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L’attrattiva Gesù

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2011

 «O Gesù, dunque non è nemmeno necessario dire: Attirando me, attira le anime che amo. Questa semplice parola: “Attirami” basta»
a cura di Don Maurizio Benzi – 30Giorni

L’attrattiva Gesù dans Articoli di Giornali e News santateresadilisieux
Santa Teresa di Lisieux

È comprensibile che l’appello a una maiuscola Nuova Evangelizzazione si sia fatto così insistente. È comprensibile innanzitutto perché il comando del Signore, «andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16, 15), non si può eludere e poi perché è in atto, soprattutto negli ultimi decenni, una scristianizzazione inimmaginabile.
Ma è proprio questo il punto: a volte l’appello sembra un po’ troppo inquieto, più preoccupato di raggiungere un risultato che di collaborare alla gioia di chi dovrebbe ottenerlo. Quasi che questa (la gioia, frutto sorprendente della grazia) non sia operativa, non sia il fine stesso di tutto ciò che Gesù ha detto e fatto («Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» Gv 15, 11), non sia il gratuito punto di forza di un povero cristiano insieme alla domanda che il Signore operi con noi («…mentre il Signore operava insieme con loro» Mc 16, 20).
È come se fosse necessario aggiungere qualche ulteriore impegno alla recita quotidiana delle preghiere e all’umile osservanza dei dieci comandamenti («In questo consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi» 1Gv 5, 3).
Il testo della Lumen gentium è così consolante e convincente – e dunque inevitabilmente operativo – quando al numero 31 parla delle «ordinarie condizioni della vita familiare e sociale» come del luogo dove i fedeli laici sono chiamati «a rendere visibile Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro vita e col fulgore della fede, della speranza e della carità».
Il recente Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica va nella stessa direzione, quando al numero 97 spiega «come collabora Maria al disegno divino della salvezza»: «per la grazia di Dio è rimasta immune da ogni peccato personale durante l’intera sua esistenza»; e poi quando al numero 433, quasi a commento di Lumen gentium 31, spiega che «con la loro vita conforme al Signore Gesù i cristiani attirano gli uomini alla fede nel vero Dio, edificano la Chiesa, informano il mondo con lo spirito del Vangelo e affrettano la venuta del Regno di Dio» (tutte le sottolineature sono nostre, qui e sopra).
Ma una parola ancora più convincente perché piena della leggerezza e del candore della santità viene dalle ultime pagine del manoscritto C della Storia di un’anima, dove la piccola Teresa di Lisieux racconta il compimento inatteso della sua vocazione missionaria. Le pubblichiamo come il miglior contributo alla causa della nuova evangelizzazione, che la patrona delle missioni, dichiarata dottore della Chiesa da papa Giovanni Paolo II, è certamente la più attiva nel perorare.

lavocazionedipietroeand dans Fede, morale e teologia
La vocazione di Pietro e Andrea, Caravaggio,
Royal Gallery Collection, Hampton Court Palace, Londra


«Alle anime semplici non servono mezzi complicati: poiché io sono tra queste, un mattino durante il ringraziamento, Gesù mi ha dato un mezzo semplice per compiere la mia missione. Mi ha fatto capire questa parola dei Cantici: “Attirami, noi correremo all’effluvio dei tuoi profumi” (Ct 1,4).
O Gesù, dunque non è nemmeno necessario dire: Attirando me, attira le anime che amo. Questa semplice parola: “Attirami” basta.
Signore, lo capisco, quando un’anima si è lasciata avvincere dall’odore inebriante dei tuoi profumi, non potrebbe correre da sola, tutte le anime che ama vengono trascinate dietro di lei: questo avviene senza costrizione, senza sforzo, è una conseguenza naturale della sua attrazione verso di te.
Come un torrente che si getta impetuoso nell’oceano trascina dietro di sé tutto ciò che ha incontrato al suo passaggio, così, o mio Gesù, l’anima che si immerge nell’oceano senza sponde del tuo amore attira con sé tutti i tesori che possiede…».
[…]
«Madre mia, credo che sia necessario darle ancora qualche spiegazione sul brano del Cantico dei Cantici: “Attirami, noi correremo” perché quello che ho voluto dirne mi sembra poco comprensibile.
“Nessuno può venire a me”, ha detto Gesù, “se non lo attira il Padre mio che mi ha mandato”. Poi, con parabole sublimi, e spesso senza nemmeno usare questo mezzo così familiare al popolo, ci insegna che basta bussare perché ci venga aperto, basta cercare per trovare e tendere umilmente la mano per ricevere quello che chiediamo… Dice inoltre che tutto quello che chiederemo al Padre suo nel suo nome Egli lo concederà. Certo è per questo che lo Spirito Santo, prima della nascita di Gesù, dettò questa preghiera profetica: Attirami, noi correremo.
Cos’è dunque chiedere di essere attirati, se non unirsi in modo intimo all’oggetto che avvince il cuore? Se il fuoco e il ferro avessero intelligenza e quest’ultimo dicesse all’altro: Attirami, dimostrerebbe che desidera identificarsi col fuoco in modo che questo lo penetri e lo impregni con la sua sostanza bruciante e sembri formare una cosa sola con lui.
Madre amata, ecco la mia preghiera: chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amore, di unirmi così strettamente a Lui, che Egli viva e agisca in me.
Sento che quanto più il fuoco dell’amore infiammerà il mio cuore, quanto più dirò: Attirami, tanto più le anime che si avvicineranno a me (povero piccolo rottame di ferro inutile, se mi allontanassi dal braciere divino) correranno rapidamente all’effluvio dei profumi del loro Amato, perché un’anima infiammata di amore non può restare inattiva: certo, come santa Maddalena resta ai piedi di Gesù, ascolta la sua parola dolce e infuocata. Sembrando non dar niente, dà molto di più di Marta che si agita per molte cose e vorrebbe che la sorella l’imitasse. Non sono i lavori di Marta che Gesù biasima: a questi lavori la sua Madre divina si è umilmente sottomessa per tutta la sua vita poiché doveva preparare i pasti per la Santa Famiglia. È solo l’inquietudine della sua ardente ospite che vorrebbe correggere».

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Festa di Gesù Cristo Re dell’universo

Posté par atempodiblog le 19 novembre 2011

Festa di Gesù Cristo Re dell'universo dans Fede, morale e teologia Nostro-Signore-Ges-Cristo-Re-dell-Universo

La conclusione dell’anno liturgico ci propone la festa di Gesù Cristo Re dell’universo. E’ l’Agnello immolato che detiene ogni potere in cielo e in terra, mentre quella di satana e degli uomini che lo servono è una falsa forza.
Alla fine del mondo il Risorto verrà con grande potenza e gloria sulle nubi del cielo a giudicare la terra. Il Re di misericordia giudicherà l’umanità intera secondo giustizia.
Anche al termine della nostra vita personale ci sarà un giusto giudizio e a ognuno verrà dato secondo le sue opere. La vita è un’occasione unica, che si vive una sola volta, durante la quale decidiamo del nostro destino eterno.
Approfittiamo del tempo della grazia e della misericordia per fare il bene. Impostiamo la vita come cammino verso l’eternità. Non lasciamoci sedurre dalla fiera delle vanità  che di dissolverà nel fuoco delle cose effimere.
Conoscere Gesù, amarlo e servirlo, come Maria e insieme a Lei, è la gioia e il senso della vita. Allora incontreremo Gesù non come giudice ma come il nostro amico fedele.

Padre Livio Fanzaga

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Preghiera a Gesù Cristo Re

Posté par atempodiblog le 19 novembre 2011

Preghiera dettata da Gesù a Maria Valtorta il 22-10-1944 per l’ottavario della sua Regalità, per chiedere la venuta del suo regno.

Preghiera a Gesù Cristo Re dans Maria Valtorta Ges-Cristo-Re-dell-Universo

“Gesù, Re d’Amore, abbi pietà di noi. Poiché vogliamo amarti, aiutaci ad amarti. Poiché riconosciamo che Tu sei il Re vero, aiutaci a sempre più conoscerti. Poiché crediamo che Tu puoi tutto, conferma la nostra fede con la tua misericordia.
Tu, Re del mondo, abbi pietà del povero mondo e di noi che siamo in esso.
Tu, Re della pace, da’ la pace al mondo e a noi.
Tu, Re del cielo, concedici di divenirne sudditi.
Tu lo sai che piangiamo: consolaci.
Tu lo sai che soffriamo: sollevaci.
Tu lo sai che abbiamo bisogno di tutto: aiutaci.
Noi sappiamo che soffriamo per nostra colpa, ma speriamo in Te.
Noi sappiamo che è ancora poco quello che soffriamo rispetto a quello che meriteremmo di soffrire, ma confidiamo in Te.
Noi sappiamo quello che abbiamo fatto a Te, ma sappiamo anche quello che Tu hai fatto per noi.
Sappiamo che sei il Salvatore: salvaci, Gesù!
Re, dalla corona di spine, per questo tuo martirio d’amore sii per noi l’Amore che soccorre.
Aprici colle tue mani trafitte i tesori della Grazia e delle grazie.
Vieni a noi coi tuoi piedi feriti. Santifica la terra e noi col Sangue che goccia dalle tue piaghe: gemme della tua regalità di Redentore.
Apri all’amore i nostri cuori con le fiamme del Tuo Cuore aperto per noi.
Se ti ameremo saremo salvi qui, nell’ora della morte e dell’ultimo Giudizio.
Venga il tuo Regno, Signore, in terra, in Cielo, e nei nostri cuori.
Amen”.

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La menzogna dell’aborto che cura

Posté par atempodiblog le 19 novembre 2011

La menzogna dell'aborto che cura dans Aborto abortiontshirt

«Di fatto, per la donna sana con un matrimonio felice, l’aborto è più spesso veramente terapeutico». Con questa frase il dottor Malcolm Potts a pagina 227 del suo saggio scientifico dedicato all’aborto pubblicato per le edizioni dell’Università di Cambridge nel 1977, « demitizzava » il presunto danno per la madre derivante dall’aborto volontario. Chi era il dottor Potts? Si può rispondere che per decenni, assieme a Christopher Tietze, Mary Calderone, Alan Guttmacher, egli abbia costituito la punta di lancia dello schieramento militante di medici abortisti, risultato determinante per la legalizzazione dell’aborto in America e nell’occidente. Fondatore della prima clinica per la contraccezione giovanile a Cambridge, primo uomo ad operare alla clinica per aborti londinese Marie Stopes, primo direttore medico di una delle maggiori organizzazioni abortiste, la International Planned Parenthood Federation, ancora oggi dalla cattedra dell’Università di Berkley il professor Potts è attivo promotore di iniziative volte alla diffusione del controllo delle nascite e all’espansione dell’accesso all’aborto. Difficile immaginare qualcosa di diverso, se si è convinti che abortire faccia bene alla salute delle donne.

