facendo già? Se il ministro – che si presenta come “supercattolico” – dice che “dovrebbe pagare” si evince che qualche problema c’è.
Il ministro ha poi aggiunto che bisogna vedere “caso per caso, se c’è stata mala fede si intervenga”.
Tutto questo ha alimentato la confusione e i sospetti della gente. Allora proviamo a fare chiarezza.

IL PROBLEMA
Nessuno discute l’esenzione dall’Ici per gli edifici usati per il culto, l’educazione o la carità. E nessuno discute che sugli edifici ad uso commerciale la Chiesa già paghi la tassa sugli immobili.
Il problema nasce dalle situazioni ibride. O meglio da come è stata scritta dallo Stato italiano la norma che esenta dal pagamento dell’Ici le attività della Chiesa che abbiano un carattere “non esclusivamente commerciale”.
La vaghezza ha legittimato diverse interpretazioni. Non si trattava di andare a caccia di eventuali abusi, quanto di correggere una norma confusa (che riguarda pure circoli ricreativi, sportivi, partiti, sindacati e enti no profit laici).
Il caos è alimentato pure dal fatto che la legge si rimette alla discrezionalità dei comuni. Cosicché ognuno fa come crede.
Come si vede non c’è niente di scandaloso e la Chiesa avrebbe evitato polemiche e avrebbe fatto un figurone se, subito (per quanto la riguarda) avesse dichiarato: lo Stato riscriva quella norma se – nella sua vaghezza – ha appurato che permette esenzioni immotivate dall’Ici o addirittura abusi.  
Purtroppo però questo messaggio dalla Chiesa non è arrivato. La Cei ha negato fino a ieri che esistesse il problema.
Inoltre Avvenire e il Segretario di Stato vaticano hanno dato pieno sostegno alla stangata del governo dicendo agli italiani vessati da tasse e Ici che “i sacrifici fanno parte della vita” e bisogna farli.
A questo punto è stato naturale per tanti aderire alla campagna radicale rispondendo: bene, allora fateli anche voi.

AUTOGOL
Solo ieri, dopo che Monti ha fatto capire che era in attesa dell’esito della procedura d’infrazione aperta dalla Ue (su quella norma) e poi il governo sarebbe intervenuto, anche il cardinal Bagnasco si è arreso e ha dichiarato la disponibilità della Cei “se ci sono punti della legge da rivedere o da discutere”.
Confermando così che il problema (prima negato) esisteva e dando l’impressione di cedere a pressioni ormai insostenibili.
O magari per timore che si apra un altro fronte. Infatti la manovra del governo che rivaluta le rendite catastali “grazia” gli edifici della Chiesa. Già ieri “Il Sole 24 ore” faceva su questo un titolo un po’ scandalistico.
In realtà la cosa ha un suo senso e la vera assurdità riguarda le banche, graziate da una rivalutazione di soli 20 punti, mentre per le abitazioni delle famiglie il moltiplicatore delle rivalutazioni va da 100 a 160.
Ma “Il Sole” preferisce puntare il dito contro la Chiesa anziché contro le banche.
Del resto se la Chiesa, invece di prendere la difesa delle famiglie tartassate, applaude alla stangata, alimenta un risentimento che la porta al centro delle polemiche e accende un anticlericalismo pericoloso e ingiusto che ne fa un capro espiatorio su cui tutti possono picchiare.
E’ un vero peccato che la Cei non abbia giocato d’anticipo come avrebbe potuto e dovuto.
Questo infatti è lo stile di una realtà come la Chiesa, che è al servizio dell’uomo e corre sempre in soccorso di tutti: degli alluvionati, dei disoccupati, delle famiglie indigenti, stanziando grandi fondi e costruendo opere di carità.
Perché dunque non ha difeso le famiglie dalla stangata, anche rifiutando alcune agevolazioni per dare il suo contributo ai sacrifici degli italiani?

IL TESORO
Il problema è che quando si parla di Ici e di otto per mille, si scatena una reazione furibonda nel mondo ecclesiastico.
Perché? Non si capisce.
Si può dire però che
se la stessa vivacissima reazione scattasse anche in difesa della fede in Gesù Cristo e dei dogmi (messi in discussione pure da tanti teologi), il cristianesimo sarebbe fiorentissimo.
In questi giorni perfino “Famiglia cristiana” – che di solito è pappa e ciccia con la sinistra – si è messa a scagliare anatemi contro la “provocazione laicista” sull’Ici allestita dai “soliti radicali, qualche politico socialista e qualche agit-prop di Rifondazione comunista, ampiamente seguiti dalla stampa laica e di sinistra”.
Com’è che “Famiglia cristiana” si scaglia contro i “laicisti”, la “stampa di sinistra” e perfino “i comunisti” solo quando si occupano dei soldi degli enti ecclesiastici?
Siamo sicuri che il “tesoro” della Chiesa sia nell’Ici e nell’otto per mille? Ovviamente no. L’unico vero “tesoro” della Chiesa è Gesù Cristo.
Tanti uomini e donne di Dio – in nome di Gesù – danno la vita per alleviare la sofferenza delle persone, nei corpi e nelle anime, nelle nostre città come nella giungla amazzonica.
E la loro santità è così affascinante che attira gli aiuti di tanta gente senza bisogno di leggi dello Stato.
Come Madre Teresa o come padre Pio, costoro, per costruire le loro opere di carità, confidano in Dio, non nella sicurezza data da una legge. E testimoniano che Dio non li delude. Cosa c’insegnano? Semplice. Che la Chiesa non deve preoccuparsi tanto dell’Ici quanto della sua santità, “il resto vi sarà dato in sovrappiù”.
Giovedì il Papa ha detto: “L’unica insidia di cui la Chiesa può e deve aver timore è il peccato dei suoi membri”. Per questo anche nelle persecuzioni vince se si rivolge “alla sua Madre celeste e chiede aiuto”.

Ma occorre la fede.

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