In effetti l’abortismo libertario, per utilizzare una categoria del giurista Lombardi Vallauri
, si è sempre affermato attraverso il tentacolo umanitario. Perché in moltissime legislazioni, compresa quella italiana, le donne possono liberamente abortire? Per salvaguardare, si dice, la loro salute, identificata nella quasi totalità dei casi, con la salute psichica. Negli anni della lotta per giustificare l’aborto legale come riconoscimento di un diritto alla salute, fu molto importante per il movimento abortista potere disporre di studi che dimostravano alti livelli di ansia tra le donne con gravidanza non programmata ed il miglioramento che seguiva l’interruzione volontaria della gravidanza. La frase citata in apertura, che semplicemente riprendeva una pubblicazione medica del 1970, può essere considerata un esempio di quell’azione ideologica camuffata da avanzamento nelle acquisizioni scientifiche.

In effetti sarebbe stato strano che l’ansia connessa alla gravidanza
e dalla preoccupazione per un livello in genere ad elevato contenuto emozionale, non si mostrasse mitigata nel breve periodo dopo l’aborto, ma che cosa succedeva guardando le cose con una prospettiva di puù lungo termine? In effetti nel corso degli anni ha cominciato a emergere una realtà assai diversa rispetto al quadro idilliaco di psico-terapeuticità dell’aborto: un certo numero di donne stavano male, alcune uscivano da quell’esperienza a pezzi e avevano cominciato a rivolgersi a psicologi, psichiatri, sacerdoti in cerca di una qualche forma di aiuto, per un malessere che non voleva saperne di abbandonarle. Dopo una serie di studi risalenti in maggioranza agli inizi degli anni 2000, nel 2004 giunse uno dei colpi più forti alla teoria fino a quel momento sostenuta da uno studio molto ampio della durata di 14 anni condotto confrontando tutte le donne che dal 1987 al 2000 avevano abortito volontariamente con le altre che invece avevano patito un aborto spontaneo o invece avevano portato a termine la gravidanza con la nascita del figlio. Lo studio venne pubblicato sulla rivista dei ginecologi americani e mostrò che l’aborto volontario si associava ad una mortalità tripla e addirittura, se si andavano a contare le morti da causa violenta, l’incidenza risultava aumentata di ben sei volte. Dopo quello studio non si poteva più sostenere che le donne avessero una saluta migliore dopo l’aborto.

Colto in fallo il movimento abortista mise immediatamente al lavoro i propri tecnici
, per depotenziare l’esplosività di quel dato e questi riuscirono a tirare fuori dal cilindro una soluzione, seppure parziale: quel risultato non attestava la pericolosità dell’aborto per la salute mentale delle donne per due motivi sostanziali, il primo perché il confronto sarebbe dovuto essere svolto confrontando le donne che abortiscono non con tutte le donne che partoriscono, ma con solo quelle che portano a termine una gravidanza non programmata o espressamente indesiderata, la seconda ragione che inficiava il risultato consisteva nella mancanza di controllo della salute mentale prima dell’aborto. Si formò così piuttosto velocemente la linea del Piave dell’abortismo psichiatrico e ginecologico: le donne che abortiscono non stanno psicologicamente peggio a causa dell’aborto, ma i problemi psichici sono presenti tra queste in maggiore misura prima dell’aborto e determinano un maggiore rischio di aborto; se si considerano questi fattori l’aborto non esercita alcun impatto negativo sulla salute mentale delle donne che ad esso si sottopongono. Nel 2006 un altro ricercatore, il neozelandese Fergusson, non credente, schierato su posizioni pro-choice, pubblica i risultato di un’indagine in cui più di mille bambini vengono seguiti dalla nascita fino l’età di 25 anni. Pur tenendo di conto di numerosissimi altri fattori che teoricamente potevano influenzare il risultato emerge che le ragazze con esperienza di aborto volontario mostravano un’incidenza di ansia, depressione e pensieri suicidari significativamente superiore alle coetanee che non erano mai rimaste incinte ed a quelle che, incinte, avevano fatto nascere il bambino.

C’è di più, il dottor Fergusson, dopo la pubblicazione dell’articolo, rivela al pubblico
di avere subito pressioni affinché quei dati non fossero pubblicati. Si trattava di una realtà scomoda, un non credente non poteva essere accusato di confessionalismo. Come un orologio il movimento abortista si mise di nuovo al lavoro e trovò la soluzione nella pubblicazione di revisioni della letteratura, la più importante delle quali, nel 2008, ad opera niente di meno che della potente associazione degli psicologi americani, una realtà dove il pensiero relativista è pressoché un dogma di fede. Che tra i sei revisori almeno due, Brenda Major e Nancy Felipe Russo fossero esponenti dichiarati dell’ideologia abortista, ed altri, come Linda Beckman, appartenenti al fronte pro-choice, è dettaglio da non trascurare, tanto che già a nomine appena avvenute, il mondo pro-life esprimeva la certezza di un pronunciamento negazionista. E questo è infatti quanto avvenne; attraverso un sapiente gioco di selezione degli studi e di valutazione differenziata delle problematiche metodologiche a seconda del risultato degli studi, la commissione giunse a concludere che «tra le donne che hanno un singolo aborto legale nel primo trimestre per una gravidanza non programmata per ragioni non terapeutiche, il rischio relativo di problemi mentali non è maggiore del rischio tra le donne che portano a termine una gravidanza non programmata».

Nel 2011 è infine apparsa una medesima revisione del collegio degli psichiatri inglesi
che, seppure in maniera più sfumata, afferma che «i risultati per la salute mentale sono probabilmente gli stessi, indipendentemente che la donna con gravidanza indesiderata opti per l’aborto o la nascita», aggiungendo però uno spunto precauzionale: «se le donne che abortiscono mostrano una reazione emotiva negativa all’aborto, o fanno esperienza di eventi vitali stressanti, dovrebbe essere offerto sostegno e controlli poiché con maggiore probabilità di altre sviluppano un problema di salute mentale». La saga potrebbe sembrare finita qui, ma in effetti non è così. Con una articolo « bomba » apparso sul numero di settembre della rivista degli psichiatri inglesi Priscilla Coleman, specialista con lunga esperienza di studio ed assistenza alle donne in difficoltà psicologica dopo l’aborto, pubblica una revisione dei dati su poco meno di novecentomila donne che per la prima volta assembla le risultanze numeriche provenienti da 22 studi ed il risultato è chiaro: rischio aumentato di ansia, raddoppio dell’abuso di alcool, uso di marijuana più che triplicato, rischio suicidarlo aumentato di due volte e mezzo; nel complesso un aumento dell’81% di problemi psichici a carico delle donne che abortiscono.

L’articolo ha suscitato un prevedibile polverone, accuse di incompetenza scientifica e faziosità
sono state apertamente rivolte all’autrice, critiche al processo scientifico che ha portato all’accettazione dell’articolo da parte sulla rivista e invito al ritiro dello studio hanno caratterizzato il contenuto di numerosi commenti. Accanto a questi, la difesa del prof. Fergusson che ha anticipato un prossimo studio realizzato con lo stesso approccio della Coleman, ma tenendo conto delle critiche rivolte al suo lavoro. Il risultato?  Considerando anche i soli studi in cui le condizioni psichiche erano valutate anche prima dell’aborto, vengono confermati l’incremento del rischio per la salute delle donne che abortiscono (+36%), l’aumento del disturbo d’ansia, dell’abuso di sostanze, dei comportamenti suicidari.

In conclusione credo che la lezione da trarre sia la stessa che abbiamo scritto
al Bristish Journal of Psychiatry che l’ha pubblicata tra le lettere: allo stato delle conoscenze è incontestabile anche per gli stessi abortisti che l’aborto non è per niente terapeutico; a livello di salute pubblica costituisce una procedura per le donne di nessuna utilità al fine della salvaguardia della loro salute mentale, si tratta in sostanza di una procedura futile. A livello fattuale il « serio pericolo per la salute della donna » posto a giustificazione della richiesta di aborto dalla legge italiana non riceve alcuna mitigazione dall’aborto. Vorrà il mondo della politica, dell’informazione, della cultura, della legge prenderne atto e trarne le logiche conseguenze? C’è da dubitarne, ma qui si gioca una buona fetta dell’onestà intellettuale di tanti attori sulla scena; hic Rhodus, hic saltus.

di Renzo Puccetti – La Bussola Quotidiana

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«Femminista, dico basta agli aborti»

Posté par atempodiblog le 18 novembre 2011

Intervista (del 4 dicembre 2005) di Stefano Lorenzetto, per ‘Il Giornale’, ad una ginecologa che ha praticato molti aborti.

«Femminista, dico basta agli aborti» dans Aborto vitar

Mentre parla, sottovoce e con fatica, la ginecologa Rossana Cirillo tiene gli occhi bassi. La parola che ricorre con più frequenza nel suo racconto è «pesante», declinata in tutte le varianti: «peso», «pesantezza», «pesava». In due ore e 51 minuti me la annoterò sul taccuino 15 volte. Dalle pareti dello studio sorridono in fotografia decine di neonati: «Una piccola parte di quelli che ho fatto nascere». Il contrasto con la tormentata mimica facciale della dottoressa è stridente.

Dirigente di primo livello nella divisione di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Villa Scassi a Genova, il medico Rossana Cirillo ha deciso dopo 25 anni di togliersi un peso, quel peso, dal cuore: non esegue più aborti. È diventata obiettrice di coscienza nel 2004. Dal 22 maggio 1978, quando entrò in vigore la legge 194, ha praticato fino a 12 interruzioni di gravidanza la settimana. Dagli Anni 90, con l’ondata immigratoria di extracomunitarie, il numero degli interventi è raddoppiato. Per un quinquennio s’è trovata in sala operatoria da sola. È ragionevole supporre che nell’arco di 1.300 settimane abbia effettuato dai 13.000 ai 23.000 aborti. Forse l’istinto d’autoconservazione le ha impedito di tenere la tragica contabilità. Lei non ne parla, io non trovo il coraggio di chiedere.

La dottoressa Cirillo ha deposto cannula d’aspirazione e curette (il cucchiaio) ma non è diventata antiabortista. Anzi, continua a ritenere la 194 una buona legge, nonostante si rifiuti d’applicarla in prima persona. L’impressione è che la coerenza intellettuale faccia aggio sul travaglio interiore. Non può comportarsi altrimenti: entrerebbe in contraddizione con se stessa, con la sua storia di donna e di medico. Ai tempi dell’università animava con le compagne un gruppo d’autocoscienza. È stata tra le fondatrici del collettivo femminista permanente del Manifesto. Ha fatto la ginecologa per sei mesi in Nicaragua col Fronte sandinista. Benché non abbia mai sfogliato Il Giornale in vita sua, ha accettato l’intervista. Prima però è passata dalla pasticceria e al cronista venuto da 300 chilometri di gelo e nebbia fa trovare in ambulatorio tre brioche, due olandesine alla crema e un paio di focacce liguri: indipendentemente dal mio quintale di peso, non posso fare a meno di scorgere un tratto di tralignata generosità nel suo agire.

È nata in una famiglia «cattolica e conservatrice». Da bambina frequentava gli scout. Al liceo era impegnata nel volontariato. Confessa d’aver militato in Gioventù studentesca, ma quando le faccio notare che quel movimento fu fondato da don Luigi Giussani e si trasformò poi in Comunione e liberazione ancora una volta il suo istinto d’autoconservazione ha il sopravvento: «No, no, impossibile! Ma scherza? Non c’entrava nulla, era un’altra cosa». Inevitabile che confluisse nei cattolici del dissenso. «Andavamo a far visita alla comunità dell’Isolotto di don Enzo Mazzi a Firenze, cercavamo di convincere il cardinale Giuseppe Siri che Gesù era povero, quelle cose lì…». Quando le fu chiaro che l’arcivescovo di Genova non avrebbe preso lezioni di catechismo da lei, abbandonò la Chiesa.

Ha figli?
«Due, di 23 e 22 anni. E sono già nonna di una nipotina, Matilde, che ha un anno e mezzo».
Come s’è sentita dopo aver preso la decisione di non praticare più aborti?
«Serena».
Perché ha smesso?
«Preferisco dirglielo alla fine».
In che modo hanno reagito i colleghi che continuano a praticare interruzioni di gravidanza?
«Sono stati comprensivi. Nessuno mi ha giudicata. Hanno capito che non potevo più andare avanti così. Chi mi conosce sa quali pesi ho portato sulle spalle. Per un lungo periodo sono stata l’unico medico di Villa Scassi a fare aborti. Dopo aver preso la decisione, ho aspettato sei mesi prima di smettere. Volevo essere sicura di non danneggiare il servizio».
E adesso?
«Vanno avanti i quattro colleghi non obiettori. Altri otto medici sono obiettori».
In famiglia che cosa le hanno detto?
«Sono stati solidali. Negli ultimi tempi i miei figli spesso mi chiedevano se non mi pesava troppo quello che facevo».
Hanno sempre saputo del suo lavoro?
«Sì, non sono cresciuti con un’educazione cattolica, non hanno il concetto di colpa, di peccato. Però il più grande nutriva qualche perplessità. È contento che abbia smesso».
È lui il padre di Matilde?
«Sì. È ancora studente. La sua ragazza è rimasta incinta».
Si sono chiesti se abortire?
«No, erano molto contenti. Hanno deciso fin da subito di tenersela. Per fortuna non c’erano di mezzo problemi economici ed è nata questa bambina stupenda».
Tornerebbe per qualche motivo a eseguire aborti?
«Be’, se si creassero le condizioni per cui non è garantito il servizio, dovrei riconsiderare la mia decisione».
Quindi non è una decisione definitiva.
«Niente è definitivo nella vita».
A parte la morte.
«Ogni giorno impariamo qualcosa. Le persone che hanno sicurezze assolute non mi convincono. Bisogna stare 25 anni in prima linea per capire… Chi parla pro o contro l’aborto questa realtà non la conosce».
L’Oms calcola che negli ultimi vent’anni siano stati praticati nel mondo un miliardo di aborti. Non le sembra una cifra impressionante?
«Penso che non sia l’unico male del mondo. Esistono anche le guerre, la fame. Negli Stati Uniti gli antiabortisti sono arrivati ad ammazzare i ginecologi che praticano le interruzioni di gravidanza».
In Italia si registrano ogni anno 540.000 nascite e 136.000 aborti. Il rapporto è di una vita soppressa ogni quattro.
«È un dato che dovrebbe far riflettere non solo le donne, ma anche qualcun altro».
Chi?
«I parlamentari che gestiscono le politiche familiari».
Giuliano Ferrara sostiene che finché l’aborto era clandestino faceva parte della legge morale individuale, quella che è «in me» secondo Kant. Un miliardo di aborti legali è diverso: esce da «me» e diventa «noi», ci riguarda, tutti.
«È una responsabilità collettiva anche il fatto che tante donne non possano permettersi d’avere un bambino».
Lo sa che l’aborto libero e legale fu introdotto per la prima volta con la rivoluzione d’ottobre del 1917 in Russia e per la seconda volta nel 1933 con l’avvento al potere del nazionalsocialismo in Germania?
«Non vedo collegamenti con l’Italia, dove è diventato legale sulla base di un movimento d’opinione molto ampio. L’aborto esiste ed esisterà sempre».
Qual è l’identikit della donna che abortisce?
«Ceto medio, età 35-40 anni, sposata, due figli».
Quali sono i motivi per cui una donna rifiuta il bambino?
«Sono cambiati nel tempo. All’inizio influiva molto l’impossibilità d’assicurare al nascituro rapporti affettivi stabili. La gravidanza arrivava in una situazione familiare turbata, con i coniugi che litigavano. Tante pazienti erano giovanissime o tossicomani o avevano deciso a priori di non avere figli. Aggiungerei una ristretta minoranza di donne d’elevato livello culturale nelle quali agiva il desiderio inconscio di dimostrare a se stesse d’essere fertili. Soddisfatto quello…».
Aberrante.
«È un aspetto dell’animo umano».
E oggi?
«Si abortisce perché tutto dev’essere previsto e calcolato: il benessere economico, la carriera professionale, l’acquisto dei beni di consumo. Perciò si decide di fare un figlio solo in età avanzata. Del resto le giovani coppie vivono nella precarietà più totale, non hanno un lavoro fisso, non dispongono dell’alloggio».
Mi sta dicendo che si abortisce per soldi?
«Oggi prevalgono quelli. Negli Anni 80 contava di più l’aspetto interiore, il non sentirsi pronte, il non avere un compagno affidabile. Anche se ultimamente noto un aumento di coppie che, benché prive di sicurezze materiali, decidono di portare avanti la gravidanza. I venticinquenni sono più fiduciosi, positivi, aperti alla vita dei trentacinquenni».
E le immigrate perché ricorrono numerose alla 194?
«Non possono permettersi una gravidanza. Devono lavorare per mandare i soldi in patria, dove magari hanno già dei figli. Africane e ragazze dell’Est vengono qui a prostituirsi, per loro restare incinte è un incidente. Mi sono trovata ad affrontare 30-40 extracomunitarie al colpo, tutte di lingua diversa, assistita da una sola infermiera. Io parlo male l’inglese, ma anche le nigeriane non scherzano. Era impossibile capirsi. Spesso stentavo persino a comprendere se volevano abortire o no».
Il suo collega professor Claudio Giorlandino sostiene d’aver visto donne scegliere l’aborto solo perché il feto aveva sei dita ai piedi, una malformazione operabilissima.
«Io le avrei mandate dallo psichiatra per una consulenza. E comunque, trascorsi i primi 90 giorni, il medico può rifiutare l’intervento. Ho respinto richieste di aborto a 24 settimane. Da questo punto di vista mi sento pulita, in serena coscienza posso dire di non aver mai deciso se un bimbo malformato o mongoloide dovesse nascere oppure no. Era sempre e comunque una scelta della donna, non mia. Tra la madre e il bambino chi vogliamo salvare? Sottovalutare il disagio psichico della gestante significava mettere in conto il rischio di un suicidio. Così avrei perso entrambi».
L’embrione è una persona?
«Eeeh…». (Sorride nervosa). «L’embrione è una persona…». (Riflette). «No, fino a quando non ha una vita autonoma dalla madre».
Il feto è una persona?
«Il feto è una persona…». (Riflette). «Quando può vivere fuori dall’utero».
Cioè quando?
«Già a 24 settimane, più o meno. Dal 1978 a oggi le possibilità di vita autonoma si sono ampliate grazie alla neonatologia».
Le è capitato di praticare aborti a 23-24 settimane?
«Sì, ma in tempi molto remoti».
Che cosa provava nel ritrovarsi fra le mani esserini dai caratteri umani evidenti?
«Eh be’… Diciamo che…». (Tace per 21 secondi). «È una situazione piuttosto pesante. Ma anche vedere le mamme provate lo è. Non me la sentivo di far prevalere il mio disagio sui bisogni di queste donne».
Il feto a chi appartiene?
«A se stesso nella misura in cui è autonomo e alla madre nella misura in cui dipende da lei per la sopravvivenza».
Però la sua struttura vitale è diversa da quella della madre, tant’è vero che se le membrane placentari si rompono, e viene a stabilirsi un contatto diretto fra embrione e gestante, l’organismo di quest’ultima sviluppa degli anticorpi.
«Sì, però qui entriamo nel merito di questioni… Diciamo…». (Riflette). «È come dimostrare o meno l’esistenza di Dio. Chi può stabilire con certezza quando comincia il diritto alla vita?».
La madre dovrebbe essere in grado di autofecondarsi per affermare che il feto le appartiene.
«È vero. Però la donna porta avanti la gravidanza e partorisce. Se l’uomo non vuol partecipare, esce di casa per comprarsi le sigarette e non torna più. La donna ha più responsabilità reali».
Chi le ha insegnato a praticare gli aborti?
«L’isterosuzione col metodo Karman l’ho imparata da sola. Non è una pratica molto diversa dalla revisione della cavità uterina che si esegue nel 95% dei casi di aborto spontaneo. Cinque-dieci minuti in anestesia locale ed è tutto finito».
E dopo il terzo mese?
«Dalle 14 settimane in su la somministrazione delle prostaglandine induce l’aborto e le contrazioni dell’utero, con l’espulsione di un feto non vitale».
Le prostaglandine uccidono il feto?
«A volte sì, a volte no».
Quindi a volte esce vivo?
«Vivo ma non vitale per una manciata di secondi. Per fortuna è da anni che non vedo queste situazioni».
Ha detto «per fortuna».
«Non è una cosa piacevole per nessuno. Non è normale. È un dramma. È un dolore per i medici, per le ostetriche, per tutti. Chi pratica l’aborto non è un irresponsabile incapace di consigliare una scelta diversa. I medici non obiettori sono stati lasciati da soli in trincea, hanno il merito d’aver garantito l’applicazione di una legge dello Stato».
È favorevole alla presenza di volontari antiabortisti nei consultori?
«Ho più probabilità io, che non sono pregiudizialmente contraria all’aborto, di convincere una donna a tenersi il bambino. Sono più credibile».
Ma lei ci provava a convincere le gestanti a rinunciare all’aborto?
«Agli inizi, finché mi è stato possibile, sì».
Con quali argomenti?
«Uno solo: signora, non ho mai conosciuto una donna dispiaciuta d’aver scelto di far nascere un figlio».
E in seguito?
«L’impossibilità, per mancanza di tempo, d’instaurare un rapporto umano è diventata un peso insopportabile. Non avere la certezza che la donna di fronte a me era consapevole di ciò che comportava un aborto, mi ha spaventato. Mi sono chiesta: che cosa sto facendo?».
Ha mai prospettato a una gestante la possibilità di far nascere il figlio e di non riconoscerlo, come ammette la legge?
«No, assolutamente no».
Perché?
«La ritengo una forma di crudeltà. Come si fa a dirle di partorirlo e poi abbandonarlo? Non l’ho mai neppure pensato».
Se torna con la memoria al momento in cui entrava in sala operatoria per interrompere una gravidanza qual è la prima sensazione che le viene in mente?
(Ci pensa). «Ripetitività. Pesante».
Le sono capitati casi di donne che si sono pentite d’aver abortito?
«Sì. Spesso poi hanno avuto un altro figlio».
E donne la cui psiche è rimasta segnata per sempre?
«Ho visto persone soffrire per molti anni fino ad ammalarsi di tumori alla mammella. Più di un caso di questo genere, ho visto».
Dopo aver praticato un aborto è mai stata sfiorata dal dubbio d’aver commesso un omicidio?
«Sì».
Quante volte?
«Tutte le volte che mi sono sentita…». (Riflette). «…che ho sentito la distanza fra me e la donna, che non c’era dialogo con questa persona. Non usiamo la parola omicidio… Qualcosa che non aveva senso, qualcosa di non giusto».
Se tornasse indietro rifarebbe tutto quello che ha fatto?
«Sì».
Adesso può dirmi perché ha smesso di eseguire interruzioni di gravidanza?
«Ho cominciato a non credere più nelle ideologie, a dare importanza a quello che sentivo come vero. Ho aderito a me stessa, a ciò che è giusto e che mi fa star bene».
L’aborto non la faceva star bene.
«No, non mi faceva più star bene. Sono andata a un corso di meditazione tibetana con un maestro tedesco, nelle Marche. Di solito ti mettono in fondo a un pozzo e ti tirano su dopo tre settimane. Io sono rimasta da sola in silenzio per tre giorni e mezzo, chiusa in una stanza buia, le orecchie tappate, gli occhi tappati. Una deprivazione sensoriale totale. Essendo costretti a stare con se stessi, si va oltre se stessi. E lì non ho « pensato » che non me la sentivo più di praticare aborti: ho « sentito » che non me la sentivo più».
Capisco.
«Contemporaneamente è nata Matilde. Una gioia incredibile, un’emozione grandissima. Vedere che la vita continua… Non è stata facile, la mia vita. Il mio primo marito è morto a 33 anni. Però la mia nipotina…». (Piange). «Ho sentito quanta vita c’è».

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L’enigma di una stella su Betlemme

Posté par atempodiblog le 17 novembre 2011

L'enigma di una stella su Betlemme dans Libri Cometa

Viene ancora dall’archeologia un’altra serie di strane testimonianze. Noi oggi sappiamo con sicurezza che la più celebre astrologia del mondo antico, quella babilonese, non soltanto era anch’essa in attesa del Messia dalla Palestina. Ma ne aveva previsto la data con una precisione ancor maggiore di quella degli esseni. Ecco qui di seguito la vicenda: libero ciascuno di trarne le conclusioni che gli pare.
Tutto parte dalla stella (il testo non parla mai di cometa, come molti credono) che avrebbe brillato nel cielo di Betlemme alla nascita di Gesù e dal conseguente arrivo di certi magi dall’Oriente. Così, almeno, quanto si racconta nel vangelo di Matteo.
Non si è naturalmente raggiunta la certezza che le cose si siano davvero svolte come raccontato da Matteo, né si giungerà mai a questa sicurezza: è però certo che l’ipotesi che si tratti di un racconto simbolico deve fare i conti con una serie di scoperte effettuate nell’arco degli ultimi tre secoli.
Pare intanto provato ormai scientificamente che gli astrologi babilonesi (quasi certamente i magi di Matteo) attendevano la nascita del «dominatore del mondo» a partire dall’anno 7 a.C. Questa data, con l’anno 6 a.C., è tra quelle che gli studiosi danno come più sicure per la nascita di Gesù. Il monaco Dionigi il Piccolo*, infatti, calcolando nel 533 l’inizio della nuova era, si sbagliò e posticipò di circa 6 anni la data della Natività.
In questa luce, acquistano nuovo suono i due versetti del secondo capitolo di Matteo: «Nato Gesù in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco dei magi arrivare dall’oriente a Gerusalemme, dicendo: « Dov’è nato il re dei Giudei? Abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti ad adorarlo »».
Ecco le tappe che avrebbero portato a chiarire il perché dell’arrivo e della domanda dei magi. Una vicenda che ha quasi il sapore di un «giallo».
Nel dicembre del 1603 il celebre Keplero, uno dei padri dell’astronomia moderna, osserva da Praga la luminosissima congiunzione (l’avvicinamento, cioè) di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci. Keplero, con certi suoi calcoli, stabilisce che lo stesso fenomeno (che provoca una luce intensa e vistosa nel cielo stellato) deve essersi verificato anche nel 7 a.C. Lo stesso astronomo scopre poi un antico commentario alla Scrittura del rabbino Abarbanel che ricorda come, secondo una credenza degli ebrei, il Messia sarebbe apparso proprio quando, nella costellazione dei Pesci, Giove e Saturno avessero unito la loro luce.
Pochi diedero qualche peso a queste scoperte di Keplero: prima di tutto perché la critica non aveva ancora stabilito con certezza che Gesù era nato prima della data tradizionale. Quel 7 a.C., dunque, non «impressionava». E poi anche perché l’astronomo univa troppo volentieri ai risultati scientifici le divagazioni mistiche.
Oltre due secoli dopo, lo studioso danese Münter scopre e decifra un commentario ebraico medievale al libro di Daniele, proprio quello delle «settanta settimane». Münter prova con quell’antico testo che ancora nel Medio Evo per alcuni dotti giudei la congiunzione Giove-Saturno nella costellazione dei Pesci era uno dei «segni» che dovevano accompagnare la nascita del Messia. Si ha così una riprova della credenza giudaica segnalata da Keplero che, con le «date» di Giacobbe e di Daniele, può avere alimentato l’attesa ebraica del primo secolo.
Nel 1902 è pubblicata la cosiddetta Tavola planetaria, conservata ora a Berlino: è un papiro egiziano che riporta con esattezza i moti dei pianeti dal 17 a.C. al 10 d.C. I calcoli di Keplero (già confermati del resto dagli astronomi moderni) trovano una conferma ulteriore, basata addirittura sull’osservazione diretta degli studiosi egiziani che avevano compilato la «tavola». Nel 7 a.C. si era appunto verificata la congiunzione Giove-Saturno ed era stata visibilissima e luminosissima su tutto il Mediterraneo.
Infine, nel 1925 è pubblicato il Calendario stellare di Sippar. E’ una tavoletta in terracotta con scrittura cuneiforme proveniente appunto dall’antica città di Sippar, sull’Eufrate, sede di un’importante scuola di astrologia babilonese. Nel «calendario» sono riportati tutti i movimenti e le congiunzioni celesti proprio del 7 a.C. Perché quell’anno? Perché, secondo gli astronomi babilonesi, nel 7 a.C. la congiunzione di Giove con Saturno nel segno dei Pesci doveva verificarsi per ben tre volte: il 29 maggio, il 1° ottobre e il 5 dicembre. Da notare che quella congiunzione si verifica soltanto ogni 794 anni e per una volta sola: nel 7 a.C., invece, si ebbe per tre volte. Anche questo calcolo degli antichissimi esperti di Sippar fu trovato esatto dagli astronomi contemporanei.
Gli archeologi hanno infine decifrato la simbologia degli astrologi babilonesi. Ecco i loro risultati: Giove, per quegli antichi indovini, era il pianeta dei dominatori del mondo. Saturno il pianeta protettore d’Israele. La costellazione dei Pesci era considerata il segno della «Fine dei Tempi», dell’inizio cioè dell’era messianica.
Dunque, potrebbe essere qualcosa di più di un mito il racconto di Matteo dell’arrivo dall’Oriente a Gerusalemme di sapienti, di magi, che chiedono «Dov’è nato il re dei giudei?».
E’ ormai certo, infatti, che tra il Tigri e l’Eufrate non solo si aspettava (come in tutto l’Oriente) un Messia che doveva giungere da Israele. Ma che si era pure stabilito con stupefacente sicurezza che doveva nascere in un tempo determinato.
Quel tempo in cui, per i cristiani, il « dominatore del mondo » è veramente apparso.

Tratto da: Vittorio Mssori - Ipotesi su Gesù. SEI Edizioni

*A causa dell’errore di calcolo del monaco Dionigi il Piccolo, si dice che Gesù sia nato nell’arco di tempo che va dal 6 al 4 a.C.

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Semplicemente Gesù

Posté par atempodiblog le 17 novembre 2011

Semplicemente Gesù dans Citazioni, frasi e pensieri sanjosemaraescrivdebala

“Mi ha fatto sorridere sentirla parlare del conto che le chiederà nostro Signore. No, per loro non sarà Giudice, nel senso severo della parola, ma semplicemente Gesù”. Questa frase, scritta da un Vescovo santo, che ha consolato più di un cuore afflitto, ben può consolare il tuo.

San Josemaría Escrivá de Balaguer

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La caducità di tutte le cose

Posté par atempodiblog le 16 novembre 2011

La caducità di tutte le cose dans Citazioni, frasi e pensieri Blessed-Moscati

«Bellezza, ogni incanto della vita passa! Resta solo eterno l’amore che sopravvive a noi, che è speranza e religione, perché l’amore è Dio. Grandiosa morte che non è fine, ma è principio del sublime e del divino, al cui cospetto questi fiori e la bellezza sono nulla. [...] Da fanciullo, guardando dal terrazzo l’ospedale, mi prendeva un salutare smarrimento, e cominciavo a pensare alla caducità di tutte le cose, e le illusioni passavano, come cadevano i fiori dagli aranceti che mi circondavano…».

San Giuseppe Moscati

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« Come fai a non fidarti di una faccia così? »

Posté par atempodiblog le 16 novembre 2011



[...] E Maria, come non ricordarsi di Maria, di lei che con la sua semplicità mi disse: « Guardalo bene, come fai a non fidarti di una faccia così? ». Nella sua stanza disadorna in una baracca col tetto in lamiera, Maria guarda dolcemente la sua icona di Cristo. Non è un prezioso dipinto in cornice d’argento. È un ritaglio di giornale vecchio di vent’anni, appeso al muro sopra il letto. Poco lontano, un orsacchiotto di peluche. Con Gesù Maria parla continuamente; ha più di ottant’anni – è nata non sa nemmeno lei quando – capelli nerissimi e una serenità contagiosa.

S’è fatta battezzare da vecchia da padre Domenico e quel Cristo bizantino è il suo unico amico. Qualcuno, passando davanti alla sua casa di convertita, sputa per terra per disprezzo. Ma Maria non ha paura di nulla. Mi saluta sull’uscio, mi regala un mazzetto di fiori viola e biscotti fatti da lei, perché « in viaggio bisogna mangiare ». È povera in canna, ma mi mette in mano anche un sacchetto di caffè. « In Siria – spiega – non ne hanno di buono ». Il suo sorriso è la mia ultima immagine della Turchia.

di Paolo Rumiz – La Repubblica
Fonte: messaggerocappuccino.com

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Essere protagonisti è dire « sì » al Mistero

Posté par atempodiblog le 14 novembre 2011

La malattia e la solitudine l’avevano portata alla disperazione. Poi sono arrivati Rose e i volontari del Meeting Point. E, con loro, «l’incontro che ha fatto risorgere la mia vita. Perché se lei può guardarmi così, come sarà mai il volto di Dio?»

Vicky Aryenyo
Meeting CL – Le testimonianze
Fonte: Tracce.it

Essere protagonisti è dire
Vicky Aryenyo, Don Carron Julián e Rose Busingye

Sono felice di essere qui. Vi porto l’amore dell’Uganda, della mia famiglia e di tutta la famiglia del Meeting Point International. Voglio condividere con voi il viaggio della mia vita.
Sono cresciuta in un villaggio nell’Uganda orientale, dove vivevo con mia madre da sola. A un certo punto si è ammalata di tumore; essendo l’unica fonte di reddito che avessimo, ho dovuto smettere di andare a scuola per aiutarla a sopravvivere. A Kampala ho trovato lavoro come contabile dell’ospedale, dove sono stata dieci anni; quindi mi sono sposata e ho avuto due bambini. Nel 1992, durante la terza gravidanza, sono cominciati i problemi con mio marito: voleva che abortissi, diceva che se mi fossi rifiutata il nostro matrimonio sarebbe finito. Non riuscivo a capire, così ho scelto di partorire comunque. Devo dire che mio marito aveva detto il vero, perché mi ha lasciato. Nel 1996 il mio piccolo ha manifestato i sintomi della tubercolosi; i medici mi hanno spiegato che si sviluppa solo quando il sistema immunitario non è più in grado di rispondere. Secondo loro, appena mio figlio avesse ripreso a mangiare, il sistema immunitario si sarebbe ripreso. La vita è continuata. Se non che, pochi mesi dopo ho avuto un herpes, sintomo di un’altra malattia; all’epoca, però, nessuno è stato in grado di dirmi la verità.

Perché io?
Nel 1997 mi sono sentita malissimo e ho dovuto smettere di lavorare. Così ho perso il lavoro e la vita si è fatta più difficile. La malattia continuava a progredire, finché un giorno sono caduta a terra e mi sono risvegliata in ospedale. Là mi hanno chiesto se ero disposta a fare un test sull’HIV (naturalmente ho accettato, che altro potevo fare?), cui sono risultata positiva. È stato un periodo molto difficile, mi chiedevo: «Perché io?». Ero sposata regolarmente e sono sempre stata fedele a mio marito. Lì ho capito perché lui non volesse quella gravidanza: probabilmente sapeva che mi sarei ammalata o avrei dato la vita ad un bambino malato. Quando due settimane dopo sono stata dimessa era già un miracolo, perché attorno a me vedevo molti morire. Non sapevo però che sarebbe stato l’inizio di un altro viaggio. Arrivata a casa, ho scoperto che mio figlio era gravemente ammalato.
Ho chiesto che potesse fare il test HIV ed effettivamente è risultato positivo. È stato lì che ho sofferto di più, mi chiedevo: «Perché lui?». Era condannato a morire fin dall’utero per la posizione di suo padre, ma io l’avevo tutelato fino alla nascita; eppure, quel destino continuava a seguirlo. Se si fosse ammalato mio marito, forse mi sarei rallegrata perché era lui la causa di tutto; invece era in ottima salute, si era risposato e non si preoccupava più di noi.
Non riuscivo a capire Dio: se fossi stata malata solo io l’avrei potuto sopportare, ma non mio figlio. E mi sembrava che Dio rimanesse in silenzio. Fino al 2001 ho vissuto come su un altro pianeta, nessuno dei miei amici veniva più a trovarci. Che torto avevo fatto loro? Non avevamo denaro, nessuno ci sorrideva, tutti ci odiavano come se ci fossimo procurati da soli la malattia.
Un giorno qualcuno è entrato nella mia casa. Erano volontari del Meeting Point International, che probabilmente avevano saputo che nel villaggio qualcuno stava morendo. Sono venuti e mi hanno raccontato cosa facevano, incoraggiandomi a unirmi a loro. Per me erano balle! Non li avevo mai incontrati prima… Era impossibile che volessero davvero aiutarmi, stavano fingendo. Sono venuti più volte; io semplicemente mi rifiutavo di ascoltarli, chiusa in un bozzolo. Intanto i miei figli più grandi non andavano più a scuola; anche il terzo l’aveva abbandonata, perché il maestro lo chiamava “scheletro” e tutta la scuola lo derideva. Non avevo nessuno con cui condividere questo dolore e quando ho chiesto di parlare con quest’insegnante, mi hanno impedito di vederlo.
I volontari hanno parlato a Rose della mia situazione e un giorno l’hanno portata a casa mia. Rose è venuta a sedersi di fianco a me. Io mi scostavo, perché non emanavo certo un buon odore; inoltre dal naso e dalla bocca usciva il pus. Ero viva, ma il mio corpo sembrava sul punto di putrefarsi. Continuavo a scostarmi ma Rose continuava ad avvicinarsi, fino a quando non sapevo più dove mettermi. Rose mi parlava, ma anche quella volta ho chiuso il cuore. Una cosa era sicura: non mi aspettavo alcun aiuto da lei. Dopo che se ne sono andati, però, mi sono ricordata di una frase di Rose che aveva toccato la mia vita: «Se non vuoi venire al Meeting Point dammi comunque tuo figlio, perché può vivere». Queste parole continuavano a risuonarmi nelle orecchie, così un giorno ho deciso di andare al Meeting Point.

«Tu hai un valore»
Quando sono arrivata c’era della musica: stavano ballando! Non riuscivo a capire come dei malati potessero ballare ed essere felici. Mi sono detta: «Non è possibile!» e sono tornata a casa. I volontari continuavano a seguire mio figlio e alla fine sono riusciti a “catturarmi” tramite lui: quando hanno cominciato a prepararlo per la terapia, ho capito che forse potevo fidarmi e ho cominciato a frequentarli.
Un giorno, Rose mi ha invitata in ufficio. Mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: «Vicky! Tu hai un valore e questo valore è più grande della malattia! Ce la puoi fare, hai solo bisogno di ritrovare la speranza». Sono rimasta in silenzio mentre lei continuava a guardarmi. Ha pronunciato solo queste parole, ma i suoi occhi parlavano molto più della bocca e mi invitavano a crederle, come se mi dicesse: «C’è qualcosa sopra di te in cui devi riporre la tua speranza». Mi guardava con occhi di amore, che per me erano come un raggio di speranza. Intanto, con le labbra ripeteva solo queste parole: «Vedrai che la terapia consentirà a tuo figlio di sopravvivere. Devi ritrovare la speranza, devi vivere per vedere i tuoi figli crescere». Pensavo però: «Anche se mio figlio si salva, dove troverò i soldi per il cibo? Come posso sopravvivere, che miracolo deve mai accadere?». Una volta a casa, qualcosa continuava a muoversi nei miei occhi, come un film. Dall’inizio della malattia mi ero chiusa in me stessa, rifiutata da tutti. Da allora quelle erano le prime parole che qualcuno mi rivolgeva. Sentivo dentro di me qualcosa che non posso esprimere. Così ho cominciato a guardare quegli occhi, che mi parlavano. In quel giorno ho incontrato Rose. L’avevo incontrata già tante volte, ma non avevo mai fatto un incontro con lei. Anche adesso che ve lo racconto, lo rivedo come in un filmato.

Sulla spalla di Cristo
Ho cominciato così a riacquistare la speranza e a frequentare il Meeting Point. Rose non mi ha più ripetuto quelle parole, ma i suoi occhi mi parlavano ogni volta che mi guardava. Quando ho visto che con la terapia la vita ritornava in mio figlio, è stato l’inizio della gioia nella mia vita e ho cominciato a capire che anch’io potevo vivere. Non importa in quali condizioni. Ogni volta che avevo davanti l’immagine del volto di Rose, pensavo: se lei può guardarmi così, come sarà mai il volto di Dio? Dio in qualche modo mi guarda anche attraverso il volto di Rose. Lei mi ha offerto la sua spalla: è Cristo che mi ha dato quella spalla perché potessi appoggiarmi quando nessun altro era lì per me, Cristo è venuto da me e mi ha dato la speranza (quella vera!). Tutto è cominciato con un incontro, che ha fatto risorgere la mia vita. Quando le mie speranze sono risorte, anche il mio corpo ha cominciato a risorgere: oggi io sono prova di questa realtà. Non posso spiegare come sia successo tutto ciò, ma ho un compagno, un Amico. Rose è sempre stata lì per me e mi ha fatto capire che Cristo è sempre di fianco a me, in questo processo di sofferenza che non posso descrivere in altro modo.
Un anno dopo anch’io ho cominciato la terapia, che continuo da allora insieme a mio figlio. Abbiamo fatto un incontro sul quale ci appoggiamo anche oggi, che ci ha ridato dignità. Tutto è iniziato con Rose, che ha risposto “sì” a una chiamata. Come con l’episodio dei dieci lebbrosi: Rose ha aiutato tanti, io sono uno di quei dieci che è tornato da lei (ma dove sono gli altri nove?).
Un miracolo? Eccolo: sono io
Non riuscivo a capire perché Rose si comportasse così. È solo per questo che sono tornata. Ho visto che il movimento è vivo, che non è una semplice associazione ma una persona; il movimento ha una vita e genera la vita. Possiamo anche dimenticarci di Lazzaro, che in fondo è risuscitato tanti anni fa… Se non avete mai visto un miracolo, eccolo: sono io! Perché ero morta e ho riacquistato la vita. Ecco perché adesso sono “schiava” di questo movimento, che mi ha aiutato a capire quale fosse il mio destino e a riconquistare la speranza, accompagnandomi lungo la strada. Soprattutto adesso so di avere una famiglia, la famiglia del movimento. Non ho madre, non ho padre, non ho marito, ma ho una spalla sulla quale appoggiarmi. Sono “schiava” del movimento per l’umiltà che vi ho ritrovato. Ho visitato la mostra “Libertà va cercando, ch’è sì cara. Vigilando redimere”; quando ho saputo che c’erano alcuni carcerati, ho detto: «Anch’io sono prigioniera, anch’io ho subito una condanna (il virus uccide), ma ho la mia libertà». Tutti possono essere liberi, c’è solo una cosa da fare: bisogna dire “sì” quando arriva la chiamata. Rifiutarsi di dire “sì” alla chiamata significa rimanere prigionieri.
Quando ho ricevuto i risultati del test ho fatto un voto: non avrei mai fatto a nessuno la cosa terribile  che mio marito mi aveva fatto; ho mantenuto questo voto fino a oggi e non mancherò mai di rispettarlo; ho imparato che Dio è mio marito e padre dei miei figli. L’ho visto tramite Rose, tramite don Carrón, nel movimento: ho visto Dio operare nella mia casa. Qualcuno potrebbe chiedermi che ne è stato di mio marito: io non sono il Giudice, l’ho perdonato. Da quel momento la mia libertà è stata totale. Abbiamo imparato a dire “sì” alla chiamata, al calice amaro che ci tocca bere. Abbiamo imparato a dire “sì” alla croce che dobbiamo portare e Rose ha accettato di aiutarci a portarla. Il movimento è con noi e non verremo meno a questo compito. Grazie.

divisore dans Stile di vita

Don Carrón,
che gioia averti conosciuto! Ciò che ha cambiato la mia vita sono stati gli occhi di Rose, pieni d’amore e di speranza, così carichi di attrattiva. Ma poi arriva un momento, un altro occhio, un sguardo di vita e resurrezione. Non riesco a spiegare i sentimenti che ho provato non appena ti ho visto, ho sentito il potere della resurrezione colpirmi improvvisamente e per questo sono scoppiata a piangere. È stato così improvviso e così forte che anche le mie ginocchia sono diventate deboli e non sono riuscita a controllare le mie lacrime anche se [eravamo] in pubblico. Il tuo sguardo farà crescere molte persone che Dio sempre condurrà a te. Io sono semplicemente una tra i tanti. Questo mi ha dato un vivo e rinnovato impegno verso il movimento. Questa realtà è così vivida che io ne sono diventata schiava, è diventata l’inizio del cammino al mio destino. Accetta il mio amore.
Tua figlia Vicky
(da una lettera scritta da Vicky dopo il Meeting)

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Il paradosso dell’Incarnazione

Posté par atempodiblog le 11 novembre 2011

Il paradosso dell'Incarnazione dans Commenti al Vangelo Annunciazione

[...] Come ha detto J. Guitton, se il Figlio li Dio si è incarnato «in un solo tempo, in un solo punto, Cristo ha dato a quel tempo, a quel luogo, a quel punto, un valore infinito» (L’absurde et le mystère, p. 43). Se l’incarnazione è la ierofania suprema, la vita di Gesù non è più appena un evento storico particolare, transitorio; acquista invece un significato universale e permanente per tutti gli uomini di tutti i tempi.
Così viene superata l’obiezione razionalistica di Lessing, al tempo dell’Illuminismo, e che alcuni ancor oggi condividono; Lessing diceva: «Delle verità storiche, a carattere contingente, non potranno mai diventare le prove di verità razionali, a carattere necessario». Non potranno mai, diceva Lessing.
Questo non è più vero, giacché in un momento della storia, nella vita contingente di Gesù si è manifestato l’Assoluto, la trascendenza di Dio.
E’ falsa dunque anche un’altra affermazione di Lessing secondo cui tra il momento storico di Gesù e noi, il tempo e lo spazio hanno spalancato un abisso invalicabile: non è così, perché il Gesù reale non è solo quello del passato, l’uomo di Nazareth; per comprendere il vero Gesù quello dei Vangeli, dobbiamo, come diceva san Gregorio Magno, «alzarci dalla storia al mistero» (In Ezech. 1,6-3), perché la sacra scrittura, «quando racconta una storia, manifesta un mistero» (Mor., XX,1,1); dobbiamo quindi alzarci dalla storia di Gesù al mistero di Cristo: egli sovrasta il tempo e lo spazio; il Gesù della storia, certo, è lontano da noi; non così il Cristo, nella pienezza del suo mistero: egli è al di sopra dei limiti della storia; egli è vicino a noi, rimane presente a ciascuno di noi; con Soren Kierkegaard il filosofo dell’esistenzialismo, possiamo e dobbiamo dire che noi, cristiani, siamo veramente contemporanei di Cristo; lo scriveva [...] anche Mons. Giussani: «Che Cristo sia veramente presente nella nostra esistenza, questo è proprio la sostanza, il contenuto impressionante, l’eccezionalità del Cristianesimo».
E perciò ci rivolgeva l’invito a fare «l’esperienza del Mistero presente. Mistero, cioè il cuore ultimo delle cose; Presente, diventato Uomo» [...].

di Padre Ignace  de la Potterie
Tratto da: Tracce

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Vangeli: al centro la storia

Posté par atempodiblog le 9 novembre 2011

I Vangeli sono testimonianze fondate storicamente. Luca si rifà apertamente alla storiografia scientifica greca. Ma tutto il Nuovo Testamento ha valenza storica. Lo prova l’utilizzo che fa del concetto di martirio.
di Marta Sordi

Vangeli: al centro la storia dans Articoli di Giornali e News Marta-Sordi

La storia deriva, come concetto e come metodo, dall’esperienza e dalla civiltà dei Greci: historia significa, in greco, l’indagine tesa all’accertamento del fatto e la storia è, per i Greci, storia di fatti (tà pragmata).
Erodoto distingue le notizie che conosce per esperienza diretta (autopsia) da quelle che conosce per il racconto di testimoni o per sentito dire; Tucidide va oltre ed insiste sulla critica (akribeia) a cui ogni testimonianza va sottoposta, perché « gli stessi fatti sono narrati in modo diverso da testimoni diversi » e lo storico deve prendere coscienza della deformazione che avviene per « eunoia » o per « mneme », per la tendenziosità del testimone o per la sua memoria.
Già la terminologia usata dai Greci rivela lo stretto collegamento che la ricerca storica ha con l’indagine processuale: « histor » è in Omero l’arbitro scelto fra due contendenti per ascoltare e valutare le versioni dell’uno e dell’altro e per accertare il fatto; « martys », « martyrion », « martyria » e i verbi corrispondenti indicano il testimone, la prova, la testimonianza e sono largamente usati dagli oratori attici e dagli storici: perché la storia è una narrazione fondata su testimonianze e prove, una narrazione che deve dare ragione di ciò che narra, a differenza della favola, dell’epica, del romanzo, che come la storia narrano, ma ciò che non è mai avvenuto o che può avvenire, non ciò che è avvenuto: la storia narra il probabile, ciò di cui si possono fornire le prove, e che può essere anche inverosimile, non il possibile o il verosimile.
Questa distinzione era già chiara ad Aristotele e a Polibio e spiega il ricorso frequente negli storici (da Erodoto a Tucidide, a Senofonte, a Polibio, a Diodoro, a Dione Cassio), al concetto di « martyrion » come prova: in II, 22, 2 Erodoto dichiara incredibile che il Nilo nasca dallo scioglimento delle nevi e ritiene « proton kai meghiston martyrion », prova fondamentale della sua affermazione, i venti caldi che soffiano dalle zone da cui il Nilo deriva; Tucidide (I, 8,1) afferma che la prova (« martyrion ») che gli isolani dell’Egeo erano pirati Cari e Fenici è fornita dalle armi trovate nelle sepolture di Delo al tempo della purificazione dell’isola; Senofonte (Hell. I, 7, 4) ricorda che Teramene, durante il processo delle Arginuse, citò una lettera degli strateghi a conferma (« martyrion ») della sua versione dei fatti. Caratteristiche sono le forme polibiane (« martyrion… pisteos charin » II, 38, 11; « martyrion pros pistin » XXI, 11, 4; « martyrion pros aletheian » I, 20, 1 3), in cui dall’accertamento di un fatto si passa alla credibilità (« pistis » in greco indica fede) di chi afferma e di ciò che è stato affermato e all’idea di verità (« aletheia »). Il significato fondamentale di testimone, testimonianza, prova di fatti storicamente accertati e della verità dei termini « martys, martyria, martyrion » e dei verbi corrispondenti, si ritrova nel largo uso che il Nuovo Testamento fa di essi e nella traduzione che la vulgata ne dà in latino: « testis, testimonium, testificor ».
Se in Luca (24, 28) e negli Atti degli Apostoli (5, 32) « martys » è usato chiaramente per ribadire i fondamenti storici del messaggio evangelico, nell’Apocalisse giovannea (1, 5 e 3, 14) Cristo stesso è detto « testimone fedele » (« ho martys ho pistos ») e viene confermato il significato del verbo « martyreo » in Giovanni (18, 27) in cui Gesù afferma davanti a Pilato di essere venuto « ut testimonium perhibeam veritati » (« hina martyreso te aletheia »), per rendere testimonianza alla verità. In ambedue i passi « martys » e « martyreo » hanno il significato noto nel greco classico, ma si fa strada l’idea di una testimonianza data anche con l’offerta della vita. E questo il significato che il termine « martys » ha nell’Apocalisse (2, 13), in cui Antipa, ucciso per la fede a Pergamo, è detto « ho martys mou pistos », il mio testimone fedele: qui il testimone, che paga la sua testimonianza con l’offerta della vita, non è più testimone soltanto dei fatti e della verità, ma di una Persona, Cristo.
L’evoluzione definitiva del concetto, per cui « martys » assume il significato ecclesiale di Martire, « martyr » in latino (con un prestito dal greco), avverrà più tardi, dopo la metà del II secolo, quando la Chiesa sarà costretta a chiarire, contro le deviazioni dell’eresia montanista, il concetto di « martire secondo il vangelo »: qui vale però la pena di riprendere il passo già citato di Luca 24, 48, in cui Gesù stesso, al momento di lasciare gli Apostoli dopo la resurrezione, li esorta ad essere testimoni di ciò che hanno visto: « hymeis martyres touton ». Nei passi corrispondenti, gli altri sinottici, Marco (16, 15) dice « annunciate il vangelo » (« keryxate tò euanghelion ») e Matteo (28,19) « insegnate a tutti i popoli » (« matheteusate panta tà ethne »): è evidente che non c’è nessun contrasto fra il kerygma e la testimonianza della storia e che il greco Luca ha tradotto spontaneamente e naturalmente l’impegno dell’annuncio con l’impegno alla testimonianza dei fatti storicamente accertati. Si capisce così il prologo del suo Vangelo, che comincia con una dichiarazione metodologica che, nelle parole e nei concetti, si rifà apertamente alla storiografia scientifica greca, di cui Tucidide era stato maestro: « Poiché molti hanno preso l’iniziativa di raccontare gli avvenimenti (« pragmata »), che si sono compiuti fra noi, come li hanno tramandati coloro che sono stati fin dall’inizio testimoni oculari (« hoi ap’arches autoptai ») e servi della Parola, ho deciso anch’io, egregio Teofilo, dopo aver vagliato tutto fin dall’inizio con senso critico (« akribes ») di scriverteli ordinatamente, affinché tu conosca la sicurezza (« asphaleia ») di ciò che ti è stato insegnato a viva voce ».
C’è la raccolta delle testimonianze di chi ebbe esperienza diretta dei fatti, il richiamo all’ « autopsia », caro agli storici greci; c’è l’analisi critica di questi racconti (l’ « akribeia » fondamentale per Tucidide); c’è la certezza, la sicurezza, che nasce dalla narrazione di ciò di cui si sono date le prove.
Il « kerygma », l’annuncio, diventa così una narrazione storica, che si rivolge alla razionalità degli ascoltatori, dando ragione di ciò che narra.

Fonte: Il Timone
Tratto da: Storia Libera

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L’Anticristo secondo Benson

Posté par atempodiblog le 9 novembre 2011

Nel visionario romanzo del 1907 « Padrone del mondo », il Male si cela dietro l’ideologia pacifista e progressista
All’inizio del Novecento Robert Benson, nel suo romanzo Il padrone del mondo, aveva previsto il venir meno della fede cristiana non a causa di una cruenta persecuzione ma attraverso una crisi interna della Chiesa segnata dall’Umanitarismo. Secondo questa nuova ideologia la carità sarebbe stata sostituita dalla filantropia e la fede sarebbe stata spodestata dalla cultura.

L'Anticristo secondo Benson dans Anticristo monsroberthughbenson
Robert Hugh Benson, con Il padrone del mondo, ci porta in una realtà nella quale l’uomo ha raggiunto gli estremi confini del progresso materiale e intellettuale, dove tutto è meccanizzato e programmato per un unico grande progetto: il trionfo dell’Umanitarismo

Cosa poteva pensare uno scrittore cattolico inglese, all’alba del XX secolo, del futuro che sarebbe toccato alla Chiesa di Roma? Il nuovo secolo era iniziato come il vecchio era finito. L’Europa rimaneva il centro del mondo e specchiava la propria supremazia nel progresso, nelle arti, nel divertimento, nel primato economico. La modernità, inarrestabile, garantiva lussi, ricchezze, viaggi, scoperte, e una pace duratura. Per rintracciare l’ultima vera guerra sul suolo europeo bisognava tornare indietro al 1870. Altri scontri non se ne vedevano all’orizzonte. La Belle Epoque, insomma, poteva prosperare tranquilla. In questo clima quanti rischi poteva correre la Chiesa?
Eppure non tutti i cattolici erano sereni. Robert Hugh Benson, figlio dell’arcivescovo di Canterbury, convertitosi al cattolicesimo, pubblicò nel 1907 un romanzo di fantascienza destinato ad avere grandissimo successo; Lord of the World (Il padrone del mondo, edito in Italia per la prima volta nel 1921, è stato ripubblicato da Jaca Book nel 1987, oggi alla sedicesima ristampa).

LA DECADENZA DELL’OCCIDENTE
Benson vedeva serie minacce addensarsi sul futuro della Chiesa. Nel suo romanzo così descrive il XX secolo. Il Partito del Lavoro, salito al potere nel 1927, aveva dato inizio ad un regime comunista, predicando un materialismo e un socialismo spinti alle estreme conseguenze. Fine ultimo della nuova ideologia era la felicità data dalla soddisfazione dei sensi. Per la Chiesa questo clima aveva schiuso una nuova stagione di persecuzioni. Indebolito al suo interno dalla diffusione del modernismo, il cattolicesimo vedeva diminuire paurosamente la sua influenza. E la psicologia aveva contribuito non poco nella lotta al cristianesimo. L’esoterismo camminava alacremente e favoriva la diffusione di un nuovo culto: l’umanitarismo. Cadute chiese e cattedrali si era imposta la religione del cuore. Non era più Dio il centro di riferimento dell’esistenza, ma l’umanità.
Benson struttura il suo romanzo in tre blocchi. Il primo gli serve per descrivere la decadenza del cristianesimo, relegato ormai ai margini e agonizzante. Nel secondo blocco prende forma l’accentuarsi dello scontro tra cristianesimo e modernità, Benson si serve di alcuni personaggi per sviluppare l’intreccio narrativo. L’influente deputato inglese Oliviero Brand, e sua moglie Mabel. I due, una mite coppia colta e tranquilla, avevano contratto matrimonio a scadenza. Oliviero vede nel cristianesimo una religione barbara e sciocca, pur se era stata la religione della vecchia madre (alla quale in fin di vita viene somministrata, come da regola, l’eutanasia). Oliviero è impegnato in primissimo piano, come politico, a fronteggiare il pericolo distruttivo che incombe su tutta l’umanità: lo scontro dell’Occidente con l’Oriente. A questo punto entra in scena un personaggio affascinante, misterioso e onnipotente: Giuliano Felsemburgh, 33 anni, capelli bianchi. Abilissimo nell’arte della diplomazia, Felsemburgh salva l’umanità, scivolata nel baratro della guerra iniminente. Non ci saranno più lotte, violenze. Non scorrerà più sangue. Felsenburg, per acclamazione, viene eletto Presidente d’Europa. È il nuovo messia, agli occhi del mondo, come lo era stato venti secolo prirna Gesù di Nazareth. Il Salvatore del mondo parla di una «grande fratellanza universale» che necessita dell’istituzione di un nuovo culto: Io «spirito del mondo». Per il futuro non ci sarà più bisogno di rivolgersi a un Dio che resta nascosto, ma all’uomo, poiché egli ha finalmente appreso la propria divinità. Il soprannaturale è dunque morto, ammesso che sia mai esistito. Anche in politica la distinzione tra destra sinistra e centro non ha più senso. L’umanità deve soltanto affidarsi al suo profeta.

LA BATTAGLIA E LA CADUTA FINALE
Benson, nel terzo e conclusivo blocco, contrappone a Giuliano Felsemburgh un acuto sacerdote, Percy Franklin, anche egli di 33 anni e bianco di capelli. Padre Franklin diffida dell’uomo in grado di parlare perfettamente quindici lingue. Ai suoi occhi è il chiaro segno del Maligno, e capisce che il suo avvento segnerà per la Chiesa ulteriori lutti, ostruzioni e il rischio della caduta finale.
La vecchia fede cattolica chiedeva di abbracciare il dolore; la nuova, imposta per legge da Felsemburgh, chiede invece di allontanarlo, di eliminarlo. Ma è una illusione. La pace universale garantita e il dolore espunto non sono per i cattolici. Contro di loro cominciano persecuzioni terribili, sino alla distruzione della città di Roma, rasa al suolo da un bombardamento. Franklin, di un cattolicesimo stremato, diverrà pastore. E da papa dovrà scontrarsi con l’antipapa. È l’Armaghedòn. Le legioni di quanto rimasto della Chiesa contro quelle del diavolo. Nella battagìia finale.

LO SCONTRO CON I TOTALITARISMI
Il vento del pericolo modernista d’inizio Novecento soffia sulle pagine di Benson. Egli lancia all’albeggiare del suo secolo uno sguardo profetico. Per la fede cattolica e per l’umanità. Cristo è in procinto di essere cacciato dall’Europa; in sua sostituzione sono già pronti molti falsi profeti. La nuova religione della modernità è la religione del benessere. Un anestetico capace di rassicurare e non di guarire. Dio ormai è ridotto ad un contenuto della coscienza umana.
Vede molto lontano Benson. Mette a fuoco, uno dopo l’altro, tutti i tasselli delle fasi della secolarizzazione. Prima politica; poi, esaurito lo scontro con il totalitarismo come ideologia dei male, individualista, con l’affermazione del Dio-uomo e con la dolce rivoluzione di consumismo e relativismo. Benson in Il padrone del mondo costruisce un’anti-utopia cattolica di grande efficacia narrativa, ricorrendo all’impianto apocalittico. Ma la sua non è da intendersi come una visione pessimistico-apocalittica. In realtà L’Apocalisse di Giovanni è un libro affascinante, la cui interpretazione da secoli è questione controversa. Non vi viene annunciata, come molti erroneamente ritengono, la fine del mondo. Bensì viene tratteggiato un affresco teologico teso ad indicare il fine della storia (non la fine della storia), cioè il senso trascendente della vicenda umana. Benson intendeva parlare agli uomini del suo tempo, e metterli in guardia da un pericolo grave: l’imposizione di una cultura anti-cristiana. Lo scrittore cattolico ha una lucidissima intuizione nel denunciare come l’Occidente, nel corso del Novecento, farà registrare una profonda trasformazione culturale, tese a rimpiazzare l’antropologia e la cosmologia cristiana con l’umanitarismo. Un pericolo per nulla svanito. Anzi, oggi più forte che mai.

di Claudio Siniscalchi – Libero
Tratto da: Holy Queen
Per approfondire: Il dominatore del mondo

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Il Bambino di Praga

Posté par atempodiblog le 8 novembre 2011

Il Bambino di Praga dans Articoli di Giornali e News bambinodipraga

Nel settembre 2009 il Papa ha visitato la Repubblica Ceca, che il comunismo ha lasciato come uno dei Paesi più atei al mondo, dal momento che appena un quarto della sua popolazione si dichiara credente. Nella capitale, Praga, si venera il famoso Bambino, la cui statua miracolosa è da sempre affidata ai carmelitani. Si trova nella chiesa di Santa Maria della Vittoria (eretta dopo la vittoria dei cattolici sui protestanti nella battaglia della Montagna Bianca) nel quartiere praghese di Malá Strana dal 1628. I carmelitani hanno diffuso la devozione al Bambino di Praga in tutto il mondo (specialmente in India vi sono diversi santuari) e ogni anno quasi un milione di pellegrini si recano a venerarlo a Praga.

La statua arrivò in Boemia come dono di nozze per la figlia di una nobildonna spagnola. A quest’ultima era stata regalata da s. Teresa d’Avila in persona. Nel corso della Guerra dei Trent’Anni i protestanti le mozzarono le mani. Fu restaurata dal carmelitano lussemburghese Cirillo della Madre di Dio, al quale il Bambino era apparso in visione promettendo: «Quanto più mi onorerete, tanto più vi benedirò». La devozione al Santo Bambino è sempre stata di casa tra i carmelitani: devotissimi erano s. Teresina di Lisieux (il cui nome religioso era Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo) e s. Edith Stein. Il celebre convertito Paul Claudel gli dedicò un intero poema.

Il priore del Carmelo di Praga, p. Petr Sleich, in occasione della visita del papa rilasciò alcune dichiarazioni all’associazione internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre, riportate da Zenit il 15 settembre 2009. Tra le altre cose, rivelò: «Quello che pochi sanno è che Antoine de Saint-Exupéry aveva una grande familiarità con la venerazione del Bambin Gesù di Praga». Secondo il priore, il famosissimo libro Il piccolo principe fu ispirato proprio dal Bambino. E, stando a un sacerdote che era presente, anche Antonio Gramsci volle venerare il Bambino: in fin di vita in un ospedale romano, vide che le suore giravano nelle corsie portando ai malati la statuetta e chiese che la portassero anche a lui. Le suore, sapendo chi era, avevano saltato il suo letto ma lui le fece chiamare.

di Rino Cammilleri – La Bussola Quotidiana

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La Madonna è sempre Vergine: ha concepito e generato verginalmente

Posté par atempodiblog le 8 novembre 2011

La verginità di Maria: un teologumeno?
Padre Ignace de la Potterie – 30 Giorni (tratto dal n. 09 – 2009)

01
L’Annunciazione, Beato Angelico, Museo del Prado, Madrid (sulla sinistra è rappresentata la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre)

Nel 392 a Capua si tenne un Concilio a cui assistette anche sant’Ambrogio. Era stato indetto per condannare solennemente un vescovo che negava la perpetua verginità di Maria. Oggi, milleseicento anni dopo, lo stesso dubbio si insinua subdolamente all’interno del corpo ecclesiastico. Senza che il popolo cattolico, e spesso nemmeno le sue guide teologiche, si rendano conto di quanto accade.

In realtà questa concezione eretica ha ripreso fiato già centocinquant’anni fa, come conseguenza della celebre contrapposizione tra il Gesù storico e il Cristo della fede. Ma finora era rimasta circoscritta agli ambienti protestanti. Protestanti erano infatti i teologi della famosa Scuola di Tubinga, che per primi la formularono. E nell’archivio di Tubinga esiste un documento che mostra quale fosse il loro obiettivo, del resto più volte dichiarato nei lavori ufficiali: se si riesce a stroncare ogni legame tra quanto hanno vissuto i primi discepoli di Gesù e il racconto posteriore che ne è giunto fino a noi – vi si legge – la strada è libera per ridurre il Vangelo a un “mitologumeno”.
Questa concezione del Vangelo come mito è stata ripresa in questo secolo, sempre in ambiente protestante, dalla scuola detta della Formgeschichte, i cui due fondatori sono Rudolf Bultmann e Martin Dibelius. Ed è stato proprio Dibelius che, in un testo del 1932, ha usato per la prima volta il termine “teologumeno”. Si trattava di un articolo sul concepimento verginale di Maria, nel quale Dibelius spiegava che “teologumeno” è una teoria teologica che non ha nulla a che fare con gli avvenimenti storici. I Vangeli, secondo la Formgeschichte non sono libri storici, ma raccontano avvenimenti che, sotto l’influsso della storia delle religioni, sono stati mitizzati.
Questa tesi, purtroppo, è ancora straordinariamente attuale. Solo una cosa è cambiata dai tempi della Scuola di Tubinga e della Formgeschichte: sorprendentemente, quelli che oggi parlano del concepimento verginale di Maria e della risurrezione come “teologumeno” sono spesso autori cattolici!
Il fenomeno è iniziato subito dopo la fine del Concilio Vaticano II col celebre Catechismo olandese del 1966. Lì non si usa, è vero, la parola “teologumeno”, però vi si legge che il racconto dei Vangeli sul concepimento verginale significa soltanto che Cristo è il dono di Dio all’umanità: egli è «interamente “concepito dallo Spirito Santo”». Ma allora, non è più “nato da Maria Vergine”? Questa tesi venne poi ripresa da Edward Schillebeeckx, da Raymond Brown e da molti altri autori fino a oggi. Parecchi sostengono che la nascita di Gesù, avvenuta all’interno di un matrimonio normale, è poi stata mitizzata. Gesù è teologicamente Figlio di Dio, ma fisicamente è figlio di Giuseppe. In casa cattolica non è solo il teologo alla moda Eugen Drewermann a sostenere che i racconti di Luca e Matteo sul concepimento di Maria risalgono a miti orientali, in particolare egiziani. Il teologo spagnolo Xabier Pikaza dice: «Il “teologumeno” è un dato primordiale esclusivamente teologico. Le leggi naturali seguirono il loro corso, Giuseppe mantenne relazioni maritali con Maria, ma attraverso questo contatto interumano [!] si attualizzava la mano potente di Dio in modo tale che l’apparizione del bimbo fu in fondo l’attuazione definitiva dello spirito divino, la genesi primordiale del figlio di Dio». Cosa significa un linguaggio così equivoco?
Molti teologi cattolici sono d’accordo con Drewermann e Pikaza. Non vogliono accettare la storicità del racconto dei Vangeli. Eppure nessuno di loro ha poi la reale capacità di spingere fino in fondo la riflessione critica, chiedendosi da dove provenga questo “mito” e cosa possa essere stato storicamente questo “teologumeno”. Perché val la pena notare che non c’è assolutamente nessun esempio tra i miti pagani di una donna che concepisca verginalmente. E come mai una povera ragazza ebrea, in un matrimonio normale, avrebbe potuto avere la pretesa, lei sola in tutta la storia dell’umanità, di aver concepito il Figlio di Dio? Questo può avere senso solo se era un evento reale.

02
La natività, Beato Angelico, Museo di San Marco, Firenze

Oggi, però, a cadere sotto la scure dei teologi che vogliono ridurre il Vangelo a “teologumeno” non c’è solo il concepimento verginale di Maria. Anche la risurrezione corporale di Gesù viene ridotta a un semplice mito. E forse non è un caso che vengano messi in discussione proprio l’inizio e la fine della vita di Cristo, cioè i due poli su cui si posa l’incarnazione. Si tratta di dogmi fondamentali della Chiesa cattolica, ma questi esegeti moderni non vogliono tener conto della Tradizione. Fanno una rottura netta, decisa, tra la storia e la fede. E quali sono le conseguenze? Le spiega il teologo tedesco Karl Hermann Schelkle: «Se la teologia cattolica dovesse interpretare il concepimento verginale come un “teologumeno”, dovremmo cambiare molte cose nella Chiesa. Si dovrebbe riformulare il tema dell’inerranza della Bibbia, dell’infallibilità della Chiesa, si dovrebbe cambiare la coscienza dei fedeli e la stessa dottrina mariologica»
1.
Si può dare solo un giudizio negativo a questa teoria del “teologumeno”. Ma certamente è innegabile che gli evangelisti stessi credevano che il concepimento verginale fosse un fatto storico (cfr. Lc 3, 23). E sarebbero rimasti sconvolti a vedere i tentativi che oggi fanno alcuni teologi “cattolici” di naturalizzare l’incarnazione.

1
K. H. Schelkle, Theologie des Neuen Testaments
, II, Patmos Verlag, Düsseldorf 1973, p. 182.

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